La poesia di Mauro Imbimbo

Mauro Imbimbo

IL CORPO E LA MADRE

Corpo a corpo con il corpo,
sino a quando, a corpo morto,
rovinò sopra la madre,
di quel corpo la cagione,
per poterla annichilire
e rinascere in un corpo
incorporeo e scorporato
dal materno originale,
rispecchiandosi nel quale
tempo fa aveva dato
corpo a un corpo rigettato,
combattuto corpo a corpo,
sino a farne, a corpo morto,
la cagione d’ogni torto.

OCCASIONI PERDUTE

Imbarcarsi per Citera!
danno gli ultimi biglietti!
se si spera di sfangare
non ci resta che partire,
e tu resti a cincischiare,
ti rimiri nella spera,
col desio di ritrovare
quel bel tomo da balera,
ma la spera è affumicata,
non si vede un accidente,
ed intanto quel traghetto
sta lasciando ratto il molo,
e tu resti tutto solo,
col rimpianto e con la spera.

CONCLUSIONE

Sullo stato dello Stato
ogni lemma è stato usato,
e di crude e di cotte
v’è un elenco dettagliato.
Giunti siamo a quel momento,
il momento del commiato:
rinunciare a plausi e botte
e augurarsi buona notte.

DESTINI

I cani e i fanciulli
assieme al giardino.

La vita del gioco,
diletto con poco.
Restiamo a guardare,
ancora per poco.
Felice chi il gioco
amò pure poscia
che vita fanciulla
morì dando vita
dando vita
all’ansia per tutto,
piacere per nulla.

DECLINO

La Bellezza a primavera
marca visita di nuovo,
ha rimesso la panciera
e alla sera solo un uovo.
Teme i mostri culturali,
le richieste sindacali,
è insicura sui valori,
la carriera con il Bene
non l’attira come ieri.
Si ritira, pare chiaro,
darà presto dimissioni,
per le comunicazioni
indirizzo fermo posta.

PAROLA AL VENTO

Nella vita mortale
della morte parlare,
senza nulla imparare
circa il bene morire,
ritenendo che basti,
nella vita mortale,
nominare la cosa,
ed in dosi copiose,

per passare di là,
senza dazio pagare,
senza colpo ferire.

Mauro Imbimbo, da “Valori Bollati” (La Bussola, 2021)

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Giuseppe Martella, da “Porto franco”

Giuseppe Martella

Dalla postfazione di Rosa Pierno

Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che prevedano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra! […]

 

E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti
– quasi arrivati, e neppure mai partiti.

*

Tranche de vie. In versi
e scorre per un verso e per l’altro ritorna
tirata via a forza ma con arte
una fetta di carne viva
al ricordo – il sangue che ancora
cola – come in un macello
appeso al gancio dondola il vitello
appena macellato e ancora caldo –
lo sento se soltanto mi avvicino
a un metro e chiudo gli occhi,
e trattengo il respiro, mi tappo il naso
ma mi manca il fiato
sfioro la carne viva, prima che la ferita si
rimargini
prima che la spuma della vita
biancastra
ritorni secca e muta nei suoi argini.

*

Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.

*

Canone inverso

E breve breve mi ritorna in mente
il ritornello
però tutto a rovescio che non so
neppure se sia quello di prima
oppure un altro – o della foglia
il dolore nel ramo che si incrina
– sulla soglia dove il rumore
si trasforma in suono e poi parola
e poi vola fra me e te –
rimane fra di noi – come se
fosse un arcobaleno, sole
un effetto di luce nella pioggia
una lama nel cuore
un boomerang di ritorno
un osso di rapace
scagliato d’improvviso a ciel sereno.

Da Porto franco, Arcipelago Itaca, 2022

______

Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).
Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi let- terari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.
Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contempo- ranea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online.
Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sono già apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Raipoesia” di Luigia Sorrentino. Porto franco è la sua opera prima in versi.

Fra le sue altre pubblicazioni a stampa:
– Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB 1997;
– Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB 2006;
– G. Martella, E. Ilardi, History. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori 2009 (in duplice versione, inglese e italiana);
– Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori 2013;
– Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne 2014.

RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

SIGLA RAIPOESIA2022

progetto di Luigia Sorrentino
si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Giorgia Esposito, da “Smarginature”

Giorgia Esposito, Immagine di proprietà dell’autrice

Quanti cedimenti alla banda,
l’uno che vuole essere parte
ma non gregario, l’infelice
nel suo diaframma di senso,
il gesto che tradisce l’esilio.

Cosa caverai dal nucleo primo?

Qualcuno sta cercando i suoi,
il non ritorno, il bacio sulla fronte
del padre, il mondo-schermo,
questo tempo tutto da schiarire.

*

In quale pozzo fu benedetto, gli chiedo
sfiorando con paura l’assenza del mito,
il non approdo in cui si inarcò il vagito.

Per le lunghe scale è l’eco la dimora
dell’orco, e più su la campana cinerina
dell’infanzia, l’odore acre del limone –
incredibile credersi salvi.

Tu respingi le due braccia tese
nello sforzo di separare i lembi.
Tu vuoi l’intero nella crepa. Continua a leggere

Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Nota di Milo De Angelis

Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei grandi poemi greci o indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni. La metafora regna sovrana nelle pagine di Ibello e connette creature infinitamente lontane tra di loro – “il cimitero della sete”, “una giostra di tagliole e vento”, “la chiromante delle ustioni”, “il santuario delle nebbie”, “flagelli di margherite” “la nomenclatura delle vene”, “il battesimo incendio”, “l’alba dei rasoi” – creando legami sotterranei e inattesi, gettando il mondo visibile nei baratri del mondo infero.

Platone è il filosofo di quest’opera, soprattutto il Platone dello Ione, quello che sente nel poeta un essere posseduto dalla sua arte, un essere demoniaco che non sa di sapere. Ma sono molti gli autori presenti nell’opera di Ibello – uomo dalle vaste letture – e tuttavia più che maestri di stile sembrano invisibili fratelli di sangue, alleati in una comune avventura e in un comune viaggio nel fiume della natura, nelle sue correnti segrete e animistiche: è una natura vivissima, percorsa da forze impetuose e assassine; una natura popolata di animali e di fiori, antilopi, gru, gatti, cigni, cormorani, pinete, anemoni e aranceti, una natura straripante, assetata, minacciosa, sempre prossima a sprofondare nelle tenebre, sorella del Barocco spagnolo, quello più impregnato di morte.

Dialoghi con Amin è un grande e originale poema notturno ed è un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere, ci viene detto e ripetuto. “Amin, è quasi giorno” e noi sentiamo che questo “quasi” è una soglia magica e questo “giorno” muterà la nostra vita, come nelle aubades della poesia provenzale, quando il giungere dell’alba separava gli amanti e li consegnava alla loro solitudine. Qualcosa di immenso sta dunque per compiersi. Ma non sappiamo ancora di cosa si tratta, non riconosciamo il volto del Mutamento. Sappiamo che non è un semplice amore, una semplice morte o una semplice rinascita. Questo ci viene detto più volte. “Credimi, noi non stiamo per rinascere”. E non si tratta nemmeno di un paradiso o di un inferno. No. L’imminenza continua a nascondere i suoi piani e ci lascia all’oscuro, come in una moderna Apocalisse, per citare un’opera cara a Giovanni Ibello. Rimane quest’estrema vigilia nel cuore della notte, rimane “la lesione tellurica del buio”, come scrive il poeta. “Di quello che sognavi veramente / non resta che un silenzio siderale / una lenta recessione delle stelle”. Rimane qualcosa che non ha tratti umani. “Ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.

“Ogni cosa rivela /quel nulla che siamo già stati”. Qui non si parla solo di noi, non si parla solo della nostra brama di amore e di felicità. C’è in gioco in questi versi un mutamento sterminato, un dialogo amoroso tra le potenze della natura, qualcosa di remoto che non ci ha mai sfiorati e insieme qualcosa di vicinissimo che abita nel nostro seme. Forse è l’universo che si fonde con noi, come dice l’epigrafe di Adonis, o forse è un altrove che ci coinvolge nel suo alfabeto incomprensibile, un “altrove di spine e diademi” che ci conduce a spezzare i vetri dell’esistenza, una bufera che rade al suolo tutte le nostre parole, uno sprofondamento “nel grembo della cancellazione”, qualcosa che ci getta in balia dell’attesa, di una pura attesa senza oggetto. O forse è qualcos’altro ancora, qualcosa di impensabile e violento che supera la nostra intelligenza. Non sappiamo cosa, ma sappiamo che accadrà, scrive Giovanni Ibello, accadrà per intero e tragicamente, dopo aver seminato le sue tracce misteriose in queste pagine.

Tracce misteriose, indubbiamente, perché la parola di Ibello non è mai dispiegata, non si estende mai in orizzontale per chiarire se stessa e aggiungere dettagli. Si guarda bene dal dilungarsi in spiegazioni non richieste, si tiene stretta alla propria unicità e obbedisce al comandamento di Cristina Campo posto in epigrafe: non dobbiamo sprecare le nostre frasi, non dobbiamo offendere il nostro silenzio, perché “di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto”.

Ecco, il silenzio. Il silenzio è uno dei protagonisti di questo libro splendido e irripetibile. Ci impone le sue regole di ascesi e di clausura: le nostre preghiere avvengono nel buio degli hangar e noi le ripetiamo come giaculatorie dinanzi a un dio demente, con la paura di essere inghiottiti dall’afasia o da un mutismo sbigottito, un addio che ci attende e suggella ogni nostro gesto, rendendolo così glorioso e vano, sempre sul punto di precipitare in un tacito burrone di ombre. Come ci ricorda il poeta: se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una.

