L’ultimo Zanzotto, presentazione a Milano

Giovedì 4 novembre 2021 alle 21.00 alla Casa della Cultura di Milano, Presentazione del libro LE ESTREME TRACCE DEL SUBLIME, L’ultimo Zanzotto a cura di Alberto Russo Previtali (Mimesis, 2021).

Intervengono:

Lorenzo Cardilli, Politecnico di Milano
Giuliana Nuvoli, Università degli Studi di Milano
Marco Pelliccioli, Casa della Poesia
Alberto Russo Previtali, Università di Chambéry

L’incontro si svolge in presenza e in diretta streaming

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Associazione Casa della Cultura
Via Borgogna 3
20122 Milano

“Zanzotto. Il canto nella terra”

Andrea Zanzotto

Nel 2021 ricorre il centenario della nascita di Andrea Zanzotto, unanimemente considerato uno dei grandi maestri della poesia italiana del secondo Novecento.

Uno dei più attivi critici e studiosi della sua generazione, Andrea Cortellessa, sintetizza in questo volume i termini della sua già lunga fedeltà al poeta. La critica ha per lo più indagato, sinora, il tessuto linguistico e stilistico di quello che è stato definito «il Signore dei Significanti», facendo così perdere di vista che si tratta anche di una poesia densissima di ‘significati’, personali e collettivi, di traumatica urgenza, sebbene psichicamente schermati e ‘cancellati’ (come i temi dell’ambiente e del paesaggio, nella loro stratificazione storico-culturale).

La monografia di Cortellessa risponde all’esigenza di una lettura che si rivolga anche a un pubblico più vasto di quello specialistico, come quello degli studenti universitari.

Pubblichiamo il primo testo integrale di Andrea Cortellessa da “Zanzotto, Il canto nella terra” (Editori Laterza, 2021).

L’oltranza (Possibili prefazi)

di Andrea Cortellessa

Nulla vi è di più umano che oltrepassare ciò che è
Bloch

  1. Versato nel Duemila

Negli interventi e nelle conversazioni dei suoi ultimi anni Zanzotto ricordava spesso, con un sorriso, una poesia breve di Montale (nel cui «stile tardo», nell’estrema diversità delle rispettive pronunce, si riconosceva abbastanza)[1]: sono i versi che concludono il Diario del ’71 (e che, c’è da scommettere, ripetevano una battuta frequente nelle conversazioni con Eusebio):

 

La mia valedizione su voi scenda

Chiliasti, amici! Amo la terra, amo

 

Chi me l’ha data

 

Chi se la riprende.[2]

 

Senz’altro lo incuriosivano quei due lessemi rari, quasi misterici, che occhieggiano nella dizione en pantoufles del maestro, nei suoi Versi casalinghi insomma (come battezzerà i propri, Zanzotto, nell’ultima raccolta Conglomerati ➣ 288). Se valedizione ricalco un termine raro anche in inglese, che in quella lingua vale «saluto estremo» (c’è una poesia celebre, con la quale John Donne s’accomiata dalla moglie, che s’intitola appunto A Valediction; Giovanni Giudici semplificava in «Addio»[3], ma di sicuro Montale lo prende da lì), quella dei chiliasti è una setta religiosa davvero esistita, fondata a fine Ottocento da un certo Charles Taze Russel, che predicava il prossimo avvento sulla Terra del Regno Millenario di Cristo (dal greco khìlioi, «mille», prendeva il nome la setta). Colui che per antonomasia «rimane a terra» quasi in extremis ribadiva il proprio appartenere solo a questa terra, appunto, senza tentazioni millenaristiche: proprio lui che, nella poesia ‘alta’ della sua prima vita, Bufera e altro, tante memorabili immagini apocalittiche aveva sciorinato[4]. Con ogni probabilità memore del whimper, anziché del bang, col quale un suo maestro aveva profetizzato che il mondo si sarebbe spento[5], a questa sua polemica Montale dedica non pochi episodi della sua (troppo) generosa vena tarda. Se «Il tempo non conclude / perché non è neppure incominciato», come aveva scritto in Satura contro Teilhard de Chardin[6], non si dà Apocalisse – che almeno avrebbe il pregio di portare con sé la Rivelazione – bensì Apocatastasi, una fine che non smette mai di finire: «l’escatologia […] è un fatto di tutti i giorni. / Si tratta delle briciole che se ne vanno / senza essere sostituite»[7].

Zanzotto riprende questa posizione proprio quando nei suoi interventi ‘civili’ più pressante si fa l’allarme riguardo allo scempio ambientale; come un controveleno ironico, ma quanto mai amaro, ai toni apocalittici dei chiliasti del suo tempo – a partire da se stesso. Più in generale ironizza sulla sostanza propriamente apocalittica del millenarismo: cioè sulla Rivelazione che il futuro dovrebbe riservarci. In una conferenza del 1989 – annata abbastanza millenaristica, in effetti – sbotta a un certo punto: «Che cosa mai ci succederà, avvicinandoci al duemila? Precisamente niente! È un tempo del tutto convenzionale, il duemila»[8] (ma «convenzionale», nel suo idioletto, si connota d’un significato particolare ➣ 59).

