Paul Celan, una poesia nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan

da Mohn und Gedächtnis,  Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere

Video-intervista inedita a Mark Strand

Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand

Civitella Ranieri
24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani

Prima parte

Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?

Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.

Si sta bene in vacanza, eh?

Benissimo, sempre.

Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?

Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.

Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?

Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.

Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.

Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.

Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?

Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.

Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark,  dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.

Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.

Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.

Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.

Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011

Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?

E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.

Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”.
Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?

A essere sincero, non lo so.

So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.

Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?

L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.

Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?

Roba, vestiti.

Scarpe.

Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.

E negli occhi cosa c’era?

Nei miei occhi?

Cosa portavI negli occhi?

Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.

C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.

Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?

La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?

Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?

Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.

Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?

L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.

Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?

Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.

La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.

Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker)  poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?

Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.

Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?

Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.

Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.

A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.

Mark, secondo te la morte può essere ingannata?

No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.

A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?

Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.

Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?

Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.

Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?

Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.

A cosa stai lavorando adesso?

Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.

Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?

Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.

Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?

Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.

Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?

Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.

Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?

Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.

La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?

Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.

Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?

Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere

Video Intervista a Franco Loi

Franco Loi e Luigia Sorrentino, Milano 2006

Nota di Luigia Sorrentino

Vi propongo oggi una delle versioni più complete della mia video-intervista al poeta Franco Loi realizzata nel 2005.
L’aneddoto che mi lega a questa intervista è interessante. Ve lo racconto.
Avevo ricevuto dal mio direttore di Rainews24 l’incarico di andare da Roma a Milano per intervistare la poeta Alda Merini.
Conoscevo la Merini, il suo carattere particolare… quindi dissi al direttore che avrei “provato” a intervistarla, ma non era detto che l’intervista sarebbe andata a buon fine e allora, “contrattai” che se la Merini mi dava “buca”, avrei intervistato a Milano a Via Misurata, il poeta Franco Loi. Poiché la Merini mi diede appuntamento alle 14 nell sua casa sui Navigli, senza perdere tempo decisi di andare prima a intervistare Franco Loi alle 11:00. C’era la moglie, Silvana e Franco che mi ricevette in giacca da camera. Bene. Questo è il risultato di alcune ore che trascorremmo insieme, poi andai dalla Merini che ovviamente mi negò l’intervista sbattendomi la porta in faccia.
Però io andai dalla Nanda, da Fernanda Pivano, e feci con lei un’intervista molto esclusiva che vi proporrò fra qualche giorno. Quando tornai in redazione il mio direttore fu molto contento. Pacca sulla spalla! “Hai intervistato la grande Nanda”! Ma a dire il vero io ero felice soprattutto per Franco Loi.
Eccolo nella nostra indimenticabile (per me) intervista.

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Addio a Tullio De Mauro, l’intervista video

E’ morto a Roma a 84 anni il celebre linguista Tullio De Mauro, docente universitario, già ministro della Pubblica Istruzione e presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega. E’ stata la stessa Fondazione a darne conferma.

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Nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, Tullio de Mauro, si laureò in Lettere classiche, per poi insegnare nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma, è stato poi ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato.

Nel 2001 è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l’insieme delle sue attività di ricerca, l’accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica.

Lo ricordiamo con questa intervista realizzata da Luigia Sorrentino a Napoli in occasione del Premio Napoli nel 2006. 

Nel 2008 gli è stato conferito l’Honorary Doctorate dall’Università di Waseda (Tokyo). Autore di un’importante traduzione commentata del Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1967), tra le sue opere più importanti vanno citati la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) e Il grande dizionario italiano dell’uso. Continua a leggere

Remembering Seamus Heaney

Tribute to the great Irish poet. For the first time in Dublin, the video interview by Luigia Sorrentino with the Nobel Prize for Literature 1995, Seamus Heaney.

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Abstract

Two books on Seamus Heaney have recently been published in Italy: Paolo Febbraro’s essay Leggere Seamus Heaney and Marco Sonzogni’s translation into Italian of Death of a Naturalist.

Both Paolo Febbraro and Marco Sonzogni treasure their encounter with Seamus Heaney as a turning point in their lives. So does poet and Rai journalist Luigia Sorrentino.

In May 2013, in Rome, Luigia Sorrentino realized the last and touching video-interview with Seamus Heaney which will be shown for the first time in full English in Ireland on June 12th at the Italian Institute of Culture in Dublin.

Our “Italian homage” to Seamus Heaney, will be introduced and moderated by Giuliana Adamo (Trinity College Dublin).

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Video-interview with Seamus Heaney
by Luigia Sorrentino
Roma, American Academy
16 maggio 2012

Abstract

Recentemente sono stati pubblicati in Italia due libri su Seamus Heaney: il saggio Leggere Seamus Heaney di Paolo Febbraro e la traduzione in italiano di Death of a Naturalist di Marco Sonzogni.

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Addio a Mark Strand

Lutto nel mondo della poesia. Se n’è andato il 29 novembre 2014 Mark Strand, una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea internazionale.

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Mark Strand


Perennemente in crisi, la poesia rimanda a luoghi e tempi lontani dalla realtà sociale. E’ pura interiorità e quindi sempre attuale“.
(Mark Strand)

 

Ricordiamo il poeta di origine canadese, Mark Strand  con le sue stesse parole… “La poesia rimanda a luoghi e tempi lontani della realtà sociale. E’ pura interiorità e quindi sempre attuale”.
Poco sotto la video intervista con Mark Strand realizzata il 18 maggio del 2011 a Roma, all’American Academy.

Ciao Mark…


INTERVISTA A MARK STRAND
di Luigia Sorrentino
American Academy 2011

Siamo qui per parlare dell’ opera del poeta Mark Strand, l’opera di un poeta definito ‘della montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi. Innanzitutto ci dica una cosa… Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, di volersi dedicare totalmente alla scrittura… E’ successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata?
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“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio, bensì uno studente-pittore, ma, in un certo modo, l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa: prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta. Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”
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Seamus Heaney, Video-Intervista

Il poeta nord-irlandese Seamus Heaney, uno dei più riconosciuti fra i viventi, premio Nobel per la Letteratura nel 1995, in residenza per il 2013 presso l’American Academy in Rome, ha rilasciato in esclusiva un’intervista televisiva per Rai News 24.

(ndr) Per vedere e ascoltare la versione integrale in inglese (e traduzione in italiano) vai QUI.

Seamus Heaney / credits ph. Luigia Sorrentino

 

Breve introduzione

Durante gli anni Sessanta Seamus Heaney ha lavorato inizialmente come insegnante e poi come lettore alla Queen’s University ed i suoi primi tre libri di poesie sono stati scritti durante questo periodo.

Nel 1972 Heaney si trasferisce con la famiglia da Belfast a County Wicklow, nella Repubblica d’Irlanda.

Nella video-intervista Seamus Heaney parla della sua poesia raccontando il periodo della guerra e dei Troubles (i disordini) nell’Uslter, l’Irlanda del Nord.

Intervista integrale a Seamus Heaney
di Luigia Sorrentino
Roma, American Academy

16 maggio 2013

Seamus Heaney, lei è nato il 3 aprile del 1939 in una fattoria nella contea di Derry, a Casteldawson, primo di nove figli, in Irlanda del Nord.  Lei è nato nella patria di Percy Bysshe Shelley e di William Bulter Yeats, due dei più grandi poeti del mondo. A Belfast ha frequentato un gruppo di scrittori raccolti attorno al poeta e critico Philip Hobsbaum, fra essi Seamus Deane, Michael Longley e Marie. Devlin, che divenne sua moglie nel 1965, dalla quale ha avuto tre figli.

Seamus Heaney, lei nel 1944 ha solo cinque anni quando le truppe americane entrano in Irlanda del Nord. Un evento lontanissimo nella sua memoria. La Storia si sta facendo e lei è molto giovane. Di questo evento, come di altri, si trova traccia nella sua poesia, ma la sua voce è “fuori campo”, il suo sguardo lenisce le ferite di una comunità gravemente danneggiata dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La sua poesia tenta una riconciliazione, anche nella memoria. Siamo nel 1944, quasi alla fine della guerra …. di lì a poco gli Stati Uniti avrebbero bombardato il Giappone con la bomba atomica lanciata su Hiroshima e Nagasaki causando più di duecentomila morti fra i civili. Una tragedia di proporzioni inestimabili incisa per sempre nel cuore del mondo. 

Quando ero bambino vidi i soldati americani arrivare in Irlanda del Nord in quanto si stavano preparando ad invadere l’Europa continentale. L’esercito britannico e quello americano erano ovviamente alleati. L’Irlanda del Nord, in quanto parte del Regno Unito, era coinvolta nel conflitto bellico, e non la Repubblica di Irlanda, ma l’Irlanda del Nord, dove vivevamo noi.

