Nunzio Bellassai, poesie inedite

Nunzio Bellassai, Foto di proprietà dell’autore

A vegliare la spiaggia che scompare
tra le alghe sbiadite e compatte
restano pochi silenzi interrotti
dal brusio delle fronde che indietreggiano,
saldate come una luce spenta
che assorbe le promesse e i buoni propositi.
Nel mutuo collassare di un tempo
che è già sale essiccato
non c’è spazio per il ricordo, ma solo
la moina dolce di una madre che stringe
e oltrepassa l’inerzia dello stupore,
l’attimo che fugge
e quello che deve ancora venire.

***

Si perde nel riposo del mondo
l’esile trama venosa delle cose mute
che stringe il letto al centro della stanza.
Allo spazio battuto dalle ginocchia
sul parquet si sottrae il corpo freddo,
il suono della buonanotte.
Il precipizio che esiste da sempre
ha il rumore di un citofono,
la voce di soprassalto rivela nuove altezze
e una mutua intrusione.
Le ombre che un tempo ci divertivano
appartengono ora alle pareti
e qui rimarranno:
nella pietà senza contatto.

***

Migreranno a ovest,
ripetevi prudente al fruscio senza
forma del cielo, al silenzio
che non temeva più mutamenti.
La linea di frattura esiste.
E quel vuoto che reputavi necessario
è l’obbligo mal celato di un tempo
che non ritorna.
Celebri ancora intatta
la sua calma apparente,
ogni singolo attimo concesso
senza perdono.
Quella notte davanti alle isole
hai giurato sottovoce
l’eternità in un istante.

***

Fisso ancora il vicino
osserva le finestre accese
dei palazzi di fronte
come se albeggiasse a dirotto
negli ampi sprazzi di circonvallazione.
Gli studenti al terzo piano
hanno lasciato i libri in disordine
sulla scrivania e poco altro,
torneranno a settembre.
Adesso sul bordo del terrazzo
le voci si riconoscono
in un sorriso insoddisfatto,
galleggiano penzolanti
le gambe che a volte si sfiorano,
ma solo per sbaglio,
è solo un vitale oblio
a scandire la memoria bianca del mondo,
la giuntura delle assenze simultanee.
La vita di chi resta
si scopre nascendo.
Come a stabilire un legame di sangue,
l’indefinita perdita di una vigilia
destinata al silenzio,
dove il fumo sale ostinato
osserva e tace,
dove tutto e tutti sono già partiti.

***

Dove non sono mai stati
i fenicotteri prima della migrazione
troveranno solo spiagge deportate
che si rinnovano morendo.
È l’augurio che cela l’inevitabile dubbio,
il crepuscolo che si accumula tenue
negli anfratti pallidi della costa,
una crepa esitante come spazi tra le dita,
tra le parole che sembrano un miracolo breve.
Di fronte al bunker, lo stormo ripete tre volte
la stessa onda del cielo ormai postumo
e si consegna all’attimo
prima che tutto crolli.

***

Rintocca cauto
il buio appena schiuso
sulle sporgenze senza cornice.
Dove finisce la luce
quando non si vede,
ripiega l’inizio remoto
della montagna spaccata.
La cicatrice che oscilla
sui morti soffoca il passo
e la nostra convergenza immobile
sulla cupola rossa.
Le pareti coincidono
nell’impronta perenne
della terra senza rientranze.
Si gonfia paziente
il distacco che è in noi.

***

Prima e dopo il cumulo di vestiti
nessuno si è accorto della voracità
della strada che assiste impassibile
di fronte alla metamorfosi della durezza,
al nulla che ci precede e copre quel corpo,
lucido ammasso di carta stagnola.
L’abbaglio tra gli scatoloni non riuscirà
a celare il torpore della notte
che è già verità: una sola coperta termica.
Suonano le due in piazza dell’Immacolata,
arretra il tempo per tastare il finto baratro
dei giorni che si stringe nel riflesso.
Tutto quello che resta
è somiglianza.

***

Nessuno riuscirà a interrogare i morti
né chiederà le parole giuste da usare
per ogni superbo rintocco di vita
che suona come il buio sullo scoglio inclinato
senza sottofondo e la pelle sporca di sale,
nel riverbero di pochi istanti vissuti
come segreti. Non si può sfuggire
da ciò che non si è mai stati: l’onda
timida è vertigine senza suono.
Nel silenzio che ritorna puntuale
tutto trova forma e vuoto.

***

L’ultimo treno alla stazione di Santa Severa
passa sempre puntuale alle venti,
discreto come la postura
dei turisti cosparsi d’autan
che ancora sperano nella luce.
Un saluto senza destinatario,
il prolungamento infranto
da qualche parola canticchiata
senza troppa voce: sarà così
andare via. Gli amici,
con gli asciugamani alle spalle,
più alti e robusti dell’anno scorso,
attraversano il binario
seguiti dal fischio indulgente
come la pelle scottata dalle partite
e dalle corse senza meta.
Il profilo scuro del Super Tele,
sospeso in aria, crolla nell’impressione
di essere stati un solo corpo,
la coincidenza di brevissime attese.
Dall’altro lato le ragazze ridono sporgendosi
senza approvazione né coraggio,
rallentano il misterioso gesto del ritorno,
come a sostenere incolume
l’ipotesi del dolore.
Forse resterà lì
l’esiguità della stagione
a misurare il distacco di un binario,
a contare negli annunci dell’altoparlante
la perdita e il passaggio.

***

Nessuno avanzerà vittorioso
sui rottami dei silos abbandonati,
sulle campagne dimenticate
dall’uomo che consegna al tempo
rimasto le sue fragilità. Scivola
come la speranza d’oblio
sui corpi armati, fratelli e nemici,
sgozzati e coperti dalla neve
dell’inverno più lungo.
Le sirene soffocano con giocattoli
e pupazzi le piazze svuotate,
le fosse docili scavate dai missili.
Ancora tace cauta la folla
accalcata sotto il ponte
nell’incastro febbrile degli sguardi,
l’esatta compostezza dell’abbandono.
Stretta nell’attesa,
compensa nel contatto
il freddo sospetto del vuoto.
Forse un giorno troverà
nel proprio alfabeto muto
parole senza conforto
che diano un senso
a tutte le cicatrici della terra.

Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.

Opere Inedite, Alessandro Moscè

Un’anticipazione dalla raccolta inedita Aspettiamo la mezzanotte

Alessandro Moscè foto di proprietà dell’autore

Qui c’è aria di aldilà,
di più non so dire.
Qui sembra tutto finito
e se mi dicessero
che il vento è il mio fiato
ci crederei stringendomi a me
per l’ultima volta.
Invece domani mi sveglierò
alla solita ora
da questa morte provvisoria
che viene a parlarmi
di notte, quando si annoia.
E’ discreta, non mi chiede
di seguirla nel crepuscolo cinereo,
sa bene che si nasce e si muore
più volte senza scongiuri,
fino all’alba.
La morte entra ed esce da me,
mi acquieta, non ne ho paura

 

***

L’insegna del benzinaio spenta,
l’aria che si profilava sopra le pompe automatiche
per noi familiari in processione, quasi addormentati
tra i palazzi ocra del rione,
camminatori da vivi e da morti,
riconosciuti nelle aperture dell’orizzonte
appena coperte dai cortili con le panche,
dalle luci basse e palpitanti
di un’ora stanca,
in una via traversa di Fabriano o di Ancona,
trascinati in un aldilà di arazzi,
come fossimo nelle strade marchigiane
tra chi cambia l’olio e i filtri alle utilitarie
nelle stazioni di servizio fuori dal mondo

***

L’acqua guizza nella bottiglia,
nei bicchieri da viaggio rovesciati
sotto questo manto di cielo sporco
che assembla i vagoni del treno,
le poltroncine dove rimangono
le borse con la chiusura a zip
per le unghie laccate delle signore.
Il riflusso di istantanee
scandisce minuti e ore,
un conto lento nella tratta,
esiliato dai finestrini.
Ogni coscienza è un destino,
una distrazione e un dolore
di vite senza fuoco:
è questa la stagione rapida sui valichi
che sovrasta ogni uliveto umbro
e un grumo di ossessioni risucchiate.
Ma se lei si alza non smette di salvare gli occhi
nei fianchi arrotondati
all’altezza del taglio della camicia,
nel movimento che oscura il sacerdote.
Non rispondere mai, amore,
e non smettere di pregare per te

***

Un bracciale di pelle corre lungo la schiena,
in un tonfo di parole
per chi agita i passi tra i corridoi lucidi
e indossa il camice nel battere fiacco delle ore,
nel dramma della notte di un reparto
quando le corsie vacillano di voci tronche,
di volti rimossi dal male,
abitatori di un soffitto e niente più.
Ma i tuoi capelli si annidano nella catenina,
risalgono dai riflessi violacei dei vetri
e sconfinano nel collo ombrato.
Sotto quel camice c’è sempre una stella invisibile,
un sorriso castano e un viaggio lontano,
l’uscita serale quando cade la pioggia
che bacia il freddo,
alleato invincibile prima del sonno e dopo l’amore,
quando non ci si parla per cinque minuti
e i cellulari rimangono spenti
dentro la borsa e nella tasca,
nella mezzanotte della domenica degli stadi Continua a leggere

Opere Inedite. Gioconda Fappiano

Gioconda Fappiano, Foto di proprietà dell’autrice

Vi propongo una scelta di testi inediti di Gioconda Fappiano che vive a Cusano Mutri in provincia di Benevento.

1.
Sono le sere silenziose
passate sui gradini dei ricordi.
Mi attardo nei vicoli stanchi
che stanno come labbra sigillate
e cerco ancora giorni familiari.
Si aprono le piazze, la musica, le danze.
Scende un santo
e un’anima in preghiera.
Qualcuno guarda lontano
chiedendosi se esiste il paradiso
una macchia di colore
in una vita in bianco e nero.
Si affacciano voci
ed echi dall’oblio.
Tra le pietre e i morti
spargo l’incenso dei passi
e dei miei versi.