Eppure, come nel caso di Montale, questa sua impazienza era rivolta anzitutto al se stesso d’antan. Intervistato qualche anno prima da Alberto Sinigaglia in un volume dal titolo Vent’anni al Duemila, ironizzava sull’«atmosfera chiliastica» di allora[9]:

 

Bisogna soffermarsi un po’ su questo numero: 2000. Io scrivevo quasi con tremore, già nel 1952-53 (ai tempi della mia opera Vocativo), «Ah, ripeto io, versato nel 2000». Mi sentivo come catapultato verso il 2000 o vicino a uno strapiombo chiamato 2000. Ora che il tempo, la scadenza è così vicina, mi sembra che tutto sommato non esista un gran baratro tra quegli anni ’50 e gli anni ’80, nonostante la quantità enorme di tensioni e di eventi che sono apparsi in questo trentennio, e così sono portato a pensare anche ai prossimi vent’anni come a tempi non dissimili dagli attuali, soprattutto per quanto riguarda l’andirivieni di certe dinamiche tipiche dei fantasmi della poesia.[10]

 

In realtà nelle pagine seguenti, non solo circa la poesia del Duemila o comunque degli anni a venire, Zanzotto si mostrava buon profeta; ma qui a interessarci è lo sguardo ‘retrotopico’, per dirla con Zygmunt Bauman[11], rivolto alle proprie passate profezie. Niente di più chiliastico dell’immagine di Vocativo ricordata con un sorriso da questo Zanzotto, cioè Fuisse: dove prende la parola da morto e sepolto, cioè letteralmente da sottoterra, «chiuso […] nel regno della rovere e del faggio» (M 188, P 154 ➣ 172-174). La prospettiva straniantemente ‘postuma’ (simile a quella della voce narrante di un film di quegli anni, Sunset Boulevard di Billy Wilder, 1950) ci proietta in una dimensione infinitamente passata (del verbo «essere», in latino, il titolo riprende appunto l’infinito passato), che trascende i tempi umani giungendo a rapportarsi con quelli geologici (come insisterà a dire nella citata intervista futurologica: «ci soffermiamo troppo poco sulla megastoria, ragioniamo per così dire tolemaicamente, in termini di microstoria antropocentrica»)[12]: in Fuisse «ogni smorto desìo della vita» si sedimenta negli «strati della terra», sprofonda in «abissi di carbone» e prefigura il momento in cui si «confonderà in marmo».

Ma è appunto la prefigurazione a colpire in questi versi, riletti a posteriori: il sognare una «futura età» di chi è «versato nel duemila». Il soggetto è versato anche perché si esprime in ‘versi’ – il componimento è stato finora letto soprattutto per il suo aspetto metaletterario, che anticipa il manierismo di IX Ecloghe e oltre – ma soprattutto per la sua postura: per il suo essere versato, o ‘gettato’, nella dispersione del tempo. Fuisse ‘traduce’ così, in termini paradossali, le ritornanti crisi depressive del suo autore (violenta, in specie, quella sofferta nel ’50 ➣ 86) alludendo più in generale a quella «gettatezza», la «deiezione» come «modo esistenziale dell’essere-nel-mondo», a suo tempo codificata dal fosco maestro di una generazione, il Martin Heidegger di Essere e tempo (ma di recente rilanciata dalla sua Lettera sull’«umanismo»)[13]: che al fondamentale convegno di San Pellegrino del ’54 l’esistenzialista Zanzotto aveva opposto agli ottimismi ai realismi alle magnifiche sorti e progressive degli engagés del suo tempo (➣ 87-88).

Nel primo testo di poetica che abbia conservato, e che a quegli anni risale, Situazione della letteratura (additando in Kafka il suo testimone più esemplare)[14], non a caso Zanzotto impiega metafore geologiche («oggi noi siamo sulla stessa ‘frana’ della generazione che ci precedette» e, con un pensiero all’amato Rimbaud, «la rugosa realtà preme d’intorno, e può imporre il silenzio massiccio, minerale della devastazione»: M 1088 e 1094)[15]: le stesse che splendono nel primo grande saggio da lui dedicato alla poesia altrui, quello su Montale del ’53, L’inno nel fango («la terminologia geologica s’impone come la più adatta per parlare dello spirito divenuto oggetto, dell’uomo fatto in definiva solo di terra»: SL I 16) che, come e più degli altri del suo autore, si deve leggere anzitutto come autoritratto in cifra[16] (➣ 42-48; sulla lignée ‘geologica’ della poesia europea, da lui ipostatizzata in Montale ➣ 214-215).

In Situazione della letteratura giunge a dire, Zanzotto, che l’unico «senso umano sufficiente a giustificare […] una ricerca letteraria» è «vicino al consummatum est» (M 1091): cioè appunto a una condizione trapassata, estinta come quella della voce sepolta di Fuisse. Proprio la condizione psicologica della «depressione» menziona Heidegger come esempio di «gettatezza», in cui «l’Esserci diviene cieco nei confronti di se stesso»[17] («pieghe tra pieghe della terra / cieca ad ogni tentazione d’alba») e tende «a imprigionarsi in se stesso»[18] («Chiuso io giaccio […] / Lontana ogni opera ogni umano / o sovrumano moto […]. / Nel silenzio ricado»; per l’imagery claustrofobo-claustrofila che ossessiona un po’ tutto il corpus ➣ 130-135, 210-211). E certo Zanzotto qui pensa anzitutto all’ambigua prospettiva dell’«Essere-per-la-morte»: «imminenza che incombe» in cui secondo Essere e tempo «si rivelano l’esistenza, l’effettività e la deiezione dell’Esserci»[19], ma che nella sua anticipazione-prefigurazione e nella sua «angoscia»[20] rappresenta altresì, per Heidegger, l’unica «possibilità dell’esistenza autentica»[21] e, addirittura, l’unica «libertà»[22].

Ma la pagina che segue (nella serie degli scritti di ‘poetica’ che nel «Meridiano» recano l’etichetta di «Prospezioni e consuntivi» ➣ 166-167), del 1959, date tali premesse reca un titolo sorprendente: Una poesia ostinata a sperare. È il primo di una lunga serie di gesti, che si riveleranno tipici di Zanzotto, per cui è al fondo del ‘negativo’ che si trovano i resti più coriacei di vitalità: il carburante col quale «muoversi in avanti, superare la durissima impasse attuale» (M 1097) e muovere «dalla poesia alfa […] alla poesia omega, ma sempre su una stessa linea di sviluppo e anche di reversibilità». Lì dov’è il pericolo omega si trova pure la salvezza alfa: così gli ha insegnato il più decisivo dei maestri (del quale fa infatti risuonare le parole), Hölderlin[23].

