Ritratto di giovane poeta

Federico Carrera, 2020 credit ph Mauro Terzi

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Appunti per un ritratto-da-farsi
di Federico Carrera

 

Tratteggiare un ritratto di sé a ventidue anni non è cosa facile: la mano trema e il pennello sembra sempre inspiegabilmente asciutto. Si ripiega allora sulla matita, sempre che la punta non si spezzi, il foglio non si squarci e così via. Ma a me piace usare la matita. Sono in confidenza: prendo appunti a matita, sottolineo libri e manuali a matita.

La penna è troppo definitiva. Riconosco che si tratta di un segno di incertezza, di insicurezza, ma la matita mi mette al riparo, dall’errore e dalla definizione. Ho poco più di vent’anni, dicevo. Forse si pretende da me, adesso, il ritratto di un ventenne, di un giovane studente universitario.

Ma non so bene da dove partire. Mi piacerebbe avere un respiro generazionale. Mi è negato alla radice, non ne ho l’indole. Ma per un ritratto forse è bene partire da lontano – la prospettiva migliore dalla quale tentare di descriversi.

Riconosco (abbozzo) due stagioni nella mia vita: una in cui si piange, una in cui non si riesce a piangere. È stato tutto qui, il mio vivere, tra questi due poli.

Fino ai quattordici anni, ho pianto per ogni cosa – dal dolore al piccolo capriccio.

In particolare, mi commuovevo sinceramente per i film che guardavo – strumenti emotivamente ben calcolati. In effetti, a quell’età (a dire il vero già da qualche tempo prima, forse da sempre), il cinema ha incominciato ad avere un’importanza capitale per me. E continua tutt’ora ad averne. Al punto che, quando mi chiedono cosa io voglia fare ‘da grande’, mi trovo sempre a rispondere con la stessa coppia di parole: “il regista”.

Il cinema ha aperto ai miei occhi da pre-adolescente ancora-bambino le porte di un mondo altro (Altro?), fatto di immagini e colori, di musiche ben studiate e colpi di scena, ordinato in schemi narrativi ora nascosti ora incontrovertibili ora curiosamente liberi. Un mondo del tutto preferibile, insomma, a questo nostro quotidiano, in cui viviamo e che siamo abituati a chiamare reale.

Tuttavia, per me – e in questo non posso mentire – il cinema è sempre stato più reale della realtà, più importante, più degno di attenzioni e di cure. Ma non voglio divagare.

Dicevo: un tempo in cui si piange, un altro in cui non si riesce. Continua a leggere

Gian Mario Villalta, “Una fantasia vocazionale”

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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di Gian Mario Villalta

Un autoritratto presume la presenza di uno specchio. Non sono uno storico della pittura, ma è sensato immaginare che ci sia una relazione cronologica tra l’arte di fabbricare specchi sempre più perfetti e l’autofigurazione via via più complessa del soggetto che ritrae se stesso sulla tela. Fino alla deformazione e alla moltiplicazione che la fotografia e il cinema, questi nuovi specchi capaci di catturare l’istante, suggeriscono e forse impongono alla presenza di sé e del mondo figurata in una visione bidimensionale.

La parola, d’altra parte, se pure nell’opera di poesia vorrebbe irraggiare e insieme accentrare una dimensione più stratificata e molteplice del tempo, quando viene al servizio di una narrazione che ha obblighi di relazione più stretti con i fatti, le date, le testimonianze, deve decidere per una quota di fiction, che diventa – a proposito di se stessi – inevitabile auto-fiction. E anche in questo caso, quale specchio si decida di scegliere e dove lo si voglia collocare rimane decisivo.

Una via percorribile è quella della cosiddetta “carriera poetica”, che annovera sodalizi, detta la scansione delle pubblicazioni, menziona eventuali riconoscimenti. Però, per quanto mi riguarda, l’espressione “carriera poetica”, la si voglia ridurre a mera concatenazione di eventi o esaltare in termini di biografia leggendaria, appare inadeguata. Mi pare di non aver fatto altro che la stessa cosa, per decenni, pur cambiando nella vita, aggiungendo studi e relazioni umane: aver voluto scrivere una poesia, averci provato, obbedendo a necessità di espressione e di confronto rispetto alla realtà più ampia del mio stare al mondo e a quella intima del quotidiano esistere. Se poi per “carriera” si volesse intendere un progresso ufficiale di risultati raggiunti, non si può certo usare questo nome per la considerazione che pochi hanno avuto in tutto questo tempo per quello che ho scritto. La situazione della poesia nella cultura attuale permette inoltre a pochissimi, credo, e non certo a me, di considerare la sequenza dei propri lavori poetici nei termini di un pubblico riscontro che abbia una qualche importanza.

