“Zanzotto. Il canto nella terra”

Andrea Zanzotto

Nel 2021 ricorre il centenario della nascita di Andrea Zanzotto, unanimemente considerato uno dei grandi maestri della poesia italiana del secondo Novecento.

Uno dei più attivi critici e studiosi della sua generazione, Andrea Cortellessa, sintetizza in questo volume i termini della sua già lunga fedeltà al poeta. La critica ha per lo più indagato, sinora, il tessuto linguistico e stilistico di quello che è stato definito «il Signore dei Significanti», facendo così perdere di vista che si tratta anche di una poesia densissima di ‘significati’, personali e collettivi, di traumatica urgenza, sebbene psichicamente schermati e ‘cancellati’ (come i temi dell’ambiente e del paesaggio, nella loro stratificazione storico-culturale).

La monografia di Cortellessa risponde all’esigenza di una lettura che si rivolga anche a un pubblico più vasto di quello specialistico, come quello degli studenti universitari.

Pubblichiamo il primo testo integrale di Andrea Cortellessa da “Zanzotto, Il canto nella terra” (Editori Laterza, 2021).

L’oltranza (Possibili prefazi)

di Andrea Cortellessa

Nulla vi è di più umano che oltrepassare ciò che è
Bloch

  1. Versato nel Duemila

Negli interventi e nelle conversazioni dei suoi ultimi anni Zanzotto ricordava spesso, con un sorriso, una poesia breve di Montale (nel cui «stile tardo», nell’estrema diversità delle rispettive pronunce, si riconosceva abbastanza)[1]: sono i versi che concludono il Diario del ’71 (e che, c’è da scommettere, ripetevano una battuta frequente nelle conversazioni con Eusebio):

 

La mia valedizione su voi scenda

Chiliasti, amici! Amo la terra, amo

 

Chi me l’ha data

 

Chi se la riprende.[2]

 

Senz’altro lo incuriosivano quei due lessemi rari, quasi misterici, che occhieggiano nella dizione en pantoufles del maestro, nei suoi Versi casalinghi insomma (come battezzerà i propri, Zanzotto, nell’ultima raccolta Conglomerati ➣ 288). Se valedizione ricalco un termine raro anche in inglese, che in quella lingua vale «saluto estremo» (c’è una poesia celebre, con la quale John Donne s’accomiata dalla moglie, che s’intitola appunto A Valediction; Giovanni Giudici semplificava in «Addio»[3], ma di sicuro Montale lo prende da lì), quella dei chiliasti è una setta religiosa davvero esistita, fondata a fine Ottocento da un certo Charles Taze Russel, che predicava il prossimo avvento sulla Terra del Regno Millenario di Cristo (dal greco khìlioi, «mille», prendeva il nome la setta). Colui che per antonomasia «rimane a terra» quasi in extremis ribadiva il proprio appartenere solo a questa terra, appunto, senza tentazioni millenaristiche: proprio lui che, nella poesia ‘alta’ della sua prima vita, Bufera e altro, tante memorabili immagini apocalittiche aveva sciorinato[4]. Con ogni probabilità memore del whimper, anziché del bang, col quale un suo maestro aveva profetizzato che il mondo si sarebbe spento[5], a questa sua polemica Montale dedica non pochi episodi della sua (troppo) generosa vena tarda. Se «Il tempo non conclude / perché non è neppure incominciato», come aveva scritto in Satura contro Teilhard de Chardin[6], non si dà Apocalisse – che almeno avrebbe il pregio di portare con sé la Rivelazione – bensì Apocatastasi, una fine che non smette mai di finire: «l’escatologia […] è un fatto di tutti i giorni. / Si tratta delle briciole che se ne vanno / senza essere sostituite»[7].

Zanzotto riprende questa posizione proprio quando nei suoi interventi ‘civili’ più pressante si fa l’allarme riguardo allo scempio ambientale; come un controveleno ironico, ma quanto mai amaro, ai toni apocalittici dei chiliasti del suo tempo – a partire da se stesso. Più in generale ironizza sulla sostanza propriamente apocalittica del millenarismo: cioè sulla Rivelazione che il futuro dovrebbe riservarci. In una conferenza del 1989 – annata abbastanza millenaristica, in effetti – sbotta a un certo punto: «Che cosa mai ci succederà, avvicinandoci al duemila? Precisamente niente! È un tempo del tutto convenzionale, il duemila»[8] (ma «convenzionale», nel suo idioletto, si connota d’un significato particolare ➣ 59).

Eppure, come nel caso di Montale, questa sua impazienza era rivolta anzitutto al se stesso d’antan. Intervistato qualche anno prima da Alberto Sinigaglia in un volume dal titolo Vent’anni al Duemila, ironizzava sull’«atmosfera chiliastica» di allora[9]:

 

Bisogna soffermarsi un po’ su questo numero: 2000. Io scrivevo quasi con tremore, già nel 1952-53 (ai tempi della mia opera Vocativo), «Ah, ripeto io, versato nel 2000». Mi sentivo come catapultato verso il 2000 o vicino a uno strapiombo chiamato 2000. Ora che il tempo, la scadenza è così vicina, mi sembra che tutto sommato non esista un gran baratro tra quegli anni ’50 e gli anni ’80, nonostante la quantità enorme di tensioni e di eventi che sono apparsi in questo trentennio, e così sono portato a pensare anche ai prossimi vent’anni come a tempi non dissimili dagli attuali, soprattutto per quanto riguarda l’andirivieni di certe dinamiche tipiche dei fantasmi della poesia.[10]

 

In realtà nelle pagine seguenti, non solo circa la poesia del Duemila o comunque degli anni a venire, Zanzotto si mostrava buon profeta; ma qui a interessarci è lo sguardo ‘retrotopico’, per dirla con Zygmunt Bauman[11], rivolto alle proprie passate profezie. Niente di più chiliastico dell’immagine di Vocativo ricordata con un sorriso da questo Zanzotto, cioè Fuisse: dove prende la parola da morto e sepolto, cioè letteralmente da sottoterra, «chiuso […] nel regno della rovere e del faggio» (M 188, P 154 ➣ 172-174). La prospettiva straniantemente ‘postuma’ (simile a quella della voce narrante di un film di quegli anni, Sunset Boulevard di Billy Wilder, 1950) ci proietta in una dimensione infinitamente passata (del verbo «essere», in latino, il titolo riprende appunto l’infinito passato), che trascende i tempi umani giungendo a rapportarsi con quelli geologici (come insisterà a dire nella citata intervista futurologica: «ci soffermiamo troppo poco sulla megastoria, ragioniamo per così dire tolemaicamente, in termini di microstoria antropocentrica»)[12]: in Fuisse «ogni smorto desìo della vita» si sedimenta negli «strati della terra», sprofonda in «abissi di carbone» e prefigura il momento in cui si «confonderà in marmo».

Ma è appunto la prefigurazione a colpire in questi versi, riletti a posteriori: il sognare una «futura età» di chi è «versato nel duemila». Il soggetto è versato anche perché si esprime in ‘versi’ – il componimento è stato finora letto soprattutto per il suo aspetto metaletterario, che anticipa il manierismo di IX Ecloghe e oltre – ma soprattutto per la sua postura: per il suo essere versato, o ‘gettato’, nella dispersione del tempo. Fuisse ‘traduce’ così, in termini paradossali, le ritornanti crisi depressive del suo autore (violenta, in specie, quella sofferta nel ’50 ➣ 86) alludendo più in generale a quella «gettatezza», la «deiezione» come «modo esistenziale dell’essere-nel-mondo», a suo tempo codificata dal fosco maestro di una generazione, il Martin Heidegger di Essere e tempo (ma di recente rilanciata dalla sua Lettera sull’«umanismo»)[13]: che al fondamentale convegno di San Pellegrino del ’54 l’esistenzialista Zanzotto aveva opposto agli ottimismi ai realismi alle magnifiche sorti e progressive degli engagés del suo tempo (➣ 87-88).