2.
Mandami le rose da Kiev
e dimmi che c’è ancora bellezza
che non china il capo.
Qui è il caldo che incendia l’estate
e i pomi nell’orto fiammeggiano
nel sole che picchia le crepe
tra zolle ferite di vita.
Un giorno ti verrò a trovare
nel giardino scampato alla guerra
tra le macerie di un mondo impazzito.
A piccoli sorsi berremo del tè
e quello che resta, di te e di me.
3.
Le mie mani
sono quelle di mio padre e di mia madre
hanno un callo per il dolore
e l’anello della promessa.
Le mie mani
sono dolci e severe
hanno rughe di sogni e dita sanguinanti
nelle spine della mancanza.
Le mie mani
vibrano melodie di lontananza
e rintocchi di silenzio
mentre spargono olio sulla pelle bruciata.
Le mie mani
hanno il palmo aperto dell’accoglienza
e il pugno chiuso della resistenza.

4.
Adàgiati sul mio respiro.
È una dispensa di piccole felicità
questa luce che schiara la notte
su un campo di erba tagliata,
la rosa dal profumo agrumato,
la tazza che accosto alle labbra
per una semplice gioia liquefatta.
Sarà forse l’abitudine che muore
e rinasce ogni giorno
quella che chiamano Vita.

5.
Dalla tavola sparecchiata della festa
raccolgo briciole di pane
e qualche chicco di melagrana.
Pulisco il piatto del mio passato
svuoto il fondo della bottiglia nel bicchiere
e attendo nel poco che rimane
accostandomi al presente
e al torcersi dei giorni
la voce dell’anima a me destinata
nel tempo vergine di un foglio bianco.

6.
Accettare
l’illusione di un bacio
la primavera che non sboccia
il volo d’addio
la pioggia che sporca
il canto stonato
il silenzio che urla
la benda sugli occhi
le briciole della sorte
lo strappo nel cuore
e tremare
e vivere ogni giorno
come il primo giorno
della creazione. Continua a leggere

Opere Inedite, Luca Chendi

Luca Chendi, foto di proprietà dell’autore

Tramuta nel corpo del padre di mio padre
la filosofia che il tempo lascia come
lo screpolare sui muri sgravi delle labbra.
Riconosco nelle parole le cose dove
sono ancora i tratti che parlano per noi.
Qui lei, la sorte, ritarda a partire
anzi si ferma del tutto.
Amare sarà adagiare le difese
carpire insieme lo spazio
lacrimare ogni bacio in un addio.
Non c’è divario che colmi il tempo
allora gli stendo un abbraccio nel letto.
Aspetto che consumi più lieve il suo dolore.

*

Raramente mi riduco a esitare la carezza tra generazioni
mio padre in dolore a quarant’anni
che perde l’amore di suo padre mantiene
infernale la ferita.
Noi vivi e lui nel taglio dove
tutto è interno a tutto
a cominciare dal sorriso
che portava sempre inciso anche
nelle ultime foto di famiglia.
Di notte mi fermo a prendere la carezza tra generazioni
rivedo un uomo stanco consumare
i lineamenti dell’amore
scambiare per me il dolore
in felicità.

*

Adesso è soltanto pianto che rimane sui vetri
e nella lacrima che appoggia quasi una pioggia da ascoltare.
Avrà una lunga battitura il grano.
Da dentro dove gli armadi si innalzano
ai nugoli bianchi del cielo
tutto l’intonaco crepa alla vita:
un pretesto nel resto che rimane per la sera
un riflesso nel piatto dove scarto le croste
un ricordo dove sono immerse
le nostre ultime fotografie.
Non accenna nemmeno una fiamma la candela.
Non vedrò così le ombre degli assenti
gli odori degli aromi del frutteto
nessun dolore se non dolore cieco
è notte tra gli occhi il mio sollievo.

*

Traccia tra i morti che ritornano in inverno
tra la neve e le navate, un ponte
verso il corpo. Incurvalo
nel momento in cui i ricordi si fermano
dove le strade sono piene di fila.
Rincorrili sui vetri fino ai vetri di casa
seguili ora dentro il suono dei clacson
ora nel caos delle campane.
È così cara la celebrazione che speriamo duri
e che invece stabilisce una fine
tra l’amore e il vento a venire
su dalla pianura.

*

Quanto pesa il grano del giorno
quando vedo il tuo corpo a riposo
riflesso nelle ultime luci della sera.
La notte è solo un luogo in cui fare a modo
io so per certo il tuo abitarlo
è comprensione del buio. L’oscuro
si irradia nelle vene fino
a creare un confine sul volto.
Nelle conche c’è ancora ammiccato
il residuo di un sorriso mentre
intorno è l’attacco infinito della notte.
Questo stare proibito nei corpi
questo intimare alla vita che porti
è come un presagio.
Qua l’ombra muta
si fa febbre sulla fronte e mi appartiene.
Il dolore è freddo in transizione, a distanza
si accosta sul respiro dell’alba.
La sua nella mia voce è un ricordo
che sale ogni giorno col sole. Continua a leggere

Ilaria Palomba, la forza del corpo

Ilaria Palomba / Credits foto Dino Ignani

Nota di Luigia Sorrentino

Pubblichiamo in esclusiva alcune poesie inedite di Ilaria Palomba scritte dall’autrice nella stanza del CTO, Centro traumatologico ortopedico di Roma, nel quale è ricoverata dal 3 maggio 2022.

I versi, in stile “confessionale”,  non sono il racconto o la cronaca del salvataggio o del l ricovero in emergenza, ma sono la reale e autentica esperienza di chi ha attraversato la morte ed è ritornata alla vita.

Ogni verso qui, rivela forza, azione, pensiero, resistenza.

Poesie con le quali Ilaria investe le vicende del nostro tempo e consegna al lettore un’altra, inedita figura della vita, quella che ci osserva dal margine della vita, e lo fa con una poetica che ci tocca nell’intimo e ci coinvolge profondamente.

Ilaria Palomba ricoverata al CTO di Roma, 14 settembre 2022

sperimentare l’invisibile 

Il silenzio è una fuga
strofa che trama
non fidarti – farà
di te spariglio – lei
come tutti i mostri
legata a un desiderio
spezzato, ha lottato
e ha perso. Non ti perdona
la vittoria – su cosa poi?
nei luoghi del nulla
il tempio – di cosa?
delle abbandonate.
Ferita – tu – lepre
tra fauci di iene
giurasti fiducia
sacrificarsi i figli.
Non ti perdonano
la giovinezza, l’amore.
Di questo tuo corpo
faranno macello.

5 luglio 2022

In zone tormentate
ho patito l’assenza
ma né i suicidi né
i morti metteranno
mai piede qui.
L’aria del mattino è
calda di un tepore
umido e rovente eppure
io sento il freddo del
trapasso. Chi mi vuole
viva non sa quale regione
mi tocca attraversare
Il corridoio con i vassoi
pieni di pillole e siringhe
il rumore dei vassoi.
Il corridoio che mi guarda
spietato e io immobile.
Poi la sesta vita (se resisti
al presente e non urli).
Tu dove sei?

24 luglio 2022

Ieri ho scoperto di non essere
più in grado di scrivere a penna.
L’incidente si incide in me
ogni giorno con un volto diverso.
Una volta prendevo appunti
con la velocità di un missile,
anche questa dote è stata cancellata.
Ho ritrovato però l’abbraccio sperato
il mio tu si è moltiplicato e non è
più persecutorio, non solo. Il
persecutore interno è il più cattivo
di tutti. Ogni tanto dovrei affacciarmi
a guardare un tramonto e dirmi:
tu ce la farai. Uscirai di qui come
uscirai dal dolore, dall’incantamento
e dal delirio. Attanagliata da ricordi
e desideri infranti, anche tu dirai:
ho sofferto ma ora basta. Il corpo
obbedisce solo all’infinito. Oggi
è un’illusione della coscienza.

30 luglio 2022

Di tanto in tanto mi trucco
per illudermi di esser fuori.
Fuori dalle punture di eparina
alle sette di sera, fuori dal
confronto con la mia schiena
o con la mia gamba – quale delle
due? – mi trucco perché uscirò
non importa se stasera o tra sei
mesi – forse anche dieci – uscirò
e non avrò dolori che non siano
l’intimo dolore di aver perduto
persone di cui sembro essermi
dimenticata, e altre che ho
asfissiato con una fantasmatica
invadenza. Non sono capace
di mantenere alcun rapporto
a partire da quello con me stessa.
Ricordi quando ci mostrammo le
cicatrici sui polsi? Guardammo
poi la folla ascoltando Purcell.
Tu sei tutti loro e da nessuna parte.
Cosa sto aspettando?

3 agosto 2022

Quattro mesi fa ero intubata,
mi trasferirono qui per
la riabilitazione, ma le
gambe non sembravano
volersi riabilitare.
E neanche la schiena.
Chiedevo sempre
ai miei di cambiare
ospedale, come se
cambiare ospedale
significasse qualcosa.
In stanza con me
due ragazze che
consideravo più
allenate alla vita.
La stanza cambia
ogni volta che qualcuna
va via. Diventa più
grande o più piccola,
muta colore, ma sono
mutazioni infinitesimali.
Oggi la ragazza che
si è buttata dal quarto
piano ha camminato
con un deambulatore
sul pavimento della palestra.
Probabilmente si è
sentita una bambina,
era molto buffa da vedere
una delle sue gambe
non riusciva a muoversi
correttamente. La degenza
è ancora lunga, e ho
sempre voglia di fuggire,
ma ho la sensazione che
quando andrò via avrò
nostalgia del reparto
come di una cosa
intima da non dire
a nessuno.

18 agosto 2022

Mi sono truccata di lacrime
ho indossato lo sguardo
più feroce che potessi
per dire alla Vita: Questa
volta sarò più forte di te.
Lei mi ha risposto:
l’ho sentita sibilare
poi urlare forte più
forte che potesse
ma non parlava la mia lingua.

25 agosto 2022

Continua a leggere

Alfonso Guida, poesie

Alfonso Guida/credits photo Andrea Semplici

Pubblichiamo sei poesie inedite di Alfonso Guida tratte dalla sua raccolta inedita dal titolo “Carcere e ascesi”.

 

I muri. I muri tengono
tutto di me. E del battito.

Scompare a poco a poco
l’ indovinello, non importa, il mistero,
se può sbiadire. Il nero.

Poi mi sento cadere.
Ma resto, resto qui, su questa sedia,
questa storia. L’ infelicità, un colpo
d’ accetta. Ora la logica.

Frammenti, recinti, ettari.
Non oltre la misura.
S’inguscia il tempo. Arsura.

**

Volevo andare in alto.
Nel deserto, il colore,
metafora dei saggi.
Piangere e ridere, ora-

non riesco a prevedere.
Cose che sono ovunque,
disgiunte, inosservate.