Resta il fatto che la poesia e la mia vita sono legate sia nei fatti che nella dimensione interiore così strettamente da segnare ogni successiva sequenza temporale, dall’infanzia, all’adolescenza, dalla maturità all’oggi, quando “maturità” è già una parola da usare con indulgenza.

Potrei raccontare di un ragazzo di diciassette anni che già da tempo legge poesie e subisce il fascino della musica allora definita progressive: vorrebbe diventare come quel Peter Sinfield che figura parte creativa dei King Crimson (non solo un “paroliere”) e scrive i testi di In the Court of the Crimson King e di Islands. Quel ragazzo ha letto Montale, sa che ci sono Sereni, Zanzotto, Sanguineti e altri poeti (molti sono stranieri) menzionati nel paginone centrale del poco più che neonato quotidiano «La Repubblica», che acquista ogni giorno. Cerca in biblioteca, legge, compra qualche “Oscar”. Un giorno, in una cartolibreria, è colpito dai versi che compaiono sulla copertina di un piccolo libro. Costa poco. Lo compra. Pochi minuti a piedi e si siede sulla panchina di un parco per leggere. È La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, nella “bianca” Einaudi. Legge tutta la sequenza. Rilegge. Quando si alza da quella panchina non lo sa ancora, ma è accaduto: diventerà un poeta.

Oppure potrei raccontare come quel ragazzo, sei anni dopo, arriva alla prima pubblicazione avvenuta “alla macchia”, come si diceva una volta, grazie all’amicizia maturata all’università con Roberto Cresti e Claudio Pasi, autore della precedente, prima pubblicazione, in quella nostra “casa editrice” alla quale avevamo dato un nome: Niemandswort, e collocato la sede presso la Galleria Fabjbasaglia di Bologna (Fabj il cognome di Luciana, la madre di Roberto, che ricordo con affetto).

  Niemandswort era il segno di un’affiliazione: gemmava da Die Niemandsrose, il libro del 1963 che rappresentava allora per noi la riva raggiungibile dell’opera di Paul Celan. Raggiungibile anche praticamente, perché l’opera era disponibile intera in versione francese, quando in italiano circolava solo l’antologia mondadoriana  del 1976. Un numero di «Études Germaniques» a lui dedicato dopo la morte ci aveva permesso di vedere il suo viso in una fotografia.

Avevamo da poco passato la soglia dei vent’anni e a quell’età, quando la vita si rivela nella sete di presente, non è raro che le passioni abbiano bisogno di attraversare enigmi per incamminarsi in un deserto di lontananze. La poesia era per noi quel deserto, o almeno la sua parte più misteriosa, e Paul Celan aveva scritto le parole che ne disegnavano l’enigmatico paesaggio. Perché proprio lui – leggevamo “tutti” i poeti, e molti erano quelli che ci appassionavano – perché proprio Celan allora? Me lo sono chiesto spesso.

So che della memoria ci si può fidare solo fino a un certo punto. E quindi provo a dare la risposta di oggi a quello che posso ricordare (o indovinare?) di allora.

La voce di Celan era quella dell’ultima profanazione possibile, ovvero l’ultima possibilità di scagliarsi contro il sacro, non perché c’era, ma perché non c’era più, dileguato prima che potessimo fare altro che indovinare la sua assenza. Era un modo per chiamare qualcosa o qualcuno che non c’era più e non sarebbe tornato. Per questo “il sonno di nessuno”, che dall’epitaffio sulla tomba di Rilke (Rosa, pura contraddizione. Brama d’essere il sonno di nessuno sotto infinite palpebre), sortiva come “rosa di nessuno” nel titolo di Celan, diventava per noi la parola di nessuno,Niemandswort, ovvero non di un “io” che padroneggiava la lingua per comunicare un contenuto, quanto  l’abitare la lingua stessa con una voce senza nome.

Forse erano soltanto i nostri astratti furori. Ma se guardiamo alle date, un’onda s’era già levata a cancellare il mondo della nostra infanzia e della nostra prima formazione. Quel mondo era gravato per me da due silenzi. Uno pesava sul tempo prima di me, prima che io nascessi, sugli anni della guerra e delle sue conseguenze. La biologia, prima di tutto, e poi i meccanismi della memoria, vogliono che si guardi avanti e non più ritornare sulla paura e sul dolore. Però il taciuto, in famiglia e nell’ambiente del paese dove vivevo, le frasi interrotte al mio arrivo, l’evasività alle domande, erano un velo oscuro su eventi trascorsi ma ancora presenti, che percepivo e, non comprendendo, creava in me un senso di inadeguatezza e di precarietà. L’altro grande silenzio era quello della campagna: trasformati in una fabbrica a cielo aperto, sconvolti dalle ruspe e dai diserbanti, i campi sui quali avevo vissuto l’infanzia e l’adolescenza non risuonavano più dello stormire degli alberi e del canto degli uccelli. Al loro posto i rumori dei motori, dei silos, delle sirene delle fabbriche.