Vorrei concludere soffermandomi su un’altra epigrafe che Giovanni Ibello colloca in una posizione importante, in apertura di libro: alla poesia, che mi farà solo. E davvero la solitudine regna sovrana in queste pagine. È una solitudine carceraria, uno stato di isolamento rigoroso, una reclusione che non ammette sconti di pena se non qualche istante di libertà vigilata in cui il poeta getta uno sguardo sul mondo prima di tornare in cella. Ed è uno sguardo prodigioso e lancinante, quello di Ibello, uno sguardo che arriva a farci dubitare dell’esistenza stessa – “mai nessuno ci ha chiesto di essere vivi” – e ci proietta in un interregno di fantasmi al di là di ogni presenza terrena, assediati da scene perdute che affiorano all’improvviso o da intuizioni divinatorie sul destino che ci attende. Vita sempre sognata, mai vita. È una vita dove appare impossibile spartire stabilmente qualcosa con un altro e dove entriamo in una metamorfosi perenne, senza pausa e senza appoggio, sospesa tra la Napoli attuale di Diego Armando Maradona e lontane regioni della terra inondate di sole, un’eterna Mesopotamia di dune, deserti e ziqqurat, dove la luna illumina sempre la sabbia e Adonis innalza il suo canto solitario, solitario come il protagonista di questo poema, che può sancire la sua avventura umana solamente con queste parole incolonnate:

Amin
noi
siamo
soli.

_____________

da Dialoghi con Amin, Crocetti Editore 2022

io non torno più

Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”. Continua a leggere

Gian Mario Villalta al Teatro Bellini

Gian Mario Villalta presenta a Napoli il 2 dicembre 2022 alle 17:00 la sua ultima raccolta di poesie Dove sono gli anni (Garzanti, 2022)

Gian Mario Villalta

Dialogano con l’autore Antonella Cristiani e Alberto D’Angelo

 

Da “Dove sono gli anni“, di Gian Mario Villalta, Garzanti 2022

 

Sempre ti manca quello che hai: vivere.
Qualcosa di più necessario, seguiti a chiedere,
qualcosa che ti convinca, ti vincoli a.
«Perché continuo a scrivere?»
Forse perché puoi finire
lo fai, come uno cammina di sera
prima di cena, o un altro vanga l’aiuola,
o mette a posto il garage, perché tu potresti
– come lui – non varcare più l’ombra
dei lampioni, l’altro smettere di sperare
che germini il seme o più non sapere se le sue cose
sono ancora lì – potresti così tu non essere
più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu
che diventi tu che lo scrivi.

*

Anni fa, adesso, lo stesso pensiero di non tornare più
quel momento che la mente ristampa e pare uguale
mentre accampa la strada, è novembre, e sono le foglie
la quiete che manca, i rami neri nel cielo che c’è.

Adesso, allora. Soltanto più tenue è il respiro del tempo
che sfiora gli anni e le ore dove provi i risvegli e gli insonni
globuli rossi, i globuli bianchi, le cellule si avvicendano,
qualcuno che diventa qualcuno, a tua insaputa, tu.

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Alfonso Guida, da “Il Tassidermista”

Scrivere non è ricevere lettere.
È ciò verso cui lancio un destino.

I VOLTI LA SCRITTURA

Quello che chiamo Dio
è la non ignoranza di me.

L’orfano va per cardi.
Le capsule di cianuro in bocca ai bambini nel sonno.

Quello che chiamo Dio
è uomo che scende
dove rimane
tra l’inciampo e l’indulto, dove
nullo è il soffio e l’involarsi
dei primi fischioni.

Scrivi: fuoco e fune sul tetto.
Scrivi: inevaso.

LUCO

Alle bandiere fredde
di febbraio il tempo si ferma e trincano
tutti. le brocche e i bicchieri si svuotano.
I doni sono tracce di occhi.
Altri doni sgombrano il tavolo e noi abbiamo una
visione calcinata, un biancore scheggiato di fossili.

Torna, imperante, l’ombra,
la parola incavata a sera. Forse
verranno tardi i bevitori gagliardi, una posa
tra falconieri e giullari. Eppure resta una statuaria
sotto il vuoto di una fuga noiosa. E, nel gelo,
dietro le porte inchiavardate, si masturbano, folli
di una notte vorticosa e stellata
che si aggira per Via Muro Barbieri,
le mani in tasca, il vino nella grotta.

 

TEMA BRODSKIJ

Povera morte sola
rispondi quando vuoi, ti prendi tempo.
Aria di pioggia, nostalgia del primo
passo vuoto. Non le aste
d’acciaio o il mostro in cattività.
Buio di occhi, buio che vedi
l’estate con la zappa sui formicai.
Nell’acqua la corona di papavero.
Nella controra tu vieni intorno al vento e lasci
la pietra di ubbidienza e la preghiera
che fa mansueto chi sale e scalfisce.

Povera morte sola
squassando la tenebra tu riluci
con le voci addosso e la madre asciutta
nei moniti e filiale nell’incanto.
Fin dentro i crepacci io ricordo te che
segui un riflesso e un passato di allievi.
La stanza illuminata entra di notte
nei bouquet e nei fuscelli tremando
contro una lingua offesa
contro un linguaggio che fende attraverso
la fragranza di frutta e le labbra gonfe
che tornano qui,
Torniamo anche noi, più alti
di ogni immagine, tra la sabbia che si ostina a tenere
le tracce ed è una spiaggia che latra da vent’anni
come il padrone di Itaca
come il padrone festoso e selvaggio
che dorme accanto al suo cane in un lenzuolo madido.

Povera morte sola
chi ti ama aspetta una lunga carestia.

Più cupa stasera l’aria della terra.
Piccola fiamma di un’attesa amorosa, avanza. Continua a leggere

Silvia Rosa, “Tutta la terra che ci resta”

Silvia Rosa, photo di proprietà dell’autrice

All’estremità della notte le occhiaie
ci confortano, piccole chiazze di lune
piene sul volto. La redenzione del tunnel,
con i suoi boati corvini e le falene-bussole,
è una strada d’alluminio che accoglie
i nostri fantasmi, a 150 km orari.
Il roseto di abbagli ed errori resta fuori
da questa griglia di Hermann: le fucilate
degli antinebbia e i rimpianti sono espunti
da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.

Manca profondità a questo andare,
uno sguardo d’insieme, il talento
di sopravvivere alle lesioni del buio

*

È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.

Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?

*

È un lampione questa luce che piomba sul tavolo,
allaga il conto delle notti a venire, un rebus scritto
con avanzi di briciole. La strada posa la sua coda
sonora per terra – dentro o fuori non fa più differenza –

Una volta c’era una casa fra ottantatré geroglifici urbani
e tre colate di cemento in tiro, puntati negli occhi:
una sagoma abita la sera, dietro una lamina di dubbi,
nell’odore cinereo, come sfugge – ma dove –

domani le voci si stendono ad asciugare tutti gli incubi Continua a leggere

Opere Inedite, Luca Chendi

Luca Chendi, foto di proprietà dell’autore

Tramuta nel corpo del padre di mio padre
la filosofia che il tempo lascia come
lo screpolare sui muri sgravi delle labbra.
Riconosco nelle parole le cose dove
sono ancora i tratti che parlano per noi.
Qui lei, la sorte, ritarda a partire
anzi si ferma del tutto.
Amare sarà adagiare le difese
carpire insieme lo spazio
lacrimare ogni bacio in un addio.
Non c’è divario che colmi il tempo
allora gli stendo un abbraccio nel letto.
Aspetto che consumi più lieve il suo dolore.

*

Raramente mi riduco a esitare la carezza tra generazioni
mio padre in dolore a quarant’anni
che perde l’amore di suo padre mantiene
infernale la ferita.
Noi vivi e lui nel taglio dove
tutto è interno a tutto
a cominciare dal sorriso
che portava sempre inciso anche
nelle ultime foto di famiglia.
Di notte mi fermo a prendere la carezza tra generazioni
rivedo un uomo stanco consumare
i lineamenti dell’amore
scambiare per me il dolore
in felicità.

*

Adesso è soltanto pianto che rimane sui vetri
e nella lacrima che appoggia quasi una pioggia da ascoltare.
Avrà una lunga battitura il grano.
Da dentro dove gli armadi si innalzano
ai nugoli bianchi del cielo
tutto l’intonaco crepa alla vita:
un pretesto nel resto che rimane per la sera
un riflesso nel piatto dove scarto le croste
un ricordo dove sono immerse
le nostre ultime fotografie.
Non accenna nemmeno una fiamma la candela.
Non vedrò così le ombre degli assenti
gli odori degli aromi del frutteto
nessun dolore se non dolore cieco
è notte tra gli occhi il mio sollievo.

*

Traccia tra i morti che ritornano in inverno
tra la neve e le navate, un ponte
verso il corpo. Incurvalo
nel momento in cui i ricordi si fermano
dove le strade sono piene di fila.
Rincorrili sui vetri fino ai vetri di casa
seguili ora dentro il suono dei clacson
ora nel caos delle campane.
È così cara la celebrazione che speriamo duri
e che invece stabilisce una fine
tra l’amore e il vento a venire
su dalla pianura.

*

Quanto pesa il grano del giorno
quando vedo il tuo corpo a riposo
riflesso nelle ultime luci della sera.
La notte è solo un luogo in cui fare a modo
io so per certo il tuo abitarlo
è comprensione del buio. L’oscuro
si irradia nelle vene fino
a creare un confine sul volto.
Nelle conche c’è ancora ammiccato
il residuo di un sorriso mentre
intorno è l’attacco infinito della notte.
Questo stare proibito nei corpi
questo intimare alla vita che porti
è come un presagio.
Qua l’ombra muta
si fa febbre sulla fronte e mi appartiene.
Il dolore è freddo in transizione, a distanza
si accosta sul respiro dell’alba.
La sua nella mia voce è un ricordo
che sale ogni giorno col sole. Continua a leggere

Giuseppe Carracchia, da “Stanze della luce”

Giuseppe Carracchia

Il muro

«[…]
sarà questo il mistero del chiodo:
tingilo d’azzurro e piantalo nel vuoto»

Sorridere è mordere azzannare
una violenza inaudita,
è fare del male al male

dissipare quell’aria pesante
quell’aria tagliare
con un colpo di mano netto

separare il niente dal niente,
ricongiungere detto e non detto.

*

Come un cieco avanzare
come per afferrare qualcosa che era
pesante, che era presente lo giuro

qualcosa che appena colpita sfregata disfatta
non è più che aria,
ricongiunta chiarezza,

nient’altro che aria svanita:
aria di zolfo e sacrosanta presenza.

*

Non importa del buio, non importa.
Una scatola di fiammiferi in tasca
è più di un’idea che conforta,

con un colpo di mano netto
separando il niente dal niente
dando fuoco di colpo al non detto.

«Azzurro, azzurro ed oscuro
azzurro accecante
ben oltre i detriti del muro».