Sensibilmente- scrivere,
parola per parola,
passo dopo passo, anche
questa morte. E finirla
con la madre. Qui, solo,
tentare, morire, essere.
Come uno può, inanellato, cortese.

 

LETTERA

Stamattina una mitraglia di piume.
Cieli abitati, piste
da corsa, andirivieni, fughe. Fretta
di cieli azzurri. Cornacchie a soggolo
grigio, taccole, in lutto completo. Qui
morire eterno, morire ordinario.
Finire. Punto e a capo. Ancora. Annuncio
di ogni slancio contrariato, un cantare
basso metà inno solenne metà
triviale. Nascondo al male il corpo,
la mente. Il vento snida il suo pretesto
di ocra dal grigio tortora, dal verde
petrolio. Immerge a compieta il crepaccio
tra le ombre e il fumo del fieno maggengo.

 

PASTORI DEL MATTINO ALL’ AMERICAN BAR

Parlano di mungitura meccanica,
del nutritore di metallo, nuovo
sostituto del vecchio poppatoio
di gomma. Valutando carne e latte,
parlano con labbra gonfie di sangue
come se il cuore gli pompasse in bocca.
Nero di mora e ginepro colora
le guance, il mento, la barba biondastra.
Corpi magri, scattanti, culi sodi,
stretti, un piglio dolce e violento, gli omeri
schiariti dal sole bronzeo dei campi.

Ogni maschio sfrigola nel profumo
primaverile della biada, assorbe
la forza lunare dell’ acqua e i palmi
colano scremature di latte, orde
bianche e fresche di pasture e ontanete
dal fogliame opalino nei capelli
che ingrassano, ricci, i colletti, macchie
di erbe aguzze, tarassaco, soffioni.

Vestono imbottiti, impataccati, k-way
spiumato, cinghia el charro, rubata
dal catalogo di moda di un vecchio
guardaroba appartenuto ai nipoti.
La voce buona, semplice, sottile.
Si toccano con lo sguardo incantato.
Con puntigliosa ostinazione, il polso
ruota a picco tra le gambe robuste,
le cosce muscolose, il membro enorme.
Sono coraggiosi. Affrontano il buio
mischiando il proprio sangue al sangue lucido
delle bestie nei muti sacrifici
dei templi, nei rituali antelucani.
Col manto irto di spine,
col peso del sogno di un gregge intero,
volano in groppa ai bucrani, cavalcano
le travi, lottano come profeti.


DIMENTICARE

Ma vedere si estingue, ogni vedere.

Ci sono poeti per cui il tempo è assente.
Lapidi, pietre incise, appena un nome.
Sofferenza commossa dal tacere.
Eco morta nella voce da cui esce.
Persone non riconosciute, astratte,
come astratte dal commercio terrestre.
Lampare tra le pergole, lampyridae
nell’ erba.
Il sole muore di se stesso.

 

LA FONTE SA DI DOVER MORIRE

Veglia, fare fatica.
L’uomo ha una sola terra.
E la terra ha un solo uomo.
Francesco, Marco, Stefano,
Domenico, se esisto
su una punta di penna.
Ma io cado, non ho peso
che per morirmi dentro,
nel peccato di perdere
lo sguardo. E nel dipendere
stramazzo, preda o lupo.
Nel tanfo di sudore
notturno c’è di tutto:
treni, orinatoi, portici,
c’ è la polvere e il dedalo
delle formiche di Aldo
Braibanti. E qui digrado
come le croci nere
dei pescatori ai muri
di Procida, tra le ancore
svelte a scarnirmi, a trarmi
fuori dal mare folle,
quando, inverno su inverno,
mi addormento a strapiombo.

Sto fermo, più che fermo,
fermato, più che vuoto,
svuotato, ma le vecchie
la chiamano “ vivenza”
la vita che si passa
dentro una casa, intera.
I libri mi allontanano.
L’ inchiostro dei quaderni
macchia i campi di grano Continua a leggere

Vittorino Curci, Poesie

Vittorino Curci

si può attraversare la stanza mettendo i piedi nelle bacinelle smaltate piene di acqua. le cassette di legno lungo le pareti sono vuote solo per chi non dà valore alla parola intuizione. gli altri possono girare la testa dall’altra parte dove, in un fascio di luce meridiana, c’è un bambino che fa il bagno in una tinozza di zinco. intorno a lui, disseminati sul pavimento, fogli di giornali appallottolati, bulloni, sassi, torce elettriche e mollette da bucato.
«non è stato un carnevale e non è finito» dice l’artista. «mi duole un braccio… sentite anche voi un ronzio?»
la gallerista è una statua di sale. ha il viso pieno di lipomi.
fa caldo. caldissimo. l’uomo basso e corpulento che è accanto a lei tira fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto sgualcito

*

il commiato che sfugge alla pagina
come di ogni cosa il senso che frana
nel nulla di questa notte di pioggia.
dalle finestre ancora accese
l’eloquenza di uno sguardo fa gelare
il sangue ogni volta che una goccia
di luce si squaglia sull’asfalto

«di me mi duole il dolore che non provo
per tutto quello che non sono stato»

1.

cumuli di spazzatura per le strade, gente sconosciuta e altri fatti inspiegabili hanno eccitato gli animi nelle ultime settimane.
prima di cominciare a bere ha messo al sicuro l’esplosivo

l’enormità della scelta in un paese dove è sempre maggio
«ehi, freccia scoccata, che ne sai tu del fango… domani vedremo se continuerai a parlare…»

in un moto di stizza porta al massimo il fragore dei macchinari.
una casa in disordine rende meglio l’idea

2.

il sospetto è fondato – il non pensare, dopo aver pensato.
non si può negare: il ragazzo rivive le stesse scene. ora corre con una girandola in mano. invece di guidarci oltre il confine svolta all’angolo del primo isolato

per quanto sia, facciamo anche noi delle sciocchezze.
ora siamo soli nella strada, è notte e non sappiamo dove andare

3.

dopo il secondo smottamento non ha più pretesti, non vuole accampare pretese. cerca solo di guadagnare tempo approfittando degli operai che portano le ultime carabattole per completare la scena

restano tre domande: perché restare, a cosa pensano i giocatori di birra davanti a queste porte chiuse con catene e lucchetti, che senso ha parlare di questo in una poesia

il crepitio del fuoco è un’alzata di spalle o un salto del pensiero. verità e menzogna insieme

in queste albe imperturbabili arriva il momento in cui restiamo soli con i nostri genitori, ma loro non ci sono

*

erano spezzature e falsi contrappunti
che gli tempravano le forze
lasciando i battimenti al suo utile idiota.
i balordi in quegli anni
facevano il diavolo a quattro
ma non riuscivano
a mandare in subisso la sua ricchezza.
il presagio chiedeva silenzi di approvazione.
i resistenti avevano il volto paonazzo
degli ubriachi e suonavano a orecchio
davanti a un pannello di lamiera ondulata.
in quell’imbroglio di immagini
i bambini tracciavano con le braccia
ampi cerchi nell’aria. era l’estasi
della loro momentanea immortalità Continua a leggere

Marco Esposito, Inediti

Marco Esposito

Nota di Gisella Blanco

La fisicità del movimento, che sia solitario o sincronico a un moto estraneo, emerge da questi tre inediti di Marco Esposito con una ferocia latente, insita nella carne umana e nella materia fibrosa dell’esperienza quotidiana. Affiorano riferimenti a ricordi personali forse mai accaduti, sempre più prossimi all’impossibilità e al desiderio irrealizzato.

Lo scorrere del tempo si registra sul corpo come annotazione a margine di un testo incompletabile e, nella confusione della storia già scritta, quella ancora scrivibile è sintomo – e non solo simbolo – di gioia per tutti.

Le immagini che scalpitano nelle strofe sembrano incrinarsi, talvolta, a una triste ammissione di impotenza ontologica, prossima alla noia più che alla disperazione, ma subito interviene il fervore della metafora a profilare la sagoma di memorie comuni che si risolvono nell’intimità di un dialogo privato, mai esclusivo e mai escludente.

Se la malinconia è una patina opacizzante sullo sguardo dell’individuo, in questi versi le voci verbali al passato si uniscono a quelle al presente per ricreare un tempo lirico in cui l’accoramento si scioglie nella tenerezza per manifestarsi nel coraggio dell’uomo che impara la fragilità della forza e la forza della delicatezza.

 

Di gambe lunghissime è questa fuga
e tendini da sbrogliare nei rettilinei
che mancano al sangue.

Ho cucinato per te senza conoscermi
il mio sguardo era docile al vino,
tagliandoci i capelli per sempre a vicenda
si rideva e ci si ravvedeva nel danno compiuto.

Il corpo mio cambiava il tuo sempre fresco
rimaneva nel fottuto scherzo del tempo,
dove il giorno finiva presto nella notte eterna
e nell’anarchia dei pasti e della carne.

Mia madre piangeva al telefono come temendo
di rivedermi tardi – riposati di tutto il tempo
mai dormito – diceva ma continuo a non dormire
e di giorno corriamo tutti in strada per la gioia.

Gli anni si contano ora in queste scarpe.

[2020] Continua a leggere

Sacha Piersanti, da “L’infanzia stipendiata”

Sacha Piersanti credits ph Dino Ignani

1.
Non ti chiedo strette, mano,
né, gamba, un altro scatto –
non ti chiedo tempo, morte,
né a amore, tuo fratello
tuo amante tuo doppione,
chiedo comprensione –
non chiedo voli al cielo
(senza ali e senza piume
si sta meglio), no, nemmeno,
terra, a te ti chiedo
d’aprirti o farti lieve:

chiedo a Te che scruti
non visto, non vedente,
chiedo a Te, inesistente,
chiedo anzi pretendo
di darle retta quando

allora

alla fine della carne

anziché domande,
invece di preghiere,
invece del perdono
Ti darà consigli –
ascoltala, Ti prego,

la sua infanzia stipendiata
T’insegnerà che non ha età
solo quello che è divino

ma solo l’uomo non ce l’ha
quello che chiami destino.

2. LA PROMESSA DI DIVISA

“Er poliziotto o ‘r finanziere
‘r viggile der fòco o l’avvocato
anche se pure l’infermiere
è sempre mejo der malato.
Basta che prometti, a nì,
de fatte un nòme da divisa,
che non te ritrovi mai
a fatte carpestà.
Adesso che ce penzo,
fai la guardia forestale!”