Alfa e Omega, del resto, se li porta nel nome: A e Z. E se tante sono le immagini di fine (e dopo la fine) che incontreremo nel corpus, almeno altrettante sono quelle che ci offre, Zanzotto, di momenti iniziali, esordiali, inaugurali[24]. In un intervento dell’82 (giocando a rovesciare una nota nozione freudiana)[25] definisce «piacere del principio» quel «piacere intrinseco alla vita nel suo autoporsi, che sta al di qua del principio del piacere» e che della poesia come deflagrante «donazione» è il primo dei moventi (Una poesia, una visione onirica?, M 1293 ➣ 21).

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Pasolini e Zanzotto, due grandi figure della letteratura del secondo Novecento

ANTEPRIMA EDITORIALE 

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.  

 

PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE

di Alberto Russo Previtali

 

«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.

Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:

Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.

[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]

 

Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:

La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6]. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire

Alberto Russo Previtali, foto di proprietà dell’autore

di Jean Nimis

Dopo Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Franco Cesati, 2018), Alberto Russo Previtali propone un secondo saggio monografico sull’opera del poeta di Pieve di Soligo. L’autore ha inoltre dedicato ben nove articoli all’opera del poeta scomparso nel 2011, prova della sua esperienza riguardo a un’opera poetica reputata difficile e però essenziale per l’arco di tempo che va dalla seconda metà del Novecento al primo decennio del Ventunesimo secolo. Infatti, Andrea Zanzotto è stato un poeta tra i più significativi di questo periodo, certamente per la sua ricerca formale molto originale, ma soprattutto per la messa in rilievo dell’esperienza di un soggetto lirico inserito nella realtà contemporanea e intento ad esperimentare un principio di consistenza del linguaggio.

Alberto Russo Previtali parte dall’osservazione secondo la quale vari elementi del discorso fenomenologico lacaniano sono presenti nei testi in prosa e in poesia di Andrea Zanzotto. Era un elemento che Michel David aveva enunciato nel suo saggio del 1966[1] e che Stefano Agosti aveva ripreso nelle prefazioni ai volumi delle opere pubblicate da Mondadori fin dal 1973. Ed è questa configurazione che Russo Previtali mette in rilievo con precisione già nel suo prologo, dove si parte dal fatto che il linguaggio, considerato da Zanzotto in quanto dimensione “totale” (p. 10), non poteva che rendere conto di un distacco per così dire “fatale” tra significato e significante. Tale distacco appare già nel titolo del saggio, con la sbarra che separa i cognomi del poeta italiano e dello psicanalista francese. Russo Previtali insiste su “un punto teorico inaggirabile”: se Lacan rappresenta per il poeta trevisano “il nome del tentativo più coerente e organico di un’alleanza teorico-pratica tra linguistica e psicoanalisi”, non si tratta di ridurre sul piano interpretativo questa poesia al suo rapporto con la teoria dello psicanalista francese, bensì di riconoscere che è “una sua componente prospettica fondamentale, imprescindibile” (p. 10). Andrea Zanzotto, che leggeva il francese e che ha frequentato in modo regolare i testi di Lacan, aveva visto nel discorso teorico dello psicoanalista una potenzialità conoscitiva atta a permettergli di intavolare un approccio – poetico – del proprio rapporto soggetto-mondo.

Occorre certo avere una piccola idea del percorso poetico di Zanzotto (sin dagli esordi, o almeno a partire da Dietro il paesaggio del 1951, fino a Conglomerati del 2009 e passando da La Beltà del 1968), ed è anche necessario avere abbastanza chiari alcuni dei concetti di Jacques Lacan per seguire l’analisi di Russo Previtali. Tuttavia, l’autore riesce a palesare in modo accessibile, citazioni all’appoggio, le modalità con cui i concetti in area psicanalitica si fanno presenti nell’operato poetico, lungo tutta la produzione di Andrea Zanzotto, sia nelle poesie che nelle prose (saggi e narrazioni).

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«L’ho letto su un foglio di un giornale. Scusatemi tutti.»

Mario Benedetti, poeta italiano foto di proprietà dell’autore

Giornale di un infante saggio (e insolente)

di Alessandro Anil

 

Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.

Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».

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Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere

Alberto Bertoni su Mario Benedetti

Un ricordo di poesia

di Alberto Bertoni

 

Al di là dei ricordi personali, non molti ma qualitativamente molto alti, di Mario Benedetti conservo un ricordo di poesia al quale sono affezionato in modo particolare. Era forse il 2007 e mi ero assunto da poco l’incarico di curare da solo il “Meridiano” dei romanzi più belli di Alberto Bevilacqua. Passavo dai corridoi dell’open space letterario alla Mondadori di Segrate, quando un amico “che poteva” mi passò quasi sottobanco la stampata del libro inedito di Benedetti che sarebbe uscito di lì a non molti mesi nello “Specchio”, chiedendomi un parere da esprimere nel giro di pochi giorni: un parere per nulla vincolante, il libro sarebbe stato comunque pubblicato a prescindere dal mio giudizio, ma solo un’impressione competente. Ovviamente accettai, poiché Umana gloria, pubblicato nella stessa sede tre anni prima, mi aveva colpito per una compattezza ottenuta tutta a posteriori, cioè riassemblando in mirabile unità i diversi “materiali per una voce” che Benedetti aveva scandito nella temporalità lunga di una storia compositiva cominciata fin dagli anni Ottanta, com’era appropriato e quasi naturale per i nati come lui e come anche me nel 1955.

