Addio a Charles Simić

Lutto nel mondo della poesia

Charles Simić, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Roma all’Auditorium della Saint Stephen’s School, il 27 ottobre del 2015.

 

Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023. 

La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.

Charles Simić è stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan

Continua a leggere

Thierry Metz, la solitudine della poesia

Thierry Metz

Vecchia orsa minore
vieni a vedere:
sorge un giardino
nel respiro dell’albero
è questo il luogo
dove uomo e uccello
si meravigliano

*

Chiedi lassù al vegliante
sul ramo
fra le lucciole
nella brace delle parole
nel quasi nulla di scrivere
lui sa, lui che indugia
che l’oggi
dorsale di un altrove
non ha altro orizzonte che la lingua
dove il lampo si denuda

*

Dov’è il fratello alchemico
uomo della prima
dell’ultima cena
dalla voce scarlatta, lieto
nell’avvampare delle mani
sulla tavola inventata
il volto in fiamme
come un’alba
come acqua
che si ritira meravigliata
come una notte
che si consuma
in oscura creta
il volto
come un uccello semplificato

Continua a leggere

Paul Celan, video di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA ARRIVA A RIVA 

“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.

Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.

In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.

Continua a leggere

Charles Simic, poesie

Charles Simic

Gente fuori di testa

Di questi giorni solo gli uccelli e gli animali
sono sani di mente e vale la pena parlarci.
Non mi spiace aspettare che un cavallo
smetta di brucare e mi dia retta.

Perfino un albero è più di compagnia.
Una quercia orgogliosa dei suoi rami
carichi di foglie troppo a modo
per rivolgersi a un estraneo con più di un sussurro.

Un corvo sarebbe un buon amico.
Quello che ho adocchiato
mi conosce bene, ma al momento
è indaffarato con una cosa che ha visto

nel cortile del vicino, che passa
sul terreno bruciato dove
anni fa soleva razzolare una dozzina di galline
con un gallo che strillava tutto il giorno.

Mad People

Only birds and animals these days
Are sane and worth talking to.
I don’t mind waiting for a horse
To stop grazing and hear me out.

Even a tree is better company.
Some oak proud of its branches
Heavy with leaves too polite
To address a stranger above a whisper.

A crow would make a good friend.
The one I have my eye on
Knows me well, but is currently
Busy with something he’s spotted

In my neighbor’s yard, going over
The scorched ground where
Years ago a dozen hens used to roam
And a rooster who crowed all day. Continua a leggere

John Keats, Ode all’autunno

John Keats

All’autunno

Tempo di nebbie e d’ubertà matura,
Dell’almo sole amico prediletto;
Tu che, seco, la vite ti dai cura
Di far felice d’uve, intorno al tetto,
E di pomi i muscosi alberi adorni,
Gonfi la zucca, e alle nocciuòle un sapido
Gheriglio infondi, e i frutti empi di nettare,
E ancor fai gemme, ultimi fior per l’api,
Ond’esse credon che coi caldi giorni
Sopra la terra Estate ognor soggiorni,
Per cui trabocca ogni umida celletta:

Chi non ti ha visto tra le tue ricchezze?
Talor chi cerca scopre te: sei colco
Su un’aia, pigro, ventilanti brezze
Fra i tuoi crini asolando; o presso un solco
Mezzo-mietuto, mentre il tuo falcetto
Lascia di tagliar l’erba e i fiori attorti,
T’infondono i papaveri il sopore;
O, attraversando un rivo, il capo eretto,
Come spigolatrice, a volte porti;
O, ad un torchio di sidro, gli occhi assorti
Tu fissi al gemitio per ore ed ore.

Dove son, dove i cantici di Maggio?
Non pensarvi, hai tu pur tua melodia:
Quando, affocando il dì che muor, d’un raggio
Roseo le stoppie opaca nube stria,
Un coro di zanzare si querela
Tra i salci fluviali, in basso o in suso
Spinte, secondo il vento cada o aneli,
E dai borri gli agnelli adulti belano,
Cantano i grilli, ed un gorgheggio effuso
Fa il pettirosso da un giardino chiuso,
Rondini a stormi stridono pei cieli.

Traduzione di Mario Praz Continua a leggere

La poeta russa Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Поэт – издалека заводит речь.
Поэта – далеко заводит речь.

Планетами, приметами, окольных
Притч рытвинами… Между да и нет
Он даже размахнувшись с колокольни
Крюк выморочит… Ибо путь комет –

Поэтов путь. Развеянные звенья
Причинности – вот связь его! Кверх лбом
Отчаетесь! Поэтовы затменья
Не предугаданы календарем.

Он тот, кто смешивает карты,
Обманывает вес и счет,
Он тот, кто спрашивает с парты,
Кто Канта наголову бьет,

Кто в каменном гробу Бастилий
Как дерево в своей красе.
Тот, чьи следы – всегда простыли,
Тот поезд, на который все
Опаздывают…
– ибо путь комет

Поэтов путь: жжя, а не согревая.
Рвя, а не взращивая – взрыв и взлом –
Твоя стезя, гривастая кривая,
Не предугадана календарем!

8 апреля 1923 

Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.

Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo

è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello

che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,

che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo

è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…

8 aprile 1923  Continua a leggere

Una poesia di Charles Simic

Charles Simic

 

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

____________

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan Continua a leggere

Mark Strand (1934 – 2014)

Mark Strand

Your shadow

You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys’ Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of Montreal.
The rooms in Belém where lizards would snap at mosquitos have given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow below, but when you arrived it was there to greet you. You had your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

By Mark Strand

 

La tua ombra

Hai la tua ombra.
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l’hanno restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te la restituivano.
Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata da un altro.
L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua.
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.

Traduzione di Damiano Abeni
Continua a leggere

Yun Dong Ju, “Vento blu”

Yun Dong Ju (1917- 1945)

YUN DONG JU nasce il 30 dicembre 1917 a Longjing, nell’allora Manciuria, ora Cina settentrionale. Nel 1940 si laurea alla Yeonhui Techical School, che in seguito diventerà la Yonsei University.
Dopo la laurea si appresta a pubblicare una raccolta di diciannove poesie intitolata Cielo, vento, stelle e poesia, ma il professore al quale mostra la raccolta gli consiglia di rimandare la pubblicazione a un momento meno turbolento al fine di evitare la censura.
Nel 1942 si trasferisce in Giappone e e tra nel dipartimento di letteratura della Rikkyo University a Tokyo. Sei mesi dopo si sposta a Doshisha University a Kyoto.
Il 10 luglio viene arrestato per aver manifestato per l’indipendenza coreana. I suoi scritti vengono presi in esame e assunti come prove a suo carico. Il 31 marzo del 1944 Yun Dong Ju viene condannato dalla corte regionale di Kyoto a due anni di reclusione nel carcere di Fukuoka per aver violato la quinta legge sul mantenimento dell’ordine pubblico. La mattina del 16 febbraio 1945 Yun Dong Ju muore durante il periodo di reclusione.
Ancora oggi non sono chiare le cause della sua morte. Si pensa che nel carcere di Fukuoka dov’era recluso fossero stati messi in atto esperimenti medici sui detenuti.
Nel 1948 per interessamento dell’amico Chong Chiyong, al quale Yun Dong Ju aveva affidato alcune delle sue poesie scritte in Giappone, viene pubblicata postuma la raccolta di trentuno poesie Cielo, vento, stelle e poesia.

Questa edizione è a cura di Eleonora Manzi, ed è la prima traduzione in italiano dell’intera opera poetica conosciuta di Yung Dong Ju, (Ensemble editore, 2020).

PROLOGO

Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte
senza provare la minima vergogna,
anche per il vento che agita le foglie
ho provato tormento.
Con il cuore che celebra le stelle
so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte
e devo seguire ogni strada
che mi è stata assegnata.

Anche questa notte il vento graffia le stelle.

20 novembre 1941

 

AUTORITRATTO

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un
[campo di riso dove trovo un pozzo abbandonato e
[guardo dentro.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si
[addensano, il cielo vasto che si dilata, il vento blu e
[l’autunno.

Vedo anche un uomo.
Senza una ragione lo odio e mi allontano.

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno
[indietro e l’uomo è ancora là dentro.

Di nuovo provo odio per lui e vado via.
Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole
[addensate, il cielo vasto che si dilata, il vento blu,
[l’autunno e c’è un uomo simile a un ricordo.

Settembre 1939 Continua a leggere

Il grande poeta siriano, Adonis

Adonis

Adonis

Oggi ho la mia lingua

Ho distrutto il mio regno
ho distrutto il mio trono, le mie piazze e i miei portici
e con la forza dei polmoni ho iniziato
a insegnare al mare le mie piogge, regalargli
il mio fuoco e le mie braci
a scrivere il tempo che verrà sulle mie labbra.