Nel primo testo di poetica che abbia conservato, e che a quegli anni risale, Situazione della letteratura (additando in Kafka il suo testimone più esemplare)[14], non a caso Zanzotto impiega metafore geologiche («oggi noi siamo sulla stessa ‘frana’ della generazione che ci precedette» e, con un pensiero all’amato Rimbaud, «la rugosa realtà preme d’intorno, e può imporre il silenzio massiccio, minerale della devastazione»: M 1088 e 1094)[15]: le stesse che splendono nel primo grande saggio da lui dedicato alla poesia altrui, quello su Montale del ’53, L’inno nel fango («la terminologia geologica s’impone come la più adatta per parlare dello spirito divenuto oggetto, dell’uomo fatto in definiva solo di terra»: SL I 16) che, come e più degli altri del suo autore, si deve leggere anzitutto come autoritratto in cifra[16] (➣ 42-48; sulla lignée ‘geologica’ della poesia europea, da lui ipostatizzata in Montale ➣ 214-215).

In Situazione della letteratura giunge a dire, Zanzotto, che l’unico «senso umano sufficiente a giustificare […] una ricerca letteraria» è «vicino al consummatum est» (M 1091): cioè appunto a una condizione trapassata, estinta come quella della voce sepolta di Fuisse. Proprio la condizione psicologica della «depressione» menziona Heidegger come esempio di «gettatezza», in cui «l’Esserci diviene cieco nei confronti di se stesso»[17] («pieghe tra pieghe della terra / cieca ad ogni tentazione d’alba») e tende «a imprigionarsi in se stesso»[18] («Chiuso io giaccio […] / Lontana ogni opera ogni umano / o sovrumano moto […]. / Nel silenzio ricado»; per l’imagery claustrofobo-claustrofila che ossessiona un po’ tutto il corpus ➣ 130-135, 210-211). E certo Zanzotto qui pensa anzitutto all’ambigua prospettiva dell’«Essere-per-la-morte»: «imminenza che incombe» in cui secondo Essere e tempo «si rivelano l’esistenza, l’effettività e la deiezione dell’Esserci»[19], ma che nella sua anticipazione-prefigurazione e nella sua «angoscia»[20] rappresenta altresì, per Heidegger, l’unica «possibilità dell’esistenza autentica»[21] e, addirittura, l’unica «libertà»[22].

Ma la pagina che segue (nella serie degli scritti di ‘poetica’ che nel «Meridiano» recano l’etichetta di «Prospezioni e consuntivi» ➣ 166-167), del 1959, date tali premesse reca un titolo sorprendente: Una poesia ostinata a sperare. È il primo di una lunga serie di gesti, che si riveleranno tipici di Zanzotto, per cui è al fondo del ‘negativo’ che si trovano i resti più coriacei di vitalità: il carburante col quale «muoversi in avanti, superare la durissima impasse attuale» (M 1097) e muovere «dalla poesia alfa […] alla poesia omega, ma sempre su una stessa linea di sviluppo e anche di reversibilità». Lì dov’è il pericolo omega si trova pure la salvezza alfa: così gli ha insegnato il più decisivo dei maestri (del quale fa infatti risuonare le parole), Hölderlin[23].

Alfa e Omega, del resto, se li porta nel nome: A e Z. E se tante sono le immagini di fine (e dopo la fine) che incontreremo nel corpus, almeno altrettante sono quelle che ci offre, Zanzotto, di momenti iniziali, esordiali, inaugurali[24]. In un intervento dell’82 (giocando a rovesciare una nota nozione freudiana)[25] definisce «piacere del principio» quel «piacere intrinseco alla vita nel suo autoporsi, che sta al di qua del principio del piacere» e che della poesia come deflagrante «donazione» è il primo dei moventi (Una poesia, una visione onirica?, M 1293 ➣ 21).

In un luogo strategico della Beltà (M 305-310, 352; P 271-275, 318) Zanzotto parafraserà in «Principio ‘resistenza’» il titolo di un altro filosofo al quale ha guardato più di quanto si pensi, Il principio speranza di Ernst Bloch[26]. In questo libro-mondo poteva leggere un passo come il seguente (a sua volta debitore nei confronti dell’élan vital di Bergson) che più di Freud, al riguardo, nutre il suo pensiero:

 

Non tutto ciò che è noto è anche conosciuto, meno che mai quando si ha davanti la freschezza. […] Il nuovo: da un punto di vista psichico esso è presente nel primo amore e anche nel sentimento della primavera […]. Esso colma, sempre di nuovo dimenticato, la vigilia di grandi avvenimenti, con una reazione mista, estremamente significativa, di timore, di corazzatura e di fiducia; nella promessa del novum della felicità, fonda una coscienza di avvento.[27]

 

È quello che Remo Bodei, ovviamente polemizzando con Heidegger, ha chiamato l’«essere per la vita» di Bloch[28]. Allo Hölderlin più proverbiale di Patmos, «dove è il pericolo, cresce / anche ciò che  dà salvezza»[29] guardava appunto Bloch: per opporsi al mondo della morte. Naturalmente all’Uomo Nero di Messkirch (e segnatamente ai §§ 67-71 di Essere e tempo) era pure debitore, Bloch, per la sua idea di temporalità «multiversa» e «anacronistica» che tanto salerà il sangue a Zanzotto (➣ 215-216)[30]. Ma unicamente a Bloch, credo, si lega un tema fondamentale come quello dell’«eccedenza» (Überschuss) da lui affrontato soprattutto nei saggi meno organici, quelli che lampeggiano in Eredità di questo tempo[31]. Il concetto stesso di «eredità» non attiene per Bloch al passato, ma indica con decisione il futuro: in quello che ci è stato tramandato va scoperto il «residuo utopico» che quel lascito contiene, cioè il futuro nel passato. Non è «ciò che resta», appunto, «il dono dei poeti»[32]? Le «eredità» più preziose sono quelle che – con le parole di uno dei più oscuri fra loro, René Char – Hannah Arendt chiamava «senza testamento»[33]. Cioè quelle che interrogano noi che le interroghiamo.

Nessun poeta della nostra con-temporaneità quanto Zanzotto ci si manifesta in questa postura eccedente ed enigmatica – ancorché «affabile», come voleva Gianfranco Contini[34]; «eerie» l’avrebbe invece definita Mark Fisher[35] – per la quale lui stesso ha coniato la più comprensiva delle definizioni, nel titolo della poesia che inaugura il suo libro più enigmatico-eccedente, La Beltà: Oltranza oltraggio (M 267, P 233). L’oltranza che sempre «più in là» si insegue infrenabile è l’Altro da Sé (la Natura, la Poesia, il Trascendente, il Tutto e il Nulla – la Beltà appunto) al quale si fissa calamitato l’occhio del soggetto, e col suo il nostro che scruta l’abisso della pagina; e l’oltraggio di quanto della «vista» eccede, appunto, ciò «che ’l parlar mostra» (come si legge nel XXXIII del Paradiso dantesco, dal quale Zanzotto preleva questa cellula abbacinante). Ma l’oltraggio non si trova solo oltre il nostro occhio, la nostra memoria, la nostra mente – cioè di là. È anche di qua: nell’altro abisso che in questo si specchia, se è vero che Dante lo paragona a quanto «dopo ’l sogno la passione impressa / rimane» (vv. 59-60), ossia a ciò che resta della nostra esperienza interiore. Andando sempre Oltre, insomma, si finisce per sprofondare Qui[36]. Se Zanzotto è Zanzotto, è perché l’Infinito oltre il quale si proietta nello Spazio è anche il suo e il nostro, altrettanto infinito, spazio interiore: quell’«espace du dedans» al quale nel saggio dedicato nel ’72 alla Science Fiction (di inaudita ‘apertura’ culturale per quei tempi) voleva indirizzare le nuove «esplorazioni», in una «discesa (o ascesa) nell’interiorità» (Alcuni sottofondi e implicazioni della S F, SL II 59-60).