Allora “in nessun luogo si chiede di te” non era solo un verso di quel poeta, ma una voce che diceva prima di tutto l’intima lacerazione del suo stesso significare: si chiede di te, la chiamata non tace, ma i luoghi non hanno più nome né destino.

Perché Celan: perché non pensavamo di fare letteratura – avevamo vent’anni – ma credevamo di doverci giocare sulla parola la posta più alta al tavolo della vita. E scrivevamo quello che confusamente ci pareva potesse corrispondervi, il libro di Claudio meno confusamente del mio, più maturo e compiuto del mio.

Non disponevamo neppure di una vera tragedia, della quale non si parlava, e che soltanto intuivamo: eravamo soltanto nati sulle sue ceneri, che si erano mostrate fertilissime, come sempre le ceneri sono, e cresceva rigogliosa la società dei consumi e del tradimento di ogni ideale (chiedo scusa per quest’ultima parola, imbarazzante, ma allora la si usava, per le ultime volte, ancora).

Potrei raccontare, ancora, la prima uscita “ufficiale”, su «Alfabeta», una pubblicazione allora molto letta e prestigiosa, per interessamento di Antonio Porta. Poi ancora il primo volumetto di poesie (tra i giovanissimi “editori” c’è Davide Rondoni). Più tardi, ancora una volta decisivo, l’incontro con i poeti dei Quaderni italiani di Poesia di Franco Buffoni. Tra questi, Stefano Dal Bianco e Antonio Riccardi sono ancora oggi i miei primi lettori.

Potrei raccontare gli anni “a bottega” da Andrea Zanzotto, i primi libri che hanno avuto un po’ di riconoscimento, l’amicizia con Mario Benedetti.

Sarebbe sempre troppo e troppo poco. Sarebbe sempre amplificare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Già nel fare questi nomi mi  pento per aver taciuto molti altri con i quali la vita e la poesia si sono legati in tanti anni, nei quali a un certo punto è diventato importante per me il lavoro svolto nella poesia e con i poeti all’interno delle attività del festival pordenonelegge da più di vent’anni.

Alla temuta laconicità di una sequenza di pubblicazioni, c’è il rischio di contrapporre un romanzo autofinzionale che comporterebbe un numero esorbitante di pagine.

Allora propongo al lettore, già stanco per avermi seguito fin qui, un esperimento: cercare nella memoria e con l’immaginazione di ritrovare il momento più lontano nel tempo, dove collocare la “scoperta” della poesia e del poter essere poeta. Risalire, insomma, alle cause della felice patologia – che fa parte della “fisiologia” di ogni essere umano – e che in me si è così fortemente cronicizzata.

Le premesse: sono stato per sei anni un parlante il solo dialetto. Una lingua più che minore, veneta fuori da Veneto, al confine con la parlata friulana, che ha una forte caratterizzazione locale. Avevo coscienza delle principali differenze tra la lingua che parlavo quotidianamente e l’italiano delle occasioni ufficiali e della radio, ma le opportunità di usare quella lingua si presentavano raramente, e credo che le mie performance – se ci sono state – fossero davvero incerte. Continua a leggere

Alberto Bertoni, “Quasi un’autofiction”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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di Alberto Bertoni

 Volevo fare una narrazione storica, sì, ma che cogliesse soprattutto il passaggio dalla vita senza storia di tutte le infanzie al momento in cui il ragazzo comincia a diventare sociale, a capire se stesso. […] Ho cercato proprio di cogliere il primo palpitare dell’embrione sociale: per questo, forse, si potrebbe dire che il mio racconto è ancor più “viscerale” che storico. […] È una legge ferma, questa: che anche le viscere sono un mondo, che anche l’infinitamente piccolo ha tutte le caratteristiche del mondo più vasto che lo contiene.

(Giorgio Bassani)

Infanzia modenese   

 

Da un po’ di tempo, vado a letto presto. Tuttavia non ricordo i miei sogni e continuerò a non ricordarmeli. So che è un segno di insensibilità: ma, a contrappeso, ben fissati nella memoria volontaria, conservo tre ricordi vivi, che forse equivalgono a sogni, lontanissimi nel tempo.