Il mio primo ricordo di quell’evento è che da bambino mi arrampicavo su di un albero da cui si vedeva la strada che attraversava il nostro villaggio. Vidi la colonna di soldati che arrivarono a bordo di jeep, carri armati, veicoli blindati passare sotto di me. Allora pensavo che questo evento fosse l’ingresso del male nel paradiso terrestre, l’irruzione della modernità nel piccolo mondo dell’Irlanda rurale.

Mi ricordo anche un aeroporto militare dalle nostre parti. I piloti si stavano addestrando in vista del cosiddetto D-Day e continuavano ad arrivare degli aeroplani. Ho vissuto la guerra così, aeroplani in cielo, soldati a terra.

Un’atmosfera generale di guerra nell’aria e nell’etere, ma non avevo veramente idea di che cosa stesse succedendo e della sua gravità.

Con il tempo, nel corso della mia esistenza, ho cercato di far riemergere i miei ricordi e ho cercato di dare a loro un senso diverso. Continua a leggere

Adam Zagajewski, “Dalla vita degli oggetti” & video

Nello scaffale, Adam Zagajewski
a cura di Luigia Sorrentino


Sarà in libreria il 6 giugno 2012 la prima raccolta di poesie in lingua italiana di Adam Zagajewski (nella foto di Stefano Strezzabosco) poeta e scrittore di fama internazionale, già candidato al Premio Nobel per la Letteratura. Dalla vita degli oggetti  (Biblioteca Adelphi) per la traduzione italiana di  Krystyna Jaworski, è  un’opera poetica che riflette la fase più alta e matura della produzione di Zagajewski. Nelle poesie il poeta mette a confronto il mondo della Natura e della Storia cogliendo tutte le contraddizioni della condizione umana: “La pelle levigata degli oggetti è tesa come una tenda del circo; siamo come palpebre, dicono le cose; sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità; e la luce, l’India e l’Europa; e all’improvviso sono io a parlare: cose, sapete cos’è la sofferenza?” […]  Zagajewski cattura l’istante in cui l’esperienza del dolore si fonde alla bellezza. Ed in quel preciso punto, l’aura del divino si manifesta anche nella realtà più misera. Continua a leggere

Yves Bonnefoy, Premio Napoli e Laurea Honoris Causa

Yves Bonnefoy ph. Luigia Sorrentino, 27 ottobre 2011

Una giornata speciale per Yves Bonnefoy

Napoli, 27 ottobre 2011. In mattinata, alle 10:30, Yves Bonnefoy, il grande poeta francese, ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in “Teoria e prassi della Traduzione” dall’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” (Palazzo Corigliano, Aula delle Mura Greche, Piazza San Domenico Maggiore, 12 – Napoli).

Discorso di apertura del Magnifico Rettore, Professoressa Lida Viganoni, saluto del Preside della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Professor Augusto GuarinoLaudatio Accademica Professoressa Giovannella Fusco Girard, Lectio Magistralis Professor Yves Bonnefoy.

Nella foto Yves Bonnefoy fotografato da Luigia Sorrentino subito dopo la Lectio Magistralis.

In serata a Yves Bonnefoy al Real Bosco e Museo di Capodimonte, Sala Luca Giordano è stato conferito dalla Fondazione Premio Napoli il Premio Speciale 2011- per la Poesia Straniera per l’Opera Poetica, a cura di Fabio Scotto, pubblicata del 2010 dal Meridiano Mondadori.

Discorso di apertura di Silvio Perrella, Presidente della Fondazione e del Premio, con Yves Bonnefoy alla presenza, fra gli altri di Milo De Angelis e Fabio Scotto.

L’intervista televisiva a Yves Bonnefoy è di Luigia Sorrentino

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Yves Bonnefoy sarà a Napoli per due avvenimenti importanti

Yves Bonnefoy (ANSA)

Appuntamento

Il 27 ottobre del 2011 il poeta francese Yves Bonnefoy, candidato più volte al Premio Nobel per la Letteratura, una delle voci più importanti a livello mondiale, verrà premiato dalla Fondazione Premio Napoli con il Premio Speciale per la Letteratura Straniera per L’opera poetica pubblicata nel 2010 nei Meridiani Mondadori a cura di Fabio Scotto. Nella stessa giornata l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale consegnerà a Yves Bonnefoy la Laurea Honoris Causa.

In omaggio a Yves Bonnefoy vi proponiamo la prima video-intervista realizzata il 6 settembre 2007 per Rainews24 da Luigia SorrentinoYves Bonnefoy, Il poeta del sogno notturno” in occasione del festivaletteratura di Mantova.


 

“Buon compleanno, Dudù!” Video-Intervista a Raffaele La Capria

Raffaele La Capria

Raffaele La Capria
a cura di Luigia Sorrentino

Roma, 30 ottobre 2011

 

“Buon compleanno Dudù!”
Il 3 ottobre del 1922 nasce a Napoli uno dei più raffinati scrittori italiani del Novecento, Raffaele La Capria, per gli amici Dudù (o anche Duddù) con la doppia D. Prova ne è l’ultimo libro pubblicato dall’autore nel 2011, “Confidenziale” Edizioni Il Notes Magico (12,00 euro).

Si tratta di una raccolta di lettere confidenziali – come suggerisce il titolo – scritte a La Capria dai suoi amici. Goffredo Parise, Lina Wertmuller, Francesca Sanvitale, Emanuele Trevi che scrivevano “Caro Dudù”, ma anche lettere di altri amici che scrivevano “Caro Raffaele La Capria”, come Anna Maria Ortese, Edoardo Albinati, Umberto Silva, e quelle di altri ancora che scrivevano “Caro La Capria”, come Norberto Bobbio.
L’occasione è ghiotta per me me, per augurare a Dudù, che compie oggi 89 anni, “Buon Compleanno!” riproponendovi il testo e il video di una delle mie interviste a La Capria. In particolare, quella realizzata per Rainews24, nel 2005, subito dopo l’uscita del libro “L’estro quotidiano” (Mondadori, 2005).

La Capria, quasi alla fine della video-intervista mi racconta di un suo sogno ricorrente, il sogno in cui gli riappaiono i genitori che lo scrittore dice di ‘incontrare per caso’, come se fossero andati via dalla casa e lui non sapesse dove sono andati a finire.

La domanda piena d’affetto che La Capria rivolge a suo padre e sua madre è questa: “Ma come fate a vivere da soli? Io non so niente di voi…  Chi vi mantiene? Dov’è la vostra casa?”  […]

Il testo (parziale) dell’intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino

Riprese e Montaggio di Luigia Sorrentino
Roma, 2005


L’epoca che viviamo è tragica, funestata da eventi tragici. Come vive Raffaele La Capria questa sua epoca?

‘L’ho scritto nella ultima pagina del mio libro ‘L’Estro quotidiano’. Quel libro l’ho scritto nel 2003, ma per ragioni editoriali è uscito nel 2005. Dal 2003 al 2005 la situazione è peggiorata e il tasso di odio, ferocia, crudeltà, è aumentato nel mondo in maniera inimmaginabile. Dopo le esibizioni filmate delle teste tagliate e la strage programmata dei bambini in Ossezia, si è persa la bussola dell’umano e le parole non sono più all’altezza del male che vorrebbero denunciare. Il nostro privato rispetto a questi eventi tragici, sembra una futilità. Qual è il risultato? Di ridurre la nostra vita quotidiana a un assurdo. Adesso la nostra vita quotidiana non ci sembra più normale, è una pretesa normalità. Ma è una normalità falsa quella in cui crediamo di vivere noi privilegiati, credendo di stare in pace, di non soffrire di queste terribili calamità che il mondo soffre’.

Quest’epoca, ha cambiato qualcosa nella sua scrittura?

‘Certo. Soprattutto se si legge tutto il mio libro ‘L’Estro quotidiano’ si sente che è attraversato come da un’angoscia, da un sottile rimorso di star bene. Si sente che c’è una frattura spaventosa tra quello che sappiamo e la vita che viviamo. Questo aspetto lo metto in evidenza in un punto preciso del libro in cui racconto che sto guardando la televisione e vedo massacri, cose orrende e dico: “questo è il telegiornale delle otto, e io devo vestirmi in fretta, alle nove ho un appuntamento al ristorante”. Ed è proprio questo l’assurdo: vedere il male, ma poi andare al ristorante.

In un articolo uscito sull’ Espresso Giorgio Bocca ha detto che La Capria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo le due Napoli, quella della borghesia, colta e aristocratica, e quella selvaggia, del popolo napoletano. Praticamente Bocca dice che lei ha inventato la napoletanità.

‘Non ho inventato la napoletanità, ma l’ho analizzata criticamente. L’ho analizzata e criticata anche più ferocemente di quanto Bocca, qualche volta, abbia criticato il sud e i mali del sud. Bocca dice, però, che questa mia teoria è elegante, ma consolatoria. E io gli ho risposto: “Bhe? Che c’è di male che sia consolatoria? La letteratura deve essere anche consolatoria, oltre che critica.’

Il suo linguaggio narrativo di certo non rappresenta la Napoli della camorra e della illegalità. È una sua scelta non rappresentare quella Napoli?

