Tim Postovit, l’orrore della guerra

Tim Postovit

Tim Postovit, poeta ucraino, ha scritto queste poesie mentre lavorava come assistente sociale in un albergo per rifugiati a Praga. Nelle poesie ritrae persone in carne e ossa, delle quali ha raccolto le storie per creare un cosiddetto Personaggio Composito.

Le poesie di Tim fanno parte di un’intera opera dedicata alla causa dei suoi connazionali. Con i suoi testi sta cercando di descrivere al lettore europeo le difficoltà dei rifugiati, vittime di questa guerra attuale, di sintetizzare le emozioni che condividono con lui, le emozioni innescate da un cambiamento improvviso e radicale nella loro quotidianità.

Il cambiamento è ciò che descrive maggiormente nella sua poesia. Riesce a mostrare, in modo efficiente, l’orrore della guerra, dell’immigrazione e dell’incomprensione da parte della maggioranza del paese nel quale i rifugiati sono arrivati…

ARA, TLUMOČNICE         (ARA, INTERPRETE)

Papouškovo požehnání na cestu

Šelma leží, líná chvost.
Promluv, lízneš její kost, jestli se zasměješ,
její krve se napiješ.

 

La benedizione di un pappagallo per il viaggio

 

La bestia mente, coda pigra.
Parla, le lecchi l’osso, se ridi,
berrai il suo sangue.

 

Píseň Ary a břízy

 

Zeptala se Ara břízy na poli:
Proč jsi zjara, břízo, bílá až to bolí?

Proč jsi jako topoly nezezelenala?

Vykladačko barev, Aro!

Tlumočnice lidí.

Co bys mi teď z cesty o nich zazpívala?

 

Canzone di Ara e Betulla

 

Nel campo Ara chiese a Betulla:

Perché sei primavera, Betulla, bianca che fa male?

Perché non sei diventata verde come i pioppi?

Scaricatrice di colori, Ara!

Interprete di persone.

Cosa canteresti di loro adesso?

 

Marika a její sen

Vzbudila se, na kuchyňský stůl padal přes otevřené okno stín.
Její dům pod černým mrakem, sláma pod závodním koněm.

Vyšla do zahrady, protože si vzpomněla na vysokou břízu vprostřed sadu.

Vzdálenost, kterou pes ještě předevčírem překonával

sedmi skoky, šla celý den.
Našla ji v noci a nikdy se ještě necítila tak fajne, jako když viděla hvězdy na otevřené obloze,

opřena o břízu na celém světě. Continua a leggere

Daniel Calabrese. “Un cielo per le cose”

Daniel Calabrese foto di Elia Leblanc

ALLÁ EN LO ALTO

Miren hacia arriba.
La razón es una cuerda inútil
que nos ciñe la respiración.
La razón es una piedra colgando de las nubes.

Pasa un cóndor con su vuelo
lento y desgarbado.
Debe ser un viejo.
Le quedarán algunos círculos
antes de morir secretamente.
Arrastra una sombra pesada
por el fondo del valle
cientos de metros más abajo
y todavía hace temblar a muchas criaturas.
Nos observa desde lo alto:
somos un rebaño violento.

Ninguna Tebas que salvar.
No hay ahora en esta tierra una sola
muralla digna para dar la vida.
Y el cóndor, me pregunto
cómo un comedor de carroña
puede llegar tan alto.

LÁ IN ALTO

Guardate in alto.
La ragione è una corda inutile
che ci stringe il respiro.
La ragione è una pietra che pende dalle nuvole.

Passa un condor col suo volo
lento e goffo.
Deve essere vecchio.
Gli resterà qualche cerchio
prima di morire segretamente.
Trascina un’ombra pesante
lungo il fondo della valle
centinaia di metri più giù
e fa tremare ancora molte creature.
Ci osserva dall’alto:
siamo un gregge violento.

Nessuna Tebe da salvare.
Non c’è adesso su questa terra una sola
muraglia per cui valga la pena dare la vita.
E il condor, mi chiedo
come un mangiatore di carogne
può arrivare così in alto.

***

Una voz antigua me responde
como si viniera de un canto del Inferno:
tal vez no imaginaste un diablo pensador.

Hace tiempo que no veo sangre,
siglos que no mato una mosca.
Debería volver a la sed,
a los golpes imperfectos del hacha.
Pero no me agrada la especie:
nuestro rebaño ilustrado.

Que vean los oxidados
todas aquellas cosas que hay que ver,
lo que aprendimos en los barcos,
lo que pensamos con el rostro metido
en la niebla de esta sopa.
Aprendí a ensamblar un mortero de combate,
lo recuerdo muy bien: placa base,
bípode y cañón,
en menos de un minuto queda listo
para escupir al cielo.
Aprendí que el enemigo
no debería respirar dos veces.

Nadé al sol, pensé en ella.
Me hundí y me dejé llevar
por las amapolas del agua.

***

Una voce antica mi risponde
come se venisse da un canto dell’Inferno:
forse non hai immaginato un diavolo pensatore.

È da tempo che non vedo sangue,
da secoli che non uccido una mosca.
Dovrei tornare alla sete,
ai colpi imperfetti dell’ascia.
Ma non mi piace la specie:
il nostro gregge illuminato.

Vedano quelli arrugginiti
tutte le cose che bisogna vedere,
quello che abbiamo imparato sulle navi,
quello che abbiamo pensato con il volto messo
nella nebbia di questa minestra.
Ho imparato ad assemblare un mortaio
[da combattimento,
lo ricordo molto bene: piastra base,
bipiede e canna,
in meno di un minuto è pronto
per sputare verso il cielo.
Ho imparato che il nemico
non dovrebbe respirare per due volte.

Ho nuotato al sole, ho pensato a lei.
Sono affondato e mi sono lasciato portare
dai papaveri dell’acqua.

***

Debería volver a la sed.
Llevo un sonido secreto y no puedo evitar
que retumbe en mi cabeza:
es el perro tomando agua.
Ando al sol, oigo al perro de la casa.
Sueño debajo de la vieja noche
con el ruido del agua lamida por el perro.
El chapoteo se interrumpe con el paso de un tren
y luego continúa:
slap, slap,
el perro, la sed,
un reloj aplaudiendo en el silencio.

Te vi llegar, eras tan turbia.
Te vi llegar.

Ahora pasa la sombra del cóndor,
el peso de la razón que todavía lo mantiene
atado a este mundo.

Silencio, bebedor.
Silencio.