Io dunque attribuivo a Umana gloria una valenza duplice: quella di condensare lo sviluppo tardonovecentesco del mio asse poetico prediletto, la strada maestra che – con ripetute vedute sull’abisso – congiunge Montale e Sereni, Giudici e Zanzotto; e l’altra che imbocca decisamente – nella sua varietà ricombinata in officina – una via diversa, quella del nuovo secolo/millennio che cominciava prima di tutto a rifiutarsi di risolvere e di chiudere “poeticamente” in unità prosodica, sintattica, tematica le antitesi, le antifrasi, le contraddizioni che sono intrinseche a quel Reale non mimetico ma insieme gnoseologico e metodologico che è il Reale dell’epoca nostra. Non è difficile accertare che le peculiari di queste contrapposizioni per così dire ontologiche sono, nel caso della poesia di Mario (che sull’espressione poetica di questo Reale di secondo grado ha buttato tutte le sue fiches di autore dotatissimo), sono dialetto/non dialetto, Friuli/non Friuli, correlazione oggettiva/sua risoluta negazione, autobiografia/suo capovolgimento oggettuale-impersonale, narrazione/trasalimento lirico, nitore fotografico/dimensione onirica, “una volta”/adesso, lucidità impietosa/fragilità, sguardo crudele/”stupore bambino”, sublime alto/sublime basso, variazioni sulla dialettica di endecasillabo e settenario/intercalare di un verso lungo esametrico o whitmaniano, paesaggio naturale/paesaggio figurativo, culturale, mentale… Continua a leggere

Non sprecare il tuo amore

Adrienne Rich

For the dead

I dreamed I called you on the telephone
to say: Be kinder to yourself
but you were sick and would not answer

The waste of my love goes on this way
trying to save you from yourself

I have always wondered about the left-over
energy, the way water goes rushing down a hill
long after the rains have stopped

or the fire you want to go to bed from
but cannot leave, burning-down but not burnt-down
the red coals more extreme, more curious
in their flashing and dying
than you wish they were
sitting long after midnight

Per i morti

Ho sognato di chiamarti al telefono
per dirti: Sii più dolce con te stesso
ma eri malato, non mi hai risposto

Lo spreco del mio amore va per la sua strada
cercando di salvarti da te stesso

Ho sempre pensato ai residui
di energia, a come l’acqua scorra giù da un colle
dopo l’arrestarsi delle piogge

o del fuoco da cui vorresti prendere commiato,
vorresti andare a letto
eppure non puoi lasciarlo,
è sempre lì, pronto a spegnersi ma non si spegne mai
i carboni sempre più vividi, sempre più strani
prima sfolgorano poi s’acquetano
più di quanto tu voglia restare
seduto lì a mezzanotte inoltrata.

Traduzione di Giovanni Ibello Continua a leggere

Franco Buffoni, una poesia da “La linea del cielo”

Franco Buffoni

Erano bianche rosse allineate
Le macchinette nel cortile,
Ci giocavo d’estate all’ombra
Col pensiero, le spostavo di nascosto
Ogni giorno anche in vetrina.
Finalmente a Natale ne ebbi sei
Tre rosse tre bianche tutte in fila
Da spostare a mia voglia
Sul balcone, ma le dimenticai
Abbastanza presto, e l’anno dopo
Le regalai a un bambino vero.
Ora qui sopra Linate nel sole
In fase di attesa di atterraggio
Mi sembra di toccarle e di giocarci
Bianche e rosse tra i tetti
Piatti e pochi platani
Due pini, una vetrina dall’alto
Terzo giro e subito riprende quota
Le regalo anche queste
Sono grande non gioco.
Da: La linea del cielo, (Garzanti, 2018) Continua a leggere

Alberto Pellegatta, “Ipotesi di felicità”

Lo Specchio Mondadori, storica collana di poesia italiana che ha pubblicato in presa diretta autori come Montale, Ungaretti, Sereni, Fortini e Zanzotto, rinnovata graficamente e ora a cura di Maurizio Cucchi, pubblica il poeta under 40 Alberto Pellegatta.

Nota di Maurizio Cucchi

La concretezza di una visione disincantata viene espressa nell’eleganza raffinata di una scrittura insieme sciolta, comunicativa, vivace e capace di passare dal verso alla materica densità di brevi componimenti in prosa. Notevole è poi il senso esplicito per l’insieme architettonico del libro, concepito come vero e proprio organismo, in linea con i maggiori esiti della poesia contemporanea. Continua a leggere

Anteprima Editoriale, Lo Specchio – I poeti del nostro tempo

IL RESTYLING giugno 2017

Il rilancio editoriale dello “Specchio” segna il ritorno della collana alla sua vocazione originaria. Lo dichiara il testo programmatico con cui si aprono i nuovi volumi:

Negli anni 40, sullaletta de Lo Specchio, lEditore scriveva: «Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi».

A settantacinque anni dallesordio della più prestigiosa collana italiana dedicata alla poesia – che, a partire da Cardarelli, tra i tanti ha ospitato Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, Sereni, Zanzotto, Raboni, Giudici, Porta, Gatto –, lEditore riprende e conferma la sua originaria vocazione.

In questo nuovo formato, Lo Specchioaffiancherà alla poesia più recente le voci già celebri in Italia e nel mondo e chiederà ai poeti italiani di offrire al nostro pubblico la poesia universale, ravvivando quella consuetudine che in anni lontani ci ha regalato traduzioni memorabili. Infine, con le antologie, Lo Specchiotornerà a fare il punto sul percorso creativo ed estetico delle nuove voci che mirabilmente stanno continuando «la gloriosa tradizione italiana».