Quando il poeta che si figurava «versato nel duemila» come in un irraggiungibile futuro si trovò davvero, invece, «inciampato nel 3° millennio» (P 963) e «scivolato bene su ‘duemila’» (P 972), quando insomma giusto nel 2001 pubblicò Sovrimpressioni – prima e folgorante eccedenza rispetto al «Meridiano» uscito due anni prima, appena anticipando la soglia secolare e millenaria – fu irresistibile pensare a un film uscito nello stesso anno della Beltà, il ’68: il film di Stanley Kubrick che proprio 2001 s’intitola. Anche se il suo saggio sulla SF ci informa che non lo apprezzava più di tanto («un film non di prim’ordine», lo definisce), Zanzotto deve concedergli che l’Odissea nello Spazio Esterno in Kubrick si converte – non solo ma soprattutto nello straordinario epilogo nella stanza ‘neoclassica’, dove il Viandante Muore e Rinasce – in «spazio dell’interiorità» (SL II 65 ➣ 295). Ma è anzitutto l’emblema minerale del film, il Monolite, a somigliare in modo perturbante alla sua opera. Proprio per l’oltranza oltraggio che ha rappresentato e continua a rappresentare: non solo rispetto a quanto la maggior parte dei lettori ascrivono a quella cosa che in mancanza di meglio continuiamo a chiamare «poesia», ma perché in tutti i sensi Eccede il secolo della modernità: il Novecento che, pure, Zanzotto incarna meglio di ogni altro.

E infatti se al centro del corpus, in tutti i sensi, si trova quella che l’autore chiamava «pseudo-trilogia» (composta dal Galateo in Bosco, Fosfeni e Idioma, scritta negli anni Settanta e pubblicata fra il ’78 e l’86 ➣ IV.6), col precedente Meteo e il successivo terminale e apocalittico Conglomerati, Sovrimpressioni forma una «trilogia ulteriore», di nuovo in tutti i sensi, rispetto alla precedente e ‘autorizzata’. Che presenta, per i lettori dello Zanzotto ‘canonico’, caratteri di novità persino scandalosi (➣ IV.8). Ancora un oltraggio, insomma, è quell’Eccedenza, quel Supplemento, quella Folle Escrescenza che Avanza, è Avanzata, continua ad Avanzare. Una 25a ora o un «29 febbraio» (così s’intitola una poesia di Conglomerati, P 1099-1100), rispetto all’opera e al suo tempo: Qualcosa che «non viene il giorno del suo arrivo, ma il giorno dopo, non l’ultimo, ma l’ultimissimo giorno»[37].

Nell’Odissea di Kubrick, si ricorderà, il Monolite illumina l’umanità della sua luce nera in tre momenti decisivi della sua evoluzione. L’infinitamente passato prima dell’Uomo si rispecchia nell’infinitamente futuro dopo l’Uomo: con la stessa simmetria che istituisce tra il Fuori e il Dentro. La forma semplice e bruciante di quella Pietra Erratica (Erratici è stato a lungo, e sino alla vigilia dell’uscita, il titolo di lavoro di Conglomerati ➣ 215, 282) ha l’Oltranza laconica di un segno che si staglia nel paesaggio: come il Menhir, Monolite «abisso del cielo» che eccede rispetto al piano della Terra, in una poesia della Rosa di nessuno di Paul Celan[38] (Giuseppe Bevilacqua traduce «Escrescente» la prima parola di questo componimento, Wachsendes, che cita però il wächst / Das Rettende auch nell’Amuleto di Hölderlin, da Luigi Reitani tradotto invece «cresce / anche ciò che dà salvezza»: «crescente», dunque, come si dice della Luna: è insomma una Pietra Lunare il Menhir di Celan, come quella che nel film di Kubrick i Terrestri scoprono sotto la superficie del Satellite). Celan: l’autore che meglio ha incarnato, nel Novecento, il «principio geologico» della poesia moderna (➣ 214-215) – il suo canto nella terra.

A quel Segno fa pensare il post-paesaggio o «paesaggio» (come lo chiama in Sovrimpressioni, P 839) dell’ultimo Zanzotto: in particolare quelle Crode del Pedrè che, altrettanto enigmatiche («Enigma di Edipo» sono appellate in Giardino di crode disperse, P 960), occhieggiano all’inizio dell’estremo Conglomerati: un luogo «muto e sconosciuto e perduto» fatto di «rocce di ultradenso vuoto», luogo-oltre-luogo che «manca manca [     ] (      ) X X X» (P 956 ➣ 283). Un «cupo e inquietante labirinto di massi coperti più o meno di vegetazione o nudi, comunque erti», in cui – annota Zanzotto (P 955) – «si sedimentava l’infanzia, ma con luci pure, e poi il vuoto di decenni, e poi le immagini nelle pitture di mio padre». Torna dunque ossessiva anche qui a fine corsa, in questo prologo dell’epilogo che è l’ultima raccolta di Zanzotto, la scena primaria che lo accompagna da sempre: la «fascia paradisiaca» del paesaggio affrescato da suo padre Giovanni nella casa alla Cal Santa di Pieve che da sempre lo «imbozzola» e lo «imbalsama» (➣ 130-132)[39]. Deutungslos sono le Crode: un luogo-mano, «un fottio di linee / che aspettano il chiromante» per essere decifrate[40]. Ed è il luogo in cui, alla fine del suo viaggio, Zanzotto torna alla terra: «in quel luogo fisico c’è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all’uomo. Il che mi riconferma nella convinzione che nel mio caso le principali suggestioni derivano dalla geologia, prima che dalla storia; e dalla scienza, prima che dalla letteratura»[41].

Festina lente. Il Vecchio semi-immobilizzato, scivolando all’impazzata sulle «lievissime rotelle del 2000» (P 978), è giunto a fine corsa – o quasi (➣ IV.9). E così, come alla fine di quel film che non gli era piaciuto, misteriosamente si ritrova Bambino. Tutto questo, infatti, è oltre «Giove e oltre l’Infinito»: «il bambino», spiega uno Sciamano, «ha inizio nel regno di Saturno, nel piombo o nella roccia»: «Petra genetrix, dalla pietra nasce un bambino, ridente, tenero, inerme»[42]. Come nell’Ecloga Quarta di Padre Virgilio, dove «Magnus ab integro sæcloreum nascitur ordo / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies cælo demittitur alto», nella Beltà (M 329, P 295) – «secondo l’antico accedere a una convergenza» – alto risuona il richiamo: «Bimbo, bimbo!» (➣ 210).

Con ogni probabilità, tra i phares di Zanzotto, Virgilio è il più ‘antico’. Non per il suo valore fondativo su un piano storico (il «padre dell’Occidente», secondo il teologo antinazista Theodor Häcker, ricordato nelle sue pagine virgiliane dell’81: SL I 343)[43], ma per il valore inaugurale che deve avere avuto su un piano più intimo e famigliare: secondo quel carattere di mito personale che alle letture ‘prime’ ha associato Leopardi[44] (in uno dei suoi primi testi di poetica usa una formula sintomatica, Zanzotto: «ricado spesso nella lettura della quarta egloga virgiliana»: L’italiano siamo noi, 1962, M 1106; c.m.). Non per caso Giudici, che sapeva come stuzzicarlo[45], recensendo un suo libro che non era fatto per piacergli, Fosfeni, provocatorio definiva l’opera di Zanzotto un’«‘eneide’» (minuscola, si badi, e fra virgolette) «tuttora in divenire»[46]. La cellula ‘mitica’ è la stessa che ossessionava, in chiave edipica, Gadda[47] (il quale però le conferiva un valore disforico, opposto a quello di Zanzotto), il v. 60 dell’Ecloga Quarta appunto («Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem»): deliziosissima consustanzialità Madre-Bimbo che quel luogo della Beltà fa luccicare in lacrime di gioia[48].