*
Non dissi altro che sì, certo,
avrei indossato una divisa,
un’armatura fra le tante
che forgia Società.

*
Ma è come il ragazzino
viziato che sgambetta
sotto il tavolo se tenti
d’erigere un castello
con le carte piacentine
la vita mai domata
che ci disobbedisce –
ho provato a rispettarla
la promessa di divisa,
ma mi colse e non potei
far altro che subirla
la marea della parola
che per quanto bassa
diluvia nella gola.

 

3.
Avrei dato tutta la storia del pensiero,
ogni verso della storia,
per seguire fedelmente
il suo bisogno di vedermi
in divisa e sistemato,
ma tra gli spacchi della terra

(camminavo, sguardo in alto,
e dalla pianta la mia spina
dorsale del pianeta
mi richiamava all’uomo)

la vidi – giuro, vidi
l’origine del tutto:
quel niente che noi siamo
senza la parola
a illuderci la mano.

Continua a leggere

Francesco Iannone, inediti

Francesco Iannone

COMMENTO DI ALFONSO GUIDA

Quelle proposte da Iannone sono poesie sulla grazia della fecondazione. Il padre si estingue nella sua sagoma terrestre, trova la cavità dei cieli. Nulla di materno nelle rotazioni luminose e buie del pensiero ma una penetrazione: la ” pigra grazia del sole” che attraversa. Una ” cum – prensione”: non solo una nuova presa nella visione celeste, ma una nuova “prensione” della sequenza immaginativa e, dunque, narrativa. Una paternità mitica, cosmica si snoda in un frasario ardito e ardente, dove diremmo “ardenza” (l’autore è partenopeo) più che “battesimo”. Il ritmo incalza da un qui a un altrove onnicomprensivo. La parola nuda come la luce che descrive indica la via di un’apertura dentro la parola stessa. È come se un alfabeto scoprisse d’improvviso la molteplicità delle combinazioni letterali.

inediti da “Prima opera del gesto” di Francesco Iannone

*
Mia stella. Ho tanti cieli per te. Se vieni i miei bui si voltano sugli abissi. La mia sera diventa una veglia celeste.

*
Come in una catena lo spazio di un anello. Nel suo giro il mio inchino più fecondo. Se sveglia la ruggine sul ferro di una vita, è l’amore. Continua a leggere

Alessandro Anil, inediti

Alessandro Anil

Da L’acqua della nostra sete

Terzo movimento

Note sulla melodia dell’acqua

I

L’uomo al risveglio la prima cosa che sente è la sete, poi lentamente il raggio
penetra la cupola del sonno e il corpo torna avvolto dall’abito che altri
toccheranno, guarderanno. La popolazione apre le porte, espirano vapori
trattenuti nella notte. È l’ora questa quando l’eterna contesa fra luce e ombra
rinnova questo ritorno quotidiano dalla morte chiamata sonno
verso il sogno condiviso da cui un giorno, ci sveglieremo. Il paesaggio avanza
e noi ritroviamo le inquietudini. Che sia Firenze e la festa al plurale di archi
incorniciati dallo sguardo, o Roma e i suoi busti, Augusto, Lesbia, Tiberio,
il prezzo per l’eternità è tramutare la carne in pietra, perché la sete è un fiume
ma la sua assenza è quell’altro desiderio che minaccia di non estinguersi
e l’uomo, un affluente a sua volta assetato, che fra i due crepuscoli del giorno
torna a riversarsi nelle strade, a inondare i più intimi recessi di una metropoli,
come acqua che scorre fra le crepe, acqua che sale fino all’orlo
in cerca di un atrio, una porta dove ripararsi, una casa abitata
o il pronto soccorso dove ricevere la dose d’anestesia chiamata
vita. Io, il più mortale fra gli esseri, osservo questa nascita, il lungofiume infinito
che rende il nostro tempo ancora più breve. Non oso scendere nelle acque,
come può un frammento fissare l’eterno? Forse per questo ai morti
si coprono gli occhi. Eppure, il corpo vorrebbe immergersi, diventare
un bassorilievo sul fondale oscuro di quest’altra massa di convenzioni
chiamata mondo: accettare le leggi dell’uomo o la gloria di una sorte
spezzata, restare in contemplazione o manifestare, innamorarsi
o fuggire, maestri del disincanto o professori di una lotta estinta? Le acque
trasportano detriti, sudiciume, un po’ di quell’aria spensierata che a volte,
ci ha intrattenuti, resta un sapore di carta zuccherata, la lontananza
di un bene mai fatto o dei rami tagliati alla rinfusa ai margini del marciapiede,
il tempo disgraziatamente perso senza piegare le dita, senza la possibilità
di un ritorno e quella imprecisata sensazione nel corpo ogni volta
che si riconosce, l’amore è all’ultimo, sul nervo delle cose perdute per sempre
e ritrovate nel suono che hanno lasciato andandosene. Non si placherà
con la morte la nostra sete, sopravvivrà a noi, tornerà nella terra, sarà terra assetata.

Continua a leggere

Lorenzo Pataro, poesie

Lorenzo Pataro

Spargo i miei organi in vendita sul letto
come Lego i bambini sul tappeto

tu leghi le ossa alle ringhiere
perché al posto delle ali
gli angeli ne facciano stampelle

i corpi sono scambi di lamiere
di croste marce di ferite

ieri pendeva dal tuo orecchio
il fegato in cancrena di un rondone.

 

*

 

Sulle ossa dei santi una rondine cava
un grumo di sangue gelato

e raspi d’uva marcia annodati a fili
di vespe riverse sui campi

pregano un corpo di spolpare
le sterili ombre dei morti e gli occhi

e le mani e le voci dal mondo
che resta soltanto una cellula,

la prima, e la cenere ctonia del sole
a formare il nuovo alfabeto dei vivi.

 

*

 

Potremmo dirci salvi soltanto
tra il freddo delle mura nella casa
di campagna, nell’aperto grido dello spazio

salvi soltanto nel vecchio pagliaio
diroccato incontro alle tele impolverate

nella luce sotto il melo o fra le tegole
spostate, umidi sui greppi o tra le fronde
pronti a gettarci come semi nella terra

salvi come scarti – come la scorza del frutto
spellata dalla lama.

 

Continua a leggere

Luca Pizzolitto, poesie

Luca Pizzolitto

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

***

L’azzurro del cielo
strappa e cade
nel dolore silenzioso
della sera.

Chiamare casa solo
la luce ferma del mattino,
l’aria di settembre
che si posa sul viso,
questo mio sconfinato esilio.

***

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È il riverbero ostinato del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

***

È il cadere atroce della bellezza
tra la fame e il rantolo della ragione
non è muta la polvere

questo silenzio tra i nostri corpi,
l’inganno fragile delle mani.

****

Giorni si perdono nello spazio
sacro del ricordo, i nostri
volti illesi, trattenuti al pianto.

Guardo la neve cadere:
resta la cenere sul lavandino,
l’impronta confusa delle tue mani.

Splende di un disperato
splendore la vita. Continua a leggere

Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

Fabio Jermini, “Singolarità”

Fabio Jermini

 

Il pozzo delle anime

 

 

¿Dove vanno la donna
che tiene per mano un bambino
l’uomo seduto su un assale, quel tale che calca
con passo sicuro le tavole di un ponte sospeso?

Sagome d’avorio stagliate contro l’azzurrino.

¿Eroi di quali storie
miti, leggende, celtiche saghe?
¿Quali i moniti o gli ordini? ¿I fatali divieti?

È un complesso ipogeo
tra gneiss, argilla e ghiaia
un tempo una grotta – poi stanze spettrali
impilate, simmetriche (¿un tempio, un sepolcro?)

Sulla soglia, due are, una trave
una stele bislunga
con messaggi cifrati:

†La prima ½ h è gratuita
da 1 h, 1 fr. ogni ½ h fino a 3 h†

†È severamente vietato (?) fumare†

 

 

Alienazione

 

 

Brillano d’ambra le piramidi
nel deserto di tegole
mentre imbruniscono
pedoni schierati, i comignoli
(non ittiti, assiri, persiani
ma isole, cunei, catene)
… e qui si acutizza l’arrocco
la distrazione, la devianza… l’agguato
l’agguato è nei tonfi monotoni
e nei trilli, quando scintillano
le linee di contatto
nel quotidiano moto immobile
della coorte che s’ingorga.

Piovra dai tentacoli elettrici
da Étoile a Sismondi, da Maisonnex a Rive
la vera noia è stare alcione in alpe, uncicato
all’orizzonte degli eventi…

È venerdì. Pont-d’Arve gorgoglia
di clacson, di gavazze e di bestemmie
e dietro le persiane
– schermo di segrete lussurie –
qualcuno
si masturba
su Pornhub. Continua a leggere

La poesia e il disegno di Dagnino

Massimo Dagnino

I MIEI GATTI VI OSSERVANO
di 
Massimo Dagnino

(2019)

      La pioggia abbassa la terra
nel giardino fiori lambiscono l’ombra
immaginaria del suo corpo. Guarda piovere
dal suo sguardo domestico fino a diffidare
del sonno. Potrei rilasciarmi,
come i gatti,
sui cornicioni, a spingermi nel loro inumano
onirismo.
Nel temporale erano cresciute
le zucche, sul tumulo di terra. Il rovescio anticipa
l’inconcludente e alberi alti
asciugano la notte, a voragine
il vigneto colmo declina
nell’incuria della voce: anfiteatro popolato
da gatti alleati, non si lascia tradurre
l’epigrafe irregolare, scivola
in raucedine la strada.

***

Passo del Turchino

l’afa si fa stasi
le viscere gonfiano corpi e fiori
di passiflora deposti (disposti)
dalla madre non arriva
nel sogno il buio tra il fogliame
cronologico l’abitato si estingue.
Fisso il cerchio rosso del segnale
nell’affondo di colline, quel rosso lanciato
a torpedine in collisione.

La casa limitrofa a emanazione
del buio, senza controllo la crescita
asfittica di ortensie tra volti inattuali
commisurato al parlare
un vacuo temporale figura animali
nei lampi a vuoto
un treno fermo, distanziato nei giorni
nello squarcio di vigne – scartati dal tempo –
i miei gatti vi osservano

Ma la segnaletica sbarra la struttura del buio.