Il primo è una scena a luci basse, nel tinello della mia casa di via Salvioli 21, prima periferia sud di Modena, dirimpetto alla linea dell’Appennino, io sul seggiolone, mia nonna che mi prepara una minestra succulenta, con un formaggino dentro, una pappa da bambino, che avevo molta voglia di mangiare, essendo stato da subito (ed essendo tuttora) un gran goloso. A un certo punto mia nonna si avvicina a questa minestrina, proprio quando mi appresto a divorarla, con una lattina verde scuro e un cucchiaio nell’altra mano, pieno di un liquido gialloverdognolo (era l’olio Sasso) con il quale vorrebbe rendere ancora più gustoso e nutriente il mio piatto. Io mi ricordo nitidamente – questo dipende senz’altro dal montaggio in tempi successivi di narrazioni diverse del ricordo – che di testa do un colpo al cucchiaio e lo faccio volare. Negli anni ho anche fatto riecheggiare nel mio udito interiore la frase che mia nonna – una dialettofona spontanea – deve aver pronunciato nella circostanza: “Al ragazȏl a-n gh’ piès menga l’òli”, cioè “Al bambino non piace l’olio”. Da allora, infatti, ho mangiato solo burro e strutto perché l’olio d’oliva, in tutte le sue forme ma soprattutto quando soffrigge con la cipolla, mi trasmette istintivamente e immediatamente l’impeto del vomito. A restare indelebile, di questo possibile sogno o lontanissimo flash, è la percezione tuttora molto nitida di quanto erano fioche e basse le luci nel tinello piccolissimo borghese che abitavamo, mentre sempre impagabile – a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell’anno – ho trovato e trovo la luce di quello specifico paesaggio emiliano, fra pianura e prima collina: pareggiata solo dai raggi obliqui di un’unica ora vespertina, in Provenza o California. Quella del mio protoricordo doveva essere una sera del 1957, al massimo del 1958, anni di pieno boom economico, a sentire i sociologi. Ricordo questo semibuio, che tuttora mi dà fastidio, come del resto il fioco e il catacombale, a meno che non si tratti di candele in una chiesa romanica: e preferisco le luci potenti delle partite di calcio o delle corse di cavalli in notturna, magari alogene nonostante la crisi energetica, perché le luci basse mi costringono a intrecciare infanzia e cimitero.

Il secondo ricordo, o sogno (in senso cronologico è forse il primo ricordo della mia vita, ma è molto più sfocato dell’altro), consiste nella linea blu del mare a Marina di Carrara, l’emozione della spiaggia, della sabbia che brucia sotto i piedi, è l’estate del ’56, ho quindici o sedici mesi. Un po’ cammino già (a muovermi e a biascicare sillabe sono un soggetto precoce) e mi ricordo lo slancio emotivo di quella visione primaria, il mio staccarmi dalle mani dei miei genitori (mio padre a destra, mia madre a sinistra) e lo scatto verso questa linea blu per tuffarmici dentro. Naturalmente mi acchiappano prima che io riesca a toccare l’acqua, ma dopo ho rivissuto altre volte lo stesso “convulso” – un sentimento radicato in mia madre – di quella spinta istintiva verso la riga scurissima del mare, contro la luce abbacinante dello spazio attorno. Sarà per questo che mi piacciono molto i quadri che sanno rappresentare in modo incisivo gli orizzonti: ma alla fin fine, non mi piace affatto tuffarmi nel mare senza che nessuno mi prenda al volo un attimo prima dell’impatto, di quel brivido di gelo che dentro di me equiparo da sempre alla morte.

Il terzo ricordo è sul balcone di casa ed è legato a un senso travolgente e spaventoso di vertigini: ne soffro tuttora, al punto che, modenese purosangue, non sono mai salito sulla Ghirlandina per paura di dovere, potere o volere sporgermi da un’altezza tanto estrema: che poi sono solo 86 metri, cioè nulla, a paragone dei grattacieli che poi avrei contemplato dal basso, attanagliato da un senso di vertigine non inferiore a quello che avrei provato raggiungendone la cima, di Manhattan, di Chicago o di Tokyo… A ogni modo, mi rivedo su questo balcone al terzo piano, attratto e respinto dal vuoto, mentre calcio un pallone rosso, poi lo prendo in mano, lo calcio ancora contro la ringhiera, quasi in un caleidoscopio spaventoso, nel rutilare di questo rosso accoppiato alla sensazione e alla tentazione suicida della profondità e dell’abisso che sono in agguato lì, come i puma sui rami, appena oltre la rete contro la quale scaglio il mio prezioso pallone. Queste sono, di fatto, le tre scene primarie che stanno tuttora alla base del mio immaginario.

 

Gioie, dolori, perplessità

 

A loro si affiancano le prime gioie: certi doni di Natale, innanzi tutto. Ci sto ancora sfrecciando sopra, adesso e qui, sulla prima bicicletta con le ruotine quando, lungo l’ampio corridoio di casa mia, scorrazzo su e giù per l’appartamento; o quando calcio il mio primo pallone di cuoio regolare contro l’armadio a muro che fa da porta, con l’atto definitivo e l’esito devastante che ovviamente m’impedisce di ripetere il gesto oltre la prima e la seconda volta: e così di diventare un calciatore anche solo decente. Poi mi ricordo un paio di guantoni da boxe che mi procurano una gioia pura, benché adesso la boxe mi risulti fastidiosa. E quindi la mia gioia pura coincide con l’attesa (che, come tutte le vere attese, mi sembra infinita) dei doni di Natale verso il tardo, tardissimo pomeriggio della vigilia, quando i nonni mi portano in giro con qualche scusa, così che mio padre e mia madre possano preparare i pacchi sotto l’albero. Questa è la gioia pura, intanto: altre ne seguiranno, però appena più contaminate dalla consapevolezza intellettuale e dalla capacità di fare architettura dell’attimo presente.