***

Dovrei tornare alla sete.
Porto in me un suono segreto e non posso evitare
che mi rimbombi nella testa:
è il cane che beve l’acqua.
Vado al sole, sento il cane della casa.
Sogno sotto la vecchia notte
col rumore dell’acqua leccata dal cane.
Lo sciacquio s’interrompe col passaggio di un treno
e poi continua:
slap, slap,
il cane, la sete,
un orologio che applaude nel silenzio.

Ti ho vista arrivare, eri così torbida.
Ti ho vista arrivare.

Adesso passa l’ombra del condor,
il peso della ragione che lo mantiene ancora
legato a questo mondo.

Silenzio, bevitore.
Silenzio. Continua a leggere

Paul Celan, una poesia nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan

da Mohn und Gedächtnis,  Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere

Jacques Roubaud, “Qualche cosa nero”

Jacques Roubaud (foto d’archivio)

Questo libro di Jacques Roubaud nasce da un lavorìo comune in cui entrambi i traduttori, Domenico Brancale e Tommaso Santi hanno preso in carico ogni verso prestando la propria voce a ciò che può comportare una traduzione: accettare la resa di fronte al ritmo, alla musica, alle rime della lingua originale. Fedeltà e tradimento quando si traduce sono due vie di uno stesso volto. Il volto della parola. Nella fedeltà si tradisce la propria lingua rimanendo fedeli alla lingua altrui, nel tradi- mento si tradisce la lingua altrui rimanendo fedeli alla propria. Sempre si rinuncia a qualcosa. Sempre si libera una voce. Tradurre “Quelque chose noir” è stato soprattutto questo: fare i conti con una terza lingua, il francese di Jacques Roubaud. Parlare per conto di Roubaud con la propria voce significa accettare la sfida dell’oscurità. Ogni poesia è tale. Ogni parola ha conosciuto il tempo in cui è rimasta muta per parlare. Ci sono stati momenti in cui ricorrere ad altre voci è stata l’unica via di fuga dai punti ciechi della traduzione. Per questo desideriamo ringraziare Bruno di Biase, Hervè Bordas, Adriano Marchetti, Anna Ruchat e Sarah Veronesi.

IL LIBRO

Un uomo ha perduto la sua donna ed esprime, riga dopo riga, il dolore della sua assenza, il dolore più difficile da scrivere. L’uomo è il poeta Jacques Roubaud, la donna è la fotografa Alix Cléo Roubaud. Qualche cosa nero, pubblicato nel 1986, è il libro del lutto della poesia.

Il poeta rivela l’entità del suo dolore, gli effetti della morte e dell’assenza sulla vita e sul linguaggio: essi appaiono proprio come il negativo – inverso della luce, bianco e nero che si scambiano – rivela l’immagine. Dietro ogni verso del poeta ci sono le mani, il ventre, il corpo della donna amata. Alla fine, dopo «il punto vacillante del dubitare di tutto», dopo «l’inframondo», ciò che appare, è «Niente», titolo dell’ultima sezione.

Dire la morte dell’essere amato è convincere il silenzio a testimoniare perché, come dice Roubaud «la poesia è memoria della lingua». Questo libro è il dialogo postumo in cui «l’inchiostro e l’immagine si ritrovano solidali e alleati», è il tentativo, privo di consolazione, di ritornare nel presente, il tempo del «tu», l’unico tempo possibile in cui poter realizzare l’«io». Esperienza di vertigine, di paura, di bellezza, Qualche cosa nero si può leggere soltanto tremando.

ESTRATTI

Je voulais détourner son regard à jamais

Je voulais détourner son regard à jamais. je voulais être seul au monde à ne pas avoir vu du tout. cette main aurait pu ne pas être là, après tout: mais moi non plus, et avec moi disparaître le monde. ce cadeau. l’image de ta mort.

Elle avait aimé la vie passionnément de loin. sans l’im- pression d’y être ni d’en faire partie. malheureuse, elle photographiait des pelouses tranquilles et du bonheur fa- milial. extase paradisiaque, elle photographiait la mort et sa nostalgie.

Pour une fois adéquation exacte de la mort même à la mort rêvée, la mort vécue, la mort même même. Identique à elle même même.

Gouffre pur de l’amour.

S’endormir comme tout le monde. ce que je veux.

Je t’aime jusque là.

Évidemment ce n’était pas un cadeau ordinaire. celui de me livrer, à cinq heures du matin, un vendredi, l’image de ta mort.

Pas une photographie.

La mort même même. identique à elle même même.

°

Volevo allontanare per sempre il suo sguardo

Volevo allontanare per sempre il suo sguardo. volevo essere l’unico al mondo a non aver visto nulla. quella mano avrebbe potuto non esserci, dopotutto: e anche io, e con la mia scomparsa il mondo. questo regalo. l’immagine della tua morte.

Da lontano appassionatamente lei aveva amato la vita. senza l’impressione di esserci o di farne parte. infelice, fotografava prati tranquilli e felicità familiare. Estasi paradisiaca, fotografava la morte e la sua nostalgia.

Per una volta l’adeguamento perfetto della morte stessa alla morte immaginata, la morte vissuta, proprio la morte stessa. Identica proprio a se stessa.

Puro abisso dell’amore.

Addormentarsi come fanno tutti. quel che voglio.

Ti amo fino a quel punto.

Ovviamente non era un regalo qualsiasi. quello di lasciarmi, alle cinque del mattino, un venerdì, l’immagine della tua morte.

Non una fotografia.

Proprio la morte stessa. identica proprio a se stessa.

***

Mort

Ta mort parle vrai. ta mort parlera toujours vrai. ce que parle ta mort est vrai parcequ’elle parle. certains ont pensé que la mort parlait vrai parceque la mort est vraie. d’autres que la mort ne pouvait parler vrai parceque le vrai n’a pas affaire avec la mort. mais en réalité la mort parle vrai dès qu’elle parle.

Et on en vient à découvrir que la mort ne parle pas virtuellement, étant ce qui arrive, effective au regard de l’être. ce qui est le cas.

Ni une limite ni l’impossible, dérobée dans le geste de l’appropriation répétitive, puisque je ne peux aucunement dire : c’est là.

Ta mort, de ton propre aveu, ne dit rien? elle montre. quoi? qu’elle ne dit rien. mais aussi qu’en montrant elle ne peut pas non plus, du même coup, s’abolir.

« Ma mort te servira d’élucidation de la manière sui- vante : tu pourras la reconnaître comme dépourvue de sens, quand tu l’auras gravie, telle une marche, pour at- teindre au-delà d’elle (jetant, pour ainsi dire, l’échelle). » je ne crois pas comprendre cela.