Oggi ho la mia lingua
ho le mie frontiere, la mia terra, il mio aspetto
ho popoli che mi nutrono con la loro incertezza
e si illuminano con le mie rovine e le mie ali.

I canti di Mihyar il Damasceno (Mondadori, 2017), trad. it. Fawzi Al Delmi Continua a leggere

Yang Lian, da “Origine”

Yang Lian

The Landscape in the Room

thirty-two years old heard enough lying
no landscape can ever again enter this room
a corn-faced stranger
stands at the door hawking putrid stones
displaying tongue-fur a kind of eternity ground between the teeth

they or you are both cold cold enough to want
to be vomited up like the profane pictures on the walls
memory is a whole squad of weakening addresses
autumn’s bearded weeds dead under a bare yellow-gold foot

Someone (leaning) by the window hears the herds of stars disappear
the night-long wind’s sound seems like falling pears
the empty room is thrown away

wavering and wavering again in your naked flesh
dismemberment like sky and water
wet sun forgot everything as it howled in pain
no landscape can ever again enter this landscape
to do you to death

until the last bird has also escaped into the sky
colliding within that hand frozen into blue veins

wherever you lock yourself
there the room is fixed spacious echoes
recite the darkness
bury your heart’s only landscape

lie

Il paesaggio nella stanza

a trentadue anni ha udito abbastanza menzogne
alcun paesaggio potrà entrare ancora in questa stanza
uno straniero dal volto banale
sta davanti alla porta divulgando pietre putrefatte
mettendo in mostra i peli sulla lingua una specie di territorio tra i denti

loro o tu siete freddi freddi abbastanza da volere
venire rimessi come i quadri profani sui muri
la memoria è un intero drappello di indirizzi affievoliti
come l’erbaccia barbuta dell’autunno morta sotto un piede nudo giallo-oro

Qualcuno (affacciato) alla finestra sente la mandria delle stelle scomparire
il suono del vento che dura tutta la notte assomiglia al cadere delle pere
la stanza vuota viene buttata via
oscillando e oscillando ancora nella tua carne nuda
smembrata come il cielo e l’acqua

il sole bagnato ha dimenticato tutto mentre urla dal dolore
nessun paesaggio potrà entrare mai più in questo paesaggio
a farti morire

finché l’ultimo uccello non sia scappato nel cielo a sua volta
scontrandosi in quella mano congelata nelle vene blu

ovunque ti chiuda
là la stanza è bloccata echi spaziosi
a recitare l’oscurità
seppellisci l’unico paesaggio del tuo cuore

menti Continua a leggere

La poesia di Paul Éluard

Paul Éluard

 

L’eterna primavera nella poesia di Éluard

di Mario Famularo

 

Limitare la questione stilistica sulla poesia di Éluard alle istanze e caratteristiche del movimento surrealista, per quanto fondamentali a comprenderne la storia e il percorso letterario, sarebbe un errore: la sua parola nasce da un’altissima compenetrazione di convincimento etico, vicissitudine sentimentale e trasfigurazione di tali elementi verso l’universalità dell’esperienza umana, di ogni uomo e di ogni donna.

Nel corso della sua lunga opera poetica, da Capitale de la douleur a Le temps déborde, fino a Le phénix, le figure femminili sono sempre differenti, nella biografia dell’autore: dalla dolorosa separazione con Gala, avvenuta in giovane età, al lungo sodalizio con Nusch, che terminerà con la sua morte, fino alla rifioritura piena con Dominique, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita.

Ma “l’altezza del tono”, riconosciutagli anche da Fortini (che ha tradotto diversi suoi testi, in particolare raccolti in un pregevole lavoro antologico pubblicato da Einaudi) ha proprio tale caratteristica costante, nonostante i temi trattati si estendano alla riflessione civile e storica: quella sentimentale, in senso ampio.

Il perimetro delle singole personalità femminili tende a farsi sottile e a evadere dai margini identificativi e biografici, al punto che i suoi ultimi testi potrebbero benissimo riferirsi a ciascuna di esse, come se ogni donna della vita di Éluard avesse contribuito alla formazione di un’unica immagine femminile, assoluta, in cui ciascuna di esse converge; e a fronte di questo ricco femminino illimitato, le aspirazioni del poeta, anche quando sfiorano le tematiche civili, storiche e morali, tendono a replicare la medesima istanza di universalità anche con il valore umano del soggetto, dell’io lirico, verso la stilizzazione assoluta di un sentimento puro che unisce tutti gli uomini.

È una caratteristica che si evolve nel corso degli anni e delle opere, ma che già in pochi testi si può riconoscere per le caratterizzanti attribuzioni vicine al sacro, in cui l’intreccio con i residui dell’esperienza surrealista si impone in immagini cristalline, nitide, dove la dimensione del sogno si legittima come pura ed autentica interpretazione del reale.

E così la donna è “figlia di una primavera / che non finisce”, che ride dell’insensata violenza degli uomini, ed è “sempre in fiore”, con i “piedi fermi”, “tenera con i forti” e “debole con i teneri” – un’immagine in cui dolcezza e autorevolezza si intrecciano, dove la debolezza delle reciproche solitudini umane si fa possibilità di una forza illimitata che accomuni ognuna di esse: di solitudine in solitudine verso la vita.

E se la debolezza dell’ “uomo nel vuoto”, che si riconosce “sordo cieco muto / sopra un immenso piedistallo di silenzio nero”, in un “assoluto di uno zero ripetuto” sembra già, nel riconoscere la purezza della notte e l’immacolata bellezza del mondo, un’aspirazione sentimentale alla bellezza, tale debolezza si trasforma in valore umano, attraverso l’esperienza pura del sentimento, trasfigurata: “all’improvviso parlando mi sento vincitore / più chiaro e più vivo più fiero e migliore / più vicino al sole”, ed ecco che i riferimenti all’infanzia (“In me nasce un bambino … di sempre che nasce da un bacio unico”) impongono un sentire autentico e allo stesso tempo primigenio, incorrotto e viscerale, non mediato: “la morte è vinta e un bambino emerge dalle rovine / dietro di lui le rovine e la notte scompaiono”.

La notte, che nella solitudine era pura, svanisce di fronte alla potenza di questa assolutizzazione dell’esperienza sentimentale, che in Éluard diventa totalizzante, incontro tra tutti gli uomini e tutte le donne, moltiplicate in un unicum attraverso un gioco di specchi (e gli specchi sono assai frequenti nella sua poesia).

E l’immagine di questo sentimento assolutizzante, pieno e universale, che unisce ogni esperienza umana in una vitalità illimitata, innocente e sacra, pure se “in un mondo spietato”, protegge dalla morte, dalla corruzione, dalla dissolvenza, dalla caduta di senso cui si riferiva con quella “solitudine compiuta”, quel “nulla … oblio senza limiti”, perché “non c’è notte per noi / nulla di ciò che perisce può toccarti” – ed Éluard lo scrive pochi anni dopo la scomparsa dell’amata Nusch, proprio perché il sentimento sopravvive ai singoli uomini, alle singole relazioni, alla stessa specie umana, sembrerebbe suggerire, attraverso il suo riflesso (il suo specchiarsi) in ogni altra esperienza analoga, attraverso la sua assolutizzazione nella dimensione del sogno e del sacro, attraverso la consacrazione della vitalità che l’accompagna. Continua a leggere

La poesia di Vladimir Holan

Vladimir Holan

Je jaro … V noci, v hodinu lichou
slyšel, jak pláče réva,
ačkoli veliký hluk dělala voda,
ztrácející se z rybníka dírou,
kterou do hráze navrtal úhoř …
Co mu zbývalo, než aby,
zamilován až po uši hudby do mizení,
propadal hrdlem vzlyků útrpnému právu němoty?
A přece, ejhle, krása pojednou
a milost, s kterou nám ji sdílel!

 

E’ primavera… Di notte, nell’ora vana
udì gemere la vite,
nonostante il forte rumore dell’acqua
che si perdeva dallo stagno attraverso un foro
scavato nella diga dall’anguilla…
Che altro restava a lui, se non patire,
innamorato fino al collo della musica che svanisce,
il pianto e la tortura della mutezza?

***

Spatřil ji jenom jednou.
Ale od té chvíle žasl
a začal předzpěvovat, aniž měl komu,
a začal spoluzpívat, aniž kdo s ním šel…
Po celý rok osmělil se ji takto zbožňovat,
přítomný do budoucna, jak už doufal,
zatímco netuše se těžce vracel
od Panny Marie k Evě …

Potom jí napsal.
Byl to muž a měl tedy strach.
Přečtla si jeho dopis při světle krbu,
do kterého jej potom vhodila.
A on si přečetl její odpověď při světle od sněhu,
který nikdy neroztává …

La vide soltanto una volta.
Ma da quell’istante stupì
e intonò un canto ma non sapeva a chi,
e intonò un coro ma nessuno lo seguì…
Osò adorarla così per un anno intero,
presente per il futuro, come ormai sapeva,
laddove ignaro pesantemente ritornava
da Maria Vergine a Eva….