Svelta accorcia le scale per infiltrarsi
nel disordine del frutteto, compulsiva non smette
di lavarsi il manto mordicchiandosi da pulci
fastidiose: spia
i cani aguzzando
le orecchie e a inarcarsi nel sonno
nell’ala d’ombra ignara della specie
di piante dove dormire fino al richiamo del nome.
Mastica dove ha più denti
Incisivi, isola la carne e io mi vedo
Nascosto al suo pasto
Notturno, presto reattiva alla pioggia
Ipnotica nel soffio felino
Estingue legami.

28 giugno 2019

***

L’immagine ritorna mentre sparisce
fra piante e la villa in mattoni, si orienta nel suo
territorio fatto di scale, terrazzi, alberi
letti, cartoni su cui rinvigorire
le unghie: si annuncia quando arriva a mangiare.
Ma ora l’insieme si trasla
le zampe sporche, ringhia infastidita
nel nervosismo della coda: ti fissa
mentre le gratti il collo riportandomi
trasfigurato alla mia specie.

Spaventata si avvolge nel suo sonno.
A sollevarla nell’aria mostra una strana gioia
nel labbro leporino, inaspettata
della nuova latitudine.

***

Arriva dallo scollamento del buio, riconosco
la sua andatura indifferente.

La lascio stare
mentre si addormenta seguendo
il profilo curvo della collina.

Continua a leggere

Luigia Sorrentino, tre poesie

Luigia Sorrentino

THE FIGHT
By Luigia Sorrentino
(Inedito)

they’d beaten him with kicks and punches
violently, on his back
they’d entered into the cocoon
of his dignity

they’d come for his ashy
eyes
they’d held him in their arms
with no reaction

he smelt of flowers with no response

his cardiac beat
the voice of the universe
lost in the ocean

***

strength grips his clothes
his flesh
it jerks and drags
his body

it pulls it up from its armpits
it sits it up
it moves foot and thigh behind the pelvis
it falls back and sits behind its shoulders

it keeps it close between its legs,
it envelopes it with its arms
it lets the pain slip down
along its back

muddy eyes breathe
in its belly
fatal buried
intimate love

***

the street is visible from the glass
a glossy murky
tongue
its eyes wide open

it’s hungry at night

the weightless smell of rain
has hit the hidden body
the smell comes from below

the soles of the shoes
haven’t worn out
the unfamiliar
depth of seeing

Traduzione di Giorgia Sensi

LA LOTTA
di Luigia Sorrentino
(Inedito)

l’avevano picchiato con calci e pugni
colpi violenti inferti sulla schiena
erano entrati nel bozzolo
della dignità

erano venuti a cercare i suoi occhi
inceneriti
l’avevano tenuto fra le braccia
senza risposta

odorava di fiori senza più ritorno

perduta nell’oceano
la frequenza cardiaca
la voce dell’universo Continua a leggere

Giuseppe Todisco, il poeta del margine


Sentire un peso – l’ottava parte
di un grammo – e tu che dall’altra
parte mi pareggi se cedo
un lascito di cose estive prese
in prestito ogni volta che ti penso.
Irene, sei già più grande di me
che sembro appena nato
ed è tutta mia questa moltitudine
di giorni da colmare – che pare
ci sia vento sempre
e sempre qualcosa da dire.
Io me ne starei con te, non fosse
tutta in cielo l’anima che posso,
perché è come amare un frutto
quando cade, se poi la terra
si dimostra.

 

L’aria che tira,
l’ammacco delle stagnole
sul mare piccolo,
ma come fai verso tu
che ti ritrai per non so quale
rigolo e tocca a me la biglia.
E resti sulla linea a mezzeria
come sanno fare bene
le sole taccole,
che per distinguersi
gettano gli occhi al sentiero
e un corpo di grigio lassù
fino alle scapole.

 

Passato via tutto il trambusto
potrei estrarti viva da un orecchio.
L’ostio del cielo radice al vento –
il maltempo agglutina nell’orto,
grugnisce un lampo.
Questo è il mio nome per sempre,
vetro minuscolo di ossidiana
che dalla cima sterile di un pino
punta dritto verso casa.
Tutti sanno dove andare: l’acqua
nel mastello, il cieco alla fontana.
Ma qualcuno ha detto basta. L’odore
di chinino allerta la ferita:
vita mia divisa – del tempo cosa fare. Continua a leggere

Stefano Raimondi, da: “L’Atalante”

Stefano Raimondi

A N T E P R I M A    E D I T O R I A L E

“L’ATALANTE” [i]

Ci sono istanti che sembrano avere
parole esatte: silenzi tolti dal respiro
come da un impaccio, come
fossero tagli dentro i tagli.
Sono questi i lasciti, i resoconti
di quello che si chiama amore
-o quello strano modo di amare-
che fa restare anche
dentro un fiato che chiede
da che parte appannare
disegnare cuori sopra i vetri
da che parte stare
sulla parte fresca del cuscino.

*


Si educano gli amori
– mi dicevi –
si educano a resistere
o a guardarsi dalla parte
che non si può mentire.

*

Lascia che si avverino le mie profezie
che le ali degli uccelli taglino in due
il volo, che il Nord dimentichi
il suo punto e uno scaraventarsi d’onde
racconti la storia per intero, come
se a planare fossimo noi senz’aria
senza i corridoi sbadati delle correnti.

*

Tenersi rasenti alle promesse.
Chiudere il braciere.
Sapere delle ceneri calde.

Si fanno di notte i passi lenti
con le mani a tentoni sugli spigoli
e il buio diventa un’altra cosa:
entra nella gola.

Sono quelli i tragitti più lunghi
le mani che si cercano, gli occhi
che si tengono oscuri apposta
per vedersi, baciarsi poi nel vuoto
di un abbraccio, che potrebbe
essere dappertutto o qui vicino
tolto da un sì detto di soppiatto:
a sangue.

Continua a leggere

La poesia di Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Se penso al tempo mio diventa ora di tutti
– il tempo – se mi perdo nel tempo ridivento io.”

Questa poesia di soli due versi è il nucleo centrale per leggere le Poesie abbandonate di Gian Mario Villalta. Poesie non finite, non concluse, lasciate lì, come si lascia l’infanzia e l’adolescenza, su un territorio di confine.

I componimenti parlano del tempo: “se mi perdo nel tempo ridivento io.”, ma il tempo ha cambiato “l’istante dell’estate”. Il corpo ora è nell’inverno, esposto sulla riva di un gran fiume.

La materia dei versi è invasa da una sostanza plasmata, ma non finita, come le sculture sottili e gracili di Giacometti che avanzano senza direzione nello spazio.

Le dita del tempo hanno lasciato impronte dure, abrase, frastagliate sui corpi scolpiti.

Ti ha lasciato più solo quella specie di sogno” scrive Villalta. L’uomo che guarda e ricorda il ragazzo sente di aver consumato il tempo della vita: “un’erba stremata”.

Le poesie si affacciano su un tempo in cui si pensa di sapere, ma non si comprende quel che realmente accade. L’universo dell’adolescenza emerge allora come condizione esistenziale di un presente incompiuto, in cui qualcosa si è “abbandonata”.

Nell’età dell’adolescenza non c’è nessuna traccia della fine o del bene, perché è un’età priva di finalità, nessuna fine o bene, può esserle attribuita. Ecco quindi che l’epoca, la nostra, si sgretola nel paesaggio e dall’isolamento si assiste a una guerra senza armi, senza nemici.

Oltre al primo esergo che richiama le parole di Giacometti, colpisce il secondo esergo, un verso di Andrea Zanzotto: “… vacillano le scale dell’inverno” tratto da Dietro il paesaggio, (1951) raccolta con poesie scritte tra il 1940-1948, il periodo della seconda guerra.

Il poeta porge al lettore solo le iniziali del nome del grande poeta friulano, quasi ci fosse una volontà di anonimato e al tempo stesso un’identificazione con il proprio maestro e tra “la guerra” alla quale ha assistito Zanzotto nella brigata partigiana con scene crude, la morte degli amici, dei compagni e quella alla quale assiste il poeta Villalta. Ecco che ritorna nell’uomo adulto la parola necessaria, che chiede di capire quello che accade nel mondo. Una parola che diventa resistenza, materia dura, fredda, sulla nuda pelle.

 

Poesie abbandonate

Giacometti non si stancava mai di ripetere che un’opera d’arte
non può mai dirsi finita. Semplicemente, la si interrompe o la si
abbandona

… vacillano le scale dell’inverno
A. Z.

Sono libri difficili, pagine oscure, ma non vuoi che ti basti
vivere con il pasto che aspetta coperto da un piatto
dopo la scuola, un futuro migliore di speranze non tue.
Viene luce più tardi. Il cielo rimena
macerie. L’erba è stremata. Tu non capisci tutto
ma sei sicuro che capiscono te
le parole che un uomo ha scritto e ti immagini
la sua vita, con quei pensieri, la pianura
e la città di ferro che ordina in cerchio l’inverno,
luce che piove amara, uno lo ferma per strada
vicino all’erba, ai container, parlano di queste cose.

*

Ti ha lasciato più solo quella specie di sogno
che hai attraversato passando nel corridoio
dal bagno alla cucina dopo che ti ha trascorso
l’istante di un’estate di venti anni fa
– fine della gioventù – un brivido
nella luce gialla di agosto.
Adesso che arriva il piovere
la luce lascia le lastre
per stare nascosta nell’aria.
Tutto è più di una volta. Ascolta mentre rammendano
la musica uccelli e foglie
quanto il tempo è immenso.
Che abbia bisogno di un corpo ossa budella un sesso
e le vene la merda è inaudito che tutto il tempo
abbia bisogno delle tue povere mani per essere qui. Continua a leggere

Valerio Magrelli, “Graffiti”

Valerio Magrelli

NOTA DI FABRIZIO FANTONI

Splendida e intensa la poesia inedita Graffiti di Valerio Magrelli.

Nell’immagine dei muretti istoriati dai graffittari ai margini della ferrovia si condensa tutto l’isolamento e la solitudine dei ragazzi abbandonati da un mondo che ignora le loro appartenenze, le inquietudini di una generazione e vanifica il loro naturale desiderio di esserci, di lasciare il segno di una presenza.

In questa poesia ritroviamo intatto quell’intimismo del poeta di Ora serrata retinae o di certe poesie di Nature e venature che si esemplifica in una delicata e pietosa attenzione per i segni che la violenza della vita lascia nelle anime di persone semplici e emarginate.

La tensione morale del poeta si fa tanto più evidente se messa a confronto con la superficialità dell’ambiente cittadino, sempre pronto a minimizzare, a crearsi degli alibi o a dimenticare le proprie responsabilità di fronte agli errori della nostra società.