Ed eccola qui, qualcuna di queste altre. In una fase molto precoce, i primi dischi dei Beatles. Parlo ancora della scuola elementare (con l’Università l’unica bella e davvero formativa della mia vita), dove ho la fortuna di avere un compagno di classe, Massimo Mati, il cui padre vende dischi e quindi compro da lui – scontati – i 45 giri dei Beatles in tempo reale, cominciando con Please please me e Twist and shout verso la fine del ’63, a 8 anni: canzoni ma soprattutto ritmi (le parole ancora incomprensibili: e insomma la mia prima lezione di vera poesia!) che ascolto maniacalmente in giro per tutta la casa grazie al “mangiadischi” Philips, che intanto mi son fatto regalare in uno dei miei Natali bambini. Di quel vagabondare mi ricordo l’esperienza di choc, di spiazzamento che infliggo a nonni e genitori, in rapporto alla musica leggera – il melodramma è un’altra storia – che apprezzano loro, fra Claudio Villa e Gianni Morandi, con qualche tiepida tolleranza per Domenico Modugno. Continua a leggere

Paolo Febbraro

paolo_febbraroLa foto di Paolo Febbraro è di Dino Ignani

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da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Autoritratto (olio su tela, febbraio-aprile 2016)

Sono nato il 29 gennaio 1965, a mezzogiorno, più di venti giorni dopo la scadenza naturale della gravidanza. Non volevo uscire all’aperto: una suora ha dovuto far forza con le braccia sulla pancia di mia madre e quando sono emerso avevo una clavicola lussata. Diciamo pure che sono nato grazie alla violenta intercessione mondana della Chiesa.

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Alberto Toni

alberto_toni_autoritrattoLa foto di Alberto Toni è di Dino Ignani

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da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni
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Sono nato a Roma in via Ciro Menotti, 26, tra il lungotevere delle Armi e piazza Mazzini. I ricordi che ho di quel luogo sono legati alle zie, le sorelle di mio nonno, Ada e Anna, che lì hanno abitato fino alla fine. Noi intanto, i miei genitori ed io, ci eravamo trasferiti a Cavalleggeri, avevo, credo, due o tre anni. Ho varcato di nuovo quel portone qualche anno fa, ero in zona per alcune sedute di agopuntura. Ho cercato di ritrovarmi, come è normale, di figurarmi gli appartamenti delle zie, al secondo e terzo piano, se non sbaglio. Ma il ricordo di via Ciro Menotti è legato anche a una festa fine anni Settanta, forse a casa di Scialoja e Gabriella Drudi (un giardino d’angolo con il lungotevere), con Pagliarani che accenna una mossa di twist e James alla chitarra. A quel tempo frequentavo il Laboratorio di Elio e muovevo i primi passi in una Roma poeticamente vivissima. Continua a leggere

Roberto Deidier

roberto

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Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

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Nati sotto Mercurio
di Roberto Deidier

Un cielo stellato mette di buon umore, come un oroscopo favorevole. Alle stelle non ho mai pensato se non in questi termini. A parte poche figure evidenti, non ho mai riconosciuto neppure le costellazioni, e ho preferito creare altre immagini, più mie, come per disobbedire a quel gioco enigmistico in cui si devono unire tra loro tutti i punti e viene fuori qualche strano oggetto o un animale troppo stilizzato. Fin da piccolo ho cercato i miei oggetti e i miei animali, usando il cielo notturno come una lavagna. Perfino quando ho acquistato un discreto telescopio, l’entusiasmo è durato poco: in un’estate particolarmente limpida, con alcuni pianeti nella posizione adatta, sono riuscito a vedere le lune di Giove. Poi, passata la stagione, il telescopio è tornato nel suo scatolo e Giove si è allontanato per chissà quanto ancora. Continua a leggere

Anna Cascella Luciani

IMG_6824LA FOTO DI ANNA CASCELLA LUCIANI E’ DI DINO IGNANI

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Da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni
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“Famme resta’ co’ tte sinnò me moro”

di Anna Cascella Luciani

Ricevo, poco fa – siamo a fine maggio 2016 -, una mail nella quale mi si dice – io, Anna, non sono nella mia città – Roma -, in quest’anno -, non si è ancora data la possibilità, l’occasione di una casa per un rientro nel mio luogo di sempre – una piccola lapide per me – per il mio lavoro di poesia -, vorrei fosse messa – quando arriverà il momento -, nel muro di cinta del cimitero acattolico di Roma – detto anche degli Inglesi – alla Piramide Cestia – e il muro quasi confina con un terreno, forse di proprietà del Campidoglio, dove gatti romani vengono accolti, protetti -, ricevo una mail nella quale mi si dice “mi siederò in balcone, a leggere”. Fine maggio, un sabato.
Chiedo in quale parte della città il balcone sia.
“Dalle parti di piazza Sempione, conosci la piazza?”, mi risponde la giovane romana.