‘Uno scrittore non è obbligato a scrivere di camorra. Credo che uno scrittore abbia il compito di dare un’immagine della sua città molto più grande e più complessiva, che include tutto. Una rappresentazione della città, una rappresentazione mentale che sottragga la città dalle false rappresentazioni che gli vengono date continuamente. Tanto utile, rivoluzionaria, importante è l’opera di uno scrittore, quanto più questo scrittore si affranca dalle false rappresentazioni e cerca, come un archeologo della mente, di scavare attraverso la cenere di queste false rappresentazioni, il documento vero, la sostanza vera di quella immagine della città che lui sta creando mentre scrive. A tutto questo deve corrispondere, anche, uno stile adeguato, perché soltanto quando c’è questa fusione tra un’idea e una rappresentazione, e uno stile che la sostiene, funziona la comunicazione.’ Continua a leggere

Video-Intervista a Adam Zagajewski

Adam Zagajewski / credits ph. Silvio Lacasella


Adam Zagajewski
a cura di Luigia Sorrentino

Adam Zagajevski, saggista, scrittore e poeta, è nato a Leopoli (che ha fatto parte dell’ex Unione Sovietica e ora si trova in Ucraina) nel 1945. E’ considerato con Wislawa Szymborska il maggiore poeta polacco vivente. (Foto di Silvio Lacasella).

Zagajewski è noto anche per il poema “Try To Praise The Mutilated World”  – “Tentativo di lode al mondo mutilato” -uscito a puntate sul periodico statunitense “The New Yorker” e diventato celebre dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Candidato al Nobel per la Letteratura,  Zagajewski ha una voce che parla dallo sfondo di immense devastazioni contaminate dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Shoah. Aveva solo quattro mesi quando la sua famiglia fu deportata in Polonia, paese di cui era originaria. Nel 1981 a causa della legge marziale polacca (quando il governo della Repubblica Popolare limitò drasticamente la vita quotidiana con l’introduzione della legge marziale, nel tentativo di schiacciare l’opposizione politica guidata dal movimento di Solidarnosc) Zagajewski fu costretto all’esilio e si rifugiò in Francia, a Parigi. Dal 2002  è tornato a vivere in Polonia. Attualmente risiede tra Cracovia e gli Stati Uniti e insegna all’Università di Chicago.

La sua autobiografia “Tradimento” è stata pubblicata dalla casa editrice Adelphi nel 2007, (traduzione di Valentina Parisi). La stessa casa editrice ha in corso di pubblicazione (per il 2012) una scelta significativa dell’intera opera poetica di Zagajewski.

Intervista Adam Zagajewski
di Luigia Sorrentino

Accademia americana di Roma
17 marzo 2011

In “Tradimento”, lei scrive: “La vita è tradimento. Chiunque possegga un’anima immortale, e abbia ricevuto la vita, è un traditore.” Sembra proprio che in questo libro per lei sia impossibile venire al mondo fuori della condizione del ‘tradire’ e ‘dell’essere traditi’.
Perché la vita è tradimento?

“Credo che abbiamo un innato desiderio di perfezione dentro di noi, ma la vita non è mai perfetta come l’idea che abbiamo di essa. Per me questi due livelli sono interessanti. Da una parte la nostra vita interiore, che forse non è perfetta, ma è ‘ideale’, e poi l’altro livello, quello quotidiano in cui siamo corrotti e non possiamo seguire i nostri ideali. Quelli che scrivono letteratura, e più in generale quelli che si occupano di arte, sono consapevoli di questa discrepanza tra la vita interiore e la vita economica o familiare. E’ un tradimento, non il peggiore, ma comunque un tradimento.”

Lei scrive: “Il mondo interiore, il regno assoluto della poesia, ha la caratteristica di essere inesprimibile.” E allora, che cosa succede se quel mondo interiore e inesprimibile, aspira soprattutto ad esprimersi? Lei dice: “Usa uno stratagemma. Finge di interessarsi e di interessarsi molto alla realtà esterna.” Con tale affermazione fa crollare l’idea che si ha dei poeti: spesso fotografati come esseri fragili, insicuri, poco realistici, sognatori…
Quale stratagemma utilizza il poeta per esprimersi?

“Questo frammento ha un tono ironico, non credo totalmente a quello che ho detto. Mi sembra che a volte i poeti o i romanzieri credano che quello che hanno da dire è difficile da esprimere e quindi quando succede qualcosa nel mondo reale nel libro si trasforma in una catastrofe o in un elogio. Non sempre lo scrittore è coinvolto in prima persona in quello che scrive e allora si usano questi stratagemmi, ovvero utilizzare degli eventi che siano intellegibili, empirici, fisici, concreti, degli eventi che siano totalmente tuoi.”

Adam Zagajewski / credit ph di Stefano Strezzabosco

Ci parla dell’ineffabile ‘cinismo’ della poesia e della paura che ha la poesia di svelare il proprio “segreto”… Poi dice che la poesia ha un cuore freddo… ci dice che la realtà capirà improvvisamente di essere stata soltanto un pozzo inesauribile di metafore e scomparirà. E la poesia resterà sola al mondo, muta, vuota, triste e incomunicabile…
Che significa? Davvero la poesia ha un cuore freddo? Davvero la poesia teme che qualcuno possa scoprire il suo segreto?

“Credo che nella poesia ci siano due aspetti. Il primo è il cuore di pietra. Quando, ad esempio, si scrive un elogio funebre, quando qualcuno che ami muore, il cuore non rimane insensibile e si sente concretamente l’affetto e la tristezza, ma, allo stesso tempo, se si vuole scrivere una buona poesia, bisogna pensare anche alle caratteristiche tecniche e trovare delle buone metafore. Non basta dire: ‘come sono triste!’ Quella è una cattiva poesia. Bisogna trovare un modo per trasmettere il messaggio e questo approccio formale è freddo. Quindi c’è l’aspetto emotivo, dato da un sentimento o da una sensazione, e poi c’è questo ‘interesse tecnico’ molto freddo. Come posso esprimermi, come posso dire una tale cosa in modo che anche gli altri la capiscano?” Continua a leggere

Video-Intervista inedita a Maria Luisa Spaziani

Maria Luisa Spaziani © Dino Ignani

E’ da poco uscito l’Oscar Mondadori di Tutte le poesie (1954-2006) di Maria Luisa Spaziani con poesie da Le acque del sabato, del 1954, fino a La la luna è già alta del 2006) e già si parla dell’uscita di altri due libri che collocheranno la Spaziani definitivamente, in un posto di indiscusso valore letterario del Novecento italiano. I libri che usciranno  sempre con Mondadori sono:  “Montale e la Volpe” – entro la fine del 2011 – e il Meridiano, che conterrà tutta l’opera della Spaziani, e comprenderà, oltre la poesia, anche il teatro, la prosa e la saggistica. L’uscita di quest’ultimo libro è prevista  entro la fine del 2012.

Maria Luisa Spaziani è sicuramente uno degli ultimi testimoni di una società letteraria ormai in fase di estinzione. Celebre il sodalizio intellettuale e artistico che la legò a Eugenio Montale (Mia Volpe…) e di cui la Spaziani  racconta nella video-intervista inedita, realizzata da Luigia Sorrentino nel 2011.

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Video-Intervista a Mark Strand

Mark Strand

Mark Strand, in assoluto una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea, ha appena pubblicato in Italia per gli Oscar Mondadori una raccolta di tutte le poesie: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Oscar Mondadori, 2011 (euro 15,00).

In questa video-intervista realizzata da Luigia Sorrentino il poeta di origine canadese, Mark Strand, premio Pulitzer per la poesia nel 1999, rivela un’inedita lettura di tutta la sua opera poetica.

 

Intervista di Luigia Sorrentino
Accademia Americana di Roma
18 marzo 2011

Siamo qui per parlare della sua opera di poeta, l’opera di un poeta definito della ‘montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi.

Innanzitutto ci dica una cosa…

Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, a un certo punto, di dedicarsi totalmente alla scrittura… è successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata? Che ricordi ha dei suoi esordi letterari?

 

“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio ma bensì uno studente pittore, ma in un certo modo l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa, prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta.  Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un  modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”

 

La sua prima poesia, quella scritta negli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?

 

“In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo “misterioso”, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma al contempo ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore di sperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché in generale non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”

 

Via via, negli anni, la sua identità poetica sembra che si sia dedicata a un esercizio di purificazione interiore…  “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è il titolo della raccolta in cui, per la prima volta, viene proposta un’ampia scelta in Italia della sua produzione poetica tra 1964 e il 2006.

Chi è “L’uomo che cammina a un passo davanti al buio”?