Il rilancio intende richiamare le caratteristiche di varietà ed eclettismo che hanno contraddistinto “Lo Specchio” nel corso della sua ricca e gloriosa storia.

A partire dal 2017 saranno pubblicati sei titoli all’anno, suddivisi secondo alcuni grandi filoni che verranno costantemente alimentati:

  • novità di poeti italiani
  • novità di poeti internazionali
  • raccolte o antologie per fare il punto sul percorso dei principali poeti del nostro panorama
  • rivisitazioni di grande voci della poesia classica e novecentesca per il tramite di poeti contemporanei.

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Umberto Piersanti

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Umberto Piersanti (Credits / Dino Ignani)

di Sauro Damiani

UMBERTO PIERSANTI, Nel folto dei sentieri, Milano, Marcos y Marcos, 2015

Rose e marmellata. (“dopo la marmellata con il burro/al grande parco scendi/sopra i muri,/tra i meli e le rose/passi e respiri”, p.30). Rose; e anemoni, e colchici, e papaveri, e giacinti, e primule, e, prima di tutto, favagelli. Come nell’intera storia poetica di Piersanti, anche in questo ultimo libro sfavillano i fiori, nominati con la precisione di uno sguardo individuante e amoroso, che ne fa sprigionare la loro luce assoluta. “Luminoso” è uno degli aggettivi più frequenti e significativi del libro, spesso in coppia con altri che ne esaltano la forza evocativa, come in “chiaro e luminoso”, “ridente e luminoso”. Un “luminoso” di una tonalità inconfondibile, tutta piersantiana, che spicca nel panorama di una poesia, non solo italiana, che, al contrario, predilige le tonalità scure. Ma un fiore (o un’ora, o un evento) è luminoso solo in quanto è “assoluto”, cioè, nel senso etimologico del termine, “sciolto”, separato dal tempo “baro”; un fiore (o un’ora, o un evento) “remoto”, anche qui nel senso di rimosso dall’oggi e collocato in un orizzonte mitico, nell’eden “fragile/ e assoluto”, sempre perduto (“l’eden che ci è concesso/è sempre perso”; 209): come tutta quella nata dopo e dal romanticismo, anche la poesia del nostro è percorsa da un’insanabile scissione metafisica. Solo che Piersanti non rinuncia a dispiegare e nominare l’incontenibile efflorescenza della natura (la natura naturans), di cui egli si sente carnalmente partecipe e di cui è commosso testimone e interprete. Nel “tempo della povertà”, egli non è povero. Continua a leggere

“Nuovi argomenti” su Amelia Rosselli

foto di DINO IGNANI

Lunedì dalle ore 17:00 alla  Casa delle Letterature di Roma (Piazza dell’Orologio, 3) presentazione dell’ultimo numero di “Nuovi Argomenti” su Amelia Rosselli con Dacia Maraini, Biancamaria Frabotta, Roberto Deidier e Maria Borio. Continua a leggere

Giorgio Orelli, “Tutte le poesie”

orelli

Giorgio Orelli, “Tutte le poesie” , Oscar Mondadori, Milano, Mondadori, 2015

A cura di Pietro De Marchi
Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo
Bibliografia di Pietro Montorfani Continua a leggere

Lorenzo Calogero & John Taylor

Lorenzo-Calogero3Anticipazione editoriale

Le Edizioni Chelsea di New York (http://www.chelseaeditionsbooks.org/) pubblicheranno nei prossimi giorni, la prima traduzione inglese – con testo italiano a fronte – delle poesie del poeta italiano Lorenzo Calogero, nella traduzione di John Taylor.

Il titolo del libro An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, raccoglie una vasta produzione poetica di Lorenzo Calogero.
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Un poeta legge un poeta

pasolini.pgCari amici di Poesia,

Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento.

Il video deve avere questa struttura

1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia;
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere

Un poeta legge un poeta

cesare-paveseCari amici di Poesia,

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Un poeta legge un poeta

caproniCari amici di Poesia,

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Un poeta legge un poeta

SERENI-FOTOCari amici di Poesia,
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Un poeta legge un poeta

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Cari amici di Poesia,
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Un poeta legge un poeta

rosselli1Cari amici di Poesia,
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Un poeta legge un poeta

 
zanzotto1Cari amici di Poesia,
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"Nuova corrente", poesia italiana in Europa


cover_interlinea
Visti da fuori. La poesia italiana oggi in Europa
Nuova corrente n. 153, a cura di Damiano Sinfonico e Stefano Verdino, Interlinea 2014 (euro 25)

Nelle pagine della rivista “Nuova corrente” il lettore si confronta con punto di vista sulla poesia che è originale e intrigante: quello della partita di import-export, per rispondere a una domanda che è ancora aperta: qual è l’immagine che ha la poesia contemporanea italiana all’estero, fuori dei suoi confini culturali e linguistici?
È un argomento interessante quanto inesplorato, soprattutto in un quadro comparativo, che “Nuova corrente” affronta presentando per campionatura una serie di prospettive dalle principali altre aree culturali e linguistiche occidentali: francese, inglese, spagnola, portoghese, tedesca. Nell’insieme di questa foto di gruppo si possono istituire affinità e differenze nei vari tragitti, che qui vengono esperiti da italianisti d’Oltralpe, principalmente non italiani, che operano da anni a Parigi, a Madrid, a Lisbona, a Berlino, in Inghilterra.
PREMESSA DI STEFANO VERDINO
Per nuova corrente fare periodicamente il punto sulla poesia contemporanea italiana è una costante. Per lo meno trentennale: dai fascicoli sulla poesia del 1982 che accanto a saggi critici proponevano un’antologia di giovani poeti (si trattava di Nanni Cagnone, Cesare Greppi, Milo De Angelis, Cesare Viviani, allora trentenni e quarantenni già editi e degli inediti Marco Ercolani e Giuseppe Marcenaro), “scremati”, così per dire, dalla consueta folla di voci e regesti in campo.
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Massimiliano Mandorlo, "Luce evento"