Ma forse il Virgilio che più si avvicina a reincarnarsi in Zanzotto non è il poeta dell’Eneide, e neanche quello delle Ecloghe – a dispetto delle IX pubblicate nel ’62 dal discepolo: per rispetto, una meno di quelle del maestro –, bensì il personaggio-poeta nella sua più celebre interpretazione. E neppure il severo deuteragonista ‘paterno’ della Commedia, ma l’ombra proiettata nel futuro che Dante, nel XXII del Purgatorio (vv. 67-69), fa evocare a un collega ‘silvano’: Stazio. Il quale a Virgilio si rivolge, con immagine memorabile, paragonandolo al servo lampadoforo: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte». Ricordando appunto i versi 5-7 dell’Ecloga Quarta, e così traducendoli (vv. 70-72): «‘Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenïe scende da ciel nova’». Al di là dell’argomento caro alla teologia medievale, di un Virgilio profeta inconsapevole del cristianesimo[49], a colpire è questa singolare postura di ‘profeta retroattivo’ inventata da Dante. Qualcuno che vaga nella tenebra più fonda, illuminando però il cammino di chi lo segue.

Solo in questa forma desublimata (e psicoanaliticamente tale) Zanzotto poteva pensare al poeta in generale, magari anche a se stesso, come a un profeta (non dirò vate!)[50]. E una volta, in Fosfeni, introduce un suo avatar che «tira il carretto stracolmo di sacchi di trucioli» e «porta sulle spalle \ il sacchetto da mendicante col catarifrangente» (M 679, P 845): ulteriormente sublimata incarnazione del Virgilio lampadoforo che sé non giova (se è vero che il «mendicante» col «triangolo da rimorchio», spiega Zanzotto, prima era stato «investito da un’auto»)[51] ma, dopo sé, eccome se lo fa. Il solo possibile profeta dunque è un mendicante, o comunque un bricoleur (➣ 279) – come la figura che più esplicitamente Zanzotto abbia riconosciuto tale, il Nino Mura delle Profezie, appunto, della Beltà (M 321-322, P 287-288): ulteriore avatar-«staffetta»[52] che «tra i settanta e gli ottanta anni pedalando quasi volage», infallibile, «fruga gli arcani del tempo e della natura» (➣ 167-168).

Il passato torna futuro, se il Senex torna Puer. Il luogo del corpus in cui questa temporalità non lineare trova la sua più esplicita attestazione è lo splendido saggio senza titolo in coda a Filò, il poemetto ispirato al terremoto del Friuli pubblicato alla fine del ’76: dove si parla di «un tempo dalla freccia e durée diverse» (M 544, P 510) che connota non solo Filò ma soprattutto quelli che diverranno i tre libri della «pseudo-trilogia» alla cui stesura, iniziata l’anno precedente, l’«eruzione» del poemetto s’è messa ‘di traverso’ (➣ 245-249). Questa temporalità paradossale spiega pure l’emersione del dialetto veneto, che di Filò è la grande e sorprendente novità. Al riguardo scrive Zanzotto che il dialetto è il «luogo […] di un logos che resta sempre ‘erchómenos’, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane ‘quasi’ infante pur nel suo dirsi, che è comunque lontano da ogni trono». Per questa sua proiezione nel futuro non può essere visto come una regressione, «non può aver a che fare con riesumazioni o imbalsamazioni ‘da riserva’», ma fa cenno viceversa a «indizi di nuove realtà che premono a uscire» (M 542-544, P 508-510)[53].

Questa figura sempre reversibile, da «archeologia del futuro» (o ‘futurologia dell’arcaico’, piuttosto ➣ 244), deve più che ad altri al pensiero di Ernst Bloch. Dietro il «futuro sopravveniente» si estende «il non-divenir-più, l’esser-conchiuso, l’esser-divenuto», insomma «il passato»: il quale non è che «il futuro che ha già fornito il suo risultato». È solo nella dimensione ‘multiversa’ che ci appare il «futuro nel passato», ed è sotto l’insegna bifronte di Giano (➣ 21, 292)[54] che un «rapporto fecondo col passato» si rivela «rivolto in avanti»[55]. È dunque in nome di un afflato utopico, paradossalmente, che procede lo scavo di Zanzotto: uno scavo in avanti (come quello della talpa marxiana ➣ 47). Nelle Differenziazioni nel concetto di progresso, che Zanzotto legge nel ’62, si trova «l’invito a coniugare i tempi della storia umana con i tempi della storia naturale»[56], considerando la «differenza fra i milioni di anni della preistoria (per non parlare dei miliardi di anni geologici e persino cosmologici) e il paio di millenni di storia della cultura a partire dal periodo neolitico»[57]. È proprio nella geologia che scopriamo, in concreto, come il passato più remoto coesista col presente, sino a proiettarsi nel nostro futuro: «un’essenza della natura che non solo si trova prima della nostra storia e la sostiene, ma in gran parte l’avvolge»[58].

Lo sguardo alle remotissime antichità preistoriche e paleontologiche è una costante, nell’immaginario di Zanzotto, almeno dall’Inno nel fango (SL I 15): dove parla di una «vicenda umana» che, «ricercando le sue origini», «trova quella degli animali mostruosi e della terra»; per cui «la scienza storica sfuma nella paleontologia e infine nella geologia». In seguito definirà un «grande trauma» culturale il ripensamento della temporalità necessario per «adattare la psiche umana alla consapevolezza geologica» (ricordando che «anche Leopardi parla già in termini di geologia, e non di storia»[59]; e che «aveva addirittura precorso Darwin, per alcuni aspetti»)[60]. Ma è appunto col dialetto «erchómenos» di Filò che Zanzotto trova, a questo nodo, un’originale soluzione linguistica di profondissima densità concettuale.

Non è un caso che appunto questo luogo di Filò abbia attirato l’attenzione, in parallelo, dei due maggiori filosofi italiani del nostro tempo – di Zanzotto, entrambi, grandi ammiratori. Ha scritto Massimo Cacciari che questo «logos» è qualcosa di più della parola nella sua materialità linguistica: «Logos è ‘ciò’ che dona parole nomi, e pensieri-nei-nomi), e che nessuna parola cattura o esaurisce. Perciò è anche sempre logos erchomenos, ad-veniente e imprevedibile nel suo sempre-futuro»[61]; mentre Giorgio Agamben ha fatto notare come nelle Scritture il termine (alla lettera, «colui che viene»), che torna anche in Fosfeni e altrove nel corpus di Zanzotto (M 701, P 667; M 1230), venga «costantemente interpretato, sia dalla tradizione rabbinica che dagli esegeti cristiani, come una profezia messianica» (il che, avverte Agamben, non fa certo di Zanzotto un poeta cristiano, «così come la ricorrenza di lemmi e nomi tratti dalla mitologia greca o dal cinese dei Cantos non significa che Pound sia un poeta pagano o taoista»)[62].

Nessuno dei due poteva saperlo, al momento di scrivere il proprio testo, ma l’importanza di questo concetto – comunque lo si voglia interpretare – è stata confermata dai successivi scavi nello sterminato giacimento di manoscritti, relativi alla sua opera poetica, che nel 2007 Zanzotto cominciò a destinare al Fondo dell’Università di Pavia, come a suo tempo promesso a Maria Corti. Su queste carte Francesco Venturi ha infatti documentato come a lungo negli anni Settanta – lavorando al cluster di testi che nella «pseudo-trilogia» si tri-forcheranno nei «tre rami non contigui dello stesso albero» (M 1234), come chiamerà quei libri il loro vulcanico autore – il titolo complessivo da lui pensato fosse proprio «Logos erchòmenos» (che in un secondo momento passa a designare l’anta del trittico destinata a intitolarsi Fosfeni, mentre Vuoti di memoria è il titolo di lavoro del Galateo in Bosco e Osteria quello di Idioma)[63]. Tanto che l’altro studioso che più a lungo ha studiato le carte di Pavia, Luca Stefanelli, ha potuto rileggere in questa chiave la dimensione dell’infanzia[64], centrale nella riflessione e nella poesia di Zanzotto almeno a partire dalla sua raccolta del ’73, Pasque, e dal grande saggio dello stesso anno Infanzie, poesie, scuoletta (veri e propri testi a fronte, dunque, al pari del dittico composto nei primi anni Cinquanta dalla Fuisse di Vocativo, 1957, e dal saggio L’inno nel fango del ’53).