Ta mort m’a été montrée. Voici : rien et son envers : rien.

Ni ce qui arrive ni ce qui n’arrive pas. tout le reste de- meurant égal.

Dans ce miroir, circulaire, virtuel et fermé. le langage n’a pas de pouvoir.

Quand ta mort sera finie. et elle finira parcequ’elle parle. quand ta mort sera finie. et elle finira. comme toute mort. comme tout.

Quand ta mort sera finie. je serai mort.

°

Morte

La tua morte dice il vero. la tua morte dirà sempre il vero. ciò che dice la tua morte è vero perché dice. certi han- no pensato che la morte dicesse il vero perché la morte è vera. altri che la morte non potesse dire il vero perché il vero non ha a che vedere con la morte. ma in realtà la morte dice il vero appena parla.

E si arriva a scoprire che la morte non dice virtualmente, essendo ciò che succede, effettiva nei confronti dell’es- sere. come in questo caso.

Né un limite né l’impossibile, sottratta nel gesto dell’appropriazione ripetitiva, dato che non posso in nessun modo dire: è qui.

La tua morte, per tua stessa ammissione, non dice niente? mostra. cosa? che non dice niente. ma anche che, mostrando, non può nemmeno, al contempo, annullarsi.

«La mia morte ti servirà da chiarimento in questo modo: potrai riconoscerla come priva di senso, quando l’avrai risalita, come un gradino, per andare oltre (e per così dire, buttare via la scala).» non credo di capire.

La tua morte mi è stata mostrata. Ecco: niente e il suo contrario: niente.

Né ciò che succede né ciò che non succede. mentre tutto il resto rimane uguale.

In questo specchio, circolare, virtuale e chiuso. il linguaggio non ha potere.

Quando la tua morte sarà finita. e finirà perché dice. quando la tua morte sarà finita. e finirà. come ogni morte. come tutto.

Quando la tua morte sarà finita. sarò morto. Continua a leggere

Video-intervista inedita a Mark Strand

Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand

Civitella Ranieri
24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani

Prima parte

Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?

Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.

Si sta bene in vacanza, eh?

Benissimo, sempre.

Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?

Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.

Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?

Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.

Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.

Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.

Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?

Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.

Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark,  dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.

Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.

Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.

Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.

Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011

Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?

E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.

Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”.
Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?

A essere sincero, non lo so.

So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.

Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?

L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.

Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?

Roba, vestiti.

Scarpe.

Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.

E negli occhi cosa c’era?

Nei miei occhi?

Cosa portavI negli occhi?

Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.

C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.

Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?

La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?

Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?

Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.

Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?

L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.

Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?

Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.

La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.

Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker)  poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?

Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.

Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?

Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.

Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.

A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.

Mark, secondo te la morte può essere ingannata?

No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.

A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?

Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.

Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?

Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.

Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?

Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.

A cosa stai lavorando adesso?

Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.

Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?

Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.

Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?

Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.

Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?

Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.

Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?

Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.

La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?

Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.

Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?

Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere

Addio a Charles Simić

Lutto nel mondo della poesia

Charles Simić, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Roma all’Auditorium della Saint Stephen’s School, il 27 ottobre del 2015.

 

Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023. 

La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.

Charles Simić è stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan

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Thierry Metz, la solitudine della poesia

Thierry Metz

Vecchia orsa minore
vieni a vedere:
sorge un giardino
nel respiro dell’albero
è questo il luogo
dove uomo e uccello
si meravigliano

*

Chiedi lassù al vegliante
sul ramo
fra le lucciole
nella brace delle parole
nel quasi nulla di scrivere
lui sa, lui che indugia
che l’oggi
dorsale di un altrove
non ha altro orizzonte che la lingua
dove il lampo si denuda

*

Dov’è il fratello alchemico
uomo della prima
dell’ultima cena
dalla voce scarlatta, lieto
nell’avvampare delle mani
sulla tavola inventata
il volto in fiamme
come un’alba
come acqua
che si ritira meravigliata
come una notte
che si consuma
in oscura creta
il volto
come un uccello semplificato

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Paul Celan, video di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA ARRIVA A RIVA 

“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.

Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.

In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.

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Charles Simic, poesie

Charles Simic

Gente fuori di testa

Di questi giorni solo gli uccelli e gli animali
sono sani di mente e vale la pena parlarci.
Non mi spiace aspettare che un cavallo
smetta di brucare e mi dia retta.

Perfino un albero è più di compagnia.
Una quercia orgogliosa dei suoi rami
carichi di foglie troppo a modo
per rivolgersi a un estraneo con più di un sussurro.

Un corvo sarebbe un buon amico.
Quello che ho adocchiato
mi conosce bene, ma al momento
è indaffarato con una cosa che ha visto

nel cortile del vicino, che passa
sul terreno bruciato dove
anni fa soleva razzolare una dozzina di galline
con un gallo che strillava tutto il giorno.

Mad People

Only birds and animals these days
Are sane and worth talking to.
I don’t mind waiting for a horse
To stop grazing and hear me out.

Even a tree is better company.
Some oak proud of its branches
Heavy with leaves too polite
To address a stranger above a whisper.

A crow would make a good friend.
The one I have my eye on
Knows me well, but is currently
Busy with something he’s spotted

In my neighbor’s yard, going over
The scorched ground where
Years ago a dozen hens used to roam
And a rooster who crowed all day. Continua a leggere

John Keats, Ode all’autunno

John Keats

All’autunno

Tempo di nebbie e d’ubertà matura,
Dell’almo sole amico prediletto;
Tu che, seco, la vite ti dai cura
Di far felice d’uve, intorno al tetto,
E di pomi i muscosi alberi adorni,
Gonfi la zucca, e alle nocciuòle un sapido
Gheriglio infondi, e i frutti empi di nettare,
E ancor fai gemme, ultimi fior per l’api,
Ond’esse credon che coi caldi giorni
Sopra la terra Estate ognor soggiorni,
Per cui trabocca ogni umida celletta:

Chi non ti ha visto tra le tue ricchezze?
Talor chi cerca scopre te: sei colco
Su un’aia, pigro, ventilanti brezze
Fra i tuoi crini asolando; o presso un solco
Mezzo-mietuto, mentre il tuo falcetto
Lascia di tagliar l’erba e i fiori attorti,
T’infondono i papaveri il sopore;
O, attraversando un rivo, il capo eretto,
Come spigolatrice, a volte porti;
O, ad un torchio di sidro, gli occhi assorti
Tu fissi al gemitio per ore ed ore.