 

“Rappresenta ognuno di noi. Non è una persona in particolare, non sono nemmeno io, sebbene pensi di camminare un passo avanti al buio, specialmente ora che sto invecchiando, il buio diventa sempre più vicino,  ma è il destino di ognuno di noi quello di essere un passo avanti al buio. Lo si può pensare in questo modo, ogni giorno che si vive, che si sopravvive, si sfugge al buio… è questo il senso che volevo trasmettere con il titolo del mio libro in italiano. Ninet’altro. Ha un senso? … ok”

 

Tutta la sua opera – è stato detto – sembra dominata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…

Come definirebbe la sua poesia?

“Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”

Lei potrebbe essere definito anche “il poeta della disillusione”. Forse questa è una delle principali caratteristiche della sua opera. Lei dice che immaginazione collettiva si è affievolita… L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?

“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che “L’uomo e il cammello” sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: “l’hai rovinata, rovinata per sempre” riferendosi alla poesia. E la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo… un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso. A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto… come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia? E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa?! Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”

 

Possiamo dunque dire che “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è l’uomo contemporaneo che cammina in uno spazio oscuro, che precede il buio in cui si concluderà la sua esistenza?

“L’uomo che cammina un passo avanti al buio non sta camminando attraverso il buio, cammina nella luce. Il fatto che il buio sia dietro di lui e forse lo sta raggiungendo, Ma se fosse stato nel buio e questo lo stesse perseguendo,  non sarebbe stato possibile fare la distinzione che ho fatto.  Noi viviamo in una condizione benedetta di illuminazione. L’illuminazione, la luce non significherebbero niente se non avessimo un senso del buio.  E’ semplice, proprio così come appare. Tutto è nel buio. Chiaramente. Guardate oggi, è una bella giornata, sarebbe ridicolo se dicessi viviamo nel buio. Ideologicamente forse, noi viviamo tempi bui, ma poi l’oscurità diventa materia di discussione.”

E’ stato detto, di lei, il “il poeta dell’assenza”…il suo è un io che si sottrae  al paesaggio, la sua è una poesia semplice, ma anche misteriosa…il suo dire “io” non è un’autoaffermazione, ma una negazione, è un cancellare il sé…

Perché ci sono “tanti vuoti”, tante “sospensioni” all’interno della sua poesia?

 

“Non lo so. Semplicemente non lo so. Ho la sensazione che quando una persona si siede in una stanza, da sola, e scrive, perde la sua connessione con il mondo e diventa il segretario dei pensieri di qualcun altro. In un certo senso si esce dal corpo, si perde il senso del tempo, lo spazio è alterato e si diventa la creatura della propria immaginazione. Quello che voglio dire è che l’assenza dal mondo reale è palpabile quando si è soli in una stanza. Il mistero è qualcosa di inspiegabile, altrimenti non sarebbe misterioso. E’…  da dove vengono queste idee e cosa ti dice la poesia su dove desidera andare. Tutto questo è mistero, in un certo senso non sono io a dire alla poesia dove andare, è la poesia che mi spinge verso una direzione, la poesia ha una propria voce, e io divento il segretario della mia voce. E la mia voce è il prodotto dell’immaginazione. Oltre a questo non saprei cos’altro dire a parte il fatto che preferisco vivere nel mistero, e l’assenza è proprio questo.”

E’ stato detto di lei… anche “poeta pastorale” del genere pastorale, idilliaco… ma non nel senso proprio del termine… nel senso che la sua poesia si colloca in uno spazio idealizzato e artificiale … che rende, per questa ragione, più intensa però la sofferenza, tanto che la critica parla di “idillio negativo di Strand”…

Lei è d’accordo con questa interpretazione? Quali sono, dunque i suoi paesaggi?

“Vorrei concordare con questa caratterizzazione della mia poesia, tuttavia non ne ho mai sentito parlare, perchè non leggo le critiche dei miei lavori, non leggo recensioni. La gente mi dice “è buona, va bene,  non lo è “… io non dico bene, ma chi se ne importa. Ma credo che sia possibile che abbia creato questa negatività idealizzata. Il paesaggio, l’ambiente delle mie poesie, è in realtà  puro arredamento, le montagne appaiono sullo sfondo, il mare che appare è sullo sfondo, così come lo è la luna, quello che mi interessa è l’azione che avviene all’interno della poesia. Per me l’immagine di una poesia è l’azione all’interno della poesia. E’ l’evoluzione della consapevolezza, all’interno dei limiti formali della poesia. Se questo suggerisca dolore o piacere, non lo so. Posso soltanto dire che nello scrivere queste poesie io provo piacere. Poi se trasmetto dolore, e sono sicuro che può succedere… è una domanda difficile. Guardate alle migliaia di crocefissioni che sono state dipinte… la crocefissione è l’esempio del dolore estremo, secondo me. Noi guadiamo questi quadri che possono essere di Velazques, Tintoretto o persino di Salvador Dalì, noi proviamo piacere, il dolore non viene trasmesso. Dobbiamo rimmaginare il dolore, attraverso il piacere che viene trasmesso. In realtà ho scritto una poesia che parla di questo processo. La maggior parte delle poesie parlano di perdita e sono tristi. Ma questa tristezza e questa perdita si identificano nella bellezza, ed è la bellezza che ci commuove.”

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Video-Intervista a Roberto Calasso

Roberto Calasso

Intervista a Roberto Calasso
di Luigia Sorrentino
Roma 17 marzo 2011

 

Ho incontrato Roberto Calasso a Roma il 17 marzo scorso, alla John Cabot University, in occasione della prima serata di Tributo a Brodskij (A Tribute to Joseph Brodsky).
Scrittori di fama internazionale come Boris Khersonsky (Russia), Mary Jo Salter (USA), Mark Strand (USA), Derek Walcott (St. Lucia), Adam Zagajewski (Polonia) e Roberto Calasso (Italia), infatti, si sono dati appuntamento in Italia,  il 17 (alla John Cabot University) e il 18 marzo (a Villa Aurelia, sede dell’American Accademy) per ricordare l’opera di poeta e prosatore di Iosif Brodskij, uno dei più importanti scrittori del Novecento. L’evento è stato reso possibile grazie al contributo di Nancy M. O’Boyle, consigliera di amministrazione dell’Accademia Americana e del Joseph Brodsky Memorial Fellowship Fund. All’evento hanno partecipato la Casa delle Letterature, il Comune di Roma, la John Cabot University e La Sapienza, Università di Roma.

La conversazione con Roberto Calasso,  (autore di un work in progress di cui finora sono apparsi La rovina di Kasch  del 1983, Le nozze di Cadmo e Armonia del 1988, Ka  del 1996, K. del 2002, oltre al romanzo L’impuro folle del 1974, i saggi I quarantanove gradini  del 1991, La letteratura e gli dèi del 2001, La follia che viene dalle Ninfe del 2005, e la raccolta di risvolti Cento lettere a uno sconosciuto del 2003), partita dall’opera di Brodskij, (che definiva la poesia «l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del cuore umano»), è stata l’occasione per parlare anche del suo ultimo libro, L’ardore, appena uscito nelle librerie.

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Derek Walcott, Video-Intervista

Derek Walcott

Derek Walcott, Premio Nobel per la Letteratura nel 1992, è in Italia poeta residente dell’American Academy (direttore artistico dell’Accademia, Karl Kirchwey), per presentare in prima mondiale la sua nuova opera teatrale intitolata Moon-Child (Ti Jean in Concert).

Il grande poeta di fama internazionale, sarà alla guida della messa in scena, che coinvolgerà anche gli attori Wendell Manwarren, Giovanna Bozzolo, Dean Atta e il compositore Ronald Hinkson.

Moon-Child (Ti Jean in Concert), la nuova pièce che Derek Walcott ha basato sulla sua opera teatrale del 1958 Ti-Jean and His Brothers, rappresentata per la prima volta al Little Carib Theatre di Port of Spain a Trinidad, sarà interpretata dallo stesso Walcott, insieme all’attore di Trinidad Wendell Manwarren, all’attrice italiana Giovanna Bozzolo e all’attore Dean Atta. Le musiche di scena dello spettacolo sono affidate al compositore Ronald Hinkson e la scenografia prevede la proiezione di immagini di opere d’arte di Derek Walcott e di suo figlio Peter Walcott, anch’egli artista.

Scritta in versi rimati, Moon-Child è un apologo lirico, che racconta una storia antica come quella delle favole ed inizia con tre fratelli che lasciano la propria casa in cerca di fortuna. In questo caso tuttavia è la nozione stessa di casa ad essere minacciata, proprio come il paradiso naturale di Santa Lucia, già rovinato una prima volta dal colonialismo e di suoi strascichi, è minacciato da un “secondo sistema schiavistico” fondato sull’appropriazione delle terre coltivabili per farne aree edificabili che alimentano lo sfruttamento turistico dell’isola.

Intervista a Derek Walcott di Luigia Sorrentino
Roma, American Academy
18 marzo 2011

Lei è in Italia ospite dell’American Academy per presentare lunedì 4 aprile 2011 alle 21:00 a Villa Aurelia in prima mondiale la sua nuova opera teatrale intitolata Moon-Child (Ti Jean in Concert).