Cover Luce evento[1]Nota di Massimiliano Mandorlo
“Credo che la poesia, come ho avuto modo di imparare da alcuni grandi maestri come Ungaretti, Luzi, o un poeta così ‘terrestre’ e ‘metafisico’ come Zanzotto, sia “un’ondata che ti scavalca” (cito Zanzotto da una mia intervista poi pubblicata su “Clandestino”). Al di fuori di ogni possibile discorso intellettualistico o teoria sulla poesia, credo che la poesia risieda in questa sproporzione cantata attraverso la lingua, in un’epica del quotidiano e una capacità di ‘visione’ che possa corrispondere ad una piena intelligenza della realtà (intus-legere). Sono attratto da quei poeti in cui questa sfida diventa tensione anche a livello linguistico, e la parola si fa crocevia per questo ‘appassionato inseguimento del Reale’, come afferma Milosz in La testimonianza della poesia. Tra i nomi che ho incontrato su questa strada, citerei Dante, Michelangelo, Rimbaud, Ungaretti, Luzi, Caproni, Zanzotto, il polacco Herbert e, per quanto riguarda la poesia contemporanea, Rondoni, De Angelis, Lauretano, Benedetti, e l’esperienza straordinaria di un poeta come Franco Loi.” Continua a leggere

Pier Mario Vello, "Migranti"

 
migranti_velloAppuntamento 

Il 31 marzo 2014 alle 18 Milano, alla Casa del Manzoni (Via Gerolamo Morone 1), presentazione del libro di poesie di Pier Mario Vello, Migranti. Poesie
Introduce e coordina Antonio Riccardi
Intervengono con l’Autore
Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Clelia Martignoni
Ingresso libero – seguirà rinfresco

Dall’introduzione di Maurizio Cucchi

Vello realizza una sorta di originale tensione epica, in cui un elemento epocale come quello trattato, enunciato dal titolo, vive in una aperta coralità e in una realtà geografica praticamente senza confini. Il suo procedere è fatto di versi densissimi, ognuno dei quali sembra una sorta di fitto conglomerato (per citare una parola cara a un grande come Andrea Zanzotto), una concrezione di elementi vari, nobili e bassi, antichi o appartenenti al moderno, il tutto nelle volute di un tono sostenuto eppure sempre credibile, plausibile. Continua a leggere

A “Notti d’autore” Giulio Ferroni

E’ Giulio Ferroni, il protagonista di “Notti d’autore” il programma di Luigia Sorrentino in onda il 20 giugno 2013, alle 0.30, nella notte tra mercoledì e giovedì su Rai Radio 1. Nato a Roma nel 1943, ha studiato all’Università di Roma, laureandosi in Lettere con Walter Binni (uno dei maggiori studiosi di Giacomo Leopardi) con una tesi su Annìbal Caro, famoso traduttore, drammaturgo e poeta del Cinquecento. Ha rivolto subito i suoi studi verso il teatro e la cultura del Rinascimento (con particolare attenzione ai modelli antropologici), verso il teatro del Settecento, verso la teoria della letteratura, verso la produzione letteraria contemporanea. E’ uno dei critici più autorevoli: sulle pagine di “Repubblica” nel 2006 ha dato vita a una delle polemiche più accese che le cronache letterarie ricordino con uno degli scrittori più venduti in Italia e all’estero: Alessandro Baricco.
Giulio Ferroni, critico militante, che interpreta con rigore, obiettività, ragionevolezza, ma anche con passione la letteratura del proprio tempo, partecipando attivamente con giudizi a caldo su opere scritte da nuovi autori, con saggi, articoli in riviste e giornali, e partecipando attivamente alla vita artistica e letteraria del proprio paese.

L’AUDIO DELL’INTERVISTA A GIULIO FERRONI di Luigia Sorrentino

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I poeti leggono i poeti, “Come musica la poesia”

Appuntamento

Dal 23 aprile al 20 maggio il Teatro Argentina di Roma apre le sue porte alla grande poesia del Novecento, raccontata attraverso cinque incontri che compongono la rassegna COME MUSICA, LA POESIA, un progetto a cura di Franco Marcoaldi, che rinnova la tradizione e l’impegno del Teatro di Roma di far incontrare poesia e teatro, due mondi in dialogo profondo tra di loro. Un itinerario poetico lungo un mese per rintracciare sul palcoscenico i volti e le voci, e riscoprire le personalita’, che hanno attraversato la stagione poetica del secolo scorso, da Attilio Bertolucci a Sandro Penna, da Giorgio Caproni a Elsa Morante, ed ancora tanti altri come Zanzotto, Montale, Saba, Ungaretti, Eliot, Szymborska, Pasolini, Pound, Bishop, Walcott.