Dove son, dove i cantici di Maggio?
Non pensarvi, hai tu pur tua melodia:
Quando, affocando il dì che muor, d’un raggio
Roseo le stoppie opaca nube stria,
Un coro di zanzare si querela
Tra i salci fluviali, in basso o in suso
Spinte, secondo il vento cada o aneli,
E dai borri gli agnelli adulti belano,
Cantano i grilli, ed un gorgheggio effuso
Fa il pettirosso da un giardino chiuso,
Rondini a stormi stridono pei cieli.

Traduzione di Mario Praz Continua a leggere

La poeta russa Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Поэт – издалека заводит речь.
Поэта – далеко заводит речь.

Планетами, приметами, окольных
Притч рытвинами… Между да и нет
Он даже размахнувшись с колокольни
Крюк выморочит… Ибо путь комет –

Поэтов путь. Развеянные звенья
Причинности – вот связь его! Кверх лбом
Отчаетесь! Поэтовы затменья
Не предугаданы календарем.

Он тот, кто смешивает карты,
Обманывает вес и счет,
Он тот, кто спрашивает с парты,
Кто Канта наголову бьет,

Кто в каменном гробу Бастилий
Как дерево в своей красе.
Тот, чьи следы – всегда простыли,
Тот поезд, на который все
Опаздывают…
– ибо путь комет

Поэтов путь: жжя, а не согревая.
Рвя, а не взращивая – взрыв и взлом –
Твоя стезя, гривастая кривая,
Не предугадана календарем!

8 апреля 1923 

Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.

Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo

è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello

che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,

che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo

è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…

8 aprile 1923  Continua a leggere

Una poesia di Charles Simic

Charles Simic

 

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

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da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan Continua a leggere

Mark Strand (1934 – 2014)

Mark Strand

Your shadow

You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys’ Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of Montreal.
The rooms in Belém where lizards would snap at mosquitos have given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow below, but when you arrived it was there to greet you. You had your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

By Mark Strand

 

La tua ombra

Hai la tua ombra.
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l’hanno restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te la restituivano.
Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata da un altro.
L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua.
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.

Traduzione di Damiano Abeni
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Yun Dong Ju, “Vento blu”

Yun Dong Ju (1917- 1945)

YUN DONG JU nasce il 30 dicembre 1917 a Longjing, nell’allora Manciuria, ora Cina settentrionale. Nel 1940 si laurea alla Yeonhui Techical School, che in seguito diventerà la Yonsei University.
Dopo la laurea si appresta a pubblicare una raccolta di diciannove poesie intitolata Cielo, vento, stelle e poesia, ma il professore al quale mostra la raccolta gli consiglia di rimandare la pubblicazione a un momento meno turbolento al fine di evitare la censura.
Nel 1942 si trasferisce in Giappone e e tra nel dipartimento di letteratura della Rikkyo University a Tokyo. Sei mesi dopo si sposta a Doshisha University a Kyoto.
Il 10 luglio viene arrestato per aver manifestato per l’indipendenza coreana. I suoi scritti vengono presi in esame e assunti come prove a suo carico. Il 31 marzo del 1944 Yun Dong Ju viene condannato dalla corte regionale di Kyoto a due anni di reclusione nel carcere di Fukuoka per aver violato la quinta legge sul mantenimento dell’ordine pubblico. La mattina del 16 febbraio 1945 Yun Dong Ju muore durante il periodo di reclusione.
Ancora oggi non sono chiare le cause della sua morte. Si pensa che nel carcere di Fukuoka dov’era recluso fossero stati messi in atto esperimenti medici sui detenuti.
Nel 1948 per interessamento dell’amico Chong Chiyong, al quale Yun Dong Ju aveva affidato alcune delle sue poesie scritte in Giappone, viene pubblicata postuma la raccolta di trentuno poesie Cielo, vento, stelle e poesia.

Questa edizione è a cura di Eleonora Manzi, ed è la prima traduzione in italiano dell’intera opera poetica conosciuta di Yung Dong Ju, (Ensemble editore, 2020).

PROLOGO

Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte
senza provare la minima vergogna,
anche per il vento che agita le foglie
ho provato tormento.
Con il cuore che celebra le stelle
so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte
e devo seguire ogni strada
che mi è stata assegnata.

Anche questa notte il vento graffia le stelle.

20 novembre 1941

 

AUTORITRATTO

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un
[campo di riso dove trovo un pozzo abbandonato e
[guardo dentro.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si
[addensano, il cielo vasto che si dilata, il vento blu e
[l’autunno.

Vedo anche un uomo.
Senza una ragione lo odio e mi allontano.

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno
[indietro e l’uomo è ancora là dentro.

Di nuovo provo odio per lui e vado via.
Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole
[addensate, il cielo vasto che si dilata, il vento blu,
[l’autunno e c’è un uomo simile a un ricordo.

Settembre 1939 Continua a leggere

Il grande poeta siriano, Adonis

Adonis

Adonis

Oggi ho la mia lingua

Ho distrutto il mio regno
ho distrutto il mio trono, le mie piazze e i miei portici
e con la forza dei polmoni ho iniziato
a insegnare al mare le mie piogge, regalargli
il mio fuoco e le mie braci
a scrivere il tempo che verrà sulle mie labbra.

Oggi ho la mia lingua
ho le mie frontiere, la mia terra, il mio aspetto
ho popoli che mi nutrono con la loro incertezza
e si illuminano con le mie rovine e le mie ali.

I canti di Mihyar il Damasceno (Mondadori, 2017), trad. it. Fawzi Al Delmi Continua a leggere

Yang Lian, da “Origine”

Yang Lian

The Landscape in the Room

thirty-two years old heard enough lying
no landscape can ever again enter this room
a corn-faced stranger
stands at the door hawking putrid stones
displaying tongue-fur a kind of eternity ground between the teeth

they or you are both cold cold enough to want
to be vomited up like the profane pictures on the walls
memory is a whole squad of weakening addresses
autumn’s bearded weeds dead under a bare yellow-gold foot