Dopo Moon-Child a cosa sta lavorando adesso Derek Walcott?

Ho realizzato lo storyboard con una serie di bozzetti, illustrazioni… perché ora sto lavorando a un film. Realizzo dipinti singoli, non sempre illustrazioni per le mie poesie. L’ultimo acquarello che ho realizzato è questo di Santa Lucia. Non è soltanto un’illustrazione per una mia poesia, ma è un paesaggio. Io non dipingo solo in funzione della poesia, ma per il piacere di dipingere. Tuttavia per me pittura e poesia sono due arti distinte, sono due lavori diversi.

 

Lei è considerato il più grande poeta delle Indie Occidentali. Premio Nobel per la Letteratura nel 1992. Nella sua opera esprime il conflitto tra l’eredità della cultura europea e quella delle sue origini, le Indie Occidentali, in particolare Santa Lucia e i Caraibi. Un conflitto che dopo un lungo percorso storico ha portato la popolazione dei Caraibi dalla schiavitù della dominazione europea, all’indipendenza, alla libertà. E’ vero che lei si sente un nomade fra queste due civiltà? Non appartiene a né all’una né all’altra? Oppure si potrebbe dire che queste due civiltà coesistono in lei?

Dopo il Premio Nobel sono stato invitato in tutto il mondo: presto andrò in Sud America. Sono stato invitato a numerosi festival letterari, come ad esempio qui a Roma, ma io sono un uomo dei Caraibi e ci tengo molto a sottolineare la mia provenienza, chi sono. Non sono uno scrittore europeo. L’Europa per me è un luogo strano, non è casa mia e quando sono qui sento di non appartenere a questo luogo, lo osservo attentamente. L’influenza dell’Europa è chiaramente molto forte nei Caraibi e io ne sono consapevole.

Lei è nato nel 1930 a Castries, capitale di Saint Lucia, nelle Antille Minori. Nascere e crescere in una piccola isola vulcanica, ex-colonia britannica come ha influenzato la sua produzione letteraria?

Saint Lucia è un’isola piccolissima. Quando si vive lì sempre, è un posto grande.. perché si devono raggiungere luoghi relativamente distanti e dunque ti adegui alle dimensioni del luogo in cui vivi. Roma è una città enorme che può provocare un certo senso di alienazione. Posso dire comunque di non essere mai stato confuso in relazione alla mia identità. So qual è il mio luogo di appartenenza: è Santa Lucia, una piccola isola tropicale. Al tempo stesso apprezzo e riconosco l’influenza che ha avuto l’Europa nella mia vita e nella mia esperienza. Continua a leggere

Adonis, “Storia lacerata nel corpo di una donna”

Adonis, Fabriano, Poiesis 2009 Foto di Luigia Sorrentino

di Luigia Sorrentino

Vi ripropongo la mia intervista ad Adonis, pseudonimo di Ali’ Ahmad Said Esber, nato a Kassabin, in Siria, nel 1930, che per scelta, considera la sua vera patria il Libano. Attualmente Adonis vive a Parigi. E’ uno dei maggiori poeti nel mondo. La bellezza dei suoi versi è tutta nella meraviglia delle immagini, nell’intreccio di metafore, nelle “metamorfosi”, autentiche “migrazioni” nella storia del mondo arabo e islamico. L’intervista è stata realizzata in Italia in occasione dell’uscita del poema Storia lacerata nel corpo di una donna – nell’eccellente traduzione di Fawzi Al Delmi – pubblicato da Guanda. Temi centrali dell’intervista: la donnal’uguaglianza, la libertà di stampa.

 

 

Intervista a Adonis
di Luigia Sorrentino
Traduzione di Fawzi Al Delmi

Fabriano, maggio 2009

Adonis, qual è il tema di questo nuovo poema?

E’ un poema che parla di Agar che era la concubina di Abramo il padre di tutti i profeti. Questa donna fu cacciata via nel deserto con il proprio figlio. Il poema parla della condizione di questa donna che poi rispecchia la condizione della donna attuale.

Perché ha posto la donna al centro della sua prospettiva poetica?
Ci sono diverse idee che percorrono questo poema, ma cercherò di sintetizzarle in due.  La prima idea riguarda le religioni, soprattutto le religioni monoteiste. E’ un tema che va trattato, che va risolto perché diversamente non si possono risolvere i problemi attuali. La seconda idea riguarda la liberazione della donna. La donna non viene dalla costola di Adamo, ma deve essere considerata pari a lui. Alla base del pensiero dominante nella religione la femminilità costituisce un problema, e questa idea deve essere cambiata. Per questo motivo faccio di Agar il primo modello di donna ribelle. Ed è impossibile che questa rivoluzione possa essere attuata nel suo percorso se non si riconsidera e se non vengono rivisitate le religioni monoteiste.

Il tema della donna è infatti presente in molti aspetti della sua scrittura…
E’ presente in tutti gli aspetti della mia scrittura. Io guardo all’uomo e alla donna non in quanto esseri appartenenti a una religione, ma a una società civile. La religione, invece, deve essere assolutamente individuale, perché quando diventa estensione sociale si rovina tutto.

Adonis, quali sono gli ostacoli che vanificano il dialogo tra l’Islam e l’Occidente?
Perché possa esserci un dialogo noi dobbiamo riconoscere l’altro in modo che quando parla possiamo anche ascoltarlo. Le religioni monoteiste non riconoscono l’altro, lo rifiutano. Si dice che vi è un solo dio. In realtà ve ne sono tre: il dio nella Torah ha una sua peculiarità. E il dio nel Cristianesimo è all’opposto di quello che è il dio nella Torah. E il dio islamico è ancora opposto agli altri due. Quindi, se andiamo in profondità, nessuno riconosce l’altro.

Crede che stiamo andando nella direzione giusta? Verso un mondo riconciliato e tollerante?
Non credo. Le cose stanno andando sempre peggio e io personalmente rifiuto la tolleranza. La tolleranza è un altro razzismo mascherato. Sono per l’eguaglianza. L’uomo è per l’eguaglianza e non per la tolleranza.

Adonis, il problema della libertà di stampa è al centro del dibattito internazionale. Perché gli scrittori vengono messi in difficoltà? Perché non possono esprimere liberamente le proprie idee?
Ha ragione, è un problema di carattere internazionale. E’ un problema che non riguarda soltanto il mondo islamico, ma anche l’occidente. L’unica differenza è il grado di limitazione di questa libertà. La libertà di stampa è molto limitata nel mondo islamico e noi scrittori combattiamo per avere maggiore libertà. Ma questo problema riguarda anche l’Occidente. Quindi anche in Occidente la libertà di stampa è molto limitata. Vi sono delle situazioni in cui è vietato parlare. In occidente si commette un errore se si parla solo della limitazione della libertà di stampa nei paesi musulmani, perché nel mondo occidentale si ha lo stesso problema. Per esempio, perché si parla di fondamentalismo islamico e non di fondamentalismo ebraico, o cristiano? Continua a leggere

Davide Rondoni, la cronaca del profondo

Davide Rondoni

Laureato in letteratura italiana all’Università di Bologna ha fondato e dirige il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Ha scritto alcune raccolte di poesia pubblicate non solo in Italia, ma anche nei principali Paesi europei e negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro, Apocalisse amore è uscito nel 2008 (Mondadori).

 

L’intervista a Davide Rondoni è stata realizzata da Luigia Sorrentino il 21 aprile 2009 nella Libreria l’Argonauta di Roma

 

Luigia Sorrentino: Davide Rondoni, riusciremo a salvare la poesia del vivere? In un’epoca che sembra più spesso metterci in difficoltà con tutti i drammi che l’attraversano e anche gli interessi economici della politica dentro i quali l’uomo è stretto, imprigionato?

Il futuro non è solo dei poeti. La poesia del vivere la salvano tante persone che accettano le condizioni dell’esistenza senza far finta di essere in paradiso, nè di essere all’inferno, quindi accettando la penombra, la condizione in cui tutti siamo, che ci obbliga a cercare e a guardare le cose come sono, mettendole a fuoco, come fa la poesia. La poesia ha sempre realizzato questo prodigio: mettere a fuoco le cose dell’esistenza. Gli uomini parlano poeticamente non tanto per andare da un’altra parte, ma per fare un viaggio dentro la vita. Dante per ‘mettere a fuoco’ Beatrice ha scritto La Divina Commedia. Il fuoco della poesia e l’arte in genere, hanno quest’unica funzione: di essere arte e quindi, in quanto tali, di ‘scottare l’esistenza’, di risvegliare col fuoco, con qualcosa di ‘bruciante’ che sia più caldo del ‘tiepidume’ normale della vita delle persone.”