 

Venendo meno gli occhi

Un’aiuola
col recinto di legno bianco
su più livelli, e molti moltissimi fiori
dei più svariati colori,
tutti frutti del riciclo
meravigliosi, margherite
rose gigli e garofani
e ciuffi d’erba
violette ed erba vento
e altri stupendi
non ancora tassonomizzati
alieni fiori di plastica.

Ed io nuovamente commosso,
e col terrore di me stesso.

 

Pneumatica

«La virtù del chiodo che regge frattura
e vuoto svela la falsità del niente:
compiutezza del ragno che ha mura
e casa in aria d’un prisma lucente»

 

che sappiano tenere sospeso
nella mano trenta quaranta cento chili
il peso della grazia, senza tremare.

Ridi pure, è per te che mi alleno.
Per te che verrai
e vedendo queste braccia capirai.
Ma se ridi, ridi più forte
di gusto, sapendo che nel cuore della notte
capita, non sempre
ma il più delle volte,
di deporre questa parte così maschia
e di volersi nonostante
l’ostinazione di questa massa muscolare
di volersi nient’altro che rannicchiare
come si dice – a cucchiaio
proprio così, e premere
ad esempio un dito sulla sua pelle
fingendo lo sbaglio;
sapere che in quel punto
per una ragione ben precisa,
nonostante il buio, il sangue si disperde
facendo più bianca la pelle
e poi ritorna.
Sentire che nel sonno si avvicina,
indietreggia, ti cerca.

Giuseppe Carracchia. “Stanze della luce”,  Prefazione di Fabio Pusterla, Moretti&Vitali, 2022 Continua a leggere

Mariagiorgia Ulbar, da “Hotel Aster”

Mariagiorgia Ulbar

1

Sulle strade, alla mia destra, vedevo sempre macchie di sporcizia.
Tornando a casa di notte le vedevo nella direzione laterale del mio sguardo: questo mi ricordavo più tardi, muovendomi per le poche stanze per molto tempo, nel lungo tempo impossibile da narrare che intercorreva tra il mio essere coperta da vestiti e la svestizione. Guardavo il mio corpo e le espressioni in ogni superficie specchian- te che li ritraesse a un mio passaggio casuale e in segui- to ragionavo. Sono sola, registrata pedissequamente da un occhio esterno, estraneo, non so se di telecamera, di uomo o di padre. Ho accumulato storie, le ho sgranate: una contentezza repentina e convulsa mi coglie al pensie- ro del numero: non le racconterò, ma sono in grado di enumerarle.

Da qualche tempo vado raccogliendo una selezione di meraviglie: gocce di vetro soffiato turco, una fibula proveniente da una necropoli del VI secolo a.C., una gabbia per uccelli di legno, due piume, fotografie in bianco e nero di gente morta, portasigarette con iniziali incise, la zampa tagliata di un collo di volpe, caratteri tipografici in piombo, carbon fossile. Ho raccolto tutto nella mia stanza: saltuariamente la attraverso fingendo di essere un’estranea e una buona osservatrice e passo in rassegna gli oggetti per procurarmi stupore.
Tuttora ogni pomeriggio mi stendo sul letto o sul divano per traverso e con le mani mi aggrappo alla stoffa dei pantaloni o delle calze vicina all’inguine, il tessuto si tende e preme nel punto che conosco da vent’anni, quello che inizialmente faceva nascere e crescere un verme che fuggendo fuori mi dava una scossa elettrica e che adesso fa nascere un’onda calda e breve che mi conserva calma e senza testa per alcuni minuti.

Lo ripeto più di una volta.

La ripetizione è un concetto che genera sentimenti di superiorità in chi ascolta, che riterrà di aver colto l’ora- tore in fallo o distrazione: debolezza oppure incertezza, poca conoscenza della retorica, troppa indulgenza verso se stessi, povertà.
Io avevo sposato la ripetizione, certa che, presa in considerazione scientemente, conteggiata, avrebbe fatto affiorare le intenzioni inconsce.

2

Non amavo sentire pronunciare frasi come
torno a casa e mi infilo nel letto, è ora di andare a dormire,
vado in branda,
ho ore di sonno arretrate.

Avevano attinenza con la morte,

rifiuto l’idea del bisogno, ma soprattutto rifiuto l’idea del
dovere o volere cedere a quel bisogno.
Il sonno non mi appartiene o
mi appartiene quanto la morte,
come termine che allude alla rovina o a una liberazione
dal sapore orgonico.

*

Il senso di non appartenenza non ha a che fare con la disaffezione. Sono divisa, spaccata, e la spaccatura mi conduce sul filo rosso di una lunga serie di giorni che chiamerò la mia esistenza.

*

Sul confine tra il fastidio e il piacere ho fatto proliferare le mie più fervide convinzioni.

*

Un uomo possedeva un bel fucile con cui uccideva begli animali.
Io amavo il fucile e gli animali.
Disdegnavo l’atto che mette in relazione il primo con i secondi, ma era la natura sporca di quell’atto che mi componeva.

*

Non posso fare a meno di concentrarmi su tutti gli elementi che formano una giornata, non posso distrarmi, devo descrivere tutto ciò che accade. Non apro la bocca per darle voce, ma la descrizione di ciò che vedo deve essere portata avanti sistematicamente. C’è una finestra io guardo la finestra sento dei rumori dovrebbero essere macchine che lavorano in un cantiere più tardi dovrei uscire ho corso corro le scarpe si muovono c’è una pozzanghera bagnata l’acqua mi bagna le scarpe un uomo sulla panchina ha un oggetto in mano non capisco che oggetto sia è la seconda volta che passo di qui starà pensando che è la seconda volta che passo di qui il ginocchio mi fa male sono trascorsi ventisette minuti vado verso casa c’è il sole sono arrivata devo stirare i muscoli salgo le scale il pavimento delle scale è macchiato di scuro entro in casa ora devo pranzare e scrivo due righe e adesso mi alzo e vado in bagno e ora faccio un caffè nel frattempo lavo sarà il tempo giusto del caffè che sale poi sono pronta quando è salito le scarpe devono asciugarsi devo comprare biglietti
il tempo non basta

*

Didascalie, e figurarsi sentimenti alti, avvenimenti eccelsi, cercare. Cerco come un cercatore d’oro, setaccio, ma l’esaltazione mi abbandona presto. Visualizzo una topografia costituita da paesi intermedi di colline e terrapieni e una popolazione che si dirada.

*

Ci fu un’epoca, a un certo punto, in cui ogni picco o abisso iniziò a sembrarmi raggiungibile, possibile, normato, e presi ad amare il sonno.

da “Hotel Aster”, Mariagiorgia Ulbar, Amos Edizioni, 2022

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A Roma la conferenza stampa del Premio Strega Poesia

Il 26 ottobre 2022, alle ore 11.30, nasce il Premio Strega Poesia

 Dopo lo Strega Europeo, lo Strega Giovani e lo Strega Ragazze e ragazzi arriva un premio dedicato alla valorizzazione dei poeti troppo spesso trascurati dai media, dai lettori e talvolta anche dalla critica, ma che stanno guadagnando sempre più spazio sui social grazie agli instapoet e ad altri fenomeni.

Il Premio Strega continua così quell’operazione di allargamento dei suoi orizzonti voluta dal linguista Tullio De Mauro, a lungo presidente della Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e del Comitato direttivo del Premio Strega, che ha cercato di portare il Premio sempre più vicino ai lettori e ai ragazzi delle scuole di tutti gli ordini proprio attraverso il ‘Premio Strega Giovani’ e il ‘Premio Strega Ragazze e Ragazzi’.

Un’eredità portata avanti e rilanciata ora dall’attuale presidente Giovanni Solimine e dal direttore Stefano Petrocchi con il Premio Strega Poesia, il cui regolamento e caratteristiche verranno svelate nella conferenza stampa di domani a Roma.

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Premio Internazionale di Poesia civile di Taranto. A Angelo Lippo, il Premio alla memoria

Angelo Lippo

Le icone non escono più a passeggio

I bambini vestiti a repertorio
all’assalto dei carretti di noccioline
e dei palloni che finiscono sempre nell’aria.
La gente che modula il passo
nella calca dei saluti e degli abbracci
mentre la musica spazza alta le case.
Un tempo al mio paese
le icone uscivano più spesso a passeggio.
Questi nostri occhi tumefatti
non sono buoni a lanciare preghiere.


Il Sud ribaltato

Dipingere di nero
le facciate delle case
del mio Sud è una voglia
che mi scoppia dentro

per scacciare l’orgia
consumistica dei mattini
lattiginosi e delle foglie

di fresca lattuga nell’orto.

per mettere la parola fine
alle luci che riverberano
sulle marine battute dallo scirocco.

Dipingere di bianco
le gramaglie delle bigotte
che recitano il futuro
tra una preghiera e una gravidanza.

Dipingere di libertà
le spalle abbronzate dei contadini
è un male che m’inchioda
alla terra e mi fa sanguinare.

Per dipingerlo così, il mio Sud,
Storia:
la mia vita ti cedo.

*

Se il sudore lasciato sulle zolle
non sarà stato inutile.

Se la fame urlata nel tempo
una spiga di grano avrà placato

Se l’acqua degli asettici rubinetti
avrà scacciato il pericolo del morbo.

Se i bambini a scuola non avranno
soltanto imparato a leggere e a scrivere

Se i treni non saranno
partiti per non più ritornare

Se questo un giorno accadrà
anche la morte avrà il sapore della fragola
colta di primo mattino
e gli occhi di una fanciulla innamorata.

*

A un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
mi sono giocato
il folclore che tutti amano
per inchiodare le colpe
le responsabilità consumate
nel tumultuare dei secoli
passati infruttuosi
come le aride zolle
sulle quali fu vegetato
creando a priori il deserto.

Ad un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
ti ho barattato folclore
in nome di miei figli
in nome dei miei nipoti.

*

Ho morti d’avanzo da lasciare
a testamento della mia sofferenza,
ma il difficile è ripetere qui
i nomi altisonanti o plebei
che la Cronaca ci onorò di darmi.

Ho morti d’avanzo che non sanno
acquietarsi nelle tombe troppo
strette per reprimere l’angoscia
che Qualcuno mi assegnò.

Ho morti d’avanzo da regalare
in confezioni dono – nastro rosso fuoco-
ai Politici che in vita di solitudine
e di abbandono mi coprirono.

Ho morti d’avanzo per tutti.