Someone (leaning) by the window hears the herds of stars disappear
the night-long wind’s sound seems like falling pears
the empty room is thrown away

wavering and wavering again in your naked flesh
dismemberment like sky and water
wet sun forgot everything as it howled in pain
no landscape can ever again enter this landscape
to do you to death

until the last bird has also escaped into the sky
colliding within that hand frozen into blue veins

wherever you lock yourself
there the room is fixed spacious echoes
recite the darkness
bury your heart’s only landscape

lie

Il paesaggio nella stanza

a trentadue anni ha udito abbastanza menzogne
alcun paesaggio potrà entrare ancora in questa stanza
uno straniero dal volto banale
sta davanti alla porta divulgando pietre putrefatte
mettendo in mostra i peli sulla lingua una specie di territorio tra i denti

loro o tu siete freddi freddi abbastanza da volere
venire rimessi come i quadri profani sui muri
la memoria è un intero drappello di indirizzi affievoliti
come l’erbaccia barbuta dell’autunno morta sotto un piede nudo giallo-oro

Qualcuno (affacciato) alla finestra sente la mandria delle stelle scomparire
il suono del vento che dura tutta la notte assomiglia al cadere delle pere
la stanza vuota viene buttata via
oscillando e oscillando ancora nella tua carne nuda
smembrata come il cielo e l’acqua

il sole bagnato ha dimenticato tutto mentre urla dal dolore
nessun paesaggio potrà entrare mai più in questo paesaggio
a farti morire

finché l’ultimo uccello non sia scappato nel cielo a sua volta
scontrandosi in quella mano congelata nelle vene blu

ovunque ti chiuda
là la stanza è bloccata echi spaziosi
a recitare l’oscurità
seppellisci l’unico paesaggio del tuo cuore

menti Continua a leggere

La poesia di Paul Éluard

Paul Éluard

 

L’eterna primavera nella poesia di Éluard

di Mario Famularo

 

Limitare la questione stilistica sulla poesia di Éluard alle istanze e caratteristiche del movimento surrealista, per quanto fondamentali a comprenderne la storia e il percorso letterario, sarebbe un errore: la sua parola nasce da un’altissima compenetrazione di convincimento etico, vicissitudine sentimentale e trasfigurazione di tali elementi verso l’universalità dell’esperienza umana, di ogni uomo e di ogni donna.

Nel corso della sua lunga opera poetica, da Capitale de la douleur a Le temps déborde, fino a Le phénix, le figure femminili sono sempre differenti, nella biografia dell’autore: dalla dolorosa separazione con Gala, avvenuta in giovane età, al lungo sodalizio con Nusch, che terminerà con la sua morte, fino alla rifioritura piena con Dominique, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita.

Ma “l’altezza del tono”, riconosciutagli anche da Fortini (che ha tradotto diversi suoi testi, in particolare raccolti in un pregevole lavoro antologico pubblicato da Einaudi) ha proprio tale caratteristica costante, nonostante i temi trattati si estendano alla riflessione civile e storica: quella sentimentale, in senso ampio.

Il perimetro delle singole personalità femminili tende a farsi sottile e a evadere dai margini identificativi e biografici, al punto che i suoi ultimi testi potrebbero benissimo riferirsi a ciascuna di esse, come se ogni donna della vita di Éluard avesse contribuito alla formazione di un’unica immagine femminile, assoluta, in cui ciascuna di esse converge; e a fronte di questo ricco femminino illimitato, le aspirazioni del poeta, anche quando sfiorano le tematiche civili, storiche e morali, tendono a replicare la medesima istanza di universalità anche con il valore umano del soggetto, dell’io lirico, verso la stilizzazione assoluta di un sentimento puro che unisce tutti gli uomini.

È una caratteristica che si evolve nel corso degli anni e delle opere, ma che già in pochi testi si può riconoscere per le caratterizzanti attribuzioni vicine al sacro, in cui l’intreccio con i residui dell’esperienza surrealista si impone in immagini cristalline, nitide, dove la dimensione del sogno si legittima come pura ed autentica interpretazione del reale.

E così la donna è “figlia di una primavera / che non finisce”, che ride dell’insensata violenza degli uomini, ed è “sempre in fiore”, con i “piedi fermi”, “tenera con i forti” e “debole con i teneri” – un’immagine in cui dolcezza e autorevolezza si intrecciano, dove la debolezza delle reciproche solitudini umane si fa possibilità di una forza illimitata che accomuni ognuna di esse: di solitudine in solitudine verso la vita.

E se la debolezza dell’ “uomo nel vuoto”, che si riconosce “sordo cieco muto / sopra un immenso piedistallo di silenzio nero”, in un “assoluto di uno zero ripetuto” sembra già, nel riconoscere la purezza della notte e l’immacolata bellezza del mondo, un’aspirazione sentimentale alla bellezza, tale debolezza si trasforma in valore umano, attraverso l’esperienza pura del sentimento, trasfigurata: “all’improvviso parlando mi sento vincitore / più chiaro e più vivo più fiero e migliore / più vicino al sole”, ed ecco che i riferimenti all’infanzia (“In me nasce un bambino … di sempre che nasce da un bacio unico”) impongono un sentire autentico e allo stesso tempo primigenio, incorrotto e viscerale, non mediato: “la morte è vinta e un bambino emerge dalle rovine / dietro di lui le rovine e la notte scompaiono”.

La notte, che nella solitudine era pura, svanisce di fronte alla potenza di questa assolutizzazione dell’esperienza sentimentale, che in Éluard diventa totalizzante, incontro tra tutti gli uomini e tutte le donne, moltiplicate in un unicum attraverso un gioco di specchi (e gli specchi sono assai frequenti nella sua poesia).

E l’immagine di questo sentimento assolutizzante, pieno e universale, che unisce ogni esperienza umana in una vitalità illimitata, innocente e sacra, pure se “in un mondo spietato”, protegge dalla morte, dalla corruzione, dalla dissolvenza, dalla caduta di senso cui si riferiva con quella “solitudine compiuta”, quel “nulla … oblio senza limiti”, perché “non c’è notte per noi / nulla di ciò che perisce può toccarti” – ed Éluard lo scrive pochi anni dopo la scomparsa dell’amata Nusch, proprio perché il sentimento sopravvive ai singoli uomini, alle singole relazioni, alla stessa specie umana, sembrerebbe suggerire, attraverso il suo riflesso (il suo specchiarsi) in ogni altra esperienza analoga, attraverso la sua assolutizzazione nella dimensione del sogno e del sacro, attraverso la consacrazione della vitalità che l’accompagna. Continua a leggere

La poesia di Vladimir Holan

Vladimir Holan

Je jaro … V noci, v hodinu lichou
slyšel, jak pláče réva,
ačkoli veliký hluk dělala voda,
ztrácející se z rybníka dírou,
kterou do hráze navrtal úhoř …
Co mu zbývalo, než aby,
zamilován až po uši hudby do mizení,
propadal hrdlem vzlyků útrpnému právu němoty?
A přece, ejhle, krása pojednou
a milost, s kterou nám ji sdílel!