Poi le scrisse.
Era un uomo e quindi aveva paura.
Lesse la sua lettera alla luce di un camino
nel quale poi la gettò.
Ed egli lesse la sua risposta alla luce di una neve
che mai si scioglie…

***

Zimničné paprsky lůny
a třesoucí se ty, ubohý Mozarte!
Prstomluva hluchoněmých není tak šílená,
protože při ní jsou aspoň dva živí …

Cítíš budoucně skonalý čas …
Kdyby tak najednou přišel aspoň jeden z těch,
co budou na tvém pohřbu,
a tedy nikdo!

Febbrili raggi della luna
e tu tremi, misero Mozart!
Il diteggiare dei sordomuti non è così folle,
perché in esso i vivi sono almeno due…
Senti prossimo il tempo finito…
Se almeno uno d’improvviso venisse di coloro
che saranno al tuo funerale,
e dunque nessuno!

Vladimir Holan, dai Quaderni di Traduzioni, XV, Aprile 2013 (Rebstein), cura e traduzione di Sergio Corduas. Continua a leggere

La poesia di Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij

Altre ombre che m’appaiono,
altra la miseria che canta per me:
il legatore ha dimenticato lo zigrino
e il tintore non tinge le tele;

la musica del fabbro, contata
in tre quarti, a tre martelletti,
non si svelerà oltre la svolta
prima d’uscire dalla città;

ai suoi crochet la merlettaia
non si siede alla finestra dal mattino,
e lo stagnino, uccello zingaresco,
non fa fumo con l’acido al fuoco;

l’orafo ha gettato il suo martelletto,
è finito il filo d’oro.
Osservare il morire dei mestieri
è come sotterrare se stessi.

E di già la lira elettronica,
di nascosto dai suoi programmisti,
compone versi di Kantemir
per finire con un proprio verso.

*

Studio su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno,
scivolo tra due macine come un chicco di grano nel rotare delle pietre,
sono per intero già immerso nello spazio a due dimensioni,
il mulino della vita e della morte m’ha spezzato la spina dorsale.

Cosa fare, o pastorale d’Isaia, della tua rettitudine?
La pellicola senza tempo, né alto, né basso, è più fine d’un capello.
Nel deserto il popolo si radunava sui massi, e nell’arsura
la pianeta di stuoia da re mi recava sollievo alla pelle.

Arsenij Tarkovskij, due testi tratti da “Stelle tardive”, Giometti&Antonello, 2020, trad. di Giario Zappi Continua a leggere

Una poesia di Laurent Grison

Laurent Grison

Nube

a Roula Safar

quando l’ardore della poesia
brucia la polvere
dell’occhio aperto al battito
nube d’ora in poi
canta nel frattempo
i suoni liberi
d’ogni misura
che accelerano senza fine
il ritmo dei mondi

traduzione Viviane Ciampi

Nuée

à Roula Safar

quand l’ardeur du poème
brûle la poussière
de l’œil ouvert au clin
nuée déjà et d’ores
chante en un laps
les sons libres
de toute mesure
qui accélèrent sans fin
le rythme des mondes

Laurent Grison, poesia-spartito per mezzo-soprano chitarra e percussioni – Disegno a China su carta  (aprile 2021) -partition-poème pour mezzo-soprano guitare et percussions dessin à l’encre de Chine sur papier, Laurent Grison, 2021

Continua a leggere

Quando quaranta inverni assedieranno la tua fronte

Camelie rosse, a tutte le donne ph. Luigia Sorrentino

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte
Scavando trincee fonde nel campo della tua bellezza,
L’imponente livrea dell’ammirata giovinezza
Sarà ridotta a uno straccio d’abito tenuto in poco conto:
Se allora si chiedesse dove la tua bellezza giace,
Dove tutto il tesoro dei giorni caldi di vigore,
Dire: nei tuoi propri occhi infossati profondamente,
Mostrerebbe con indiscreta lode, ingiuria implacabile.
Ma quale lode ispirerebbe la tua bellezza logora
Se tu potessi replicare: “Questo mio ragazzino,
Assolverà il mio debito, scusabile farà ch’io invecchi”,
La sua bellezza dimostrandosi, per successione, tua!
Sarebbe il tuo rinnovamento quando già sarai vecchio,
Vedresti il tuo sangue ardere quando già ne sentirai il gelo.

 

William Shakespeare

(Traduzione di Giuseppe Ungaretti) Continua a leggere

Ucciso il poeta K Zar Win

K Zar Win

UN INTERVENTO DI CARLA BURANELLO

Il poeta del Myanmar K ZAR WIN è stato ucciso

Un movimento non violento di disobbedienza civile si sta diffondendo nel Myanmar per protestare contro il colpo di stato militare che il primo febbraio di quest’anno ha imposto per un anno lo stato di emergenza.

Le forze di polizia stanno rispondendo con violenza.

Mercoledì 3 marzo 2021 sono rimasti uccisi, in un solo giorno, 38 manifestanti. Numerose altri, tra cui anche giornalisti e reporter, sono stati tratti in arresto.

Secondo Pen America, sono più di 1.100 le persone attualmente detenute in carcere. Tra le vittime due poeti, K Zar Win e Daw Kyi Lin Aye.

Il poeta e traduttore Ko Ko Thett era in contatto con K Zar Win e già a gennaio aveva tradotto in inglese e diffuso una sua poesia, come spiega nel necrologio che segue. Questa poesia è stata ora tradotta anche in italiano e in spagnolo (ed è in corso di traduzione in polacco).

Dal poeta e traduttore Ko Ko Thett:

“Necrologio” : Poeta K Zar Win (1982-2021)

Il poeta K Zar Win, le cui poesie sono apparse su riviste del Myanmar a partire dal 2004, è stato ucciso nel corso di una protesta a Monywa, il 3 marzo 2021. K Zar Win era nato in una famiglia contadina, nel Latpadaung vicino a Monywa, nel 1982. La regione del Laptadaung è luogo di conflitti dal 2010, a seguito del trasferimento forzoso di varie comunità rurali imposto dalla compagnia mineraria cinese Wanbao Copper Mining Ltd.

La violenta repressione della polizia del Myanmar nei confronti degli abitanti in lotta contro l’impresa cinese, rivelò il lato oscuro della “transizione democratica” del Myanmar.

K Zar Win fu uno degli studenti universitari che manifestarono da Mandalay a Yangon nella “Lunga Marcia per le Riforme Educative”. Per questo fu condannato a un anno e un mese di carcere, durante i quali pubblicò “La mia risposta a Ramond”. La poesia che segue è tratta da “La mia risposta a Ramond” che misi in circolazione a gennaio. K Zar Win mi scrisse per dirmi quanto avesse apprezzato la traduzione. Gli risposi:
“Abbi cura di te, fratello”.

Caro Padre,
il Fiume dal ventre
squarciato
ha dichiarato guerra
alla nostra minuscola casa sulla riva, non è così?
Proprio davanti a casa
starai cercando chi
ti aiuti a rafforzare
l’argine con dei pali
per contenere il fiume,
a tappare i buchi con
sacchi di sabbia.
Nell’acqua torbida,
che cresce come il fusto del bambù,
starai guardando
il campo di sesamo –
carico di frutti
pronti per il raccolto.
Starai pensando
al pugno di riso che ti sarà tolto
di bocca con la forza.
Forse troverai conforto
nella religione, contemplerai
i nostri cinque nemici.
Forse penserai
al vuoto
che il lavoro di un figlio può riempire.
Un figlio, due figlie e ancora un figlio;
Il più grande è un poeta in prigione,
la prima figlia, un’insegnante,
la seconda, è diplomata cuoca,
il più piccolo, studia ancora.
Il figlio poeta,
può almeno essere utile
quanto la dah che usi per estirpare le erbacce?
Non perdonare nulla, Padre.
Nulla!
“Pho Chan, figlio,
cosa sono quei rumori intorno a te?”,
hai chiesto al telefono.
“Sono alla fermata dell’autobus
vado a imbucare un articolo per un giornale”, ho mentito.
Da tuo figlio bugiardo sul banco degli imputati
ai delinquenti che ti blandiscono
con le loro lingue puntute,
“Ai nostri benefattori contadini…”,
perché vogliono prenderti alle spalle,
odiali tutti, Padre.
Odiali tutti.
Il ladro non è
armato.
Un delinquente è
armato fino ai denti.
Se i ladri sono ingovernabili,
se i delinquenti sono ingovernabili,
a cosa serve il governo?
Qualunque cosa accada alle giungle
qualunque cosa accada alle montagne
qualunque cosa accada ai fiumi
a loro non importa.
Amano il paese
come amano scavare una noce di cocco,
dall’interno verso l’esterno,
per estrarne il latte.
Mattone dopo mattone, per innalzare il loro trono,
punteranno i fucili all’urna
sulla fronte del Signore Buddha.
Così ostile è il loro stile.
Se la tua religione ti impedisce
di maledire quello stile
lascia che io abbandoni quella religione.
Riporterò l’azzurro nel cielo
per te.
Forse ancora non lo sai
tuo figlio è stato
arrestato
perché ha chiesto alla sedicente polizia
di non fare del male a dei civili.
Un giorno
tuo figlio, che non è un ladro
né un delinquente,
diventerà utile,
proprio come la tua dah che estirpa le erbacce.
Per ora, Padre,
continua a guardare il campo
che hai arato con la forza delle tue spalle nude.
Continua a cantare
l’inno
dell’Unione Contadina.
Sempre tuo,
K Za Win