La figura del Bimbo che ricorre nella sua poesia, il «fanciullo divino» di Fosfeni (il Logos-Knabe di Righe nello spettro, M 709, P 675), oltre a essere un’ulteriore persona autobiografica (il «pargolo» che il dio-natura trae «in salvo» dal «frastuono / dalla sferza degli uomini», il «favorito» della Luna nella poesia di Hölderlin più feticizzata da Zanzotto)[65] nonché il «Cristo incarnato» di cui parla Stefano Dal Bianco (M 1636), è per Stefanelli piuttosto un «Genio» spirituale sincretistico che sovrimprime le figure di Cristo e Dioniso, come nel «Dio a venire» che lampeggia nella celeberrima elegia hölderliniana Brod und Wein, Pane e vino[66]. Così pare indicare un appunto rinvenuto fra le carte della Beltà: «il dio come bimbo eterno non come padre eterno» (l’«infanzia eterna» di un’altra carta contigua), sicché bisogna «pregare non perché dio esiste ma perché dio esista»[67] (tanto che in un altro appunto del periodo Zanzotto ipotizza un «trattato di teogenesi», un’«embriologia di Dio»[68] che fa già pensare all’immaginario di Pasque ➣ 207-208).

Concepita quasi allo stesso tempo della putrefazione del «diomorto» nell’Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli[69], la teogenesi di Zanzotto, partendo dal presupposto di un dio non-ancora-esistente, estremizza l’«a venire» di Hölderlin e rovescia specularmente la «morte di Dio» postulata da Nietzsche[70]. Il quale del resto non faceva che esplicitare la crux più spinosa, forse, fra le tante lasciate dallo stesso Hölderlin, il verso conclusivo dell’ode alcaica Dichterberuf, Vocazione del poeta: lo scandaloso «Finché il mancare di Dio verrà in aiuto»[71] ricordato dall’Elegia in petèl della Beltà («L’assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà / – non ci aiuterà – / tanto l’assenza non è assenza gli dèi non dèi / l’aiuto non è aiuto»), dove peraltro Hölderlin è onnipresente (nonché bestemmiato, nella «sovrimpressione» tra «Scardanelli» e la «pornografia paradisiaca e fumettistica» dell’«Histoire d’O»: M 316-317 e 353, P 282-283 e 319)[72].

Questa assenza mi pare qualcosa di più (o forse, è il caso di dire, qualcosa di meno) del tòpos dell’attesa messianica: nel pensiero e nella poesia di Zanzotto indica più in generale la dimensione «ad-veniente» del futuro. Non a caso, commentando Hölderlin, Manfred Frank ricorda la dimensione utopica e il «principio speranza» di Ernst Bloch: «c’è qualcosa nel passato da cui proveniamo che è rimasto vivo nel corso del tempo perché non ha trovato il suo compimento […] una ‘promessa’ che resta valida finché il presente non è in grado di esaurirla»[73]. Il «Dio a venire» di Brod und Wein – almeno in una delle sue tormentate redazioni – è una presenza futura che fa segno (deutet) alle sue spalle, cioè a noi che rispetto a Lui ci troviamo nel passato (zurük): tanto che Luigi Reitani lo ha potuto accostare alla celebre immagine di Paul Klee nell’Angelus Novus di Walter Benjamin[74]. E in questo assomiglia da vicino, pure, al Virgilio lampadoforo di Dante.

È eloquente la successione, nella Beltà, fra l’VIII e il IX ‘pannello’ della ‘suite’ che al futuro più esplicitamente è dedicata, Profezie o memorie o giornali murali: il primo si apre e chiude con l’invocazione a «Eva» e «Adam», entrambi definiti «forma futuri» (M 327-328 e 354, P 293-294 e 370: citazione, segnala la nota di Zanzotto, dall’Epistola ai Romani di Paolo)[75], il secondo come detto erompe con l’invocazione «Bimbo, bimbo!» rivolta all’«Urkind, il bimbo originario (anche husserliano)» (M 329 e 354, P 295 e 370)[76], ma altresì ‘traduzione’ di un ‘vero’ ricordo d’infanzia (➣ 127). A venire, dice ancora Reitani, è l’entità che si rivolge «a una collettività che manca»[77]: il Bimbo sempre erchómenos della forma futuri. A questo «popolo che manca», come lo chiamerà Gilles Deleuze, proprio secondo Klee si rivolge ogni artista: per il quale «la creazione oggi non può dirsi ancora conclusa, e con ciò prolunga quell’atto creativo del mondo dal passato al futuro, conferendo durata alla genesi»[78].

È la pura potenza del «veniente» (le «colline vaneggiate / vagheggiate venienti» di un altro episodio di Profezie o memorie o giornali murali, in cui «passato e futuro» sono «in oscura combutta»: M 336, P 302) a informare il piacere del principio di Zanzotto: col quale ogni volta, sulla rugosa realtà del silenzio massiccio, minerale della devastazione, miracolosamente ha la meglio il desiderio di essere, il suo cocciuto e incoercibile essere per la vita. Ogni volta quel silenzio viene interrotto, come lo sono dal «negro semen» della scrittura, i candidi «alba pratalia» dell’archetipico Indovinello veronese che fa capolino in una misterica poesia di Fosfeni (Tavoli, giornali, alba pratalia, M 703-707, P 669-673 ➣ 222). Perché, come diceva Zanzotto nel ’65, «occorre una fiducia nell’origine, nel ‘coraggio’ iniziale della realtà», e la poesia ne è «l’espressione più ostinata» (Il mestiere di poeta, M 1128): «come un intrattenibile tic, un’imbastitura vaga, un mormorio contraddittorio appena al di sopra del nulla, ma prepotente come la sillabazione del tutto» (Tentativi di esperienze poetiche (Poetiche-lampo), 1987, M 1319). E infatti, mentre la narrativa di consumo si consuma nel «gusto di sapere ‘come va a finire la storia’», in poesia «niente ‘va a finire’ perché tutto ricomincia» (Intervento, 1981, M 1257-1258). Davvero, dalla poesia alfa alla poesia omega – dalla A alla Z – e ritorno.

 

NOTE

[1] Rinvio al bel saggio di L. Lenzini, Montale, in Id., Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 77-96. Zanzotto non vi figura (se non per un cenno alle pp. 21-22, dove è commentata la poesia De Senectute di Conglomerati, P 991), ma tutto il libro (specie la sua Introduzione, alle pp. 9-27) è stato per me di ispirazione (Lenzini si rifà a E. Said, Sullo stile tardo [testo pubblicato postumo nel 2006], traduzione di A. Arduini, il Saggiatore, Milano 2009, che a sua volta si rifà a Th. W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica [testi del 1934-1966 pubblicati postumi nel 1993], a cura di R. Tiedemann, traduzione di L. Lamberti, Einaudi, Torino 2001, pp. 175-224).

[2]  E. Montale, p.p.c., in Id., Diario del ’71 e del ’72 [1973]; ora in Id., L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, «I Millenni» Einaudi, Torino 1980, p. 458. Cfr. per esempio Lo sciamano, intervento su Fellini del 1999 in A. Zanzotto, Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, a cura di L. De Giusti, Marsilio, Venezia 2011, p. 121.

[3] Cfr. J. Donne, Addio, proibito piangere [versione pubblicata nel 1954], in G. Giudici, Addio, proibito piangere e altri versi tradotti, Einaudi, Torino 1982; ora in Id., Vaga lingua strana, a cura di R. Zucco, Garzanti, Milano 2003, pp. 26-29.