Classe 1939

La mia è una generazione di traditi.
La storia ci ha delusi come uomini
nutrendoci l’infanzia di paure e sgomenti
che non sapevamo e potevamo spiegarci,
né dopo, abbiamo compreso l’Urlo
disperato / gioioso della Liberazione.
Poi, paghi di corse al sole,
c’invase il raptus del benessere,
e ancora una volta ci trovò impreparati
e già vecchi il rumore del Sessantotto.
Non lasciarsi morire
da utili idioti
ora è l’ultima trincea possibile.

L’ostinato orgoglio della verità

Dopo quarant’anni d’inerzia
finalmente c’è chi scuote la mia gente
che non respira più
per paura di morire.
Il cielo plumbeo si è affrettato
a decimare le residue forze.
Eppure Dio non umilia mai
il suo popolo nelle fauci dell’oblio.
Tutti tacquero nell’ingordigia
del tintinnio del vitello d’oro,
senza accorgersi che greggi
morivano nei prati
o venivano abbattuti
dalla mano dell’inciviltà.
Forse erano uomini da piegare
al vento della discriminazione,
anche se nei loro cuori battevano
orgogliosi i segni di un tempo.
Così, dall’alto ci fu chi
pensò che bastava ignorarli.
Nessuno s’accorse
o peggio finse –
che un bambino
troppi bambini –
potessero essere uccisi
dal fumo delle ciminiere.

A turno mentivano e tarpavano le ali
lanciando il coltello del ricatto.
Ma un giorno
venne fuori il coraggio
l’ostinato orgoglio della verità
e si troncò il turpe mercato.
E fu la svolta della Storia.

Angelo Lippo, “LE RADICI NEL CIELO – ANTOLOGIA POETICA (1963-2011)”, Bertoni Editore, 2021. Continua a leggere

Stefano Vitale, “Si resta sempre altrove”

Stefano Vitale

Nota di lettura di Alberto Fraccacreta

La poesia di Stefano Vitale è un punto sospeso «tra il Tutto e il Niente», ossia un «più profondo osservare l’esistenza nella sua complessa dialettica fra esistere e scomparire», come scrive Alessandro Fo nella prefazione a Si resta sempre altrove (puntoacapo Editrice, pp. 122, € 15,00). È infatti un testo, quello di Vitale, concertato sulla stanzialità caproniana dell’attendere un qualcosa in arrivo, la «sospensione di senso» in grado di «passare oltre».

Lo dimostrano anche i titoli di sezione, così liricamente calcarei: Nella quieta servitù dell’attesa, Si resta sempre altrove (sequenza che si estende su tutta l’opera), La voce, soltanto la voce, Lo stato dell’arte, Effetto notte, Circostanze, Piccolo requiem. Alfredo Rienzi nota, nella postfazione, l’attitudine di Vitale a una «poesia pensante». Eccone un esempio notevole: «Cerchiamo la parola esatta, àncora / che viene dal bene /che ci afferri come un destino. // Cerchiamo la parola esatta, luce / nella piega delle labbra /nel gesto lieve delle dita. // Cerchiamo la parola esatta, argine / che ci renda lo splendore del silenzio / senza vergogna né rassegnazione. // Ma quel che abbiamo è / un alfabeto muto / passo senza cognizione / pieno d’errori / distrazioni, omissioni».

L’ideale stampo di questo brano, costruito su un forte nesso anaforico, è Non chiederci la parola di Montale. Anche in tal caso la “negatività” del dire genera per contrasto il desiderio di una parola poetica alta e altra.

 

*

 

Il tempo di una rosa
quello di una vita

improvviso fiorire
lento disfarsi

nel profumo dell’erba
ricamato di luce

nell’istante del disastro
di petali precipitati

cercare la salvezza
nel taglio estremo

c’è il calore del corpo
dimora in cammino

verso l’altro capo delle cose. Continua a leggere

Alessandro Ramberti, “Enchiridion celeste”

Commento di Alberto Fraccacreta

L’Enchiridion (letteralmente, ‘ciò che si può tenere nella mano’) è un manuale che raccoglie le lezioni del maître à penser, come se fossero «a portata di mano». Esiste, ad esempio, l’Enchiridion di Epitteto, un trattatello vergato dallo storico greco-romano Arriano di Nicomedia, non troppo difforme nel contenuto dalle Diatribe del filosofo stoico. Alessandro Ramberti, con questa sua lieve e intensa raccolta – divisa in due parti, Idilli e Piccolo manuale per abbracciare il cielo –, intende mostrare al lettore la saggezza di vita adunata nel corso degli anni, in virtù di uno sguardo rivolto al «celeste»: protagonisti sono Gesù e la sapienza cristiana (particolarmente in Noi siamo la risposta, Grazia, Spogliazione, Benedizione, Sale), ma non mancano incursioni nella tradizione orientale (Fúhào 符号), com’è consuetudine nei versi di Ramberti. La scrittura è metricamente cadenzata, rispettosa del verso naturale, piana, metastasiana.

*

Non sono venuto a metter pace…

La spada di Gesù
è un taglio all’illusione
ci mostra e ci ricorda

il gesto balbuziente
di quel Mosè esiliato
richiamato dal Fuoco

a sé stesso al suo popolo
a diventarne guida
sapendosi imperfetto.

Perla

In noi c’è un algoritmo
moltiplica le cose
che possono cucire

i baratri fra i corpi
può anche alzare muri
di pensieri. È un programma

senza massa – distende
legami di empatia
ma se non l’attiviamo

se ne sta lì inerte
nel nostro io – richiamo
latente a rifiorire.

Fuori di te

Se sei disceso a fondo
nel pozzo malinconico
unendo la distanza

dall’orlo-occhio di luce
all’infimo sostrato
inevitabilmente

come ogni navigante
avrai sperimentato
l’impulso di gridare

magari senza voce
certo completamente
rivolto oltre te stesso

come se ti vedessi
da un’altra angolatura
fuori di te soccorso

dai volti sorridenti
alcuni sconosciuti
ai quali avrai sorriso. Continua a leggere

Luciana Frezza, “Parabola sub”

Dal 26 settembre una nuova collana di poesia “Le mancuspie”  sarà in libreria. Inaugura la prima uscita la poetessa romana con prefazione di Walter Pedullà. 

Luciana Frezza

«Nel racconto breve Cefalea, presente nel Bestiario del 1951, Julio Cortázar immagina un allevamento di mancuspie, curiosi mammiferi il cui aspetto è lasciato in gran parte all’immaginazione dello spettatore.

Se non opportunamente accudite, le mancuspie sono in grado di trasmettere il proprio malessere agli uomini che se ne occupano, nella forma di un’insopportabile cefalea. Gli allevatori, tormentati dalla cefalea da mal-accudimento, trovano apparente sollievo nella medicina omeopatica, si scoprono dipendenti da erbe come la Belladonna, l’Aconitum, il Cyclamen.

Cure naturali, s’intende, che idealmente sollevano l’uomo dagli effetti collaterali di una scarsa cura per il mondo che lo circonda» (da luogo_e).

Da questo spunto viene l’idea che la poesia sia per certi versi paragonabile allo strano mondo animale fantasticato dallo scrittore argentino. Nella collana saranno ospitate monografie inedite e antologie di autori già largamente consolidati, ma anche rari repêchage che riproporranno testi di assoluto valore ormai fuori commercio da tempo.

Testi ibridi dall’alto spessore qualitativo di poeti del Novecento italiano e non solo. La collana ha due uscite annue: una a febbraio, una a settembre (salvo eccezioni). I libri sono stampati su carta avoriata, con copertina in cartoncino avorio e alette e brossura rilegata a filo refe.

La collana è diretta da Antonio Bux. Il logo della collana è disegnato da Emiliano Billai.

I primi due titoli della collana sono:

LUCIANA FREZZA, Parabola sub, prefazione di Walter Pedullà – settembre 2022

GIORGIO MANGANELLI, Un uomo pieno di morte – novembre 2022 (per il centenario della nascita di Manganelli)

 

La parabola sub è la vicenda esemplare di chi sta sotto, di chi sta sott’acqua, di chi non è interessato alla superficie delle cose.

Luciana Frezza è stata una poetessa che ha lasciato nel nostro Novecento il suo segno profondo, solcato con lieve ironia. È stata anche fine traduttrice per i maggiori editori italiani dei poeti simbolisti francesi: Laforgue, Mallarmé, Verlaine, Baudelaire, Apollinaire, Proust e altri. A distanza di trent’anni dalla morte, viene qui proposta l’ultima opera pubblicata in vita dall’autrice, Parabola sub, dove si addensa tutta la maturità espressiva di una penna tanto elegante quanto complessa.

Luciana Frezza (Roma, 1926-1992) è stata poetessa e traduttrice. Si laurea in Lettere con una tesi su Eugenio Montale, discussa con Giuseppe Ungaretti. Alla Sapienza conosce il suo futuro marito, Agostino Lombardo, anglista e traduttore dell’opera shakespeariana. La sua linfa poetica si esprime fin da ragazza, durante la guerra e nella Roma liberata nel ’44; poco dopo inizia a tradurre i poeti francesi.

Stefano Guglielmin, da “Dispositivi”

Proteggersi dall’osceno

Quando parliamo dei morti, dei nostri cari
morti, ricordiamo un vestito elegante
una posa composta, la liscia superficie della
quiete, ma se parlassimo dei corpi
se parlassimo davvero dei corpi
in putrefazione, come fa Houellebecq
nelle Particelle elementari, quando nomina
mosche, larve, batteri – con i loro nomi
da “attricette italiane”, Calliphora, Lucilia
Phiophila – durante il loro pasto funereo,
capiremo allora l’ingegno taciuto della cura
(i tubi gastrici, la formalina, l’ago e il filo
cucito sulle labbra) per ridarci l’amore nostro
intatto, senza odori, prima di chiudere la cassa
e di nuovo, scucire per noi, ignari, dell’angelo
l’osceno. Continua a leggere

Antonio Lillo, “Mal di maggio”

Antonio Lillo

La domanda che mi fa ogni poeta

Un poeta mi chiede: Cosa farai
delle mie poesie? Io guardo
le poesie e mi chiedo: Cosa farò
di voi? Ma le poesie guardano fuori
e sognano di fuggire illese da noi.