Cella 1, Sezione 10
Prigione di Thayawaddy

Traduzione di Carla Buranello Continua a leggere

Henry Reed (1914-1986)

Henry Reed

A CURA DI GIORGIA SENSI

Benché sia stato scrittore e poeta prolifico, Henry Reed è conosciuto dalla maggior parte dei lettori per un’unica poesia, “Naming of Parts”. Come poesia di guerra, è forse la più antologizzata nel Regno Unito.

Reed in realtà la vera guerra non la vide. Fu arruolato nel 1941 ma non partecipò mai a un combattimento, anzi nemmeno lasciò l’Inghilterra. Lavorò alla decifrazione dei messaggi in codice, prima italiani e poi giapponesi.

Nei pochi mesi in cui servì l’esercito, poté seguire un corso di base all’uso delle armi che consisteva in lunghi e noiosi addestramenti.

Per divertire i compagni, faceva delle imitazioni comiche del sergente istruttore, e dopo un po’ si rese conto che il linguaggio che questi usava, tratto da un manuale dell’esercito, rivelava una trama ritmica che poteva essere la base di una poesia.

In “Naming of Parts” si alternano due voci, quella dell’istruttore, nella prima parte di ogni stanza, che parla con frasi semplificate e meccaniche, seguita, in un flusso senza interruzioni, da quella della giovane recluta annoiata, sognante, lirica.

Ne risulta una spiritosa parodia dell’esercito e della sua scarsità di attrezzature, e un tono di arguto e “understated” antimilitarismo.

 

NAMING OF PARTS  

 

Today we have naming of parts. Yesterday,
We had daily cleaning. And tomorrow morning,
We shall have what to do after firing. But today,
Today we have naming of parts. Japonica
Glistens like coral in all the neighboring gardens,
And today we have naming of parts.

 

This is the lower sling swivel. And this
Is the upper sling swivel, whose use you will see,
When you are given your slings. And this is the piling swivel,
Which in your case you have not got. The branches
Hold in the gardens their silent, eloquent gestures,
Which in our case we have not got.

 

This is the safety-catch, which is always released
With an easy flick of the thumb. And please do not let me
See anyone using his finger. You can do it quite easy
If you have any strength in your thumb. The blossoms
Are fragile and motionless, never letting anyone see
Any of them using their finger.

 

And this you can see is the bolt. The purpose of this
Is to open the breech, as you see. We can slide it
Rapidly backwards and forwards: we call this
Easing the spring. And rapidly backwards and forwards
The early bees are assaulting and fumbling the flowers:
They call it easing the Spring.

 

They call it easing the Spring: it is perfectly easy
If you have any strength in your thumb: like the bolt,
And the breech, the cocking-piece, and the point of balance,
Which in our case we have not got; and the almond blossom
Silent in all of the gardens and the bees going backwards and forwards,
For today we have the naming of parts.

 

IL NOME DEI COMPONENTI

 

Oggi abbiamo il nome dei componenti. Ieri,
Abbiamo avuto la pulizia quotidiana. E domattina,
Avremo cosa fare dopo lo sparo. Ma oggi,
Oggi abbiamo il nome dei componenti. La japonica
Riluce come corallo nei giardini adiacenti,
E oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

Questo è l’anello inferiore per la cinghia. E questo,
È l’anello superiore per la cinghia, ne capirete l’uso,
Quando avrete la cinghia. E questo è il gancio per la rastrelliera,
Che nel vostro caso non avete. I rami
Nei giardini mantengono pose silenziose ed eloquenti,
Che nel nostro caso non abbiamo.

 

Questa è la sicura, si rilascia
Con un semplice scatto del pollice. Che non vi veda
Mai usare un altro dito. E’ un gesto facile
E richiede solo un minimo sforzo del pollice. I boccioli
Sono fragili e immobili, e stanno bene attenti
A non farsi vedere a usare un altro dito.

 

E questo che potete vedere è l’otturatore. Serve
Ad aprire la culatta, come vedete. Lo possiamo far scorrere
Rapidamente avanti e indietro: lo chiamiamo
Innescare. E rapide avanti e indietro
le prime api assalgono e frugano i fiori:
Lo chiamano innescare la primavera.

 

Lo chiamano innescare: è facilissimo e richiede
Solo un minimo sforzo del pollice: come l’otturatore,
E la culatta, il tiretto, e il punto di bilanciamento,
Che nel nostro caso non abbiamo; e il mandorlo fiorisce
In silenzio nei giardini e le api s’affannano avanti e indietro impazienti,
Perché oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

da A Map of Verona, J. Cape, 1946 – traduzione di Carla Buranello Continua a leggere

Il poeta cileno Mario Meléndez

Mario Meléndez

ARTE POETICA

 

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

La mucca abbandona il paesaggio
continuiamo a sentire i muggiti
la nostra memoria adesso pascola
in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria
le parole cambiano nome
ci soffermiamo a piangere
sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto
le parole stanno sulla sua groppa
il linguaggio si burla di noi

 

ARTE POÉTICA

Una vaca pasta en nuestra memoria
la sangre escapa de las ubres
el paisaje es muerto de un disparo

La vaca insiste con su rutina
su cola espanta el aburrimiento
el paisaje resucita en cámara lenta

La vaca abandona el paisaje
continuamos escuchando los mugidos
nuestra memoria pasta ahora
en esa inmensa soledad

El paisaje deja nuestra memoria
las palabras cambian de nombre
nos quedamos llorando
sobre la página en blanco

La vaca pasta ahora en el vacío
las palabras están montadas sobre ella
el lenguaje se burla de nosotros Continua a leggere

Sotirios Pastakas, da “Canti di misconosciuta gloria”

Sotirios Pastakas/ Credits ph. Dino Ignani

A N T E P R I MA        E D I T O R I A L E

Oggi, 13 dicembre 2020, in occasione del 66esimo compleanno di Sotirios Pastakas, pubblichiamo due sue poesie inedite tratte da Canti di misconosciuta gloria, in preparazione dalle Edizioni Multimedia di Salerno, nella traduzione dal greco di Maria Allo. Pastakas, tradotto il 16 lingue, è considerato da molti uno dei maggiori poeti del nostro tempo.

 

ΝΟΣΤΑΛΓΙΑ ΤΗΣ ΤΖΙ ΜΠΙ

Τα μεγάλα μπαρ έχουν
μικρές περιστρεφόμενες πόρτες.
Στα λαϊκά, αντιθέτως
μπαίνεις από παντού
-κι από τις τζαμαρίες.
Τώρα που σκορπιστήκαμε
στην περιφέρεια σαν ΑΑ
(αμετανόητοι αλκοολικοί)
και κατακτήσαμε
κάθε γωνιά της Αθήνας,
άλλος στα Πετράλωνα
και άλλος στη Γλυφάδα,
απόστολοι του ρήματός σου
Κύριε Νικολόπουλε,
τώρα που η Πλατεία Συντάγματος
έχει γεμίσει σκηνές και παραπήγματα,
και η Τζι Μπι γέμισε σκαλωσιές
και χτίστηκε η πόρτα της,
η πόρτα που μόνο εσύ
θα μας ανοίξεις πάλι
το προσεχές Ιωβηλαίο,
γιατί δεν νοείται Πάπας
χωρίς καρδινάλιους,
κι Οδύσσεια δίχως συντρόφους.
Κύριε,
ελπίζουμε σε μια επιστροφή:
όπως ελπίζει ο ακρωτηριασμένος
να ξαναβρεί το ακρωτήρι του
κι ο ερωτευμένος τη δύναμη
να μισήσει πάλι
κι η γυναίκα να ξαναστήσει
το στήθος της,
κι ο άντρας να πάρει πίσω
τις τρίχες που έχασε σαν όνειρα
πάνω στο μαξιλάρι,
που τα σβήνει ένα καλό πρωινό
με σολομό και σαμπάνια,
κι ο φίλος να ξαναδεί την ανατολή
από μια ταράτσα πάνω στη θάλασσα
άμα χαράζει στο Αιγαίο,
περιμένω να χαράξει Κύριε
πάνω στο μόγκανο της μπάρας,
εκεί στο δεύτερο πάντα σκαμπό
εκ δεξιών του μπάρμαν,
εφόσον θα ξανανοίξει η Τζι Μπι
κι ο Τζιόβε Μπενεφακτόρους
επιτρέψει
να γεμίσει πάλι με Αρβανίτες
η πλατεία Συντάγματος
και μετανάστες κι επαρχιώτες
που θα σουλατσάρουν άσκοπα
και θ’ ανταλλάσσουν κινητά
βλέμματα και βιώματα,
ας επιτρέψει και σε μένα
να είμαι πάντα εκεί
δεύτερο σκαμπό
στ’ αριστερά της σάλας
ώσπου να με ρίξεις κάτω Κύριε,