Che legame c’è tra la poesia e la cronaca? Spesso ci si sente dire che la poesia è lontana dalla cronaca…

Chi pensa che la poesia sia lontana dalla cronaca non conosce la poesia e neanche la cronaca. La poesia parte sempre dalle circostanze dell’esistenza che diventano l’ispirazione. L’ispirazione per un poeta può anche venire da un fatto di cronaca. Anzi, se stiamo attenti tutto è cronaca in qualche modo. Ci può essere una cronaca della superficie, e questo è quello che fanno, che devono fare, i mass media, i giornali, ma ci può essere e ci deve essere anche una cronaca del profondo. Questo fa la poesia.

Nel suo saggio “Il fuoco della poesia” (Ed. BUR, 2008), scrive testualmente: ‘Voglio anch’io delle ronde: Ma non intendo quelle di vigilantes, di cittadini giustizieri, o altre cose simili. No, no, voglio le ronde delle mamme”.
Le ronde delle mamme per vigilare contro la violenza urbana?

Voglio le ronde delle mamme perchè in Italia c’è una grande questione educativa su come stiamo tirando su i nostri figli, i nostri ragazzi. In un Paese che litiga sulle parole fondamentali: sulla parola ‘figlio’, ‘madre’, sulla parola ‘vita’, ‘morte’. Questo vuol dire che c’è un’emergenza forte, un’emergenza più radicale. Siamo in un momento dove ciascuno deve fare la propria parte, e questo non significa fare solo ciò che si deve fare, la madre la madre, l’impiegato l’impiegato, il poeta il poeta, il politico il politico… Bisogna uscire dalla schematizzazione dei ruoli e aggiungere qualcosa che sia ‘la generosità nella battaglia’. Le ronde delle mamme sono un invito a sorvegliare da genitori facendo delle proposte.

Sempre nel suo saggio lei cita Allan Ginsberg che in “Urlo” ha scritto: ‘Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia’. Con questo messaggio che parte da Ginsberg, lei si rivolge ai giovani, a quelli che fanno uso di droghe e dice: ‘Le cifre sono pugnali’. Sette su cento – aggiunge – sono i giovani che ricorrono alla cocaina, la maga bianca e tremenda…

Credo che ci sia una grande questione educativa che riguarda l’uso del sè, dei propri sentimenti. Baudelaire, nonostante quello che si pensa, era contrario all’uso della droga e dice una cosa interessante rispetto all’uso dell’hashish e dice: ‘Che cosa vuoi che me ne freghi che l’hashish non fa male ai polmoni? L’hashish fa male alla volontà e se l’uomo è malato nella volontà è la cosa peggiore che possa succedere.’ Credo che oggi molti ragazzi abbiano proprio questo problema, una sorta di malattia della volontà che dipende non solo dalla droga, ma, in molti casi, dal vedere adulti poco impegnati con l’esistenza, concentrati a costruire la propria ‘carrierina’.

La sua è una poesia della realtà, come quella di Pasolini o Giovanni Testori. Nel suo ultimo libro di poesie, “Apocalisse amore” non a caso lei dedica una poesia a Marco Pantani il grande ciclista trovato morto in una stanza d’albergo a 34 anni…

Tutte le grandi poesie della realtà sono poesie visionarie perchè la poesia della realtà è poesia della visione. E’ il vedere il mondo come scena, più che come realtà. Questo è l’atteggiamento che rende possibile la visione. La connessione tra ciò che accade nella realtà, cioè tra il dettaglio e l’infinito. L’intenzione di legare il particolare all’infinito è al tempo stesso realista e visionario. L’ispirazione è il prendere il respiro da qualcosa che è data. La poesia non si autogenera ma è sempre movimentata dal colpo della realtà che dà la voce al poeta. Continua a leggere

Umberto Piersanti, il poeta della memoria

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

 

Intervista a Umberto Piersanti
di Luigia Sorrentino
Fabriano 2008

Parlare della poesia di Umberto Piersanti vuol dire, ad esempio,  ritrovare un bambino che viveva nella casa nel fosso sulla collina urbinate… parlare della sua poesia vuol dire ritrovare un mondo arcaico che non è più visibile…

“Oggi, se ci fai caso, non c‘è un solo fiordaliso nei campi di grano.
Ne ho trovati pochi sulle Cesane, in un campetto vicino a una casa e mi hanno dato il senso di un tempo antico…  Mi sono anche immaginato che la luce della stella che vediamo oggi in realtà ‘è partita’ qualche migliaio o milione di anni fa. Ecco, la luce di quella stella è come la luce dei miei bei campi, che fissa per sempre in cielo e tra gli alberi della terra, i protagonisti di questa mia antica vita.”

L’ispirazione poetica di Umberto Piersanti arriva dalla madre. E’ corretto?

Io sono un poeta ultra-tradizionale, e non mi vergogno di esserlo. Io ho solo vissuto in un mondo antico. In un mondo dove, per esempio, il mio bisnonno, mi faceva dei racconti di questo tipo: ‘Sai Umbertino cosa mi è successo oggi? Andavo giù per il fosso di Caspasso ho visto un cagnotto nero …. cin cin… mi ha fatto compassione e l’ho messo  dentro il bironcio. Santa Madonna non l’avessi mai fatto! Ogni passo diventava più nero e più grosso e dal pelo mandava illlusi lampi! Allora gli ho detto: – Ma tu sei il diavolo! – L’ho frustato, gli ho dato una frustata, allora lui ha messo le ali ed è volato dietro il monte della Conserva”.
Mi raccontava queste cose come per dire ‘Ho preso un caffè con un amico… sono andato a spasso…’.

Il mondo antico del quale lei parla viene trasformato nei versi dal ricordo…

Questa campagna dove io badavo alle pecore a otto-nove-dieci anni, con il bisnonno che morì a cent’anni, o poco gli mancava, un mese o forse più… Io vivo in questo mondo antico che il ricordo trasforma perché come dice un personaggio del mio romanzo ‘Una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa’. Continua a leggere

Yves Bonnefoy, il poeta del sogno notturno

Yves Bonnefoy (ANSA)

Festivaletteratura di Mantova 2007

Sono stati due gli eventi che abbiamo seguito con Yves Bonnefoy a Mantova.

Il primo, Un sogno fatto a Mantova si è tenuto mercoledì 5 settembre alle 18:45, nel Cortile del Castello di San Giorgio. Yves Bonnefoy con Fabio Scotto.

“Una notte d’ottobre a Mantova, in una stanza poveramente illuminata di una piccola locanda, nell’attesa di visitare il giorno dopo la grande mostra del Mantegna. Un sogno. Un giorno di primavera o d’inizio estate, un giardino con alberi da frutto, ragazze che ridono. ‘Noi siamo le fate,’ dicono ‘questa è la casa dell’immortalità’ “.

Un racconto del poeta francese Yves Bonnefoy che dà il titolo a una raccolta di appunti di viaggio, meditazioni artistiche, stravaganze. Un sogno che ritorna a Mantova, in forma di reading.

Il secondo incontro con il poeta francese, La chiarezza dell’oscuro si è tenuto giovedì 6 settembre alle 10:15 al Teatro Bibiena.

Yves Bonnefoy, ritenuto il maggiore poeta francese vivente e uno dei più grandi autori del ‘900, ha proposto una riflessione e una lettura poetica bilingue che ha saputo attraversare le varie stagioni letterarie del secolo senza mai perdere di vista il nesso inscindibile tra poesia ed esperienza, aperta ad altri saperi e devota al paesaggio, con una particolare predilezione per l’arte e i luoghi italici. Con Yves Bonnefoy è intervenuto Fabio Scotto, curatore e traduttore,  del recente  Le assi curve pubblicato da Mondadori dal quale ha letto il poeta. Bellissima la poesia che legge da “La casa natale”.

L’intervista a Yves Bonnefoy è di Luigia Sorrentino


Nota a margine

Una delle domande che posi a Yves Bonnefoy e che non riuscii a inserire nell’intervista televisiva, ma che secondo me merita la nostra attenzione, è quando gli chiesti di Paul Celan, che lui aveva conosciuto frequentato e conosciuto. Bonnefoy mi rispose così:

“L’esperienza personale di Paul Celan è diversa dalla mia. Lui è una vittima, io no. Celan utilizzava per scrivere la lingua tedesca, ma con questa lingua aveva un rapporto conflittuale. Alla lingua tedesca cercava di restituire la generosità, la verità antica. Io invece sono in pace con la mia lingua, non ho vissuto la sua esperienza drammatica, però gli sono stato molto vicino”.

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Raffaele La Capria e la lezione del canarino

Raffaele La Capria

Video Intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino
Roma, 6 maggio 2007

Nel libro “Guappo e altri animali”, Mondadori 2003, Raffaele La Capria, nato a Napoli nel 1922, ripropone la lezione del canarino: “Nel momento in cui il canarino si posò sulla mia spalla, io rimasi immobile per lo stupore”. E la storia dello scrittore La Capria, come lui stesso dice, cominciò subito dopo, quando, tornato a casa, volle raccontare a sua madre quell’esperienza. Ma non appena pronunciò la frase “Mamma, oggi un canarino si è posato sulla mia spalla”, il bambino-La Capria si accorse che non aveva comunicato nulla di quella emozione.