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Nicola Bultrini

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Nicola Bultrini, nella foto di Dino Ignani

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Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

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Faccio tante cose, a volte troppe, penso, ma non so stare fermo mai e non mi piace sprecare il tempo. Mi stanco raramente e anche quando mi rilasso, la mia mente è comunque in continuo movimento. Non se sia una virtù o meno, non mi interessa, io sono nato così e così sto bene. Mi piace moltissimo la musica, certamente la leggera, ma adoro il jazz (sono un imperdonabile strimpellatore di sassofono). Ancora sogno con Star Wars e non me ne vergogno affatto (e per inciso, mi piace moltissimo giocare, giocare davvero). Continua a leggere

Giuseppe Conte

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AUTORITRATTO

Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

Qualche anno fa, incontrai per la prima volta Umberto Eco di persona, dopo averlo tanto letto e discusso sui libri. Mi prese a braccetto e mi disse, con la sua proverbiale ironia, che per me aveva anche un familiare retroterra piemontese: “Ma tu Conte, che hai scritto un libro come La metafora barocca, com’è che ti sei ridotto così?”. Risposi che era per il mio folle amore per la poesia. E in effetti è per la mia fede nella missione della poesia che mi sento tutt’ora esiliato, insultato, vilipeso dalla società. Come un arabo capitato in un quartiere di razzisti. Continua a leggere

Umberto Piersanti


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La foto di Umberto Piersanti è di Dino Ignani
 
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Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

 

Sono nato il 26 febbraio del 1941: a Urbino c’era il nevone o così è stato tramandato. Mio padre era in Jugolavia dove infuriava la guerriglia partigiana. Mia madre mi ha sempre raccontato che per nascere non ho aspettato l’ ospedale, ma sono sceso al mondo nella lettiga dove era trasportata giu’ per via Raffaello. A me piace pensare d’ essere nato davanti alla porta del mio piu’ grande concittadino, ma le probabilita’ sono scarse. La mia famiglia, mio padre, mia madre, io e due sorelle una di sette anni e l’ altra di quattordici più grandi di me, stava a villa Gloria situata a pochi metri dalle mura: una casa con vari appartamenti, abbastanza bella, abitata da professori universitari, dirigenti, insomma da una borghesia medio-alta. Il nostro pero’, era un piccolo appartamento situato nel sottoscala: mio padre lavorava alla fornace di Volponi, sicuramente eravamo i più poveri del palazzo. L’orto attorno alla villa nel mio ricordo e’ grande e bellissimo: e quando era a casa, mio padre faceva l’ortolano. Continua a leggere

Biancamaria Frabotta

 

Foto di Pasquale Comegna

Foto di Pasquale Comegna

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Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Autoritratto al buio

di Biancamaria Frabotta

L’11 giugno del 2004 è nato mio nipote Luca, cui auguro di non assomigliarmi troppo, dato che lo stesso giorno del 1946 sono nata anch’io. Non so se possa vantare coincidenze più illustri di questa. Il mio compleanno ora è il suo, in cui mi annido, come una quieta seguace della sua infanzia non finita. Alla “vera vecchiaia”, diceva Caproni, ci si arriva solo dopo la “vecchiaia” pura e semplice. Nella prima forse me ne starò rintanata, attonita, magari mi capiterà di scrivere poesie atonali, senza troppe storie e rigurgiti dell’amore e dell’ira che non distinguono vita da poesia, ritmi da carattere, sonni da risvegli. L’altra vecchiaia, quella appena sopraggiunta, riconoscibile nei capelli come sono, nella pelle com’è, nelle ossa ringiovanite dalle protesi, la nostalgia è di casa. E’ arrivata e se ne andrà prima che io possa abituarmici . Continua a leggere

Valerio Magrelli

POESIAFESTIVAL 2014 photo Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

POESIAFESTIVAL 2014
photo Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

AUTORITRATTO

Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

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La cicala e la formica, di Valerio Magrelli

                      Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo
                                            Francesco Guicciardini