 

E’ primavera… Di notte, nell’ora vana
udì gemere la vite,
nonostante il forte rumore dell’acqua
che si perdeva dallo stagno attraverso un foro
scavato nella diga dall’anguilla…
Che altro restava a lui, se non patire,
innamorato fino al collo della musica che svanisce,
il pianto e la tortura della mutezza?

***

Spatřil ji jenom jednou.
Ale od té chvíle žasl
a začal předzpěvovat, aniž měl komu,
a začal spoluzpívat, aniž kdo s ním šel…
Po celý rok osmělil se ji takto zbožňovat,
přítomný do budoucna, jak už doufal,
zatímco netuše se těžce vracel
od Panny Marie k Evě …

Potom jí napsal.
Byl to muž a měl tedy strach.
Přečtla si jeho dopis při světle krbu,
do kterého jej potom vhodila.
A on si přečetl její odpověď při světle od sněhu,
který nikdy neroztává …

La vide soltanto una volta.
Ma da quell’istante stupì
e intonò un canto ma non sapeva a chi,
e intonò un coro ma nessuno lo seguì…
Osò adorarla così per un anno intero,
presente per il futuro, come ormai sapeva,
laddove ignaro pesantemente ritornava
da Maria Vergine a Eva….

Poi le scrisse.
Era un uomo e quindi aveva paura.
Lesse la sua lettera alla luce di un camino
nel quale poi la gettò.
Ed egli lesse la sua risposta alla luce di una neve
che mai si scioglie…

***

Zimničné paprsky lůny
a třesoucí se ty, ubohý Mozarte!
Prstomluva hluchoněmých není tak šílená,
protože při ní jsou aspoň dva živí …

Cítíš budoucně skonalý čas …
Kdyby tak najednou přišel aspoň jeden z těch,
co budou na tvém pohřbu,
a tedy nikdo!

Febbrili raggi della luna
e tu tremi, misero Mozart!
Il diteggiare dei sordomuti non è così folle,
perché in esso i vivi sono almeno due…
Senti prossimo il tempo finito…
Se almeno uno d’improvviso venisse di coloro
che saranno al tuo funerale,
e dunque nessuno!

Vladimir Holan, dai Quaderni di Traduzioni, XV, Aprile 2013 (Rebstein), cura e traduzione di Sergio Corduas. Continua a leggere

La poesia di Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij

Altre ombre che m’appaiono,
altra la miseria che canta per me:
il legatore ha dimenticato lo zigrino
e il tintore non tinge le tele;

la musica del fabbro, contata
in tre quarti, a tre martelletti,
non si svelerà oltre la svolta
prima d’uscire dalla città;

ai suoi crochet la merlettaia
non si siede alla finestra dal mattino,
e lo stagnino, uccello zingaresco,
non fa fumo con l’acido al fuoco;

l’orafo ha gettato il suo martelletto,
è finito il filo d’oro.
Osservare il morire dei mestieri
è come sotterrare se stessi.

E di già la lira elettronica,
di nascosto dai suoi programmisti,
compone versi di Kantemir
per finire con un proprio verso.

*

Studio su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno,
scivolo tra due macine come un chicco di grano nel rotare delle pietre,
sono per intero già immerso nello spazio a due dimensioni,
il mulino della vita e della morte m’ha spezzato la spina dorsale.

Cosa fare, o pastorale d’Isaia, della tua rettitudine?
La pellicola senza tempo, né alto, né basso, è più fine d’un capello.
Nel deserto il popolo si radunava sui massi, e nell’arsura
la pianeta di stuoia da re mi recava sollievo alla pelle.

Arsenij Tarkovskij, due testi tratti da “Stelle tardive”, Giometti&Antonello, 2020, trad. di Giario Zappi Continua a leggere

Una poesia di Laurent Grison

Laurent Grison

Nube

a Roula Safar

quando l’ardore della poesia
brucia la polvere
dell’occhio aperto al battito
nube d’ora in poi
canta nel frattempo
i suoni liberi
d’ogni misura
che accelerano senza fine
il ritmo dei mondi

traduzione Viviane Ciampi

Nuée

à Roula Safar

quand l’ardeur du poème
brûle la poussière
de l’œil ouvert au clin
nuée déjà et d’ores
chante en un laps
les sons libres
de toute mesure
qui accélèrent sans fin
le rythme des mondes

Laurent Grison, poesia-spartito per mezzo-soprano chitarra e percussioni – Disegno a China su carta  (aprile 2021) -partition-poème pour mezzo-soprano guitare et percussions dessin à l’encre de Chine sur papier, Laurent Grison, 2021

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Quando quaranta inverni assedieranno la tua fronte

Camelie rosse, a tutte le donne ph. Luigia Sorrentino

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua fronte
Scavando trincee fonde nel campo della tua bellezza,
L’imponente livrea dell’ammirata giovinezza
Sarà ridotta a uno straccio d’abito tenuto in poco conto:
Se allora si chiedesse dove la tua bellezza giace,
Dove tutto il tesoro dei giorni caldi di vigore,
Dire: nei tuoi propri occhi infossati profondamente,
Mostrerebbe con indiscreta lode, ingiuria implacabile.
Ma quale lode ispirerebbe la tua bellezza logora
Se tu potessi replicare: “Questo mio ragazzino,
Assolverà il mio debito, scusabile farà ch’io invecchi”,
La sua bellezza dimostrandosi, per successione, tua!
Sarebbe il tuo rinnovamento quando già sarai vecchio,
Vedresti il tuo sangue ardere quando già ne sentirai il gelo.

 

William Shakespeare

(Traduzione di Giuseppe Ungaretti) Continua a leggere

Ucciso il poeta K Zar Win

K Zar Win

UN INTERVENTO DI CARLA BURANELLO

Il poeta del Myanmar K ZAR WIN è stato ucciso

Un movimento non violento di disobbedienza civile si sta diffondendo nel Myanmar per protestare contro il colpo di stato militare che il primo febbraio di quest’anno ha imposto per un anno lo stato di emergenza.

Le forze di polizia stanno rispondendo con violenza.

Mercoledì 3 marzo 2021 sono rimasti uccisi, in un solo giorno, 38 manifestanti. Numerose altri, tra cui anche giornalisti e reporter, sono stati tratti in arresto.