[4] Si veda il bel saggio di R. Gigliucci, Sulla colonna più alta. Montale e l’Apocalisse, in Apocalissi e letteratura, numero monografico a cura di I. De Michelis di «Studi (e testi) italiani», 15, 2005, pp. 187-204.

[5] Collega Gigliucci (ivi, p. 194, suo il corsivo) al celebre finale degli Hollow men di Eliot un articolo del ’69 in cui Montale riporta le tesi di certi «accreditati ecologi», secondo i quali «se le condizioni di vita dell’uomo (aria, acqua, alimentazione velenosa) continueranno a peggiorare, ne avremo ancora per tre secoli al massimo. Non per questo il mondo finirà con un crac, come una noce schiacciata. […] Può darsi invece che […] il mondo sia già finito senza che nessuno di noi se ne sia accorto. Finito, non come palla che ruota nello spazio e contiene uomini, ma come ricettacolo di un insieme di valori e di rapporti che ad esso noi credevamo consustanziali» (Variazioni, in «Corriere della Sera», 23 settembre 1969; ora in Id., Prose e racconti, a cura di M. Forti, note di L. Previtera, «I Meridiani» Mondadori, Milano 1995, p. 1127).

[6] E. Montale, A un gesuita moderno, in Id., Satura [1971]; ora in Id., L’opera in versi cit., p. 320.

[7] Id., Storia di tutti i giorni, in Id., Quaderno di quattro anni [1977]; ora ivi, p. 544.

[8] A. Zanzotto, Poesia e percezione, in dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini e F. Carbognin, Nuova Editrice Magenta, Varese 2013, p. 42. Il testo venne rifuso l’anno seguente sulla rivista «il verri», col titolo Tra ombre di percezioni «fondanti» (Appunti), per di lì confluire nelle «Prospezioni e consuntivi» del «Meridiano» (M 1338-1346); ma questo passo restò fuori dalla redazione definitiva.

[9] A. Zanzotto, La verità e la poesia, in A. Sinigaglia, Vent’anni al Duemila, introduzione di G. Manganelli, ERI, Torino 1982, p. 124.

[10] Ivi, p. 119. Già in un raro intervento degli anni Sessanta (al convegno Letteratura oggi: attualità di un impegno? Civiltà industriale e tecniche espressive, tenutosi ad Abbazia in Croazia, in «La Battana», 4, luglio 1965, p. 55) Zanzotto prendeva le distanze dal Freud ‘apocalittico’ del Disagio della civiltà (1930): quando «a mano a mano che la parabola della storia, della storia super-armata o super-‘producente’ per virtù della tecnica, sembrava avvicinarsi a un punto X, a un’esplosione, a un momento deflagrante».

[11] Cfr. Z. Bauman, Retrotopia [2017], traduzione di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2017.

[12] Zanzotto, La verità e la poesia cit., p. 125.

[13] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo [1927], a cura di F. Volpi, traduzione di P. Chiodi rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, pp. 215-216; Id., Lettera sull’«umanismo» [1946], in Id., Segnavia [1967], a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 285.

[14] A Kafka Zanzotto intendeva dedicare la tesi della sua seconda laurea in filosofia, alla fine degli anni Quaranta, senza giungere però a scriverla (➣ 86).

[15] La «réalité rugueuse» è nell’ultima prosa di Une Saison en enfer, Adieu («Io! io che mi ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi riportato al suolo, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere»: A. Rimbaud, Una Stagione in inferno [1873], in Id., Opere, a cura di D. Grande Fiori, introduzione di Y. Bonnefoy, «I Meridiani» Mondadori, Milano 1975, p. 263). La ‘scoperta’ di Rimbaud, insieme a quella coeva di Hölderlin, rappresentò il battesimo del giovane Zanzotto, nel 1938, alla poesia moderna (➣ 78).

[16] Il principio vale in generale per tutti gli «autori-critici» (rinvio all’introduzione, I piaceri degli altri, al mio Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 9-59), ma a maggior ragione in questo caso (si veda il bel saggio di M. A. Grignani, ‘Lapilli’ per Zanzotto critico, in Andrea Zanzotto un poeta nel tempo, atti della giornata di studi di Bologna, 23 novembre 2006, a cura di F. Carbognin, Aspasia, Bologna 2008, pp. 23-42).

[17] Heidegger, Essere e tempo cit., p. 169.

[18] Ivi, p. 218.

[19] Ivi, p. 300.

[20] Ivi, p. 318.

[21] Ivi, p. 314.

[22] Ivi, p. 318 (corsivo e maiuscoletto di Heidegger).

[23] Citati sono i versi, «righe mozze» le chiama anzi Zanzotto, di Die Linien des Lebens sind verschieden (F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, «I Meridiani» Mondadori, Milano 2001, pp. 1234-1235). Ma è citazione a doppio taglio: se si pensa a quanto più avanti significherà, per lui, lo Hölderlin della «Torre» (➣ 253-258).

[24] Seguo la dialettica che intitola un libro al quale devo molto: G. Ferroni, Dopo la fine. Una letteratura possibile [1996], Donzelli, Roma 20102, pp. 30-35 (cfr. su Zanzotto le pp. 72-73; ma soprattutto l’acuta notazione di p. 35 sul titolo della Beltà, Possibili prefazi o riprese o conclusioni, «dove si scambiano e si identificano il momento di cominciare, quello di riprendere o ricominciare, e quello di concludere»). Mi piace ricordare qui la presentazione del libro, svoltasi a Roma il 10 maggio 1996. Vi presero parte, oltre ad Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Edoardo Sanguineti e appunto Zanzotto (non riesco a ricordare se seduti fianco a fianco). Zanzotto intervenne sulla biblioteca come morte (trascrivo dai miei appunti di un quarto di secolo fa): «da una biblioteca di centomila volumi e una vita in cui se ne possono leggere circa diecimila deriva l’inutilità di ogni idea di cultura. Un’enciclopedia è una campana a morto che suona in continuazione».

[25] La distinzione fra principio di realtà e principio di piacere come antinomia fondante dell’Io è introdotta da Freud in Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (testo del 1911 che si legge in Id., Opere, edizione diretta da C. L. Musatti, vol. 6, Casi clinici e altri scritti, Boringhieri, Torino, 1974, pp. 453-460), ma il concetto è introdotto già in Su un tipo particolare di scelta oggettuale nell’uomo [1910], ivi, p. 411.

[26]  Almeno due volte lo incontrò di persona, Bloch: al convegno su Hegel organizzato da Livio Sichirollo a Urbino nel ’65 e soprattutto ad Asolo nel ’64, quando a presentarli fu Giuseppe Bevilacqua. Ha confessato Zanzotto: «Quell’incontro significò qualcosa di basilare, di essenziale, per me»: In questo progresso scorsoio, conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano 2009, p. 54 (➣ 89-90).

[27] E. Bloch, Il principio speranza. Scritto negli USA fra il 1938 e il 1947 riveduto nel 1953 e nel 1959 [1959], traduzione di E. De Angelis e T. Cavallo, introduzione di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994, pp. 235-236.

[28] Cfr. R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch [1979], Bibliopolis, Napoli 19822, p. 88. Dal canto suo Bloch aveva definito «il mondo della morte» di Heidegger e il «suo quietismo per i gregari» quelli di «un conciliatore e un propagandista del mondo tardocapitalista-fascista» (Il principio speranza cit, pp. 1340-1341).

[29] F. Hölderlin, Patmos. Al Langravio di Homburg [1807], in Id., Tutte le liriche cit., p. 317. Sulla lettura di questo Hölderlin da parte di Bloch, e la sintonia con Zanzotto, cfr. G. Cordibella, Hölderlin in Italia. La ricezione letteraria, il Mulino, Bologna 2009, pp. 131 sgg.