Avevo vent’anni quando pubblicai su “Nuovi Argomenti” il mio primo intervento critico, ossia Marcel Proust e la pesatrice di perle. L’invito proveniva dal direttore della rivista, Enzo Siciliano, mentre l’idea era nata da un corso di Giovanni Macchia, che avevo seguito all’Università di Roma “La Sapienza”. In verità, baravo. Infatti, Siciliano mi aveva aperto quelle prestigiose porte grazie ai miei versi. Poco dopo, però, pensai di approfittarne per indossare un abito diverso: accanto a quello dello scrittore (ufficiale, per quanto fossi appena un esordiente), volli vestire infatti la divisa del francesista (titolo che avrei acquistato veramente solo col dottorato del 1986, dopo una torturante tesi in Storia della Filosofia colpevole, o meritevole, di avermi portato per anni fuori strada). Continua a leggere

Giancarlo Pontiggia

giancarlo-pontiggia-1AUTORITRATTO

Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

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Mi recavo, nel settembre 1971, alla segreteria della Statale di Milano per iscrivermi alla facoltà di Filosofia, che, complice il mio professore (al quale mi sentivo legato da un patto di lealtà e di riconoscenza), mi pareva la scelta più giusta, quasi inevitabile, per soddisfare la mia ansia di verità e la mia passione per gli studi. In realtà, da almeno un paio d’anni, sentivo che la filosofia non mi bastava più. Leggevo Dostoevskij, Pavese, Camus, in quei giorni; e se mi volgevo ai filosofi, era a Pascal, Kierkegaard, Nietzsche che mi accostavo, o magari a certe pagine utopiche di Tommaso Moro e di Campanella, piuttosto che alle vertiginose scale teoretiche di Spinoza, da me un tempo tanto amato.
La giornata era di un sole ancora fulgido, benché l’estate volgesse all’equinozio; e contemplando, mentre camminavo pensoso lungo le vie di Milano che portano dalla Centrale a via Festa del Perdono, qualche spicchio di cielo azzurro, mi parve all’improvviso di vedere – incisa come sopra una tavola votiva – la risposta che andavo cercando ai miei pensieri ondivaghi: sentivo che la filosofia, nonostante la sua grandezza, ignorava proprio quel cielo, quell’aria così dolce e limpida, quella dimensione avventurosa e sensibile del nostro animo che rilutta a ogni definizione, quella forma della verità che si dà – involontaria, discontinua, quasi imprendibile – ben oltre la potenza logica di un pensiero ordinato e inflessibile; ignorava, soprattutto, la forza scura e contraddittoria del vivere, quella corrente che vibra e oscilla, ci infiamma e ci sgomenta, e che avevo percepito solo nelle grandi pagine dei tragici, nei versi dei simbolisti francesi o dei poeti erotici latini. Giunto in via Larga, avevo già deciso che mi sarei iscritto a Lettere. Continua a leggere

Cristina Annino

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Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

 

Un possibile autoritratto

di Cristina Annino

Io credo che l’autoritratto ( almeno per un certo tipo di artista), se non consiste in un’opera pittorica, sia il più falso romanzo che lui possa scrivere su se stesso.

Solo la pittura può uscire dalla poesia o comunque dal regno delle parole; in questo caso infatti il quadro, interpretato e decodificato da chi lo guarda, può dare dignità, credibilità, soprattutto interesse per gli altri ecc. Assumendo ogni volta un’interpretazione differente, perché  sempre avverrà una suddivisione – ammesso che chi guarda sappia vedere, e nel mio paradosso lo do per scontato – dell’autore raffigurato senza che vengano invasi feudi o vite altrui. Per vanità, per alienazione o per il falso anche involontario che c’è sempre in una ricostruzione mnemonica.

La mia identità poetica non saprei, a parole, come rappresentarla; mi sono state fatte interviste in proposito, certo, mi si chiedono fatti riguardanti la mia vita a ogni lettura, incontri poetici e altro, ma non ho mai avuto l’idea di stimmatizzare tali risposte nella categoria dell’ “autoritratto”.

Premesso ciò, quel che resta è: curriculum di persona mediamente colta, laurea; percorso artistico non programmato né volontario, dove la vita non si può distinguere dalla poesia o viceversa.  Ho incontrato persone importanti in vari campi della cultura senza mai sentirmi  influenzata né  ho mai pensato di insegnare qualcosa ad un altro essere umano.