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Per Roberto Roversi

La verità della poesia
di Carlo Bordini

Dopo la scomparsa di Zanzotto e di Pagliarani è morto il 14 di questo mese, nella sua Bologna, a 89 anni, quello che può essere considerato l’ultimo dei grandi poeti italiani del secolo trascorso: Roberto Roversi. Personalità combattiva e insieme appartata, e quanto mai generosa, partigiano in Piemonte, autore di alcune delle più belle canzoni di Lucio Dalla, legatissimo alla sua idea di indipendenza (fondò la sua Libreria Palmaverde, cenacolo, tra l’altro, di giovani poeti), ha seguito un percorso poetico di altissimo valore e può essere considerato uno dei grandi poeti della nostra epoca. Fu protagonista negli anni ’50 della rivista Officina, con Pasolini Fortini e Leonetti (per conoscere questa esperienza è opportuno leggere il bel libro di Gian Carlo Ferretti sull’argomento) e pubblicò nel 1965 con Einaudi il libro di versi Dopo Campoformio. Continua a leggere

Andrea Zanzotto, “Eterna riabilitazione da un trauma…”

“Le mie poesie nascono ancora sia dal paesaggio devastato sia dai pensieri sconquassati e incerti delle spinte alla poesia, che ho paragonato per la loro intensità a questi fiumi”. (Andrea Zanzotto)

Come muta la poesia quando il poeta invecchia? E come muta il mondo intorno a lui? Sono alcune delle domande che il poeta si pone, insieme ad altri temi a lui cari: il cambiamento del clima, la distruzione del paesaggio, il vissuto della poesia, la fragilità del corpo…

Conversazione con Andrea Zanzotto di Laura Barile e Ginevra Bompiani (agosto e novembre 2006) con tre poesie inedite. Continua a leggere

“Levania”, Napoli ha una nuova rivista letteraria

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

E’ uscito il numero zero della rivista di poesia semestrale LEVANIA (Edizioni La città del sole, 2012, euro 12,00). L’editoriale, di Eugenio Lucrezi, direttore editoriale della rivista, dice molto, e vi invito a leggerlo. E’ importante che nasca una rivista di poesia a Napoli, vent’anni dopo ‘Altri termini’. Nelle foto sotto le quattro tavole di Giuseppe Antonello Leone pensate e pubblicate proprio per il numero zero di LEVANIA. Eugenio Lucrezi nel suo editoriale spiega che LEVANIA  è il nome dato alla rivista in omaggio a Sergio Solmi, che così intitolò, negli anni Cinquanta, un’esile raccolta ispirata a un librino del Seicento, il Somnium, seu Opus de astronomia lunari, opera oscuramente utopica di Johannes Kepler. Continua a leggere

In memoria di te, Margherita Guidacci

In memoria di te,
Margherita Guidacci (e Luigi Baldacci)
a cura di Luigia Sorrentino

Essere là, più avanti
di Luigi Baldacci

A pensarci bene, al di là dei modi espressivi, è la deflagrazione dei contenuti che ci colpisce, cosa di cui la Guidacci (nella foto di Dino Ignani) ha avuto coscienza chiarissima, come risulta dalle pagine di Ragion Poetica che furono da lei affidate all’antologia della poesia italiana contemporanea che Spagnoletti pubblicò nel 1959. Sono pagine che si aprono con un intensissimo ricordo: un’intermittenza, un’epifania, una sensazione subliminare. La bambina sta accanto alla nonna e a un tratto avverte che lei e la nonna sono lo stesso fluire di uno stesso nulla che va verso l’acqua dell’identità ( quest’idea dell’acqua la raggiungiamo noi oggi pensando al fiume che si apre in mezzo alla strada). Ma poi seguono altre informazioni, anche più interessanti: quella, per esempio, inerente  “l’amore di chiarezza” che fu quasi uno scandalo nella Firenze ermetica degli anni Quaranta ma non per polemica: anzi c’era nella giovane allieva di di De Robertis una gran voglia di assimilare quei modi, solo che il risultato era tutt’altro. Continua a leggere

‘InVerse’, Italian Poet in translation

Mercoledì 13 giugno alle ore 20:00, la JOHN CABOT UNIVERSITY dà il via alla Settima edizione di ‘InVerse’, Italian Poet in translation.

L’evento si terrà mercoledì 13 giugno, alle ore 20.00, presso il ‘Marc and Peggy Spiegel Student Center’, Lungotevere Sanzio 12, si svolge nell’ambito dei festeggiamenti per il 40^ anniversario della nascita della John Cabot University.

Saranno presenti tra gli altri,  Maria Teresa Carbone e Tommaso Ottonieri che presenteranno l’antologia ‘Inverse 2012′.

L’antologia di quest’anno pubblica anche due poesie di Andrea Zanzotto: ‘Amori Impossibili’ e ‘Dirti natura’ per la prima volta tradotti in inglese.

Durante la serata, sarà proiettato il video ‘Traces’ di Leonardo Gervasi, con la colonna sonora di Massimo Falascone, produzione Sottovuoto-Milano. Continua a leggere

A Massenzio i poeti sotto la pioggia & video

La seconda serata del Festival Internazionale di Massenzio è stata dedicata a dieci poeti contemporanei che ieri, 22 maggio 2012, nella cornice della Basilica hanno letto i loro versi e quelli di altri poeti del Novecento. Tra loro un ospite speciale, Robert Hass, poeta molto popolare negli Stati Uniti. Le cattive condizioni metereologiche hanno però costretto gli organizzatori a ridurre l’esibizione degli artisti.


Il video-servizio di Luigia Sorrentino
Montaggio di Massimiliano Fontana

Serata ridotta ieri a Massenzio. I poeti hanno portato con loro, la precarietà dell’esistere. E così, la pioggia battente che ha imperversato su tutta Roma per l’intera giornata ha messo a rischio l’esecuzione della seconda serata, quella con i poeti, una delle più attese del Festival Internazionale “Letterature” di Roma alla Basilica del Foro Romano.

[flv]http://www.rainews24.rai.it/ran24/clips/2012/05/luigia_23052012.mp4[/flv]
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A ‘Dire poesia’, Natalia Molebatsi: contro tutte le guerre

Domenica 6 maggio, a Palazzo del Monte ViArt di Vicenza, arriva al quarto appuntamento la rassegna dedicata alla parola poetica DAL SUDAFRICA, NATALIA MOLEBATSI CONTRO TUTTE LE GUERRE: A DIRE POESIA LA PAROLA È MUSICA.