[30] Il dialogo con Heidegger dismetterà le punte più aggressive nell’arduo opus ultimum di Bloch, Experimentum Mundi. La domanda centrale. Le categorie del portar-fuori. La prassi [1975], a cura di G. Cunico, Queriniana, Brescia 1980.

[31] Id., Eredità di questo tempo [1935], a cura di L. Boella, Mimesis, Milano-Udine 2015.

[32] F. Hölderlin, Rimembranza [1807], in Id., Tutte le liriche cit., p. 345.

[33] «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento»: H. Arendt, Tra passato e futuro [1954], traduzione di T. Gargiulo, introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, p. 25. La citazione è dal frammento 62 di R. Char, Fogli d’Ipnos. 1943-1944 [1946], a cura di V. Sereni, Einaudi, Torino 1968, p. 49.

[34] «Questo difficile e pur tanto affabile poeta ctonio» è la definizione in clausola alla prefazione di Contini al Galateo in Bosco [1978], in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1989, p. 201.

[35] Cfr. M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo [2016], traduzione di V. Perna, postfazione di G. Didino, minimum fax, Roma 2018.

[36] Cfr. C. Ossola, «Oculus subsanguineus» [1983], in Id. Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, il Mulino, Bologna 1988, pp. 167-171.

[37] G. Agamben, Il «logos erchomenos» di Andrea Zanzotto [2010], in Id., Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura [1996], postfazione di A. Cortellessa, Quodlibet, Macerata 20213, p. 132. Questo saggio, pubblicato nella seconda edizione di Categorie italiane (Laterza, Roma-Bari 2010), corrisponde alla presentazione, a Venezia nel 2007, del libro-intervista di Zanzotto Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora la natura, a cura di L. Barile e G. Bompiani, nottetempo, Roma 2007.

[38] P. Celan, LE MENHIR, in Id., La rosa di nessuno [1963], in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, «I Meridiani» Mondadori, Milano 1998, pp. 446-447.

[39] In un’intervista ricorda Zanzotto che alle Crode del Pedrè «andava in gita scolastica quando era bambino»: F. Marcoaldi, Andrea Zanzotto: la natura, l’inganno, la peste. Meditazioni di un poeta, in «la Repubblica», 7 dicembre 2009.

[40] Bella la lettura in P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di Andrea Zanzotto, prefazione di R. Ricorda, Aracne, Roma 2012, pp. 84 sgg., che interpreta la singolare disposizione della nota «a capo pagina», «d’impaccio al raggiungimento dei versi», come se volesse «riprodurre il realmente ostico ed impervio raggiungimento delle crode del Pedrè, nascoste tra piccoli scoscendimenti e avvolte da una incolta e lussureggiante flora».

[41] Marcoaldi, Andrea Zanzotto: la natura, l’inganno, la peste cit.

[42] J. Hillman, Senex e Puer. Un aspetto del presente storico e psicologico [1967], in Id., Puer aeternus, traduzione di A. Bottini, Adelphi, Milano 1999, p. 125.

[43] Cfr. T. Häcker, Virgilio padre dell’Occidente [1931], traduzione di N. De Ruggiero, Morcelliana, Brescia 1935.

[44] Leopardi difende l’«introduzione di Ettore e delle cose troiane nel Carme dei Sepolcri» foscoliano: «perchè la nostra acquaintance con quei personaggi dáta dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto» (Zib. 4449-4450, «1. Feb. 1829», in Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit., vol. II, p. 2527).

[45] Rinvio al mio Qualcosa che c’è, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di G. Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012, pp. 14-19.

[46] G. Giudici, L’Eneide, di Andrea Zanzotto, in «L’Espresso», 12 giugno 1983. Lo stesso stratagemma aveva già adottato, Giudici, nel recensire l’antologia zanzottiana curata negli «Oscar» Mondadori da Stefano Agosti, Poesie (1938-1972): definendolo un «Petrarca filtrato dai getti del napalm» (Petrarca scampa all’esplosione, ivi, 8 luglio 1973). Di sicuro ricordava Giudici il progetto di traduzione a più voci dell’Eneide, ideato da Zanzotto nel ’61 e poi abortito (➣ 91).

[47] Cfr. C. E. Gadda, Cui non risere parentes [1963], in Id., La cognizione del dolore [1963-1970], a cura di E. Manzotti, Einaudi, Torino 1987, pp. 527-535.

[48] Cfr. M. Natale, Il sorriso di lei. Sul Virgilio di Zanzotto [2010], in Id., Il sorriso di lei. Studi su Zanzotto, Scripta, Verona 2016, pp. 29-30, 34-38 e 42-45 (il quale ricorda fra l’altro un precedente-filtro che non poteva lasciare indifferente Zanzotto: quello del Pascoli di Colloquio, corona di sonetti di Myricæ).

[49] Giusta il classico studio di D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo [1872], Luni, Milano 2017.

[50] Su questa figura archetipica del poeta si veda ora la singolare riflessione di F. Campagna, Prophetic Culture: Recreation for adolescents, Bloomsbury, London 2021.

[51] A. Zanzotto, Intervento, in «Ateneo Veneto», XVIII, 1-2, 1980 (ma: 1982), p. 175.

[52] Assai fini (come tutto il suo libro) le pp. 118 sgg. di L. Conti Bertini, Andrea Zanzotto o la sacra menzogna, Marsilio, Venezia 1984, che ricorda le «staffette» – lessema di inevitabile assonanza partigiana – della Beltà (infatti in Retorica su: lo sbandamento, il principio «resistenza»: M 309, P 275) e degli Sguardi i Fatti e Senhal (M 371, P 337).

[53] Cfr. G. M. Villalta, La costanza del vocativo. Lettura della «trilogia» di Andrea Zanzotto: «Il Galateo in Bosco», «Fosfeni», «Idioma», nota introduttiva di E. Mattioli, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 75.

[54] Volti di Giano intitola non a caso Bloch la raccolta dei suoi saggi letterari: a cura di T. Cavallo, Marietti, Genova 1994. Quest’opera di Bloch è presente nella biblioteca di Zanzotto, nell’edizione originale: Verfremdungen I. Janusbilder, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970.

[55] Bloch, Experimentum Mundi cit., pp. 126-129.

[56] Bodei, Multiversum cit., p. 163.

[57] E. Bloch, Differenziazioni nel concetto di progresso [1955], in Id., Differenze, a cura di G. Scorza, Argalia, Urbino 1962; poi in Id., Dialettica e speranza, a cura di L. Sichirollo, Vallecchi, Firenze 1967. La traduzione di Sichirollo, rifatta, è ora disponibile come volumetto a sé, con uno scritto di G. Bevilacqua e il titolo Sul progresso, Guerini e associati, Milano 1990 (la citazione a p. 52). Nella biblioteca di Zanzotto figurano sia l’edizione del ’62 che quella del ’67.

[58] Ivi, p. 59.

[59] Zanzotto, Eterna riabilitazione cit., p. 46.

[60] Id., In questo progresso scorsoio cit., p. 87.

[61] M. Cacciari, Per Zanzotto, nel numero monografico de «l’immaginazione», XXIV, 230, maggio 2007, p. 21. Qui Cacciari riassume, applicandolo al ‘caso’ di Zanzotto, uno dei suoi testi più impegnativi, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990 (si vedano in particolare le pp. 283-285, cui rinvia L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di Andrea Zanzotto dalla «Beltà» a «Conglomerati», Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 158).

[62] Agamben, Il «logos erchomenos» di Andrea Zanzotto cit., p. 129.

[63] Cfr. F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di Andrea Zanzotto, ETS, Pisa 2016, pp. 120-138.

[64] Cfr. Stefanelli, Il divenire di una poetica cit., specie alle pp. 42 sgg. e alle pp. 197 sgg.

[65] F. Hölderlin, «Quand’ero fanciullo» [testo del 1790 pubblicato postumo nel 1874], in Id., Tutte le liriche cit., pp. 577-578; ma cito dalla versione dello stesso Zanzotto, contenuta nel suo Con Hölderlin, una leggenda, ivi, p. XIII.