 

Nuovi piani per il giorno

Non è più ora di credere all’angelo
in quella parola intera che svuoti
di cemento questo appello. Seminiamo
per raccogliere un frutto, la sua polpa
e non il seme. Andiamo avanti a morsi
piccoli morsi giornalieri per dirsi
sani sazi vivi, creature come ogni altra. Grati del sole
ed allarmati come bestie da suono.

 

Il rosso

Voglio parlare del colore di un’insegna.
Ma non mi sento più il cuore di spiegare.
E non mi basta il mestiere di poeta
a scaturire una scintilla. Tutto è spento.
O fulminato. Le vedi lì posate le parole
e preghi che si esprimano da sole.
La parola rosso. La parola insegna.
Che ricomincino a gridare sotto il cielo.

 

Rumore

Tu che sei informato, che succede in paese? Ma davvero non lo so, non lo so più, perché non vado mai in paese. Al massimo posso dirvi che succede in giardino. Oggi ad esempio è caduta una foglia e ha fatto un rumore assordante.

*

Il poeta che vive in un piccolo paese
è quello che poi scrive l’epitaffio di tutti
il necrologio sul giornale del paese
per chi resta. E quando pensa al giorno in cui
morirà anche lui che ha scritto la fine degli altri
quella sola volta la pagina resterà bianca.
Riposta nel bianco la sua idea di paese.“

Mal di maggio” di Antonio Lillo, con prefazione di Francesco Tomada, Samuele Editore 2022. Continua a leggere

I poeti, i re che amano troppo

[Nota a Margine ]

Alessandra Leone che scrive questo articolo, riprende  il  brano musicale “Il re di chi ama troppo” della cantante italiana Fiorella Mannoia, inciso in duetto con Tiziano Ferro e scritto da quest’ultimo.

La ballata racconta il punto di vista di chi si spende totalmente in amore, rischiando così di rimanere spesso bruciato. Per Alessandra Leone questa figura è quella del poeta.

Commento

di Alessandra Leone

C’è differenza tra i poeti e gli intellettuali del passato e quelli di oggi? Esistono ancora veri intellettuali, e se sì, perché si preferisce dar voce ai vari opinionisti, giornalisti e pseudo studiosi che si ergono a esperti di tutto? Cosa è cambiato, se effettivamente è cambiato qualcosa? Sono domande che possono apparire provocatorie, ma in realtà intendono stimolare una riflessione.

La poesia con i suoi messaggi e i suoi valori, quali libertà e uguaglianza, con quelle domande esistenziali e le sue riflessioni, non cambia né cambierà mai, essendo senza spazio né tempo. I tanti Ulisse del passato, del presente e del futuro non cercano forse quelle risposte già avute secoli fa? La voglia di capire qual è il proprio posto nel mondo e di realizzarsi, quel continuo anelito di esprimersi senza pregiudizi e paure riuscendo ad essere davvero se stessi, quella sete di serenità, pace e felicità sembrano essere sempre i medesimi.

I frammenti in dialetto eolico di Saffo, vissuta oltre 2.500 anni fa, le sue parole su sensazioni, sentimenti e tormenti amorosi verso gli uomini e verso le donne sono ancora attuali. Anche i protagonisti delle tragedie greche hanno la stessa modernità, se pensiamo che nella nostra vita capita di incontrare tanti Edipo accecati da tracotanza e superbia, dal proprio ego e dalle proprie convinzioni. Rimanendo nella famiglia del re di Tebe, l’eterno conflitto tra autorità e potere di Antigone, anticonformista contro i totalitarismi e le convenzioni sociali che consideravano la donna in secondo piano, sembrano scritte da un contemporaneo e non da Sofocle, vissuto nel V secolo a.C., se è vero che ne hanno tratto ispirazione autori come Vittorio Alfieri e Adolfo Lauro De Bosis.

Esiste ancora oggi quell’impegno civile di cui Antigone si è fatta portavoce, così come hanno fatto intellettuali, scrittori, poeti, artisti e giornalisti che hanno rischiato e rischiano anche la vita per difendere gli ideali in cui credono? Penso a personalità capaci di scuotere le coscienze attraverso la propria voce e le proprie idee, come Ungaretti e Pasolini, Yves Bonnefoy e Derek Walcott, Seamus Haeaney e Anna Politkovskaja, solo per citarne alcune. Continua a leggere

Robert Sullivan, “Cantico Pāua”

XXXIII

Through the waters spilled
By that spring, I was remade. Forth I fared,
A new plant with new leaves in a new time.
The stars were there, and I was set to climb.
I muscled through tides
between rocks and air, sand turning
like a child’s water wheel before me,
star and moon glitter in the turns
waves make storming
the Ōamaru beach.
I haven’t gathered mahika kai
here yet. I don’t like
swarms of kina, but
the ocean plants
feed me and my rainbow
and dried kelp carries the tītī too.
I’m fond of colours and kai.
They have things celestial
and oceanic in them. Who would
know my black foot
could create a star turn?
I sit within my colours,
my scraper inching along
biting rocks and seaweed.
If I had hands and a ukulele
I’d play ‘Rainbow Connection’
for lovers and dreamers. La di da.
I look up past the salt ceiling
and ask how am I here?
A starfish plugs my breathing holes.
I push off a rock wishing for
fresh water. I have to feel
with my foot the sun.

by Robert Sullivan

XXXIII

Attraverso le acque rovesciate
da quella primavera, rinacqui. Me la sono cavata,
una nuova pianta con nuove foglie in un nuovo tempo.
Le stelle erano lì, e io ero pronto alla risalita.
Mi sono fatto largo attraverso le maree
tra rocce e aria, sabbia rotante
come la ruota idraulica di un bambino dinanzi a me,
stella e luna brillano a turno
le onde fanno tempesta
sulla spiaggia di Ōamaru.
Non ho ancora raccolto il mahika kai
qui. Non mi piacciono
i nugoli di kina, ma
le piante oceaniche
mi nutrono e il mio arcobaleno
e l’alga essiccata attira persino il tītī.
Adoro i colori e il kai.
Hanno sfumature celestiali
e oceaniche in loro. Chi può
sapere che il mio piede nero
farà il numero principale?
Mi siedo tra i miei colori,
il mio raschietto avanzando
irrita rocce e alghe.
Se avessi le mani libere e un ukulele
suonerei Rainbow Connection
per amanti e sognatori. La di da.
Alzo lo sguardo oltre il soffitto di sale
e mi chiedo: come sono qui?
Una stella marina mi tappa le vie respiratorie.
Spingo via una roccia desiderando
acqua dolce. Devo sentire
col mio piede il sole.

Traduzione di Alberto Fraccacreta

da Miglior acque. 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante, a cura di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi, Samuele Editore 2022 Continua a leggere

Silvia Bre, “Le campane”

Silvia Bre Photo Dino Ignani

La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano il buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non lo sbaglia e muore.

*

C’è una forza che tiene e ha una forza
che tira avanti come un animale
non chiede niente e si prolunga buia
nel suo buio venire in mezzo al mondo
travolge tutto dalle sue radici
via dalla memoria di qualcuno
puntando oltre, verso più nessuno
averla dentro leva da se stessi
come va via da te quello che dici.

*

In questo sonno raccolgo la mia polvere
se la mano distesa ancora manca
di franare nell’unica quiete
e la parola innata non significa
ma scendo sempre ancora
nel quieto darsi a lei del mio pensare,
mentre dormo la vita ancora sogno
la quiete che mi accerchia e sta sospesa.

*

Questo diventi, mia acuta differenza
spartita dalle correnti d’aria, squilibrio
rincorsa, tuoni di nostalgia in un suono perso
che si fa dilaniare a ogni rimbombo.
Ma io resisto, ti sto murando col gesto del vento
ti tengo ferma via da me
ti impongo all’universo.

(Silvia Bre, “Le campane”, Einaudi 2022)

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Roberta Dapunt, da “Sincope”

Roberta Dapunt


della carne della lingua

In questa carne ho radicato gli anni, li ho educati.
In questo corpo la materia dei miei pensieri
e le parole e le domande.
Su questa pelle l’ambiente delle loro risposte,
fino a contrarla, le vocali e le consonanti.
Ho consegnato a ogni osso della mia struttura
una lettera
e da lì le parole, una ad una le ho nutrite e ho appreso,
mentre crescevo la carne si faceva verbo.

Composte membra, ordinate si sono gonfiate,
dilatate le loro cavità e da lì ho ascoltato,
ed era voce del mio corpo. Che mi chiamava
e io sorda alle sue espressioni, finché
ho appoggiato le labbra alla loro imboccatura,
organica relazione, ho forgiato la lingua
ed essa ha compreso il gusto
e così finalmente io le ho parlato.

*

Il lento finire porta la gonna e le nere calze.
Sotto la gonna
lo sterile inverso di un verde prato.

*

la confessione

E mentre sembra che tu possieda ancora i tuoi segreti,
da questo verso in poi io ne sarò priva.
Qui dimentico me stessa, ho solo
il mio sguardo che ignora presunzione e richiesta.
Eppure sì. Il desiderio di nuovo diventa un’emozione
e il pensiero a chi ti è simile. Piove fuori, appena marzo
e dentro il tempo colmo di te è tempesta.
Che splendida prova.

*

il nero

E’ talmente nero qui sotto,
da poter sentire soltanto i tuoi passi
sopra il mio sguardo spento.

(Roberta Dapunt, Sincope, Einaudi 2018).

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Giorgia Meriggi, da “La logica dei sommersi”

Giorgia Meriggi

La luna è nata
per separare l’acqua
dalla terra
un morso strappato
alla cute ininterrotta di granito
che sigillava il mondo,
quindi:
l’orogenesi
il sale
la molteplicità delle forme
viventi
l’amore
l’assillo della fame
e la persecuzione
le abitudini carnivore
l’amore
la guerra:
nessun medicamento
per l’incongruo
in acqua come in terra.

*

Sott’acqua tutto cade
chiedendo scusa
luna e sole sono pesci
di secondo grado
la pioggia è solo il fremito
di un cosmo appena nato.

Per i pesci del Tamigi
Dio è una nave
la fortuna non c’entra:
l’acqua è una grande cellula
uovo
le molecole
non fanno rumore
l’amore non si nomina
il vento non ha senso.
Tutto qui.

Quindi, non preferiresti
essere un pesce?