Secondo Pen America, sono più di 1.100 le persone attualmente detenute in carcere. Tra le vittime due poeti, K Zar Win e Daw Kyi Lin Aye.

Il poeta e traduttore Ko Ko Thett era in contatto con K Zar Win e già a gennaio aveva tradotto in inglese e diffuso una sua poesia, come spiega nel necrologio che segue. Questa poesia è stata ora tradotta anche in italiano e in spagnolo (ed è in corso di traduzione in polacco).

Dal poeta e traduttore Ko Ko Thett:

“Necrologio” : Poeta K Zar Win (1982-2021)

Il poeta K Zar Win, le cui poesie sono apparse su riviste del Myanmar a partire dal 2004, è stato ucciso nel corso di una protesta a Monywa, il 3 marzo 2021. K Zar Win era nato in una famiglia contadina, nel Latpadaung vicino a Monywa, nel 1982. La regione del Laptadaung è luogo di conflitti dal 2010, a seguito del trasferimento forzoso di varie comunità rurali imposto dalla compagnia mineraria cinese Wanbao Copper Mining Ltd.

La violenta repressione della polizia del Myanmar nei confronti degli abitanti in lotta contro l’impresa cinese, rivelò il lato oscuro della “transizione democratica” del Myanmar.

K Zar Win fu uno degli studenti universitari che manifestarono da Mandalay a Yangon nella “Lunga Marcia per le Riforme Educative”. Per questo fu condannato a un anno e un mese di carcere, durante i quali pubblicò “La mia risposta a Ramond”. La poesia che segue è tratta da “La mia risposta a Ramond” che misi in circolazione a gennaio. K Zar Win mi scrisse per dirmi quanto avesse apprezzato la traduzione. Gli risposi:
“Abbi cura di te, fratello”.

Caro Padre,
il Fiume dal ventre
squarciato
ha dichiarato guerra
alla nostra minuscola casa sulla riva, non è così?
Proprio davanti a casa
starai cercando chi
ti aiuti a rafforzare
l’argine con dei pali
per contenere il fiume,
a tappare i buchi con
sacchi di sabbia.
Nell’acqua torbida,
che cresce come il fusto del bambù,
starai guardando
il campo di sesamo –
carico di frutti
pronti per il raccolto.
Starai pensando
al pugno di riso che ti sarà tolto
di bocca con la forza.
Forse troverai conforto
nella religione, contemplerai
i nostri cinque nemici.
Forse penserai
al vuoto
che il lavoro di un figlio può riempire.
Un figlio, due figlie e ancora un figlio;
Il più grande è un poeta in prigione,
la prima figlia, un’insegnante,
la seconda, è diplomata cuoca,
il più piccolo, studia ancora.
Il figlio poeta,
può almeno essere utile
quanto la dah che usi per estirpare le erbacce?
Non perdonare nulla, Padre.
Nulla!
“Pho Chan, figlio,
cosa sono quei rumori intorno a te?”,
hai chiesto al telefono.
“Sono alla fermata dell’autobus
vado a imbucare un articolo per un giornale”, ho mentito.
Da tuo figlio bugiardo sul banco degli imputati
ai delinquenti che ti blandiscono
con le loro lingue puntute,
“Ai nostri benefattori contadini…”,
perché vogliono prenderti alle spalle,
odiali tutti, Padre.
Odiali tutti.
Il ladro non è
armato.
Un delinquente è
armato fino ai denti.
Se i ladri sono ingovernabili,
se i delinquenti sono ingovernabili,
a cosa serve il governo?
Qualunque cosa accada alle giungle
qualunque cosa accada alle montagne
qualunque cosa accada ai fiumi
a loro non importa.
Amano il paese
come amano scavare una noce di cocco,
dall’interno verso l’esterno,
per estrarne il latte.
Mattone dopo mattone, per innalzare il loro trono,
punteranno i fucili all’urna
sulla fronte del Signore Buddha.
Così ostile è il loro stile.
Se la tua religione ti impedisce
di maledire quello stile
lascia che io abbandoni quella religione.
Riporterò l’azzurro nel cielo
per te.
Forse ancora non lo sai
tuo figlio è stato
arrestato
perché ha chiesto alla sedicente polizia
di non fare del male a dei civili.
Un giorno
tuo figlio, che non è un ladro
né un delinquente,
diventerà utile,
proprio come la tua dah che estirpa le erbacce.
Per ora, Padre,
continua a guardare il campo
che hai arato con la forza delle tue spalle nude.
Continua a cantare
l’inno
dell’Unione Contadina.
Sempre tuo,
K Za Win

Cella 1, Sezione 10
Prigione di Thayawaddy

Traduzione di Carla Buranello Continua a leggere

Henry Reed (1914-1986)

Henry Reed

A CURA DI GIORGIA SENSI

Benché sia stato scrittore e poeta prolifico, Henry Reed è conosciuto dalla maggior parte dei lettori per un’unica poesia, “Naming of Parts”. Come poesia di guerra, è forse la più antologizzata nel Regno Unito.

Reed in realtà la vera guerra non la vide. Fu arruolato nel 1941 ma non partecipò mai a un combattimento, anzi nemmeno lasciò l’Inghilterra. Lavorò alla decifrazione dei messaggi in codice, prima italiani e poi giapponesi.

Nei pochi mesi in cui servì l’esercito, poté seguire un corso di base all’uso delle armi che consisteva in lunghi e noiosi addestramenti.

Per divertire i compagni, faceva delle imitazioni comiche del sergente istruttore, e dopo un po’ si rese conto che il linguaggio che questi usava, tratto da un manuale dell’esercito, rivelava una trama ritmica che poteva essere la base di una poesia.

In “Naming of Parts” si alternano due voci, quella dell’istruttore, nella prima parte di ogni stanza, che parla con frasi semplificate e meccaniche, seguita, in un flusso senza interruzioni, da quella della giovane recluta annoiata, sognante, lirica.

Ne risulta una spiritosa parodia dell’esercito e della sua scarsità di attrezzature, e un tono di arguto e “understated” antimilitarismo.

 

NAMING OF PARTS  

 

Today we have naming of parts. Yesterday,
We had daily cleaning. And tomorrow morning,
We shall have what to do after firing. But today,
Today we have naming of parts. Japonica
Glistens like coral in all the neighboring gardens,
And today we have naming of parts.

 

This is the lower sling swivel. And this
Is the upper sling swivel, whose use you will see,
When you are given your slings. And this is the piling swivel,
Which in your case you have not got. The branches
Hold in the gardens their silent, eloquent gestures,
Which in our case we have not got.