La video intervista a Raffaele La Capria di Luigia Sorrentino

Milo De Angelis, Video-Intervista

Milo De Angelis: L’imperativo categorico e l’infinito presente

di Luigia Sorrentino

Ho conosciuto Milo De Angelis in occasione di una lettura di poesie a Ortona nel 1986. Fu in quel contesto che De Angelis mi mise di fronte alla sua poesia, regalandomi la prima edizione di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. I suoi versi mi colpirono per la solennità e la compiutezza della voce con la quale il poeta anticipava un sapere sconvolgente che pochi riuscivano a percepire. Dopo quel primo incontro andai più volte a Milano, la città dove il poeta tuttora vive, per rivedere De Angelis. Ricordo i lunghi pomeriggi trascorsi nella casa di via Rosales a parlare di poesia. Fu in uno di quegli incontri che il poeta divertendosi a giocare con la radice del mio cognome disse: “lo sai cosa significa sorren in tedesco?”. E poi aggiunse: “Significa approdo“.
Recentemente ho appreso che  la parola sorren non è più di uso comune In Germania. Grazie all’intermediazione di Soledad Ugolinelli, nel Goethe Institute di Roma che ha consultato il dizionario della lingua tedesca dei Fratelli Grimm, edito nel 1854, è venuto fuori che sorren significava letteralmente “legare saldamente con una fune”, un termine che si usava, in particolare, per indicare il modo in cui i barili dovevano essere legati nella stiva a bordo di una nave, onde evitare che si perdessero durante un viaggio.
Scopro oggi che De Angelis aveva utilizzato la radice del mio cognome, sorren, per dare forza al legame che si era instaurato fra noi. Saldamente legati durante il viaggio. L’approdo, altro non era, metaforicamente, che il luogo della poesia.

 

T. S.

I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II
E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

Intervista a Milo De Angelis
di Luigia Sorrentino
Milano, Vita Bovisasca, 85
23 dicembre 2006

 

De Angelis, quando si viene toccati dalla poesia? Quando la poesia si chiama?

“si viene toccati dalla poesia quando sentiamo che è una via obbligatoria e tutte le altre vie ci sembrano un’evasione… Sì, un’evasione da ciò che è essenziale,  dalla parola che è più antica in noi e che il tempo ha reso un destino. Una parola non ritrattabile, una parola d’onore, una parola depositata da sempre, a cui dobbiamo a tutti costi dare un nome. Dare la parola dice bene di questa fedeltà alla promessa poetica.e questo lo sentiamo già poeticamente, con quella forza imperativa con quella voce da ultimatum che è propria del verso”.

Somiglianze, pubblicato nel 1976, trent’anni fa, è la prima raccolta di versi di Milo De Angelis, nella quale ricorrono tematiche forti, legate al mito dell’infanzia e dell’adolescenza. Una poesia in cui il presente diviene l’imperativo categorico della parola poetica: “Se ti togliamo ciò che non è tuo/ non ti rimane niente.” Il verso è tratto da la poesia che s’intitola L’idea centrale. Un verso forte, imperativo e categorico. 

“L’imperativo è il tempo e il modo della poesia. È un imperativo in cui lettore deve entrare, deve sentire che quel verso è un grido… Grido di soccorso, di gioia, di stupore, di rabbia, di memoria, di dolore. Un grido comunque che ci chiama, e che è rivolto a noi, proprio a noi… e dobbiamo ascoltarlo, a tutti i costi. La poesia porta in sé l’ultima volta. L’ultima cena, la razza estinta, l’estrema unzione, qualcosa che ci chiama con violenza a essere presenti, ci avverte che non ci saranno repliche, perché è un atto unico”.

 

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Orhan Pamuk, è il primo scrittore turco a vincere il Nobel per la Letteratura

12 novembre 2006. È Orhan Pamuk a vincere l’ambito riconoscimento. L’accademia di Svezia, nella motivazione del premio ha scritto: “Pamuk nella sua Opera ha sperimentato il cambio dalla tradizionale famiglia ottomana a quella che adotta uno stile di vita più occidentale”.

Orhan Pamuk

Orhan Pamuk

Premio Nobel per la Letteratura 2006

di Luigia Sorrentino

Giovedì 12 ottobre 2006

Avevo “intercettato” Orhan Pamuk a settembre scorso fra i finalisti del Premio Napoli 2006 con il suo romanzo “Istanbul”.

Fra i finalisti del Premio Napoli che non ha vinto Pamuk,  io ho scelto lui.
Ho realizzato l’intervista televisiva per RaiNews24 prima che Pamuk vincesse il Nobel perché sono interessata alla sua produzione letteraria e al suo impegno civile. Mai avrei immaginato  che solo pochi giorni dopo la nostra intervista Pamuk avrebbe vinto il Nobel per la Letteratura.

Quando l’Accademia di Svezia ha pronunciato  il nome del vincitore e il nome era Orhan Pamuk, Ia Rai-Radiotelevisione Italiana, l’emittente del Servizio Pubblico, è stata l’unica testata televisiva nazionale a trasmettere spezzoni della mia intervista televisiva fatta a Pamuk in tutti i telegiornali della Rai fin dalle prime edizioni. Senza volerlo ho realizzato quello che in gergo giornalistico si definisce uno “scoop“.

Pamuk nella motivazione del Premio è stato definito un autore “in cerca della malinconica anima della sua città natale (Istanbul) che ha scoperto nuovi simboli dello scontro e dell’intreccio tra le culture”.

 

L’intervista a Orhan Pamuk
di Luigia Sorrentino

Napoli, 17 settembre 2006

 

Il successo internazionale per lo scrittore è arrivato con il suo terzo romanzo, Il castello bianco. Ambientato nell’Istanbul del XVII secolo, secondo l’Accademia “mostra come la personalità sia una costruzione variabile“.

ORHAN PAMUK: “Vent’anni fa quando ho scritto Il castello bianco, Roccalba, nessuno si occupava di identità, soprattutto a livello accademico. L’identità non era una questione, diciamo così, in voga. In realtà ho voluto realizzare un libro metafisico sulla mia situazione, che era quella di avere, per così dire, un piede nella cultura tradizionale turca – quindi nell’Islam – e un altro piede, nella cultura europea moderna, che mi veniva dalla lettura di alcuni libri.  Ne Il Castello bianco volevo mettere in luce questa contraddizione che è, in sostanza, la contraddizione della Turchia moderna.”

Così racconta la sua vocazione letteraria, ma anche umana e etica,  Orhan Pamuk, il primo scrittore turco ad essere insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
“Vi dirò chi sono”, scrive Pamuk in Istanbul . Pamuk, intervistato a Napoli in occasione della 52esima edizione del Premio Napoli, autore di 7 libri, tra i quali Il Castello Bianco’, ‘Neve‘, ‘Il mio nome e’ rosso’ ,  tutti pubblicati da Einaudi, costantemente impegnato nel riconoscimento dell’Altro sé,  del suo Doppio, offre al lettore “la chiave” per superare il conflitto  tra islamismo e occidentalismo.

Il narratore-poeta, che ha posto al centro della sua opera il tema dell’identità, sembra rivolgere a noi una sola domanda: che cosa cambierebbe in Europa e nel mondo, se tutti ci impegnassimo nell’esplorazione di questa “zona grigia”, le due identità, in cui le persone si trovano, o si possono trovare?

 

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Silvio Perrella, video intervista

Silvio Perrella

Intervista a Silvio Perrella
di Luigia Sorrentino
Napoli, 30 ottobre 2006

 

 

Qual è la forma di Napoli? Quella che si vede in superficie, o quella nascosta, sotterranea, piena di inquietudini e di Storia? E qual è il legame tra la città che sta sopra e quella che sta sotto? Silvio Perrella, scrittore e critico, nato a Palermo nel 1959, ma trapiantatosi a Napoli negli anni Settanta, in Giùnapoli (Neri Pozza, 2006) muove i suoi primi passi «alla scoperta della città dai mille clamori» rischiando continuamente di perdersi, trascinando con sè un filo per riconnettersi, come ha scritto Elena Ferrante, ai «luoghi disintegrati delle emozioni», tessendo continuamente la domanda: qual è la forma di Napoli, la sua natura sfuggente che riduce in cenere ogni sua immagine o rappresentazione? La passeggiata con Silvio Perrella alla scoperta di Napoli inizia dal ventre della città, da Via Benedetto Croce, luogo in cui il protagonista di Giùnapoli, conclude il suo viaggio. E’ qui che Perrella scopre, e lo scopre camminando, il suo profondo innamoramento per Napoli e per i ‘giganti’ che la abitarono. Uno di questi fu Benedetto Croce.