Leggendo la poesia di Valerio Magrelli mi è tornato istintivamente alla memoria un verso tratto da La primavera hitleriana di Eugenio Montale: “[…] e più nessuno è incolpevole.”

Oggi come allora nessuno può dirsi non colpevole del mondo che lasciamo ai nostri figli.

 

Graffiti (in treno per Varese)

Quando vedo i graffiti sui muretti
lungo i binari che corrono via
mi prende una pena infinita.
Non ce n’è uno che non sia istoriato.
E penso a quei ragazzi, a tutti quei ragazzi
che hanno passato notti lungo la ferrovia
per lasciare una traccia
per scrivere una firma
per insultare un mondo che li ignora.
Rischi, palpitazioni, sfide fino alla morte
soltanto per segnare il proprio nome
e raccontarlo in giro.
Vi amo come figli
e vi vorrei salvare
da questa orrenda età chi vi tortura.

Continua a leggere

Una poesia di Alessandro Bellasio

Alessandro Bellasio

CLESSIDRA

«Una vena, spargendo all’improvviso
l’albume del proprio sangue in stasi,
divenne la parola, la grande
navata in cui il pensiero
scolpì il pensiero, bruciandolo.
Non si riebbe, neanch’esso,
mai più dal trauma, quella
fitta, altissima e
a forma di torre
piantata al centro
di sé, tra i soffitti dove
il vuoto ancora
aleggia sulle acque, con nevi immobili,
bicchieri, urina e gusci
in levitazione su di lui. Fu
l’assoluta
mancanza di ossigeno, l’aria
strappata
che dominava quelle altezze o forse
fu il peso
schiacciante che devasta, sulle cime,
il tempo – lì davvero
globo azzurro, densa, insostenibile
deità di asma… Fu
un movimento brusco
che lo ridestò da questa parte
della ferita, dove giunse solo – cavo
d’acciaio
per i tiranti della mente, bulbo
oculare e
vento sottile
planato con il suo silenzio sulla valle…
Non seppe, poi, mai più di sé,
riavvolto, all’improvviso,
nel nastro di acque oscure, scomparve
nel canneto, in una scia di limo
e minuscoli insetti
che lo riconobbero, chiamandolo per nome.
Al suo risveglio – raccontano i saggi –
apparisti tu».

Continua a leggere

La poesia di Stefano Dal Bianco

Stefano Dal Bianco

Il filo

Camminando per la mia stradina al buio
ho attraversato un filo
di ragnatela, e me ne sono accorto
perché l’ho attraversato con la faccia
mentre camminavo.

Così mi accorgo sempre
quando un altro filamento mi attraversa,
ben diverso, anche se ora non ho tempo
di spiegare cosa sia, adesso,
che mi fa concentrare su qualcosa
di molto più importante,

però questo secondo filo
mi attraversa veramente
da parte a parte, e non importa
che ora non sia importante.

***

Come si riferisse a un vento che ora non c’è
sembrava avesse senso
la preghiera del castagno tra i castagni,
di una vita nel tempo dispersa e
presente lì nel varco
tra le fronde che apre alla campagna.

Ma come sarebbe se il vento
che ora non c’è non avesse
vegliato su noi sulla nostra, preghiera
di farci stare qui
in vista di un castagno
che si sporgeva alto tra i fratelli.

***

Adesso l’ombra mia e del lampione spento si confondono
una sull’altra, e vanno sull’alloro.
Quando il sole era alto
hanno potato e abbassato la siepe
ma la sua carne fitta
la sua densa sostanza proietta
di sole in sole sempre su se stessa
l’identica figura
covandola nel fondo
in sua semenza scura.

***

Spazza la terra oggi meravigliosamente il vento
e mi porta con sé, se non mi atterra.
Può darsi sia pericoloso uscire
per via dei rami che cadono schiantandosi,
ma il rombo che si insinua per le strade
quando si placa temporaneamente
lascia una specie di attesa,
di sospensione nell’insidia
che corre il rischio di convergere
in attenzione a sé,
sempre che la paura si trasmuti
in temerarietà, e poi in onnipotenza
e poi in quella strana pace
che hanno gli animali
quando ritraggono gli dei
e qualche volta noi. Continua a leggere

Una poesia di Fabio Pusterla

Fabio Pusterla

(Inedito, 2020)

Parola navicella parola libertà
la velavento solca il linguamare
forzando norme ordine bufere
solo tragitto desiderio del vero
la falceluna allumina le tenebre
nel viaggio arrischiato di arsura
quando nessuna rotta stella dà
fiducia ai naviganti in cupocielo
onda che rinvia onda dura nera
davanti insulsi lidi mete incerte
verità che s’accende tremalume
in notti lunghe e incubi d’attesa
breve chiarore in levità dell’aria
annuncia giorno sole lucepiuma
l’altissima forse speranza che va.

Fabio Pusterla

 

Nota dell’autore

Questa poesia ha rischiato più volte di finire nel cestino, ed è stata (forse) definitivamente riabilitata quasi per caso, mentre cercavo un testo adatto per rivolgere un augurio a pochi amici. L’origine di questo testo ha a che vedere con un tema sui cui sto lavorando da alcuni anni, il tema delle gabbie. Attorno a questa immagine sono nate parecchie poesie, dentro le quali le gabbie svolgono principalmente una funzione tematica o simbolica. Ma ad un certo punto avevo pensato di tentare anche un’altra via, e di costruire una gabbia formale, dandomi delle regole strette da rispettare; credo di rammentare un vago progetto di gabbie multiple, con forme diverse, come si possono vedere in quelle vaste prigioni che sono i giardini zoologici. Immaginavo di costruire voliere, terrari, recinti di parole, quadrati, rotondi, rettangolari o romboidali. Poi, quel progetto troppo teorico e troppo ambizioso è più o meno scomparso nel nulla; ma dalle sue ceneri deve essere nata questa poesia, originata, come capita a volte, da un grumo di parole formatosi più o meno da solo nella mente: parola navicella parola libertà. Il resto si può immaginare; ma se ora guardo il filo interno di questo mesostico, la traccia traballante che lo attraversa in diagonale, non vedo tanto l’imperfezione geometrica; piuttosto penso al tracciato sinuoso di una nave rompighiaccio, o a una cicatrice che non sa scomparire del tutto. È una navicella incerta questa, ma non del tutto abbandonata ai venti e alle correnti; non un bateau ivre, piuttosto un guscio di noce che insiste.

Lugano, dicembre 2020

Continua a leggere

Angela Leighton, “A Lighthouse”

Angela Leighton

La poetessa e studiosa inglese Angela Leighton ha scritto una poesia per commemorare Anne Stevenson, che ci ha lasciato il 14 settembre di quest’anno. È stata pubblicata su TLS, The Times Literary Supplement, del 16 ottobre.

Amica di Anne da molti anni, Angela ha voluto ricordare con i suoi versi alcuni aspetti del suo carattere ben noti a lei e ai suoi lettori, quali l’impegno serio e costante nella poesia, durato una vita, e il sense of humour che la portava a fare un uso giocoso del linguaggio e le permetteva di affrontare con spirito lieve anche i momenti per lei più dolorosi.

Anne Stevenson

Anne Stevenson aveva da poco pubblicato quello che lei stessa prevedeva sarebbe stato il suo ultimo libro, dal titolo profetico, Completing the Circle (che ha voluto dedicare alla sua traduttrice italiana).

Il titolo è tratto dalle Elegie Duinesi di Rilke e, come lei stessa dice, esprime il lungamente meditato convincimento che “la morte è il giusto e naturale completamento del cerchio che accettiamo e riconosciamo essere la vita”.

Questa consapevolezza serena riecheggia fin dalle prime parole della poesia di Angela Leighton, in cui l’amica ricorda una frase scherzosa di Anne a commento dei suoi disturbi cardiaci : “Ariel flutters” . È un gioco di parole, purtroppo intraducibile, basato sull’assonanza tra il nome di Ariel, lo spirito dell’aria, uno dei personaggi della commedia La tempesta di William Shakespeare, e “atrial flutter”, il termine medico che indica la fibrillazione atriale, un’aritmia cardiaca che i pazienti avvertono come uno sfarfallio del cuore. Ha voluto lasciarci con un sorriso. Continua a leggere

Enrico Fraccacreta, “I cigni neri”

Dalla spiaggia scura del lago
i cigni neri prendono il largo,
così eleganti i cigni neri
con quei becchi rossi scintillanti
attendono la corsa dei ragazzi
a volte confusi nella mente.
Si stringono le mani emozionati,
li portano alla gara sulla riva
con gli occhi alla bandiera del maestro
lo sparo e il pugno in cielo dell’autista.
Mario che salta in prima fila
perde tempo guardandosi le gambe
Fuggianill di lato passa avanti
stringe i denti sul colosso di Rodi
Filippo cambia marcia e corre dalla madre
spinge Federico II uscito dal castello
che si volta e cerca Graziellina,
non ancora partita
convinta di doversi ancora sposare
s’aggiusta i capelli sulle onde
sbatte le ciglia nell’aria imprigionata,
l’applauso partito dalle nuvole
che alza in volo i cigni neri
navigatori del sortilegio,
nel filo d’orizzonte quando scocca
la campana dell’ultimo giro
sul filo del traguardo stanno urlando
i cigni liberati dalle piume.

*

A lezione di botanica ci fa un cenno la mimosa,
gli ultimi ciclamini addirittura si presentano
quasi volessero esserci ancora,
dopo la pioggia la primavera spinge
le erbe crescono sotto i nostri occhi,
le corolle si spalancano quando ci chiniamo a studiarle
anche il bosco è vanitoso.

Anna è seduta sotto un gelso bianco
con l’indice della mano fa cerchi sulla torba
forse ricorda qualcuno,
per la prima volta la sento parlare
mormora che un’atmosfera
si annuncia con il profumo del vento leggero,
di solito pesca la giovinezza della menta
prima di diventare un incantesimo,
lei è sorella degli stati d’animo
insieme corrono, s’inseguono a vicenda
giocando nel paesaggio,
poi si accordano per cercare l’ultima sorella
quella ribelle che sparisce e fatichi a ritrovarla
perché si nasconde, potrebbe essere ovunque
anche qui, mimetizzata nel verde delle piante
la speranza. Continua a leggere

Due inediti di Iole Toini

Iole Toini

Un Oh basterebbe

Dopo la prima curva, all’ingresso del sentiero,
punture gialle di fiori mi svegliano.
Il becco della terra si schiude. Ciuffi d’erba
guizzano come pesci intorno ai sassi. I sassi
zigzagano fra cespugli di pino mugo e
rododendri. I piedi sono cavalieri in groppa al
verde.