να πίνω, να καπνίζω και να σκέφτομαι.

NOSTALGIA DI GB

I grandi bar hanno
piccole porte girevoli.
In quelli popolari, al contrario
arrivi da ogni dove
-pure dalle finestre.
Adesso che siamo sparsi
in periferia come AA
(alcolisti impenitenti)
e abbiamo conquistato
ogni angolo di Atene,
uno a Petralona
e un altro a Glyfada,
apostoli del tuo verbo
Signor Nikolopoulos,
ora che piazza Syntagma
è diventata un cantiere edile,
e GB è coperta da impalcature
e hanno murato la sua porta,
la porta che solo tu
riaprirai per noi
nel prossimo Giubileo,
perché non si intende un Papa
senza cardinali,
e Ulisse senza compagni.
Signore,
speriamo in un ritorno:
come spera il mutilato
per riscoprire il suo mantello
l’innamorato nel potere
odiare di nuovo
e la donna per rialzarsi
i seni,
e l’uomo riavere
i capelli persi come sogni
sul cuscino,
cancellati da una buona colazione
con salmone e champagne,
e l’amico per rivedere l’alba
da un tetto sul mare
quando albeggia nell’Egeo,
sto aspettando che fa giorno
sul mogano del bar, Signore
lì sempre sul secondo sgabello
a destra del barista,
se GB riapre
e Giove Benefactorus
permetta
di essere riempita di nuovo con forestieri
la piazza Syntagma
e immigrati e provinciali
gironzolare senza meta
e scambiarsi cellulari
sguardi ed esperienze,
lascia
che anche io ci sia sempre
sul secondo sgabello
a sinistra della sala
sino ad abbattermi, Signore,
a bere, fumare e pensare.

(GB, il mitico bar dell’albergo Gran Bretagna, su piazza Syntagma ad Atene, di proprietà e gestione Italiane) Continua a leggere

Poesie di Jane Hirshfield

Jane Hirshfield

Tratte da “Ogni felicità assediata dai leoni” di Jane Hirshfield, traduzione e cura di Loredana Foresta e Andrea Sirotti, Elliot edizioni. © 2020 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione.

Da Capo

Take the used-up heart like a pebble
and throw it far out.

Soon there is nothing left.
Soon the last ripple exhausts itself
in the weeds.

Returning home, slice carrots, onions, celery.
Glaze them in oil before adding
the lentils, water, and herbs.

Then the roasted chestnuts, a little pepper, the salt.
Finish with goat cheese and parsley. Eat.
You may do this, I tell you, it is permitted.
Begin again the story of your life.

Da capo

Prendi il cuore logoro come un sasso
e lancialo lontano.

Presto non ne rimarrà nulla.
Presto l’ultima increspatura si esaurirà
tra le erbacce.

Una volta a casa, affetta carote, cipolle, sedano.
Glassali in olio prima di aggiungere
le lenticchie, acqua e odori.

Poi le caldarroste, un po’ di pepe, sale.
Completa con formaggio di capra e prezzemolo. Mangia.
Puoi farlo, davvero, ti è concesso.
Ricomincia la storia della tua vita. Continua a leggere

Robert Minhinnick, poesie scelte

Robert Minhinnick

A Welshman’s Flora

Ivy

They read poems here every year
In memory of the last king,
Ambushed and strung up.
But he was no better than he might have been –
That leather apron over his arse,
An iron lid on his heart.

Carnation

I stayed in Richard Burton’s buttonhole
A whole week. He never even changed his underwear.
And always the same formula:
Start with champagne, finish with scotch.
That kind of desperation is what life’s all about.
I wouldn’t have missed it for the world.

Pansy

Life was so simple then, didn’t know I was born,
A well-kept border round a new-mown lawn,
Slug pellets scattered like small sapphire stones,
Then she sews me on her knickers and throws me at Tom Jones.

Saguarao

I was raised in Swansea, up on the Buckskin,
South of the Bill Williams,
And flowered regular every year.
But it’s a ghost-town now, the doors
Stove in and the power off.
You could be a genius there
And nobody around to give a damn.

Rose

Anthony Hopkins was right.
When I look in the mirror
I don’t know who I am.
The aliases, the identities
Are like someone else’s dream.
I’ve even thought of going home
But there can’t be anyone left by now. Continua a leggere

Paul Celan, “Conseguito silenzio”

Paul Celan

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
gröBere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weiliere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

L’altro

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

*

Auch wir wollen sein,
wo die Zeit das Schwellenwort spricht,
das Tausendjahr jung aus dem Schnee steigt,
das wandernde Aug
ausruht im eigen Erstaunenund
Hütte und Stern
nachbarlich stehn in der Bläue,
als ware der Weg schon durchmessen

Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia,
il millennio giovane si alza nella neve,
l’occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.

da “Conseguito silenzio” a cura di Michele Ranchetti, Einaudi, 2010 Continua a leggere

Sheenagh Pug, poesie

Sheenagh Pug

Blue Plaque and Memorial Bench

i.m. George Mackay Brown

Every year, if I can, I’ll walk down
that street, as far as the flat

that was yours. I’ll read the blue plaque
on the wall, telling how long

you lived there, how long you were happy
to have no more of the world

than this. And then I’ll walk on
a little way, to the bench

they have named for you. It looks over
the harbour mouth, where the ships

come and go, where Franklin sailed out
into myth, where the men from the north

first entered this place and possessed it
by naming it. Here where you sat

and watched the whole world, living
and dead, come in on the tide.

Targa blu e panchina commemorativa

i.m. George Mackay Brown

Ogni anno, se potrò, camminerò
per quella strada, fino all’appartamento

che fu tuo. Leggerò la targa blu
sul muro, che dice per quanto tempo

hai vissuto lì, per quanto tempo ti è bastato
non avere altro dal mondo

che questo. E poi camminerò
ancora un po’, fino alla panchina

che ora porta il tuo nome. Guarda
l’imboccatura del porto, dove le navi

vanno e vengono, da dove Franklin salpò
verso il mito, dove gli uomini del nord

per primi entrarono e se ne impadronirono
dandogli un nome. Dove tu sedevi

a guardare il mondo intero, i vivi
e i morti, arrivare con la marea. Continua a leggere

Dylan Thomas, una poesia

Dylan Thomas

SPLENDESSERO LANTERNE

Splendessero lanterne, il sacro volto,
Preso in un ottagono d’insolita luce,
Avvizzirebbe, e il giovane amoroso
Esiterebbe, prima di perdere la grazia.
I lineamenti, nel loro buio segreto,
Sono di carne, ma fate entrare il falso giorno
E dalle labbra le cadrà stinto pigmento,
La tela della mummia mostrerà un antico seno.

Mi fu detto: ragiona con il cuore;
Ma il cuore, come la testa, è un’inutile guida.
Mi fu detto: ragiona con il polso;
Ma, quando affretta, àltero il passo delle azioni
Finché il tetto ed i campi si livellano, uguali,
Cosí rapido fuggo, sfidando il tempo, calmo gentiluomo
Che dimena la barba al vento egiziano.

Ho udito molti anni di parole, e molti anni
Dovrebbero portare un mutamento.

La palla che lanciai giocando nel parco
Non è ancora scesa al suolo.

Dylan Thomas, nella traduzione di Ariodante Marianni, Einaudi, 1965 Continua a leggere

Rilke, la percezione del terribile

Rainer Maria Rilke

COMMENTO DI MARIO FAMULARO

La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”

(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)

Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.

Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.

La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.

Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.” Continua a leggere

Octavio Paz, una poesia

Octavio Paz

PUERTA

¿Qué hay detrás de esa puerta?
No llames, no preguntes, nadie responde,
nada puede abrirla,
ni la ganzúa de la curiosidad
ni la llavecita de la razón
ni el martillo de la impaciencia.
No hables, no preguntes,
acércate, pega la oreja:
¿no oyes una respiración?
Allá del otro lado,
alguien como tú pregunta:
¿qué hay detrás de esa puerta?

PORTA

Che c’è dietro la porta?
Non chiamare, non chiedere, nessuno ti risponde,
niente può aprirla,
né il grimaldello della curiosità
né la chiavetta della ragione
né il martello dell’impazienza.
Non parlare, non chiedere,
avvicinati, incolla l’orecchio:
non senti respirare?
Di là, dall’altra parte,
qualcuno come te si chiede:
che c’è dietro la porta?

Traduzione di Stefano Strazzabosco.
Nell’immagine: Puerta, assemblaggio di Marie José Paz Tramini.

da Octavio Paz, Marie José Paz, Figure e figurazioni, Il Ponte del Sale, Rovigo 2018.

Continua a leggere

Philippe Jaccottet, una poesia

Philippe Jaccottet

LETTRE

Michelle, nous avons été de ces oiseaux
qui se frôlent, portés en flèche à la lumière,
et se poursuivent en criant toujours plus haut
jusqu’à l’extase, trop pareille à l’éphémère…
– Mais plus d’images entre nous: j’ai dit en rêve
les mots qui rendent la distance un peu plus brève
entre nos corps, ces personnages infernaux;
tu savais en former d’assez étroits anneaux
pour qu’ils exultent à en oublier leurs frontières
et la mort qui attend, curieuse, derrière;
moi, j’étais trop souvent comme un enfant distrait,
je voyageais, je vieillissais, je te quittais,
et quand nous sommes remontés vers l’aube crue,
c’est un spectre que tu guidais de rue en rue,
là où le chant du coq ne pourrait plus l’atteindre.
Et pourtant cette ombre t’aimait… On ne sait pas
ce que l’on trouvera là-bas pour vous étreindre…
– Habitante de cette nuit, tu penseras
sans trop de haine à qui demeure on ne sait où
et te frôla comme un oiseau sur les paupières
puis monta, sans cesser d’apercevoir dessous
ton sourire scintiller comme une rivière…

Philippe Jaccottet

da “L’effraie et autres poésies”, Éditions Gallimard, 1953

LETTERA

Michelle, noi fummo uccelli che si sfiorano,
frecce verso la luce, che s’inseguono
gridando sempre piú in alto, fino all’estasi,
sorella dell’effimero.
− Non servono le immagini fra noi: dissi parole
in sogno, che rendono piú breve la distanza
fra i nostri corpi, figure infernali; tu sapevi
formarne degli anelli abbastanza stretti
perché esultassero scordando i loro limiti
e la morte che, curiosa, dietro aspetta;
io, ero troppo spesso un fanciullo distratto,
viaggiavo e poi invecchiavo, abbandonandoti,
e quando risalimmo su verso l’alba cruda,
era uno spettro che tu guidavi di strada in strada,
là dove il canto del gallo mai piú l’avrebbe raggiunto.
Eppure quest’ombra ti amava… E non sai mai
laggiú cosa ti attende, quale abbraccio…
− Abitante di questa notte, penserai
senza troppo odio a chi dimora chissà dove
e ti sfiorò come un uccello sulle palpebre,
poi risalí, senza cessare di scorgere in basso
il tuo sorriso scintillare come un fiume…

Philippe Jaccottet
Traduzione di Fabio Pusterla

da “Philippe Jaccottet, Il barbagianni. L’ignorante”, Einaudi, Torino, 1992 Continua a leggere

Fernando Pessoa (1888 – 1935)

Fernando Pessoa

Primiero
ULYSSES

O mito é o nada que é tudo
O mesmo sol que abre os céus
É um mito brilhante e mudo –
O corpo morto de Deus,
Vivo e desnudo

Este que aqui aportou,
Foi por não ser existindo.
Sem existir nos braços.
Por não ter vindo foi vindo
E nos creou

Assim a lenda se escorr
A entrar na realidade,
E a fecundá-la decorre
De nada, morre.

(Fernando Pessoa)

*

Primo
ULISSE

Il mito è il nulla che è tutto.
Lo stesso sole che apre i cieli
è un mito brillante e muto:
il corpo morto di Dio,
vivente e nudo.

Questi, che qui approdò,
non esistendo esistette.
Senza esistere ci bastò.
Non essendo venuto venne
e ci creò.

Così la leggenda scorre
entrando nella realtà,
e a fecondarla decorre.
in basso, la vita, metà
di nulla, muore.

(Trad. Giulia Lanciani) Continua a leggere

Edna St. Vincent Millay, “Poesie”

Edna St. Vincent Millay

Il mondo di Dio

Mondo, non so stringerti a me quanto vorrei!
I tuoi venti, i tuoi vasti cieli grigi!
Le tue brume che fluttuano e s’innalzano!
I tuoi boschi, questo giorno d’autunno dolente che declina,
tutto che quasi grida di colore! Quella squallida luce
stritolare! Sollevare quel nero, sottile promontorio!
Mondo, Mondo, non so domarti come vorrei!

Che in tutto ciò albergasse qualcosa di glorioso
lo sapevo da sempre, ma mai come quest’oggi:
qui c’è tanta passione che mi lacera —
io temo, Dio, che tu abbia reso il mondo
troppo bello quest’anno, mi lascia la mia anima…
Non far cadere una sola foglia di fiamma;
non un uccello, ti prego, intoni il suo richiamo.

 

A Kathleen

Come un tempo anche oggi il poeta
in una buia, gelida e misera soffitta
deve patire fame, freddo e scrivere
su cose come i fiori, il canto e te;

e come un tempo dare la sua vita
in dono alla Bellezza, per farla sopravvivere,
quella Bellezza che non può morire
finché ci sono i fiori, il canto e te.

Continua a leggere

Ida Vitale, “Pellegrino in ascolto”

Ida Vitale

Da: LA LUZ DE ESTA MEMORIA
1949

LA NOCHE, ESTA MORADA

 

La noche, esta morada
donde el hombre se encuentra y está solo,
a punto de morir y comenzar a andar en aires otros.

El mundo va a perder nubes, caballos, vacila,
se asombra,
se deshace,
cae como en los bordes del deseo pero ya sin milagro.
Despacio la esperanza
viste su piel de olvido.
No veo más allá
de un nombre que he llamado letra a beso a caricia
a rosa abierta a vuelo ciego a llanto.

Y como todo está deposeído, todo con el pie justo
para tocar en tierra oscura,
el cielo vuelto un hueco sin voz y sin orillas,
ya no soy yo la pobre,

medida entre mortales, melancólicos aires,
cuerpo cegado de luz o simple lágrima.
Lo que este mar, esta crecida sombra
va perdiendo,
viene a salvarse en mí, nube siempre,
caballo azul,
eterno cielo.

 

NOTTE, QUESTA DIMORA

Notte, questa dimora
dove l’uomo si trova e sta solo,
sul punto di morire e cominciare a andare in altre arie.

Il mondo perderà nubi, cavalli, vacilla
meraviglia,
si dissolve,
cade come sul bordo del miraggio ma ormai senza miracolo.

Pian piano la speranza
si riveste di oblio.
E non vedo più in là
di un nome che ho chiamato
lettera un bacio una carezza
una rosa aperta un volo cieco un pianto.

E poiché tutto è privo di se stesso, tutto col piede pronto
per atterrare in terra scura,
il cielo fatto un buco senza voce e senza sponde,
non sono più io la povera,

compresa tra mortali, malinconiche arie,
corpo accecato di luce o pura lacrima.
Quello che questo mare, questa cresciuta ombra
va perdendo,
viene a salvarsi in me,
nuvola sempre,
cavallo azzurro,
eterno cielo.