*

Dove l’acqua è più buia
e fonda
Dio parla ancora
dell’origine del mondo,
la luna non esiste
ancora.
I pesci privi dei sensi
ricevono i pensieri
di tutto ciò che esiste
intorno.
L’acqua entra nell’aria
ed è un messaggero,
i pesci sono il chiasmo
dei pensieri.

Giorgia Meriggi, tre poesie da La logica dei sommersi (Marco Saya Edizioni, 2021)

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Mario Famularo da “L’incoscienza del letargo”

Mario Famularo

una stella si è spenta
confermando
incomputabili
distanze da altre luci

ne resta appena un’ombra
nel cristallo
dei pensieri

ne nasceranno ancora
minuscole
nel nulla

un mutuo disgregarsi
su uno sfondo
senza corpo

eppure ancora oggi
sollevo gli occhi
al cielo

chissà se la sua grazia
nel vuoto senza nome
riserva qualche
gioia

la sento
sorrido

sugli sguardi degli amanti
incrociano l’asfalto
rigato da una pioggia
senza fine

li osservo da lontano
con un certo turbamento
violando quell’intesa

intorno le falene
stramazzano
di luce

dal suolo
si solleva
non so che tenerezza
e nostalgia

*

L’ombra della mano
definita nel contatto
tra il nero e la sorgente
si scompone l’individuo

è la mia percezione
del calore sulla pelle
l’impulso sempre identico
la sua corrispondenza

la sagoma familiare
confrontata ad altri corpi
la condizione assoluta
di un’esistenza disgiuntiva

la maestà indecifrabile
con cui si rivela
l’estraneità del mio corpo
ad ogni altra cosa
al mondo

*

il mosaico delle regole
consente la composizione
gli universi su larga scala
dal progetto di una vita
all’espansione accelerata

e poi quasi per caso
scontrarsi con l’eccezione
l’occasione sperimentale
che arresta la normazione

quel pulviscolo residuo
tra ricombinazioni
deve avere forme
non può restare magma

la nostra percezione
compulsiva verso l’ordine
e dove non può esserci
fantastico
lo crea

Da “L’incoscienza del letargo” Oèdipus, 2018

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Esce postuma l’ultima raccolta di versi di Alberto Toni

addio a Alberto Toni

Alberto Toni / Credits photo Dino Ignani

da “Tempo d’opera”, Il ramo e la foglia edizioni (2022)

L’estate della betulla, un buon inizio nella veglia,
quello che mi è passato per la testa, un istante,
lei si è decisa a stare ferma, immobile alla fotocamera,
lei che muove solo lento il braccino al vento.
Ma non c’è vento e sta ferma, solo un po’ per l’acqua
improvvisa venuta giù a diluvio l’altra sera,
o stamattina presto ancora dentro il sonno.
Tengo caro il verde del giardino da quel lato
e nessun torto a questo dal mio studio,
già troppo celebrato, e il leccio capirà
che c’è un tempo per tutti e il tempo è caro,
l’amore muove il tempo, muove me,
muove la pace già precaria dello stare
e se leggo il giornale già il mattino
scivola via tra un assedio e un tremore,
già il tempo che misuriamo a luce
frana e si sfalda in infinite ombre.

*

E come all’ultimo balzo del mattino sparisce
la morte del diluvio notturno. È tutto un rifiorire,
tremare in tua presenza.
E mi alzai, con la convinzione di me,
del tuo ramo al mio innamoramento.

Scendi, fai, e che la forza mai non manchi,
fai, poi rispondi al tuo calo di forze.
Mai noi potremo dire abbiamo solo
per poco, solo per poco rinunciato
a vivere. Mai che la vita non sia

o ci abbandoni.

*

È una pioggia lenta, l’acqua che cade, vedi
e non possiamo farci niente, andiamo verso casa
e ci sono le cose che accadono e non possiamo
farci niente, temere, per quella forza del pensiero
che ci tira avanti. Ragiona dunque sul fatto che non possiamo
farci niente, come il tiro quando vai troppo lontano,
decidi di riprovare nel cammino che va da casa alla
prima stazione di sosta, tremeresti ancora se non fosse
per amore, tutto l’amore che hai radunato in te, tutto,
e quell’odore di terra bagnata che ti rimanda al primo
ardore.

*

Quel vaso di felci, non lo guardo mai, ed è come se stesse
lì da un’eternità, riappare e a ragione riprendo il filo
del discorso, a volte il caso, è perfetto nel suo ordine.
Me lo dicevo tra un silenzio e l’altro. Vedi, non basta
mai la scoperta, è vita, ed è lì davvero da tempo,
ricordo, basta pensarci, stavolta è stato in una pagina
di Naipaul, leggere «vasi di felci». La vita degli oggetti
sta tutta nel pensiero che li fa vivere. E mettere nei versi
una dimenticanza, ora è viva, e per un po’ andrà bene così,
senza un sentimento particolare, ma solo una realtà

oggettuale.

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Davide Cortese, “Zebù bambino”

Davide Cortese

Nota di Davide Cortese

L’idea di raccontare in versi l’infanzia del diavolo nasce in seguito a un titolo che un giorno mi è balenato in mente: Zebù bambino, per l’appunto.

Zebu’ è un nome che subito evoca Gesù e al contempo Belzebù, creando contraddizione e cortocircuito di senso.

Ho scritto tutti i versi che compongono la piccola raccolta (si potrebbe forse definirla un poemetto) di getto, in una sera dell’estate 2019 a Lipari: la mia isola, la mia terra-mare di origine.

L’ho scritto per il piacere di scrivere: per me. Non l’ho scritto pensando a un destinatario.

Ne è venuta fuori una tenera fiaba nera, dove, tra le righe, è la natura umana incline al male a  parlare. La nostra tenebra. Una tenebra che chiede di essere amata

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Luigi Auriemma, l’arte in versi

Luigi Auriemm


di Marco Amore

Arte e parola condividono lo stesso passato: non a caso, le prime forme di scrittura erano simboli – e non parlo dei geroglifici egiziani o del sistema di scrittura cuneiforme sumera – ma delle pitture rupestri nelle grotte di Lascaux, risalenti al Paleolitico superiore, o dei successivi petroglifi della Val Camonica.

Partendo da Leonardo da Vinci e da Michelangelo Buonarroti, il primo con la sua scrittura speculare e il secondo con la sua lirica amorosa e tormentata, fino ai giochi di parole e alle frasi omofone di Marcel Duchamp, questo legame non si è mai incrinato, anzi, è andato via via rafforzandosi, malgrado il processo di settorializzazione della cultura occidentale, esasperato da convinzioni ormai superate sulla nozione di divisione del lavoro (ricordate Adam Smith e la celebre “fabbrica di spilli”?) e da teorie che non incontrano le attuali esigenze del mercato del lavoro in una società liquida che si affaccia alla quarta rivoluzione industriale – digitalizzazione dei processi, smaterializzazione delle filiere produttive, rottura dei confini settoriali.

In questo frangente, non possiamo tacere del lavoro antioggettualista di artisti visivi come Lawrence Weiner (1842-2021), tra i precursori (è corretto usare questo termine, se teniamo conto del passato che accomuna arte e parola?) della smaterializzazione dell’oggetto artistico in favore del linguaggio.

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Isacco Turina, “Non come luce”

Isacco Turina

Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno
la cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.

*

Da una bocca qualunque ascolteremo
la frase che ci annienta per bellezza
o crudeltà e porteremo sempre
in noi come una vecchia sentenza
che rilascia nel tempo la condanna.
Cibarsi d’ombre fino a quando
sia luce tutto intorno
è ancora il congedo più bello.

*

Dopo tutto

Verdi catastrofi lontane,
vi guardiamo da dietro l’orizzonte.
Quando il dente è penetrato
siamo passati su un ponte sottile.
Barche infinite attendono
per navigare la penombra.
Con un colpo di remo gli equipaggi
si staccano da riva.
Nella cisterna ovale del tempo
rimbombano le gocce, rare
come parole berbere.
E del tempo più nulla sappiamo.

Nel presente

1. Censimento

La storia è un’acqua ogni anno più sporca.
Dei molti che morirono stanotte
rimangono le immagini scattate
in un giorno qualunque.
Riassumi la tua vita in poche frasi.

«Ho preso ordini da un libro sacro.
Ora li prendo dalla mia automobile.
Quando ne ho voglia pago un’altra donna
per farmi sculacciare e insultare.
Non ho tempo di capire».

«Quando gli organi impazziscono
un uomo mi accompagna in ospedale,
mi descrive la luna nelle attese.
Splendida vita, dondolavi
dai rami e sapevi di bucato.
La mano di un estraneo ti ha raccolta».

Claudio Damiani, da “Prima di nascere”

Claudio Damiani Credits ph Dino Ignani

Se fosse che è tutt’altro,
tutt’altro da quello che siamo
tutt’altro da quello che pensiamo
e che vediamo, se quello che ci aspettiamo
fosse tutt’altro da quello che sarà,
se quello che sarà fosse qualcosa di bello
e non avessimo nostalgia della vita,
delle persone care, dei modi, di tutto quello
che abbiamo amato, se non avessimo nostalgia
ma tutto fosse con noi come era già stato
in vita, se ci fosse restituito
ciò che ci è stato tolto, che non c’è stato dato,
ci hai mai pensato? Se fosse che adesso
soffriamo, ma poi non soffriremo più,
tutto ci sarà ridato, e in più
anche altro che non abbiamo avuto
e fossimo così pieni e soddisfatti
da non chiedere più, da non soffrire più
ci hai mai pensato?

***

Di certo nei secoli, nei millenni futuri
saremo chissà dove, in altri pianeti e mondi,
saremo entrati così dentro nella natura
da comandarla a nostro piacimento,
non moriremo più, potremmo allungare la vita
quanto vorremmo, e, posto che davvero
saremo signori della natura,
non mancheranno di certo le sorprese,
dovremo combattere per mantenere il dominio
e non è detto che vinceremo sempre,
io però vorrei mantenere questi boschi
dove cammino nel silenzio tra gli alberi,
mi sta bene stare qui, anche morire fra poco
ma stare qui in questo silenzio, camminare
per questi sentieri, sentire gli alberi accanto
che respirano, stare in silenzio con loro.