In alto, gruppi di gracchi – indocili come tutto in
questo luogo – si allungano in vasche d’aria.
Nessuno è solo qui; tutto gorgheggia in
un persempreamore.

Senza l’ingombro di pensieri ogni cosa è
rivelata.
Ma sono i tentacoli di una lumaca che
squittiscono da un muretto a secco a esplodere
piena la gioia che si infilza in ogni punto visibile
e non visibile.

La bocca inghiotte ed è inghiottita – dentro
le asole dei larici, nei ronfi dei
gufi, nei trisavoli dei ceppi dei pini.
È vero quindi, si può toccare Dio e la sua
altitudine.

Da sopra la testa, i massi più grandi tengono
d’occhio ogni cosa con un mirino tanto potente
quanto – forse – scarico di miccia.

La fiamma della cima è ancora lontana e io
arranco dicendole vuoi essere mia amica?

Qui niente è complesso, tutto fonde in sé e in
altro da sé travasa; e la luce e i fili d’erba e me
siamo sui bastioni a chiamare, a larghe braccia:
avanti! Continua a leggere

Lo scrittore messicano Daniel Saldaña París

Daniel Saldaña París

18

Quisiera escribir sobre la escritura, como un bardo que se muerde la cola.
Pero no llego: muerdo
la monotonía.
Lo que me recuerda:
nunca supe bien lo que es una peonía.
Me da pena decirlo
pero tampoco sé decir
cómo es un mirlo.

Volviendo a la prosa: anoche tuve la impresión de que he desperdiciado al menos cuatro meses en los últimos tres días. Escucho música de baile o me dejo llevar por internet hacia un naufragio sin tema. En vez de vida interior tengo unos buenos audífonos. A veces retengo frases que he leído por error y no sé cómo borrarlas: “¿Cuál es la caída de voltaje en un diodo de silicio?” ¿Es esta meseta lo que se conoce como edad adulta? El fruto, dice el lugar común, siempre cae en el instante puntual de su cumplimiento.

Pedazo de tiempo: has llegado a ser mi creación más refinada;
fuera de ti no hay nada.

18

Vorrei scrivere sulla scrittura, come un bardo che si morde la coda.
Però non ci riesco: mordo
la monotonia.
Questo mi viene in mente:
non ho mai saputo bene cosa sia una peonia.
E non è bello da riconoscere
ma non so nemmeno dire
com’è un merlo.

Tornando alla prosa: ieri sera ho avuto l’impressione di aver sprecato almeno quattro mesi negli ultimi giorni. Ascolto musica leggera o mi lascio trascinare da internet verso un naufragio senza tema. Invece di vita interiore ho dei buoni auricolari. A volte trattengo frasi che ho letto per sbaglio e non so come cancellarle: “a quanto può arrivare il calo di tensione in un diodo di silicio?” E’ questo altopiano quello che si conosce come età adulta? Il frutto, dice il luogo comune, cade sempre nell’istante preciso del suo compimento.

Pezzo di tempo: sei diventato la mia creazione più raffinata;
fuori di te non esiste niente.

3

La cita de Byron que me enviaste me deprimió mucho a las 7:55, una hora récord. Fue una de esas tristezas repentinas que me hacen planear el playlist de mi velorio. ¿A qué quieres jugar hoy: a los parámetros o a las categorías? Ambos tienen sus ventajas: el uno organiza provisionalmente nuestros afectos y el otro domestica las cosas del mundo. (Mi categoría favorita es “Objetos que empiezan por la letra M”.) Los parámetros, claro, y aunque no nos encante, son más lo nuestro: podemos hacerlos y deshacerlos y darles la vuelta en el mismo día: es un juego infinito que, en cierto sentido, diluye nuestro deseo.

3

La frase di Byron che mi hai inviato mi ha intristito molto, erano le 7.55, un’ora record. E’ stata una di quelle tristezze repentine che adesso mi faranno creare la playlist della mia veglia funebre. A cosa vuoi giocare oggi, ai parametri o alle categorie? Tutte e due hanno i loro vantaggi: una organizza in prospettiva i nostri affetti e l’altra addomestica le cose del mondo. (La mia categoria favorita è “Oggetti che iniziano con la lettera M”.) I parametri, certo, che forse non ci piacciono troppo ma sono più nostri: possiamo farli e disfarli e rigirarli nella stessa giornata: è un gioco infinito che, in un certo senso, diluisce il nostro desiderio.

6

La Primera Persona tiene la secreta convicción de que las hormas para zapato son en realidad complejos aparatos de tortura. Tiene, como Constanza, una arraigada fascinación por los autómatas, aunque no es, ni remotamente, un erudito. Su concepción de la prosa es más bien burda: red que sirve para atrapar a las mariposas del sentido. La Primera Persona se refugia en una región paradisíaca de sí mismo cuando sospecha que afuera todo se está yendo a la chingada. Sus circundantes no lo advierten, excepto quizás por el hecho de que tiene blackouts ortográficos.

6

 

La Prima Persona ha la segreta convinzione che le forme per le scarpe siano in realtà complessi strumenti di tortura. Prova, come Constanza, una profonda fascinazione per gli automi, anche se non è, neanche alla lontana, un erudito. Il suo concetto di prosa è alquanto grossolano: rete che serve per catturare le farfalle del senso. La Prima Persona ha il suo rifugio in una regione paradisiaca del proprio sé quando sospetta che fuori tutto sta andando a rotoli. Coloro che gli stanno intorno non se ne accorgono, salvo rendersene conto quando ha blackouts ortografici.

49

Estoy sentado en el balcón
atento al vaivén
de los altos bambúes
y al movimiento frenético de los gorriones
antes de la tormenta.

En mi pecho también se balancea
remotamente oriental
un sentimiento
y pienso, acompañado
por los sonidos fraternales,
que la desesperación
es el revés
de la perseverancia.

Uno de los gorriones
es absoluto
y guarda bajo las alas
un país entero
y una vocal.

49

Sono seduto sul balcone
attento all’oscillazione
degli alti bambù
e al movimento frenetico dei passerotti
prima della tempesta.

Sul mio petto ondeggia anche
remotamente orientale
un sentimento
e penso, accompagnato
dai suoni fraterni,
che la disperazione
sia il rovescio della perseveranza.

Uno dei passerotti
è assoluto
e conserva sotto le ali
un paese intero
e una vocale.

Continua a leggere

Il poeta estone Igor’ Kotjuch

Igor’ Kotjuch

Poesia e Covid-19

di Igor’ Kotjuch

они обсуждают сериалы
они советуют что почитать
они выкладывают снимки ужина с вином
они спорят о политике
они воплощают в жизни картины художников
они поддерживают флешмоб «портрет в ч/б цвете»

сидят по квартирам
почти никуда не ходят
карантин

а мы думаем

что будет, когда у них кончатся деньги
что будет, когда кончится инерция прошлой жизни

что тогда будут обсуждать
что тогда будут советовать
что тогда будут выкладывать
о чем тогда будут спорить
что тогда будут воплощать
какие флешмобы тогда будут поддерживать

мы не знаем, как долго это продлится
мы не думали заводить себе столько питомцев

discutono delle serie tv
consigliano che cosa leggere
pubblicano foto della cena col vino
discutono di politica
incarnano nella vita i quadri degli artisti
sostengono il flashmob “ritratto in bianco e nero”

stanno negli appartamenti
non vanno quasi da nessuna parte
la quarantena

e noi pensiamo

che cosa accadrà, quando loro finiranno i soldi
che cosa accadrà, quando finirà l’inerzia della vita passata

di che cosa discuteranno allora
che cosa consiglieranno allora
che cosa posteranno allora
di che discuteranno allora
che cosa incarneranno
quali flashmob sosterranno allora

non sappiamo quanto a lungo durerà
non pensavamo di trovare tanti allievi Continua a leggere

Simoncelli, cinque poesie

Stefano Simoncelli, ph. di Daniele Ferroni

COMMENTO DI MATTEO BIANCHI

Dallo sfondo sfocato sono le forsizie a occupare lo sguardo del lettore con i loro fiori di un giallo intenso, ovvero le riserve del presente. Le piante in questione che simboleggiano l’anticipazione di qualcosa, la sua venuta fuori contesto, separano lo spazio vitale del custode dalla casa in disfacimento a cui bada, quasi fosse la carcassa di un passato irreparabile, insolvibile. In un momento tanto incerto e drammatico che impone un severo isolamento, il poeta si nasconde dietro il vissuto di qualcun altro proprio per non rinnegare il suo e metterlo a fuoco. L’io lirico non trova un senso alla memoria che sbiadisce, così la dimora fatiscente svuotata dalle boutade gravose del tempo riecheggia la Villa chiusa di Corrado Govoni, che circondata da una siepe pativa la stessa «solitudine forzata», la stessa ruggine, ma che aspettava la pace. D’altronde, Govoni era solito ricavarsi periodi di distacco totale dal brusio quotidiano per riconoscersi attraverso un ascolto più limpido di sé. Continua a leggere

Kathika Naïr, poetessa e coreografa

Kathika Naïr

Habits: Remnants

Listen, let’s get this straight: it isn’t you I miss, not you at all.
Warm rain—its scent and smoky song are what I miss, not you at all.

Nor all that jazz – the moon, the stars, the wine, the flame – that you conjured
before our verses grew old. That was a promise, not you at all.

A sky, an earth, this air, the awning, your mouth, my tongue, the impress
of skin on skin—these I hold as love’s edifice, not you at all.

Last week at the laundrette I tripped; a block-printed quilt snagged the heart.
A new voice pulled away my feet from the abyss, not you at all.

Yes, I’ve grown to like pine seeds and salted caramel, to worship
Steve Reich. But, surely, that’s what they call osmosis, not you at all.

I swear I’d spring-cleaned you from the mind. So I feign, when I find
slivers of laughter, a cinnamon-coloured kiss, not you at all.

The past invades our present, still imperfect yet continuous;
becomes a mutant who sings from each interstice, not-you-at-all.

By the Pleiades, by the quicksilver moon, I renounce the heart’s
feints, I will drink from this harvest chalice—it’s all you, after all.