[66] «Di là», cioè dalla «terra d’Olimpo», «viene e indietro fa segno il Dio a venire»: F. Hölderlin, Pane e vino [testo del 1801 ca. pubblicato postumo nel 1896], ivi, pp. 920-921. Sul sincretismo fra Cristo e Dioniso cfr. L. Reitani, L’«errore» di Dio, ivi, pp. XLVIII-XLIX, e Id., Commento e note cit., pp. 1737-1738 (che fa riferimento a M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia [1982], traduzione di F. Cuniberto, introduzione di S. Givone, Einaudi, Torino 1994) e Stefanelli, Il divenire di una poetica cit., p. 249.

[67] Cit. ivi, p. 208.

[68] Cit. ivi, p. 43.

[69] Cfr. G. Manganelli, Hilarotragoedia [1964], Adelphi, Milano 1987, pp. 24-28 e passim. Per un parallelo fra Zanzotto e Manganelli ➣ 123-124.

[70] Hölderlin era il poeta più amato dal giovane Nietzsche, come dice nel 1861 (a 17 anni, dunque) in un saggio in forma di lettera nel quale fa cenno, fra l’altro, alla «morte causata da un divino orgoglio» di Empedocle, nella sua tendenza al «panteismo» (Lettera al mio amico, in cui gli raccomando la lettura del mio poeta preferito, in Id., Scritti giovanili, vol. I, 1856-1864, tomo 1, traduzione di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1998, p. 173).

[71] F. Hölderlin, Vocazione del poeta [1802], in Id., Tutte le liriche cit., pp. 256-257. Il passo è citato pure a margine della giocosa Poesia su Hegel enfant (in parte sognata), scritta in francese da Zanzotto in occasione del citato convegno di Urbino del 1965 (e pubblicata a più riprese: in Almanacco internazionale dei poeti 1974, La Pergola, Pesaro-Milano-Padova 1973, p. 119; con una nota di J.-Ch. Vegliante, in «Les Langues Néo-Latines», LXXXI, 260, 1987, pp. 160-161; infine, a cura di L. Stefanelli, in I novanta di Zanzotto. Studi, incontri, lettere, immagini, numero monografico di «Autografo», XIX, 2011, 46, pp. 140-149). La nota di Reitani (ivi, pp. 1454-1458) a questo singolo verso di Hölderlin, che ne passa in rassegna l’interminabile interpretazione, vale un intero saggio. Ne trattengo solo un’osservazione, l’analisi di un abbozzo del cosiddetto Libro in folio di Stoccarda, nel quale Hölderlin non sceglie fra i due esiti («finché il Dio non manchi / finché il Dio a noi resti vicino»), in quanto esemplare di un’ermeneutica fondata sulla filologia – come da aurei insegnamenti del passato – di cui negli studi letterari mi pare si sia da tempo perso lo stampo. Uno dei saggi che su questo passo cruciale Zanzotto dichiara di aver letto (M 353, P 319), L’itinerario di Hölderlin di Maurice Blanchot (in Id., Lo spazio letterario [1955], traduzione di F. Ardenghi, postfazione di S. Agosti, il Saggiatore, Milano 2018, p. 289), istituisce precisamente il nesso Hölderlin-Nietzsche (cui aggiunge Bataille: due anni dopo la Beltà da Rizzoli uscirà la traduzione zanzottiana di G. Bataille, Nietzsche Il culmine e il possibile, con un’introduzione di Blanchot).

[72] Il dialogo di Zanzotto con l’ode di Hölderlin è ricostruito con attenzione da S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di Andrea Zanzotto: un dialogo poetico e poetologico, Forum, Udine 2018, pp. 155 sgg., che si vale anche dell’avantesto dell’Elegia in petèl riprodotto in L. Stefanelli, Attraverso la «Beltà» di Andrea Zanzotto. Macrotesto, intertestualità, ragioni genetiche, ETS, Pisa 2011, p. 419.

[73] Frank, Il dio a venire cit., p. 32. Cfr. Stefanelli, Il divenire di una poetica cit., pp. 188-189.

[74] «Un Dio in cui il passato acquista un nuovo senso, che – come l’angelo di Klee interpretato da Benjamin – trasforma le macerie della storia in compiuta architettura e redime il sangue e le lacrime di tutti gli oppressi»: Reitani, L’«errore» di Dio cit., pp. XLVIII (e cfr. Id., Commento e note cit., p. 1783). Citata è la IX tesi Sul concetto di storia di W. Benjamin (testo del 1939-1940 pubblicato postumo nel 1942; a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 34-37).

[75] Epistola ai Romani, 5,14: «regnò tuttavia la morte da Abramo a Mosè anche su chi non peccò, per somiglianza con la trasgressione di Adamo, modello dell’Adamo futuro» (San Paolo, Le lettere, a cura di C. Carena, con uno scritto di M. Luzi, «I millenni» Einaudi, Torino 1990, p. 21). Oltre all’Eneide proposta a Mondadori, all’inizio degli anni Sessanta Zanzotto inizia a tradurre le Lettere di Paolo per l’editore Neri Pozza (➣ 104, 274, 299; una di queste versioni è pubblicata in M. Richter, Andrea Zanzotto: traduzione inedita della Lettera ai Colossesi di San Paolo, in Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto, a cura di M. Richter e M. L. Daniele Toffanin, ETS, Pisa 2013, pp. 99-108; le versioni paoline saranno incluse nel Quaderno di traduzioni di Zanzotto in corso di pubblicazione presso Mondadori: ringrazio Giuseppe Sandrini, suo curatore, per questa informazione).

[76] Il riferimento è a una serie di scritti di Edmund Husserl pubblicati postumi, in Italia sulla rivista «Aut-aut», 1965, 86, pp. 7-26, con un commento di M. Sancipriano, L’«Urkind» di Husserl, dove si trova il riferimento al sorriso del bambino (particolare ‘virgiliano’ che non poteva non incuriosire Zanzotto): l’agnizione di lettura, provvidenziale, è in Stefanelli, Attraverso la «Beltà» cit., pp. 378-379 (e cfr. 250n).

[77] Reitani, L’«errore» di Dio cit., p. LII.

[78] «Finora», prosegue Klee, «abbiamo rinvenuto dei frammenti, non il tutto. | Ce ne manca ancora la forza, perché noi non abbiamo il sostegno di un popolo. | Ma un popolo noi lo cerchiamo»: P. Klee, Visione e orientamento nell’ambito dei mezzi figurativi e loro assetto spaziale [testo del 1924 pubblicato postumo nel 1945], in Id., Confessione creatrice e altri scritti, traduzione di F. Saba Sardi, Abscondita, Milano 2004, pp.  49 e 53. Cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo [1985], traduzione di L. Rampello, Ubulibri, Milano 1989, pp. 239-241 e Id., La letteratura e la vita, in Id., Critica e clinica [1993], traduzione di A. Panaro, Cortina, Milano 1996, pp. 16-17. Rinvio a Le mani avanti (Giustificazione in forma di premessa), nel mio La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Fazi, Roma 2006, pp. XIV-XVIII.

Andrea Cortellessa insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Roma Tre e nel 2018 ha tenuto la Cattedra De Sanctis al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi e antologie, curato testi di autori italiani del Novecento e contemporanei, realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali.
Le sue ultime pubblicazioni sono:MLe notti chiare erano tutte un’alba. AntologiaMdei poeti italiani nella Prima guerra mondiale (Bompiani, nuova edizione 2018); Volevamo la Luna (Mattioli 1885, 2019); Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli (Luca Sossella, 2020); Vedere, Pasolini (con Silvia De Laude, Engramma, 2021). È nella redazione del “verri”, tra i fondatori di “Antinomie. Scritture e immagini” e collabora, tra l’altro, ad “Alias” del “manifesto”, alla “Domenica” del “Sole 24 Ore” e a “Tuttolibri” della “Stampa”.

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