L’evento è organizzato in collaborazione con Vicenza Jazz. Con l’autrice il contrabbassista Simone Serafini e le fotografie di Pino Ninfa

È considerata una delle voci poetiche sudafricane più importanti della generazione del post-apartheid; il suo percorso artistico sperimenta incroci tra canto e recitazione, tra generi e forme di espressione differenti, ed è caratterizzato dall’impegno contro tutte le guerre e tutte le discriminazioni: la prossima protagonista di Dire Poesia 2012 sarà Natalia Molebatsi, giovane spoken word artist (artista della parola parlata) originaria di Tembisa (Sudafrica). Continua a leggere

Franco Loi, video-intervista

Franco Loi

Franco Loi (intervistato nel 2005 a Milano da Luigia Sorrentino per RaiNews24)  è fra i poeti che partecipano alla due giorni dell’American Academy – “Translating Poetry:  Readings and Conversation” (giovedi 3 maggio 2012, dalle 18:30 American Academy in Rome, Villa Aurelia, Largo di Porta San Pancrazio, 1 e venerdì 4 maggio 2012 dalle 16:30 alla Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3) con Robert Hass, Julia HartwigAdam Zagajewski, Sarah Arvio, Susan Stewart,  Moira Egan.

Tra i poeti italiani oltre a Loi: Edoardo Albinati, Antonella Anedda, Franco Buffoni, Patrizia CavalliValerio MagrelliLucio Mariani, Maria Luisa SpazianiMassimo Gezzi e Guido Mazzoni, che oltre a leggere i loro lavori leggeranno anche opere dei poeti italiani tra i quali Bartolo Cattafi, Franco Fortini, Eugenio Montale, Giovanni Pascoli, Cesare Pavese, Clemente Rèbora, Nelo Risi, Umberto Saba, e Andrea Zanzotto. Continua a leggere

Primo Levi al Teatro Valle Occupato

Sabato 5 maggio 2012 alle ore 18:00, Generazione Tq e Teatro Valle Occupato, assemblea pubblica con: Marco Belpoliti, curatore delle opere di Primo Levi, Valentina Pisanty, autrice di Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Raffaella di Castro, autrice di Testimoni del non-provato.  Ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione , Michela Ponzani, autrice di Guerra alle donne.Parteciperanno al dibattito con letture sceniche e musicali di testi di Primo Levi e di altri autori Veronica Cruciani, Nicola Lagioia, Lorenzo Pavolini, Marco Rovelli, Paola Soriga, Giordano Tedoldi.

Coordina Christian Raimo

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Renato Minore, La promessa della notte

E’ intenso e ricco di ‘storia’ questo nuovo libro di Renato Minore ‘La promessa della notte’ Conversazioni con i poeti italiani edito da Donzelli.

Bertolucci, Betocchi, Buttitta, Caproni, Cergoly, Fortini, Giudici, Giuliani, Guerra, Loi, Luzi, Merini, Pagliarani, Pierro, Porta, Raboni, Rosselli, Roversi, Sanguineti, Spaziani, Zanzotto. Ventuno poeti raccontati da Renato Minore attraverso le loro stesse parole. Poeti,  alcuni tra i massimi del Novecento, che lo scrittore ha incontrato negli anni passati a intervalli quasi regolari. “Mi sedevo di fronte o accanto al mio poeta […] e si parlava in libertà, senza un argomento prescelto, per ore (a volte anche con sedute ripetute in più giornate), seguendo gli umori che per me erano soprattutto quelli depositati dalla recentissima lettura o rilettura e per il mio interlocutore potevano anche coincidere con il sentimento della giornata, magari con un raggio di sole che tagliava la stanza e poi improvvisamente volava via, scrive Renato Minore. Schegge luminose, indimenticabili, di incontri. Come quello con Pagliarani raccontato da Minore attraverso l’intonazione, lo spessore della voce del poeta che spesso si impenna, o si incrina…
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Traghetti di poesia 2012

Traghetti di poesia la rassegna di poesia ideata e curata da Guido Oldani, compie cinque anni.

Nei giorni 27/28/29/30 il festival che si svolge in Sardegna, a Cagliari,  proporrà letture, approfondimenti critici ed uno spazio dedicato al teatro, con lo spettacolo di Gilberto Colla “Milllennio III, nostra meraviglia”, riflessione sul ruolo degli oggetti nella nostra contemporaneità ispirata al libro, Realismo Terminale del poeta Guido Oldani. Continua a leggere

Elisa Donzelli, La poesia per i bambini

Il senso perso dei bestiari per bambini
di Elisa Donzelli

Chi è stato bambino negli anni Settanta e Ottanta ha una risorsa nascosta che potrebbe tornargli utile in tempi di magra come quelli che stiamo vivendo. E al bambino di oggi, intento a osservare la più gigantesca delle navi abbandonata dal suo Capitano prima ancora che l’avventura sia incominciata, potrebbe rispondere ripescando in soffitta quelle edizioni che trent’anni fa avevano mostrato il volto più fine e intraprendente dell’editoria italiana per ragazzi. Parlo delle edizioni Emme ed EL nate nel 1966 e nel 1974 e poi confluite, insieme a Einaudi Ragazzi, sotto un unico marchio. Tra i protagonisti di un’avventura ‘di genere’, capace di intrecciare qualità letteraria e qualità artistica delle immagini, c’erano Mario Lodi, Lele Luzzati e Gianni Rodari. Queste cose le ricordano in molti pur non sapendo forse che i “giocattoli poetici” di Rodari vantano un illustre precedente nel Sigaro di fuoco di Alfonso Gatto, una raccolta di versi del 1948 destinata “ai bambini di ogni età” cui si erano aggiunte nel 1963 le poesie ‘nautiche’ del Vaporetto (riprese nel 2001 da Mondadori con postfazione di Antonella Anedda). Continua a leggere