 

Continua a leggere

Adam Zagajewski, “Guarire dal silenzio”

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Adam Zagajewski, come ricorda Andrea Ceccherelli nel volume antologico Cose di Polonia (In forma di parole, 2001), «conosce due fasi distinte». La prima è legata al gruppo letterario Nowa Fala — che traduce l’espressione italiana Nuova Ondata  — con una poetica radicata nel tessuto sociale, tesa a cogliere istantaneamente la natura. Ciò pone un dilemma estetico, teorizzato nella raccolta di saggi Il mondo non rappresentato (scritto con Julian Kornhauser), per il quale il vero deve superare ogni compiacimento relativo all’ideale disincarnato del bello. Il compito della letteratura coincide essenzialmente con un progetto di «demistificazione della retorica di regime», che si attua nella denuncia alla falsità propagandista e nella restituzione di decoro alla lingua. La «generazione ’68» — Zagajewski nasce nel ’45 a Leopoli, trascorre l’infanzia in Slesia a Gliwice, compirà gli studi universitari a Cracovia — si sgretola, verso la fine degli anni Settanta, in tanti (micro e macro) percorsi autonomi. Del resto, suggerisce Ceccherelli, uno «sguardo retrospettivo» lascia trasparire fin nelle sue fondamenta «non un gruppo coeso», bensì una «federazione di individualità».


Dal 1983 con la raccolta Lettera. Ode alla pluralità Zagajewski sviluppa una visione molto meno inserita in istanze collettive, perché tende a confrontarsi con temi assai vicini a quella che, da Baudelaire in giù, è definita a rigore critico poesia metafisica. È a partire da tale svolta che la sua opera assume una più decisa dimensione internazionale. Un aneddoto su tutti: il futuro Premio Nobel Derek Walcott, leggendo in taxi Andare a Leopoli (un po’ come Heisenberg che in taxi ripensò a un passo del Timeo e scoprì il principio di indeterminazione), rimase letteralmente sbalordito. A dispetto della fama crescente, Zagajewski vive in questo periodo, per lungo tempo e con dolore, lontano da casa: l’anno precedente alla pubblicazione di Lettera, a causa della legge marziale polacca — il governo della Repubblica Popolare limitò drasticamente la vita quotidiana nel tentativo di annientare Solidarność – è costretto all’esilio e si rifugia a Parigi (nel biennio ’79-’81 era stato a Berlino per un’iniziativa di scambi culturali). Insegnerà, inoltre, negli Stati Uniti, precisamente a Houston e a Chicago. Soltanto dal 2002 tornerà a vivere per metà semestre in Polonia. Sono anni in cui Zagajewski affina parallelamente un metodo saggistico che lo congiunge all’elegante tradizione mitteleuropea. Con leopardiana destrezza perviene, infatti, a due pilastri indiscussi della sua scrittura: Tradimento, di cui nel 2007 è uscita l’edizione Adelphi, e La leggera esagerazione, composta un po’ à la Kertész, sfortunatamente ancora non edita nella nostra lingua, ma considerata dall’autore stesso uno dei suoi massimi lavori. La prosa coincide sostanzialmente con l’impegno epico sulle cose, con la solidarietà e la solitudine, fondamenti del vivere umano per penetrare l’enigma e il fascino della bellezza altrui (il titolo di un celebre saggio è Nella bellezza di qualcun altro).

 

Continua a leggere

Addio a Anne Stevenson

Anne Stevenson

Solo qualche giorno fa avevamo pubblicato alcune poesie della poetessa Anne Stevenson senza sapere che ci stava per lasciare. Nata nel 1933 si è spenta il 14 settembre 2020, a 87 anni.

Anne Stevenson nata a Cambridge, in Gran Bretagna, aveva sei mesi quando i genitori, americani, ritornarono negli Stati Uniti. Crebbe e studiò prima nel New England, dove il padre insegnava filosofia a Harvard e Yale, poi a Ann Arbor, nel Michigan. In America studiò musica, pianoforte e violoncello, e letteratura europea. Sembrava avviata a una carriera concertistica ma, ancora molto giovane, iniziò ad avere seri problemi all’udito. Si dedicò allora completamente alla poesia. Dopo una serie di spostamenti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (ha risieduto in Inghilterra, Scozia e Galles), si è infine stabilita definitivamente in Inghilterra, a Durham, assieme al marito Peter Lucas.

È autrice di più di venti raccolte di poesia, le più recenti sono “Poems 1955-2005” (2005), “Stone Milk” (2007) e “Astonishment” (2012), tutte pubblicate da Bloodaxe, e di libri di saggi e critica letteraria che includono una biografia della poetessa Americana sua coetanea Sylvia Plath, Bitter Fame: “A Life of Sylvia Plath” (1989), un notevole studio critico dell’opera di Elizabeth Bishop, Five Looks at Elizabeth Bishop (Bloodaxe Books, 2006) e “About Poems and how poems are not about” (2017), basato su una serie di conferenze da lei tenute alla Newcastle University.

Ha vinto numerosi premi, in America e in Inghilterra, tra i quali nel 2002 il Northern Rock Foundation Writer’s Award e nel 2007 il Lannan Lifetime Achievement Award for Poetry e il Poetry Foundation’s Neglected Masters Award. Nel 2008, la Library of America ha pubblicato Anne Stevenson: Selected Poems, a cura di Andrew Motion, l’allora Poeta Laureato del Regno Unito, nell’ambito di una serie dedicata alle maggiori figure della poesia americana.

Una selezione di sue poesie, tradotte in italiano e curate da Carla Buranello, è stata pubblicata nel 2018, in edizione bilingue, da Interno Poesia Editore, con il titolo Le vie delle parole.

Il suo ultimo libro, “Completing the Circle”, è appena uscito in Inghilterra. Continua a leggere

Tre poesie di Abigail Ardelle Zammit

Abigail Ardelle Zammit

Sculpting the Girl with a Bee Dress *

One is not born, but rather becomes, a woman
–Simone de Beauvoir

Before her nipples blush
into stone buds,
he casts bees in wax
so her eyes are abuzz
with wings in flight,
her larval tongue
steaming pink and red.

Next, he hems her ovaries
into honeycombs,
graces her hands into
a hymn of flowers,
pins her forehead
inside a halo of sky.

He’d let her slumber
in honey and song
expecting no battle cry
in B sharp, nor the frenzy
of the swarm, the insect fury
that might kill him.

*Ispirato da Maggy Taylor, ‘Girl with a Bee Dress’

Pubblicato per la prima volta in ‘Bracken Magazine’
https://www.brackenmagazine.com/issue-vii/zammit-sculpting-the-girl-with-a-bee-dress

Scolpire la ragazza col vestito di api

Donna non si nasce, si diventa
Simone de Beauvoir

Prima che i capezzoli avvampino
in fioriture di pietra,
lui getta le api nella cera,
così gli occhi di lei sono
un pullulare di ali in volo,
la sua lingua di larva
un’effusione di rosa e di rossi.

Ripartisce
le ovaie in favi,
raffina le mani
in un inno di fiori,
appunta la fronte a
un alone di cielo.

La lascerebbe assopire
in miele e canto,
non si aspetta grida di guerra
in Si diesis, o la frenesia
dello sciame, la furia dell’insetto
che lo potrebbe uccidere. Continua a leggere

Carol Ann Duffy, “Sincerity”

In un’intervista rilasciata il 27 ottobre 2018 al quotidiano The Guardian, per presentare al pubblico di lettori la sua raccolta di poesie, intitolata Sincerity, Carol Ann Duffy spiegava la scelta del titolo dato all’opera che sarebbe stata pubblicata qualche settimana dopo e che è stata l’ultima alla successiva conclusione del ciclo decennale del suo mandato di Poet Laureate del Regno Unito che le era stato conferito il 1 maggio 2009: “Mi piace la parola ‘sincerità’, nel senso di parlare e comportarsi secondo le proprie convinzioni e i propri pensieri e sentimenti”. Inoltre la poetessa si
dichiarava ispirata anche dalla versione etimologica del termine, mutuata dalla vulgata, riferita alla pratica adottata da scultori mediocri e maldestri, ai tempi dell’antica Grecia e di Roma, nel tentativo di coprire con la cera, pecche e imperfezioni altrimenti visibili sulle proprie sculture. Da qui, appunto, il significato popolare del termine “sincerità”, dal latino sine cera, ossia senza cera, quindi genuino, autentico, non falso.

(Dall’introduzione di Floriana Marinzuli e Bernardino Nera)

Clerk of Hearts

As they step from the path onto the boats,
I am there at my place under the trees,
listing the Categories. Humility. Shame.

My dealings with life have been so long ago,
I imagine I resemble shadow or watermark.
I am unanswered prayer, like poetry. Dread.
Whatever I did – it might have been that – now,

I watch each one depart, perceive their hearts;
old diaries I read at a glance. Acceptance. Disdain.
They will forget, but I take Time, devoted,
clerk of hearts. Sometimes I stand on the bridge

as they drift away, being more and more dead…
a kingfisher arrowing upriver, joy as colour;
then thunder above, a boiling of last words,
and their crafts vanishing into the heavy rain.

Addetto ai cuori

Mentre salgono sulle barche, dal sentiero,
io sono lì al mio posto sotto gli alberi,
a elencare le Categorie. Umiltà. Pudore.