Nel suo libro lei a un certo punto racconta di Benedetto Croce e dice: «C’è un gigante ibernato, di cui è possibile vedere ogni dettaglio e sentire ancora il respiro. Ha ancora gli occhi aperti. Aspetta pazientemente. Sì, un gigante che ha nascosto le ali tra i libri. E bisogna essere un po’ archeologi per sentirne la presenza. Anche dall’alto, con il binocolo, si dovrebbe vedere una figura disseminata nella città, qualcosa di unico, che nelle altre città italiane non esiste. Un uccello preistorico e moderno, una fenice e un albatros.» (da Giùnapoli, pag. 169.) Lei intende dire che la presenza di questo «gigante ibernato», Benedetto Croce, ricongiunge, metaforicamente, la Napoli che si vede dall’alto con quella che si vede dal basso. E noi, ora, stiamo passando proprio davanti al palazzo dove visse questo ‘gigante’…


«Noi siamo ora in Via Benedetto Croce. Siamo appena passati da Palazzo Filomarino. Lo ha mai visitato? E’ un luogo molto particolare: conserva la biblioteca di Benedetto Croce. Io credo che in Italia, e forse in Europa, vi siano poche altre biblioteche private di questo genere, entro cui c’è ancora qualcosa che è visibile, cioè la voglia, il desiderio e la possibilità di concentrare il sapere nella mente di un solo uomo. Visitare la biblioteca di Croce, come io faccio fare al protagonista del mio libro, è un momento in cui Napoli ci racconta e ci suggerisce qualche cosa che ti fa capire la sua Grandezza, quanto sia stata innestata nella Storia e quanto, speriamo, lo sia ancora.»

 

Perrella, immaginiamo ora di essere proprio nella Napoli degli anni ’70, quando il protagonista del suo libro arriva a Napoli. Qual è la sua storia?

«La storia di iniziazione di uno straniero. Che venga da Palermo è importante, ma lo è fino a un certo punto… E’ la storia di uno che non è nato a Napoli, ma che a Napoli cerca una conoscenza. Vuole fare esperienza, vuole capire se è possibile vivere a Napoli. Lui è affascinato, all’inizio. Napoli gli dà un impatto violento, difficile, lo spiazza, però nello stesso tempo gli suggerisce che la città è come se possedesse un corpo. Napoli, improvvisamente, gli si configura come un corpo che si relaziona al tuo corpo individuale, un corpo più vasto, un corpo sociale, stratificato, complesso, che chiede una conoscenza e chiede lo sguardo di chi sa penetrare, di chi non si ferma alla superficie, di chi appunto, va Giùnapoli, non solo dal punto di vista urbanistico e strutturale, seguendo la verticalità della città, ma che va anche al di sotto dei luoghi comuni, che non si ferma.»

E poi? che cosa succede al suo protagonista?

«Camminando scopre che la conoscenza della città è possibile solo se ci si avventura, per le scale, per i gradini, per i gradoni, per il Petraio, per la Pedamentina. Predilige, ad esempio, le funicolari, che sono un mezzo di trasporto verticale che congiunge rapidamente parti diverse delle città. E a un certo punto si rende conto di una cosa che non sempre è raccontata in modo così evidente: che Napoli ha una verticalità molto forte e che questa verticalità non è solo legata all’architettura ma è anche una verticalità sociale, e lui sente che è necessario connettere l’alto con il basso, e scopre che quando si connettono l’alto e il basso, e cioè il ‘giùnapoli’ e il ‘sùnapoli’, la città diventa grande, diventa importante, diventa la più grande metropoli europea, come diceva Elsa Morante in un suo scritto.»

 

Giùnapoli

Noi ora stiamo percorrendo a piedi la parte più antica della città. Con un solo colpo d’occhio, voltandoci indietro, possiamo vedere in uno scorcio lontano, la Napoli Alta: la Certosa di San Martino e Sant’Elmo. Uno dei paesaggi più suggestivi della città.

«Noi siamo ora a Piazza San Domenico Maggiore. In questa piazza vale la pena di fermarsi per vedere proprio la verticalità di cui parlavo prima. Siamo nella zona che si chiama Spaccanapoli: ci sono tante strade e il decumano Maggiore, siamo nella struttura greco-romana: da qui possiamo vedere chiaramente la città che va verso l’alto, verso Castel Sant Elmo, e la Certosa di San Martino situata sulla sommità della collina. Il rapporto tra il basso della città e l’alto della collina ricorda l’Acropoli di Atene, e fa pensare, anche, alla possibilità che ci sia stata a Napoli una fondazione molto antica. Tanto è vero che, per molto tempo, il rapporto tra alto e basso della città era assicurato da una unica strada, la Pedamentina.» Continua a leggere

Orhan Pamuk, “Istanbul”

Orhan Pamuk

Un altro Orhan

di Luigia Sorrentino

Chiunque legga Orhan Pamuk  capirà che tutta la sua opera è attraversata dal tema dell’identità nella continua esplorazione del conflitto tra islamismo e occidentalismo.

Pamuk,  scrittore di fama internazionale, nato a Istanbul il 7 giugno del 1952, candidato al Premio Nobel per la Letteratura – ha al suo attivo sette romanzi –   ha rischiato di finire in carcere per “manifesta offesa alla turchità”,  quando ha riconosciuto la Turchia colpevole dello sterminio di un milione di armeni e 30 mila curdi  in Anatolia ad inizio del XX secolo.

Incontrare Pamuk in una città come  Napoli, in occasione della 52esima edizione del Premio Napoli,   è stato, per me,  fortemente simbolico.

Napoli e  Istanbul, sono infatti collegate da un comune strato di cultura e di tradizione. Sono state entrambe città-regno, sono, ancora oggi, città costantemente  rivolte verso l’Europa alla ricerca di una identità libera dalla tristezza, dalla miseria, dalla decadenza.

Napoli e Istanbul conservano un’identità comune che mira a raggiungere anche la qualità, il successo, dell’Occidente. Ma ci sono, nel mondo, molte città che somigliano a Istanbul. Tutte quelle che condividono con Istanbul la malinconia, il disordine, la precarietà, il crollo, da sconfitta o da povertà.

“Vi dirò chi sono”, scrive Pamuk in Istanbul.

E racconta che una volta disegnava, studiava architettura e sognava di diventare pittore. Poi, non si sa perché, decise di diventare scrittore e di vivere la sua seconda esistenza.

(VIDEO INTERVISTA INSERIRE QUI)

 

Intervista a Orhan Pamuk
di Luigia Sorrentino
Napoli, 14 settembre 2006

 

Pamuk, lei a vent’anni ha capito che sarebbe diventato uno scrittore.  In quegli anni studiava architettura e sognava di affermarsi come  pittore.  Che cosa le fece cambiare direzione?

Tra l’età di sette e ventidue anni ho sempre sognato di fare il pittore. Poi a ventidue anni qualcosa è scattato nel mio cervello e ho deciso di smettere di dipingere ho iniziato a scrivere romanzi. Pian piano mi sono affermato, prima a livello nazionale come scrittore, poi a livello internazionale e da allora tutti hanno iniziato a chiedermi perché ho smesso di dipingere. In realtà non c’è una risposta singola, un’unica risposta a questa domanda. Nel tempo, man mano che la domanda mi veniva posta, ho sviluppato tante risposte. In effetti mi è stata fatta così tante volte questa domanda che alla fine ho deciso di scrivere un libro per rispondere, e questo libro è Istanbul. Non c’è un’unica riga, un’unica parola che lo spieghi, però il libro, nel suo complesso, è una risposta a questa domanda. Continua a leggere

Raffaele La Capria, Video Intervista

Raffaele La Capria in un frame dell’intervista

Nota di Luigia Sorrentino

 

Ho incontrato Raffaele La Capria in occasione dell’uscita del suo nuovo libro “L’estro quotidiano“, una raccolta di racconti autobiografici scritta nel 2003 e pubblicata con Mondadori nel 2005.

La cosa che mi ha colpito di questi racconti (cinquantatré) sono i riferimenti a eventi di politica estera avvenuti in questi ultimi anni : la guerra in Iraq, la cattura di Saddam Hussein, gli attentati di Nassirya, in Cecenia e in Ossezia.

Tutti i racconti mettono in evidenza l’avversione per lo scrittore per la violenza e la guerra… Un’opera nella quale l’autore si sofferma anche sulla morte di persone a lui care, come ad esempio i suoi genitori, ma anche amici.

L’uscita di questo libro è stata l’occasione per incontrare Raffaele La Capria nella sua casa di Roma e di aprire un dialogo sulla nostra epoca funestata da eventi tragici.

Per la prima volta ho realizzato l’intervista da sola, senza l’aiuto di un operatore televisivo e anche il montaggio l’ho fatto da sola. La qualità non è perfetta, anche perché spesso dovevo alzare la voce per farmi sentire da Raffaele che come si sa, non sente bene da un orecchio. Vi prego di scusarmi. Quello che mi premeva era rendere testimonianza attraverso la voce di Raffaele La Capria, uno dei maggiori scrittori italiani.

Spero di esserci riuscita.

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