***

Pensa se fosse così:
che noi mentre stiamo facendo una cosa
comunissima, tipo portare una cosa
sopra un tavolo, oppure cercarla
ecco aprirsi una porta, e nella stanza
ci sono tutti! è una stanza immensa
e ti salutano gioiosi e applaudono
come un compleanno a sorpresa
e dicono: “Hai visto? Sei consento?
Come stai? Come ti senti?”
e tu lo senti che è stato uno scherzo la vita
o un brutto sogno, o un sogno
bello, ma un sogno, oppure è stata
come una guerra sotto i bombardamenti
e ogni giorno c’erano le sirene,
o c’erano stati giorni belli anche,
di sole, di luce, di silenzio
tu camminavi da solo
in mezzo alle piante amiche.

 

Claudio Damiani, Prima di nascere, (Fazi Editore, 2022)

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Ritratto di giovane poeta

Federico Carrera, 2020 credit ph Mauro Terzi

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Appunti per un ritratto-da-farsi
di Federico Carrera

 

Tratteggiare un ritratto di sé a ventidue anni non è cosa facile: la mano trema e il pennello sembra sempre inspiegabilmente asciutto. Si ripiega allora sulla matita, sempre che la punta non si spezzi, il foglio non si squarci e così via. Ma a me piace usare la matita. Sono in confidenza: prendo appunti a matita, sottolineo libri e manuali a matita.

La penna è troppo definitiva. Riconosco che si tratta di un segno di incertezza, di insicurezza, ma la matita mi mette al riparo, dall’errore e dalla definizione. Ho poco più di vent’anni, dicevo. Forse si pretende da me, adesso, il ritratto di un ventenne, di un giovane studente universitario.

Ma non so bene da dove partire. Mi piacerebbe avere un respiro generazionale. Mi è negato alla radice, non ne ho l’indole. Ma per un ritratto forse è bene partire da lontano – la prospettiva migliore dalla quale tentare di descriversi.

Riconosco (abbozzo) due stagioni nella mia vita: una in cui si piange, una in cui non si riesce a piangere. È stato tutto qui, il mio vivere, tra questi due poli.

Fino ai quattordici anni, ho pianto per ogni cosa – dal dolore al piccolo capriccio.

In particolare, mi commuovevo sinceramente per i film che guardavo – strumenti emotivamente ben calcolati. In effetti, a quell’età (a dire il vero già da qualche tempo prima, forse da sempre), il cinema ha incominciato ad avere un’importanza capitale per me. E continua tutt’ora ad averne. Al punto che, quando mi chiedono cosa io voglia fare ‘da grande’, mi trovo sempre a rispondere con la stessa coppia di parole: “il regista”.

Il cinema ha aperto ai miei occhi da pre-adolescente ancora-bambino le porte di un mondo altro (Altro?), fatto di immagini e colori, di musiche ben studiate e colpi di scena, ordinato in schemi narrativi ora nascosti ora incontrovertibili ora curiosamente liberi. Un mondo del tutto preferibile, insomma, a questo nostro quotidiano, in cui viviamo e che siamo abituati a chiamare reale.

Tuttavia, per me – e in questo non posso mentire – il cinema è sempre stato più reale della realtà, più importante, più degno di attenzioni e di cure. Ma non voglio divagare.

Dicevo: un tempo in cui si piange, un altro in cui non si riesce. Continua a leggere

Antonia Pozzi, “una giovinezza che non trova scamp

Antonia Pozzi al rifugio Principe di Piemonte 1934

di Monica Acito

 

Ci sono esistenze che sono perle, luminose e selvagge al tempo stesso. Perle che la vita si passa tra le mani, accarezzandole e sgranandole come rosari, fino a lanciarle al di là del confine stabilito da tutte le leggi del mondo.

L’esistenza di Antonia Pozzi è stata come una perla dalla bellezza ingenua e brutale, quasi infantile. La sua storia è sempre stata con me, fin da quando ero piccola: la figura di questa ragazza, per sempre giovane e intrappolata nel suo dolcissimo ricordo, è qualcosa che da sempre mi affascina e terrorizza.

La sua vita è durata solo ventisei anni: nei ricordi di tutti, Pozzi sarà sempre ragazza, anche se con le sue parole è riuscita ad attraversare tutte le stagioni della vita. Bambina, adulta, fanciulla, vecchia: la voce di Antonia Pozzi ha molto da insegnare anche a chi non scrive soltanto poesia.

La sua è una voce spaventosamente limpida, isolata e solitaria nel panorama letterario del Novecento.

Una fiammella conturbante che continua a brillare negli anni, perché l’esperienza di Antonia Pozzi è qualcosa che non può prescindere dalla sua stessa vita, che è essa stessa un pezzo di poesia.  Non possiamo pensare al suo profilo senza partire dalla fine, che contiene e ingloba tutte le movenze di questa giovinezza che non trova scampo.

Quel giorno del 3 dicembre 1938 c’era la neve: il freddo pungeva sulla pelle e deve anche aver pizzicato le guance di Antonia, che aveva deciso di prendere la bicicletta e costeggiare i campi intorno all’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano.

La neve quel giorno era eterea e silenziosa, più del solito: la neve di dicembre era il manto perfetto per ricoprire le guance, il corpo e la vita di una ragazza di ventisei anni. Antonia Pozzi, il 3 dicembre 1938, salutava la vita terrena nel bianco della neve, mentre un piccolo rigagnolo le scorreva vicino, raccogliendo nell’acqua l’ultimo respiro di un’anima viscerale e disperata.

Milano, 3 marzo 1931
[…]
Sfocia così il tumulto
d’ogni mio male
nel riposo di un’estasi
senza confine
e l’anima ritrova la sua pace,
come un folle balzo di acque
che si plachi, incontrando
la suprema quiete del mare.

(Nel duomo, Antonia Pozzi, Tutte le opere, Garzanti) Continua a leggere

Mark Wundelich, “Frammento di San Giuliano”

Mark Wundelich ospite di Civitella Ranieri Foundation nel 2014 e nel 2016

La poesia ecfrastica 
di Luigia Sorrentino

La poesia  Fragment of St. Julien del poeta statunitense Mark Wundelich, è uno dei tanti esempi di poesia ecfrastica, una poesia che nasce dalla minuziosa osservazione di un’ opera artistica. Il poeta che applica questa tecnica in grado di aprire una sorta di finestra per gli occhi della mente, affinché l’opera lasci una traccia indelebile nella sua memoria. Nella raccolta Feathers from the Angel’s Wings (WW Norton, 2016), curato dal Direttore Esecutivo di Civitella Ranieri Dana Prescott molti poeti si sono soffermati sulle opere di Piero Della Francesca e hanno messo in evidenza come  arte e letteratura siano interconnesse tra loro. Molti scrittori borsisti della Fondazione Civitella Ranieri  hanno potuto osservare le opere di Piero Della Francesca durante le escursioni organizzate dalla Fondazione e sono poi entrati nel libro di Dana Prescott pubblicato nel 2016.


Fragment of St. Julien

The throat of the stag was never meant for speaking;
It would have pained the creature, to make the shapes,
to force the tongue and push against its single row of teeth, make way for the warning to Julien, whose arrow
broke the bleeding hole the spirit of speech went in.
The first the beast spoke was warning, threat and pain which is the way of all first language, the mouth
opening in surprise, the lungs seizing up to bark.
In the fragment of wall skimmed off and framed,
Julien too looks pained, regret not yet registered, understanding leaking like a tint stirred into plaster,
his cloak still pulled around his shoulders, his club
gripped in his good hand, having beaten
the bodies of those who made him. Regret would come later but for now he was more animal than that talking beast
who knew him for what he was.

Mark Wunderlich

Frammento di San Giuliano

Traduzione italiana di Greta Caseti

La gola del cervo non fu concepita per parlare;
avrebbe fatto soffrire la creatura, dare forma alle parole
forzare la lingua e spingere contro quell’unica fila di denti,
fare largo al monito per Giuliano, la cui freccia
trapassò il foro sanguinante in cui lo spirito del verbo era entrato. Dapprima la bestia espresse monito, minaccia e sofferenza,
nel modo di ogni prima voce, con la bocca
aperta, attonita, i polmoni bloccati dal guaito.
Sul frammento di muro rimosso e incorniciato,
anche Giuliano sembra soffrire, il rimorso non ancora avvertito, la coscienza che cola come tinta mescolata allo stucco,
il mantello ancora avvolto alle spalle, la mazza
stretta nella sua mano buona, pestati
i corpi di chi l’ha concepito. Il rimorso sarebbe venuto poi
ma per ora lui era più animale della bestia parlante
che lo conosceva per ciò che era.

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Festival della poesia italiana alla John Cabot University

InVerse, Italian Poets in Translation, il Festival della poesia italiana, si terrà mercoledì 20 aprile, alle ore 19, presso l’Aula Magna Regina della John Cabot University (JCU) – tra le più grandi università americane in Europa – in via della Lungara 233, a Trastevere.

InVerse offre spazio non solo alle grandi voci della poesia italiana contemporanea, ma anche ai poeti emergenti, che hanno così l’opportunità di farsi conoscere oltreoceano.

Partecipano all’evento Vincenzo Bagnoli, Carlo Boassa, Chandra Livia Candiani, Gianni D’Elia, Donatella Della Ratta, Fabio Donalisio, Franca Mancinelli, Nefeli Misuraca, Renata Morresi, Fabio Orecchini, Ginevra Sanfelice Lilli, Fabrizio Sani, Jonida Prifti, Tiziano Scarpa, Beppe Sebaste, Cesare Viviani, Giovanna Cristina Vivinetto.

Nel corso di InVerse, le poesie saranno lette in lingua italiana e in lingua inglese.

I testi delle poesie sono stati raccolti in una antologia bilingue, edita dalla John Cabot University e già disponibile negli Usa, che sarà presentata nel corso dell’evento.