Abitudini: Resti

Ascolta, parliamo ora chiaramente: non sei tu a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Pioggia tiepida — sono il suo odore ed il vapore della sua armonia a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

E neppure tutto quel jazz mi manca – la luna, le stelle, il vino, quella fiamma –
eri tu a chiamarli in causa
prima che fossero i nostri versi ad invecchiare. Era una promessa quella,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

Un cielo, una terra, quest’aria, la tenda per il sole, la tua bocca,
la mia lingua, la traccia
pelle contro pelle — sono queste le cose che trattengo come un domicilio dell’amore,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

La scorsa settimana, alla lavanderia a gettoni, sono inciampata; una trapunta a quadri
mi ha afferrato il cuore
era una voce nuova a togliermi davvero il piede dall’abisso,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

Sì, ho imparato ad apprezzare i semi di pino ed anche il caramello con il sale,
ad adorare Steve Reich.
Ma di sicuro questo è quello che qualcuno chiama osmosi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

Ti giuro: è con le pulizie di primavera che poi ti avrei voluto fuori dalla mente. Se trovo
qualche scheggia di risata, insomma,
o un bacio color cannella, faccio finta, è solo quello,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.

Il passato invade il nostro adesso, ancora così imperfetto:
ininterrotto;
è ormai un mutante che canta da ogni intercapedine,
non-tu-davvero-tu-non-c’entri-niente.

Dalle Pleiadi, da questa luna d’argento vivo, io rinuncio
alle finte
del cuore, berrò da questo frutto del raccolto—
—e, in fondo, sei soltanto tu, dopotutto. Continua a leggere

Alessandro Bellasio, “Il laccio antartico”

Alessandro Bellasio / credits ph. Dino Ignani

IL LACCIO ANTARTICO

​​​​​​                           Per C. e M.

I.

Risalendo, a colpi di gomito,
per questa tumida, strenua
vena accidentata, respiro adesso
la mia caligine, tutti gli anni
diluviati addosso, e i padri che ho bruciato
in una antica
camera iperbarica.
Lasciami, ti dico, lascia
mi – io
sono di lato
ai miei pezzi e vi galleggio
al centro, come un sughero

in questa stanza
solitaria, dove mi addormenta
senza amore, rimini… Io,
con la punta
più gelata del mio ago,
ho toccato
questo vento di metallo, quell’
artide lontano
che mi somiglia e parla,
quel pensiero
troppo vero
di me, e in me
mia calotta carnivora – ventosa
a tentacoli
che mi divorava. Io
so
che non c’è resurrezione, nessuna
luce
in fondo al corridoio, oltre questo perdere
nitido, assoluto – a questa
stanza calpestata
da un’astinenza
che sento inginocchiarmi a notte,
quando fisso, perfettamente solo,
ciò che in questa vita è stato
metà di un carcere, metà del nulla.
Ricordatevi: mai, qui io,
ho chiesto a voi di amarmi. Continua a leggere

Giovanni Perri, rabdomante della parola

Giovanni Perri

COMMENTO E SCELTA DEI TESTI DI GIOVANNI IBELLO

Giovanni Perri, classe 1972, vive a Napoli. E’ laureato in lettere presso l’ateneo fridericiano con una tesi in storia dell’arte medievale. Lavora in Stazione centrale, gestisce un’edicola, luogo archetipico di incroci e fughe. Vende magazine, quotidiani, biglietti da viaggio, souvenir per i turisti. E non è un caso che la nella parola di Perri, regni il senso dell’attraversamento, del luogo precario dove non è concesso ristoro. Giovanni è un rabdomante della parola, uno sregegolatore che fiuta il segno, che parte dal “segno” della cosa reale per sfigurare e tradire ogni legge. Le poesie qui proposte sono tratte da un volume di prossima pubblicazione.

 

Dev’esserci un nome
per dire dove sono quando scrivo
scavando, un nome, che
porti con sé l’odore forse
di qualche campagna bruciata
un nome di donna o di città
che abbia ai fianchi una collera antica
e nella bocca un rudere coperto di sterpaglie;
un nome che entri nella parola casa
e si nasconda per sempre in un punto impreciso del soffitto
nella tenda lì in basso macchiata
da una qualunque ora di paura
uno per dire è sera se le luci rientrano nei tuoi capezzoli
è giorno se l’incendio l’ho visto partire dai capelli o dalla voce. Continua a leggere

Alessandro Anil, (senza titolo)

Oggi, il frutto dell’inverno è caduto, ho sentito all’alba
il suo tuffo sordo e tanto preciso, quasi dormivo.
Ravvivo ora l’ascendere di un qualche ricordo,
stranamente verticale, e mi dispiacerà penso,
non trovare la brina sui vetri, il fumo dei corpi
nell’aprirsi della bocca…
Ritiro il fuoco dalle case, a poco a poco, la solitudine
dai letti, dalle antiche scale di un albergo semivuoto
dove tu scendi a passi lenti ed io…

Mi affaccio di rado sai, sempre più di rado,
sul condominio di questi corpi che si aggirano
nelle contrade di una metropoli o un’altra, penso
a tutti noi oggi, alla luce che apre l’alba alla sera,
al treno che porta da Padova a Mira, a te
che ti farai nei secoli minerale e all’acqua che ti compone,
silenziosa… come se, in uno specchio
si raggelassero le nostre forme:
tutta la gioventù e l’infanzia, l’apnea rossa di primavera
e la già presente attesa, ora, che l’inverno
entra nella sua manovra, i primi fiori tra l’erba
e il ciglio della strada e la frenetica e frenante idea
di essere nella natura, ma di non osare.

Alessandro Anil, (Senza Titolo)

Continua a leggere

Giovanni Ibello, (senza titolo)

Giovanni Ibello /credits ph. Dino Ignani

Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale:
la terra rovesciata, il sudario fertile.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepina.
C’è ancora un intreccio di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate
una valanga d’aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola, non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
La mia estasi rimane
lettera morta sul greto.
Brindo al disamore
al cuore profanato nell’acquaio
agli insetti fulminati nell’insegna.
Ci lega la parola feroce,
una giostra di penombre.
L’incanto di una teleferica,
l’esatto perimetro di un grido.
Tu che muori
in quell’assillo di aranceti
che ritorna.
Era l’affanno antico,
l’anemone del giorno
divelto sopra i silos.

 

Giovanni Ibello, (senza titolo)

Continua a leggere

Nina Nasilli, “Congedo”

Nina Nasilli

CONGEDO

(lontano, un balzo di balena al largo
nessuno lo sa, resta morto
anche il mare
ma, se lo dici, anche piano, io lo vedo
o lo posso sognare)

dell’imbarcazione che solca le onde
intuire la forma
per la luce che la riluce e la splende
e un baluginio qua e là ne tocca
qualche dettaglio
un rostro, una cromatura
che assapora il moderno
o del legno di miele o rosso
una lucida levigatura
una modanatura
ma senza esperienza alcuna
della barca, che non esiste
eppure è viva sul mare che sta arando
con la sua schiuma l’onda che incontra
e il ritorno dell’onda se non deborda

e ha premura di porto, perché lo sa
come Ulisse lo sa
che senza approdo non si riparte
e riposa il navigante
sfama la sua parte sociale
in un illuso istante amicale
che si aggruma attorno al brodo
col pane
ma è solitario ogni viandante
(lo è il poeta in scrittura
che non si ferma: o si perde
tra i rumori rumorosi degli altri
i baccani
i pettegolezzi
i rovi dell’inutilità quotidiana
questa agitata vanità, con le spine)

tra le mani la penna, il timone
l’impronta accaldata della pelle
di chi ieri ti dormiva accanto

Nina Nasilli, CONGEDO

Continua a leggere

Ida Travi, ( noi lo chiamiamo Antòn )

Ida Travi

( noi lo chiamiamo Antòn )

 

Noi lo chiamiamo Antòn
ma non si chiama Antòn
volevo dirtelo

E io, io non mi chiamo Sunta
chissà come mi chiamo, io

– mi riconosci? –

Quando saremo sul monte chiederemo
al cielo, e ti darò il battesimo

Io sarò Sunta, lui sarà l’Antòn
tu sarai Kraus, e dietro verranno
Fedòr e Katarina

Il cielo si aprirà come una tenda
e allora saremo liberi
Kraus, saremo liberi!

Ida Travi, (noi lo chiamiamo Antòn)

Continua a leggere

Tommaso Di Dio, (senza titolo)

(Tommaso Di Dio/ credits ph. Dino Ignani)

Provo a parlare con te; provo
ad entrare.

Attraverso la luce del sole
a settembre, di sera, quando sta
fra il verde degli alberi e il vento.
Attraverso lo schermo del cellulare
attraverso la pressione
del piede sul fango oppure con l’alzare delle braccia
con la nuvola
che evapora dalla schiena dei cavalli.

Tutto questo sei tu, in questo mondo testo.
E mi parli attraverso
le lettere infinite dei poeti e la bocca di uno
spalancato paesaggio. Infine, sopra dovunque io scriva
tu di fretta scrivi questa scritta: dove hai amato
troverai un ostacolo; una porta, poi
un gradino. Scenderai
passo dopo passo. Lì
noi parleremo.

Tommaso Di Dio, (senza titolo)


Continua a leggere

Federica Giordano, (senza titolo)

Federica Giordano

Le nostre tante e piccole vite,
che stanno sul mondo come peli
di un puledro tremendo,
sono materia straniera
verso cui ho tanto e segreto amore.
Di tutte, la mia è certamente quella che meno comprendo, sospesa com’è
tra bisogno primario e desiderio di altezza,
quella che più profondamente riesce deludermi e ad esaltarmi.
Nessuno mi è più estraneo di me stessa
se mi immagino sul mondo.
Solo il suono puro, la corda sfregata sull’arco,
mi fa sentire davvero radicata a questa terra.

Federica Giordano, (senza titolo)

 

Continua a leggere

Lorenzo Babini, “Fiaba”

Lorenzo Babini

Fiaba

Nella tua camera, sola, nella camera
silenziosa, in cima a una torre
circondata da sabbia e da un alto fossato,
con giardini panteschi sparsi qua e là nella valle …

ti hanno rinchiusa qui stirpi di antenati fenici,
popoli venuti dal mare, vecchi marinai,

e io che ti guardo in questo specchio di luce da migliaia di anni
e incanutisco, guardami, sono antichissimo
sono vecchissimo anch’io.

Lorenzo Babini, Fiaba


Continua a leggere