Le mie pratiche con la vita sono state sbrigate tanto tempo fa,
immagino di somigliare all’ombra o alla filigrana.
Sono una preghiera non esaudita, come la poesia. Terrore.
Qualunque cosa abbia fatto – può essere stato quello – ora

le osservo tutte andar via, percepisco i loro cuori;
vecchi diari letti in un batter d’occhio. Accettazione. Disprezzo.
Dimenticheranno, ma prendo il Tempo, devoto,
addetto ai cuori. A volte sosto sul ponte

mentre se ne vanno alla deriva sempre più morte…
un martin pescatore sfreccia controcorrente, gioia come colore;
poi un tuono in alto, un ribollire di ultime parole,
e le loro barche svanire nella pioggia fitta.

Continua a leggere

Henrik Nordbrandt, una poesia

Henrik Nordbrandt

Il nostro amore è come Bisanzio
dev’essere stata
l’ultima sera. Dev’esserci stato
immagino
un alone sui volti
di chi si affollava nelle vie
o sostava in piccoli gruppi
agli angoli delle strade e nelle piazze
e parlava a bassa voce
un alone che doveva ricordare
quello che ha il tuo volto
quando ne scosti i capelli
e mi guardi.
Immagino che non parlassero
molto, e di cose
piuttosto indifferenti,
che cercassero di parlare
e si bloccassero
senza aver detto quanto volevano
e cercassero ancora
e rinunciassero ancora
e si guardassero
e abbassassero gli occhi.
Le antichissime icone per esempio
hanno in sé quell’alone
come il bagliore di una città in fiamme
o l’alone che la morte imminente
trasmette alle foto dei morti precoci
nella memoria dei superstiti.
Quando mi volto verso di te
nel letto, ho la sensazione
di entrare in una chiesa
distrutta dalle fiamme
molto tempo fa
in cui solo il buio negli occhi delle icone
è rimasto
piene delle fiamme che le hanno cancellate. Continua a leggere

Il giamaicano Raymond Antrobus

Raymond Antrobus

The Perseverance

Love is the man overstanding
Peter Tosh

I wait outside THE PERSEVERANCE.
Just popping in here a minute.
I’d heard him say it many times before
like all kids with a drinking father,
watch him disappear
into smoke and laughter.

There is no such thing as too much laughter,
my father says, drinking in THE PERSEVERANCE
until everything disappears –
I’m outside counting minutes,
waiting for the man, my father
to finish his shot and take me home before

it gets dark. We’ve been here before,
no such thing as too much laughter
unless you’re my mother without my father,
working weekends while THE PERSEVERANCE
spits him out for a minute.
He gives me 50p to make me disappear.

50p in my hand, I disappear
like a coin in a parking meter before
the time runs out. How many minutes
will I lose listening to the laughter
spilling from THE PERSEVERANCE
while strangers ask, where is your father?

I stare at the doors and say, my father
is working. Strangers who don’t disappear
but hug me for my perseverance.
Dad said this will be the last time before,
while the TV spilled canned laughter,
us, on the sofa in his council flat, knowing any minute

the yams will boil, any minute,
I will eat again with my father,
who cooks and serves laughter
good as any Jamaican who disappeared
from the Island I tasted before
overstanding our heat and perseverance.

I still hear popping in for a minute, see him disappear.
We lose our fathers before we know it.
I am still outside THE PERSEVERANCE, listening for the laughter.

The Perseverance

Amore è l’uomo che capisce fin troppo
Peter Tosh

Aspetto fuori da THE PERSEVERANCE.
Faccio un salto dentro.
Glielo avevo sentito dire molte altre volte
come tutti i bambini con un padre che beve,
lo guardo scomparire
dentro fumo e risate.

Non sono mai troppe, le risate
dice mio padre, che beve a THE PERSEVERANCE
finché tutto scompare –
Io sto fuori a contare i minuti,
ad aspettare che l’uomo, mio padre,
finisca il suo goccio e mi riporti a casa prima

che faccia buio. Questo lo sappiamo già da prima,
non sono mai troppe le risate
a meno che non siate mia madre senza mio padre,
che lavora al fine settimana mentre THE PERSEVERANCE
lo sputa fuori per un minuto.
Mi dà 50p perché io sparisca.

Con 50p in mano, io sparisco
come una moneta in un parchimetro prima
che scada il tempo. Quanti minuti
perderò ad ascoltare le risate
che tracimano da THE PERSEVERANCE
mentre sconosciuti chiedono, dov’è tuo padre?

Io fisso la porta e dico, mio padre
sta lavorando. Sconosciuti che non spariscono
ma mi abbracciano per la mia perseveranza.
Papà l’aveva detto prima questa sarà l’ultima volta,
mentre la TV rovesciava risate finte, e noi,
sul divano della sua casa popolare, sappiamo che da un momento all’altro

gli yams bolliranno, da un momento all’altro,
io mangerò di nuovo con mio padre,
che cucina e serve risate
bravo come un qualsiasi giamaicano sparito
dall’Isola che ho assaggiato prima
che capisce il nostro calore e la nostra perseveranza.

Sento ancora faccio un salto dentro, lo vedo scomparire.
I nostri padri li perdiamo prima che ce ne accorgiamo.
Sto ancora fuori da THE PERSEVERANCE, ad ascoltare le risate. Continua a leggere

Wendy Cope, poesie

Wendy Cope

Bloody Men

 

 

Bloody men are like bloody buses –
You wait for about a year
And as soon as one approaches your stop
Two or three others appear.

You look at them flashing their indicators,
Offering you a ride.
You’re trying to read the destinations,
You haven’t much time to decide.

If you make a mistake, there is no turning back.
Jump off, and you’ll stand there and gaze
While the cars and the taxis and lorries go by
And the minutes, the hours, the days.

 

Quei fetenti degli uomini

Sono come quei fetenti degli autobus –
li aspetti per circa un anno
e quando alla fine compare un bus
eccone altri due o tre che sbucano.

Mettono la freccia, guardi il lampeggio,
cerchi di leggere la destinazione.
Loro ti offrono un passaggio,
ma tu non hai molto tempo per la decisione.

Se commetti un errore, non puoi far dietrofront.
Salta giù, e starai là a fissare
le macchine e i taxi e i camion,
e i minuti, le ore, i giorni passare. Continua a leggere

Stefan George (1868 -1933)

Die sommerwiese dürrt von arger flamme

Auf einem uferpfad zertretnen kleees
Sah ich mein haupt umwirrt von zähem schlamme
Im fluss trübrot von ferner donner grimm.
Nach irren nächten sind die morgen schlimm:
Die teuren gärten wurden dumpfe pferche
Mit bäumen voll unzeitig giftigen schneees
Und hoffnungslosen tones stieg die lerche.

Da trittst du durch das land mit leichten sohlen
Und es wird hell von farben die du maltest.
Du lehrst vom frohen zweig die früchte holen
Und jagst den schatten der im dunkel kreucht ..
Wer wüsste je – du und dein still geleucht –
Bänd ich zum danke dir nicht diese krone:
Dass du mir tage mehr als sonne strahltest
Und abende als jede sternenzone

*

Devasta una maligna fiamma i campi

Da un argine di magra erba calpesta
vidi tra il fango torba la mia testa
nel fiume bieco di lontani lampi.
Da notti folli torbidi mattini:
avvelenata neve rifioriva
fatti acri stabbi i nitidi giardini
e sgomenta l’allodola saliva.

Tu vieni lieve ora per la campagna
e ai colori che temperi schiarisce.
Insegni a coglier frutti dalla rama
e scacci l’ombra che ne buio striscia…
Sapevi tu e la tua calma spera
che io ti offrirei ghirlanda di parole:
giorni tu mi raggirasti più del sole,
più di ogni zona d’astri qualche sera.

Stefan George, una poesia da Der siebente ring (Il settimo anello) 1907. La traduzione italiana è di Leone Traverso. Continua a leggere

Leopoldo María Panero (1948 – 2014)

Leopoldo María Panero

Oltre quel luogo dove
ancora si nasconde la vita, resta
un regno, resta da coltivare
come un re la sua agonia,
da far fiorire come un regno
il sudicio fiore dell’agonia:
io che tutto ho prostituito, posso ancora
prostituire la mia morte e fare
del mio cadavere l’ultima poesia.

Leopoldo María Panero nella traduzione di Alessandro De Francesco.
Dalla rivista Poesia, Crocetti Editore (anno 2012)

Más allá de donde
aún se esconde la vida, queda
un reino, queda cultivar
como un rey su agonía,
hacer florecer como un reino
la sucia flor de la agonía:
yo que todo lo prostituí, aún puedo
prostituir mi muerte y hacer
de mi cadáver el último poema.

Leopoldo María Panero
Continua a leggere