Il Festival, giunto alla decima edizione, è stato fondato nel 2005 dai docenti della John Cabot University, Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo, Rosa Filardi

InVerse è uno degli appuntamenti più importanti dell’università americana, frequentata da giovani provenienti da 70 nazioni, e rappresenta un’occasione significativa per comprendere come la cultura italiana si trasmetta attraverso il linguaggio della poesia. Continua a leggere

Lyudmyla Khersonska, “non tacere, grida”

приходит война – ты не молчи, кричи.
сволочи, кричи, твари, кричи, палачи,
не делай вид, что ничего не происходит,
не бойся тревожить всех,
тормоши, буди – когда война, разбудить не грех.
кричи на всю страну, на все другие страны кричи,
окна пошире раскрой, не глотай ее, не молчи,
не жри ее втихаря, проклятую, не давись.
остался где человек? отзовись!
если человек ушел, так бывает, что закончился человек,
казалось на наш век хватит, не хватило на век,
прячет голову в плечи, в голове прячет глаза,
он не против, он, практически, за.
так ты его, человека, расталкивай со всех сторон,
пусть не молчит, пусть тоже кричит он,
пусть не делает вид, что не произошло ничего.
даже последнего человека, верни его,
поверни лицом к реальности, лицом к войне,
объясни человеку, она не за окном, не вовне,
рядом с ним, там, где работа и дом,
рядом с немым, молчащим, выдавливающим фразу с трудом,
научи его говорить, по слогам кричать.
только не надо молчать. о войне не надо молчать.

quando arriva la guerra – non tacere, grida,
grida bastardi, grida bestie, carnefici,
non fingere che nulla stia succedendo,
non aver paura di disturbare alcuno;
quando c’è la guerra, non è peccato svegliarsi.
grida al paese intero, grida a tutti gli altri paesi,
spalanca le finestre, non ingoiarla, non tacere,
non mangiarla in segreto, non soffocarti.
c’è ancora l’uomo? Rispondi!
senza uomo, l’umanità è condannata.
Sembravano abbastanza per il nostro secolo, ma non abbastanza per un secolo,
nasconde la testa tra le spalle, nella testa nasconde gli occhi,
non gli importa, acconsente.
allora scuoti l’uomo in tutti i modi,
che non taccia, che gridi anche lui,
che non finga che nulla stia succedendo.
anche se fosse l’ultimo uomo, riportalo in sé,
che affronti la realtà, che affronti la guerra,
spiega all’uomo che non è fuori dalla finestra, non è lì fuori,
è proprio qui, accanto a casa sua e al suo lavoro,
accanto al suo tacere, il suo muto tacere che a stento si rompe,
insegnagli a parlare, a gridare in sillabe.
ma non tacere, sulla guerra non puoi tacere.

Traduzione di Greta Caseti Continua a leggere

La lancia del verso di Sofija Parnok

Sofija Parnok

Sofija Parnok
A cura di Paolo Galvagni

Девочкой маленькой
ты мне предстала неловкою.

Сафо

«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою» –
Ах, одностишья стрелой Сафо пронзила меня!
Ночью задумалась я над курчавой головкою,
Нежностью матери страсть в бешеном сердце сменя, –
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Вспомнилось, как поцелуй отстранила уловкою,
Вспомнились эти глаза с невероятным зрачком…
В дом мой вступила ты, счастлива мной, как обновкою:
Поясом, пригоршней бус или цветным башмачком,–
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Но под ударом любви ты — что золото ковкое!
Я наклонилась к лицу, бледному в страстной тени,
Где словно смерть провела снеговою пуховкою…
Благодарю и за то, сладостная, что в те дни
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Февраль 1915 /?/

Mi apparivi una bimba
piccola e immatura
Saffo (1)

“Mi apparivi una bimba piccola e immatura” – (2)
Ah, Saffo mi ha trafitto con la lancia di un verso!
Di notte ho pensato alla testolina riccioluta,
Sostituendo nel cuore la passione folle con la dolcezza materna, –
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura.”

Ho ricordato che hai allontanato un bacio con maestria,
Ho ricordato quegli occhi con la pupilla incredibile…
Sei entrata in casa mia tu, contenta di me, come di una cosa nuova:
Una cintura, una manciata di perline o una scarpetta colorata, –
“ Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Ma sotto il colpo d’amore sei come oro forgiabile!
Mi sono chinata al volto, pallido nell’ombra appassionata,
Dove la morte pareva passar cipria nevosa…
Ringrazio anche perché tu, dolce, in quei giorni
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Febbraio 1915 /?/

1) Poesia dedicata tanto a Saffo, quanto alla Marina Cvetaeva.
2) Il verso, che Saffo dedica ad Attide, è come un ritornello, che suscita vari ricordi intimi. Continua a leggere

Lesyk Panasiuk, “ogni parola è dolorosa”

Lesyk Panasiuk photo Valentin Kuzan

АБЕТКА ЯК ПАЛАТА ДЛЯ ПОРАНЕНИХ

І

Чуєш цей рух у стовбурах
це мова тече в дерев’яних жилах і буяє пустоцвітом
мова чорна мов земля
чорна мов кров що тягне нас у землю

Червоні пера застрягли в чорнильницях наших ротів
повні крові наче під час бійки
кожне слово завдає болю

Щоб зараз лишитися живими треба мовчати

Сипучі піски мови тягнуть нас на дно

 

ІІ

 

Літери йдуть на війну
складаються в слова які ніхто не хоче вимовляти
речення підриваються на мінах
історії обстрілюють системами залпового вогню

У слово дім влучає снаряд
крізь розбите вікно літери д
можна побачити як літера і втрачає голову
як провалюється дах літери м

Мову під час війни не впізнати
речення такі недолугі
ніхто не хоче помирати
ніхто не хоче говорити

Біля лікарняного ліжка літери й лежить протез
діакритичного знака якого вона соромиться
уже вкотре розходяться шви просвітами літери ф
від кульових поранень на етимологічному фронті
м’який знак втратив язик під час катувань

Палати забиті літерами
що й апострофа не вставиш
відпадає фарба зі стін
осипаються слова незрозумілими покручами
і хто ними буде говорити

Лесик Панасюк

 

ALPHABET AS A WARD FOR WOUNDED 

I

Can you hear these movements inside trunks
that’s language flowing in wooden veins and blossoming with barren flowers
the language is as dark as soil
as dark as blood pulling us into the ground

Red quills got stuck in the inkwells of our mouths
full of blood as if we were fighting
every word is painful

We just need to be quiet to stay alive now

Loose sand of language is taking us down

 

II

 

Letters go to war
form words nobody wants to pronounce
sentences hit landmines
stories are shelled by multiple launch rocket systems

Missile hits word дім
in the broken window of letter д
it’s easy to see how letter і loses her head
how a roof of letter м collapses

It’s hard to recognize the language during wartime
sentences are so awkward
nobody wants to die
nobody wants to speak

Near the hospital bed of letter й lies a prosthesis
of diacritical mark which she is ashamed
once again the seams diverge with the gaps of letter ф
from bullet wounds on the etymological front
soft sign lost his tongue during torture

Wards are full of letters
there’s not even a place for an apostrophe
paint is peeling down from the walls
words are falling away as confusing slang
and who will speak it

(Translated from the Ukrainian into English by the author and Daryna Gladun)

 

ALFABETO COME UN REPARTO PER FERITI

I

Riesci a sentire questi movimenti all’interno dei tronchi
questo è il linguaggio che scorre nelle vene del legno e sboccia in sterili fiori
la lingua è scura come il suolo
scura come il sangue che ci trascina nella terra

Le piume rosse si sono incastrate nei calamai delle nostre bocche
piene di sangue come se stessimo combattendo
ogni parola è dolorosa

Dobbiamo solo stare zitti per rimanere in vita adesso

La sabbia sciolta della lingua ci trascina a fondo

 

II

 

Le lettere vanno in guerra
formano parole che nessuno vuole pronunciare
le frasi innescano mine
le storie sono bombardate da più sistemi di lancio razzi

Un missile colpisce la parola дім (casa)
nella finestra rotta della lettera д (d)
è facile vedere come la lettera i perda la testa
come crolla il tetto della lettera м (m)

È difficile riconoscere la lingua durante un periodo di guerra
le frasi sono così difficili
nessuno vuole morire
nessuno vuole parlare

A fianco al letto d’ospedale della lettera й (i breve) giace una protesi
di segno diacritico di cui si vergogna
ancora una volta le suture divergono dai fori della lettera ф (f)
dalle ferite da proiettile sul fronte etimologico
un segno morbido ha perso la lingua durante la tortura

I reparti sono pieni di lettere
non c’è nemmeno un posto per l’apostrofo
la vernice si sta staccando dalle pareti
le parole stanno scomparendo come un gergo confuso
e chi lo parlerà

(Traduzione dalla versione Inglese di Valentina Meloni) Continua a leggere

La guerra su di noi

Man Ray

I poeti contro il conflitto in Ucraina

di Luigia Sorrentino


Poesie contro la guerra
è l’appello alla pace rivolto ai potenti del mondo. Raccoglie le voci di poeti ucraini e russi contemporanei, ma anche le voci dei loro padri, tra i quali gli ucraini Taras Ševčenko, Jakovyč Franko, Olena Ivanivna Teliha, Paul Celan, e i russi Osip Mandel’štam, Anna Achmatova, Marina Ivanova Cvetaeva, e molti altri, che hanno scritto poesie memorabili dall’esilio o dalla loro patria in guerra.

Man Ray

Il poeta è l’interlocutore più efficace per interpretare il significato più profondo della catastrofe causata dall’insensatezza degli uomini. Nessuno più del poeta può raccontare l’orrore della guerra quando questa coincide con la sua presenza nella Storia.

Francesco Iannone, inediti

Francesco Iannone

COMMENTO DI ALFONSO GUIDA

Quelle proposte da Iannone sono poesie sulla grazia della fecondazione. Il padre si estingue nella sua sagoma terrestre, trova la cavità dei cieli. Nulla di materno nelle rotazioni luminose e buie del pensiero ma una penetrazione: la ” pigra grazia del sole” che attraversa. Una ” cum – prensione”: non solo una nuova presa nella visione celeste, ma una nuova “prensione” della sequenza immaginativa e, dunque, narrativa. Una paternità mitica, cosmica si snoda in un frasario ardito e ardente, dove diremmo “ardenza” (l’autore è partenopeo) più che “battesimo”. Il ritmo incalza da un qui a un altrove onnicomprensivo. La parola nuda come la luce che descrive indica la via di un’apertura dentro la parola stessa. È come se un alfabeto scoprisse d’improvviso la molteplicità delle combinazioni letterali.

inediti da “Prima opera del gesto” di Francesco Iannone

*
Mia stella. Ho tanti cieli per te. Se vieni i miei bui si voltano sugli abissi. La mia sera diventa una veglia celeste.

*
Come in una catena lo spazio di un anello. Nel suo giro il mio inchino più fecondo. Se sveglia la ruggine sul ferro di una vita, è l’amore. Continua a leggere