Le presenze dalle quali invece ho preso molto facendolo mio del tutto, caratterialmente,sul piano psicologico, sull’interpretazione dell’esistenza ecc, sono gli animali, l’ambiente strettamente familiare e i viaggi. Questi comprendono persone ovviamente, ma comuni; anzi, più comuni erano, più slegate cioè da un ambiente letterario, più diventavano me. Nella rielaborazione poetica, intendo. Continua a leggere

Franco Buffoni

 

 

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FRANCO BUFFONI FOTOGRAFATO DA DINO IGNANI

AUTORITRATTO
Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Poesia come vita

Non soltanto in Jucci (Mondadori 2014), ma in tutta la mia scrittura poetica i luoghi hanno avuto una funzione essenziale. Ricordo quell’immagine da Il profilo del Rosa (Mondadori, 2000) dove – bambino – sogno di allungare il mio corpo dal Monte Rosa al Po in una sorta di onnipotenza gulliveriana. Ho sempre fatto leva, tuttavia, anche sul potenziale simbolico- evocativo delle parole che uso. Se il “Rosa” – per chi come me è nato e cresciuto sulle colline moreniche che ne costituiscono le prime pendici – non può che essere il monte il cui profilo si staglia all’orizzonte con le sue caratteristiche cime (Gnifetti, Zumstein, Nordend, Dufour), crescendo – e nel libro è di questo che sostanzialmente parlo – il rosa diventa anche il colore dell’esclusione, della persecuzione, dell’omofobia. Continua a leggere

Fabio Ciriachi

 

fabio_ciriachi(Fabio Ciriachi, fotografato da Dino Ignani)

Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Autoritratto, di Fabio Ciriachi

Sono una persona stanca. La maschera comincia a cedere, le fessure si allargano, l’identità sta per mostrarsi, e questo non è un bene. (“Persona”, dall’etrusco phersu, maschera. “Maschera”, dal preindeuropeo masca, strega. “Strega”, variante popolare del greco strix, uccello notturno… non c’è scampo nell’etimologia). Al buio, il mio sbattere d’ali stenta, perde il volo. Non esistono più sonno e veglia, sogno e realtà, finzione e finzioni. C’è un lento ripassare le immagini predilette, un sereno carezzarle con gli occhi di dentro. Continua a leggere

Elio Pecora

elio_pecora_dino_ignani(Elio Pecora fotografato da Dino Ignani)

Da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

La scrittura, ? Quando sono cominciate e da che? L’ho raccontato più volte a scolaresche curiose, ad amici e lettori insistenti. Certo tutto cominciò dalle poesie imparate a memoria nelle prime classi elementari ( tante e di qualità in quei miei primi anni) e più esattamente dal silenzio e dall’attenzione che si facevano intorno a quelle parole: che sonavano esatte e necessarie, come in uno spartito musicale. (E il canto di mia madre era già per me ebbrezza e malinconia: un canto insieme avvolgente e misterioso. ) Continua a leggere

Carlo Bordini

BORDINIDa un’idea di Luigia Sorrentino

A cura di Fabrizio Fantoni

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Sono nato nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale e della catastrofe dell’Italia. Mio padre era un generale dell’aeronautica con simpatie e nostalgie fasciste. Mi ha terrorizzato e l’ho sempre odiato in silenzio. Per questa ragione ho sempre inconsciamente identificato con mio padre tutto ciò che sapesse anche lontanamente di autorità, e quindi anche tutte le istituzioni. Quando sono stato costretto ad adattarmi ad esse, l’ho fatto con una freddezza piena di disprezzo.

Sono sempre stato un ribelle e anche un timido nello stesso tempo. Dico questo per spiegare perché per me la parola “letteratura” è sempre stata sinonimo di qualcosa di odioso e di disprezzabile. Perché in essa ho sempre sentito la presenza dell’istituzione.
Sempre per questo problema di odio e di timore nei confronti del padre mi sono identificato per lungo tempo con un gruppo trotskista ultraminoritario e anche per questa ragione ho avuto, all’interno della vita letteraria, una tendenza all’isolamento e una preferenza spiccata per situazioni piuttosto marginali. Continua a leggere

Ruggero Savinio

SAVINIO DONDERO

Da un’idea di Luigia Sorrentino

A cura di Fabrizio Fantoni
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Pittura infinita

di Ruggero Savinio

 

Molta parte del mio cammino si è svolta fra una qualche identificazione con i miei parenti, e la contemporanea volontà di trovare una mia verità.

Se un esito c’è stato, di questo doppio movimento, è stato lento. Posso dire, però, che, pensandoci adesso, a cose fatte e a vita quasi conclusa – anche se la volontà di cambiare e imboccare strade diverse non mi abbandona mai nemmeno alla mia età – il mio problema più proprio è quello di vedere che cosa ho fatto a partire dalla materia ereditata.

Da ragazzo la mia educazione visiva si formava sulle opere dei miei parenti, più di mio padre, che vedevo al lavoro. Si formava anche sulle immagini dei libri di casa, dove scoprivo spesso artisti allora fuori moda, e che io quindi ho conosciuto tra i primi: i romantici tedeschi, Friedrich, Boecklin, ecc. Possiedo ancora disegni fatti da bambino nei quali, con inesperienza infantile, parafrasavo i quadri di mio padre. (Nella foto Ruggero Savinio, ritratto da Mario Dondero, 1963). Continua a leggere