 

This is the safety-catch, which is always released
With an easy flick of the thumb. And please do not let me
See anyone using his finger. You can do it quite easy
If you have any strength in your thumb. The blossoms
Are fragile and motionless, never letting anyone see
Any of them using their finger.

 

And this you can see is the bolt. The purpose of this
Is to open the breech, as you see. We can slide it
Rapidly backwards and forwards: we call this
Easing the spring. And rapidly backwards and forwards
The early bees are assaulting and fumbling the flowers:
They call it easing the Spring.

 

They call it easing the Spring: it is perfectly easy
If you have any strength in your thumb: like the bolt,
And the breech, the cocking-piece, and the point of balance,
Which in our case we have not got; and the almond blossom
Silent in all of the gardens and the bees going backwards and forwards,
For today we have the naming of parts.

 

IL NOME DEI COMPONENTI

 

Oggi abbiamo il nome dei componenti. Ieri,
Abbiamo avuto la pulizia quotidiana. E domattina,
Avremo cosa fare dopo lo sparo. Ma oggi,
Oggi abbiamo il nome dei componenti. La japonica
Riluce come corallo nei giardini adiacenti,
E oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

Questo è l’anello inferiore per la cinghia. E questo,
È l’anello superiore per la cinghia, ne capirete l’uso,
Quando avrete la cinghia. E questo è il gancio per la rastrelliera,
Che nel vostro caso non avete. I rami
Nei giardini mantengono pose silenziose ed eloquenti,
Che nel nostro caso non abbiamo.

 

Questa è la sicura, si rilascia
Con un semplice scatto del pollice. Che non vi veda
Mai usare un altro dito. E’ un gesto facile
E richiede solo un minimo sforzo del pollice. I boccioli
Sono fragili e immobili, e stanno bene attenti
A non farsi vedere a usare un altro dito.

 

E questo che potete vedere è l’otturatore. Serve
Ad aprire la culatta, come vedete. Lo possiamo far scorrere
Rapidamente avanti e indietro: lo chiamiamo
Innescare. E rapide avanti e indietro
le prime api assalgono e frugano i fiori:
Lo chiamano innescare la primavera.

 

Lo chiamano innescare: è facilissimo e richiede
Solo un minimo sforzo del pollice: come l’otturatore,
E la culatta, il tiretto, e il punto di bilanciamento,
Che nel nostro caso non abbiamo; e il mandorlo fiorisce
In silenzio nei giardini e le api s’affannano avanti e indietro impazienti,
Perché oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

da A Map of Verona, J. Cape, 1946 – traduzione di Carla Buranello Continua a leggere

Il poeta cileno Mario Meléndez

Mario Meléndez

ARTE POETICA

 

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

La mucca abbandona il paesaggio
continuiamo a sentire i muggiti
la nostra memoria adesso pascola
in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria
le parole cambiano nome
ci soffermiamo a piangere
sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto
le parole stanno sulla sua groppa
il linguaggio si burla di noi

 

ARTE POÉTICA

Una vaca pasta en nuestra memoria
la sangre escapa de las ubres
el paisaje es muerto de un disparo

La vaca insiste con su rutina
su cola espanta el aburrimiento
el paisaje resucita en cámara lenta

La vaca abandona el paisaje
continuamos escuchando los mugidos
nuestra memoria pasta ahora
en esa inmensa soledad

El paisaje deja nuestra memoria
las palabras cambian de nombre
nos quedamos llorando
sobre la página en blanco

La vaca pasta ahora en el vacío
las palabras están montadas sobre ella
el lenguaje se burla de nosotros Continua a leggere

Sotirios Pastakas, da “Canti di misconosciuta gloria”

Sotirios Pastakas/ Credits ph. Dino Ignani

A N T E P R I MA        E D I T O R I A L E

Oggi, 13 dicembre 2020, in occasione del 66esimo compleanno di Sotirios Pastakas, pubblichiamo due sue poesie inedite tratte da Canti di misconosciuta gloria, in preparazione dalle Edizioni Multimedia di Salerno, nella traduzione dal greco di Maria Allo. Pastakas, tradotto il 16 lingue, è considerato da molti uno dei maggiori poeti del nostro tempo.

 

ΝΟΣΤΑΛΓΙΑ ΤΗΣ ΤΖΙ ΜΠΙ

Τα μεγάλα μπαρ έχουν
μικρές περιστρεφόμενες πόρτες.
Στα λαϊκά, αντιθέτως
μπαίνεις από παντού
-κι από τις τζαμαρίες.
Τώρα που σκορπιστήκαμε
στην περιφέρεια σαν ΑΑ
(αμετανόητοι αλκοολικοί)
και κατακτήσαμε
κάθε γωνιά της Αθήνας,
άλλος στα Πετράλωνα
και άλλος στη Γλυφάδα,
απόστολοι του ρήματός σου
Κύριε Νικολόπουλε,
τώρα που η Πλατεία Συντάγματος
έχει γεμίσει σκηνές και παραπήγματα,
και η Τζι Μπι γέμισε σκαλωσιές
και χτίστηκε η πόρτα της,
η πόρτα που μόνο εσύ
θα μας ανοίξεις πάλι
το προσεχές Ιωβηλαίο,
γιατί δεν νοείται Πάπας
χωρίς καρδινάλιους,
κι Οδύσσεια δίχως συντρόφους.
Κύριε,
ελπίζουμε σε μια επιστροφή:
όπως ελπίζει ο ακρωτηριασμένος
να ξαναβρεί το ακρωτήρι του
κι ο ερωτευμένος τη δύναμη
να μισήσει πάλι
κι η γυναίκα να ξαναστήσει
το στήθος της,
κι ο άντρας να πάρει πίσω
τις τρίχες που έχασε σαν όνειρα
πάνω στο μαξιλάρι,
που τα σβήνει ένα καλό πρωινό
με σολομό και σαμπάνια,
κι ο φίλος να ξαναδεί την ανατολή
από μια ταράτσα πάνω στη θάλασσα
άμα χαράζει στο Αιγαίο,
περιμένω να χαράξει Κύριε
πάνω στο μόγκανο της μπάρας,
εκεί στο δεύτερο πάντα σκαμπό
εκ δεξιών του μπάρμαν,
εφόσον θα ξανανοίξει η Τζι Μπι
κι ο Τζιόβε Μπενεφακτόρους
επιτρέψει
να γεμίσει πάλι με Αρβανίτες
η πλατεία Συντάγματος
και μετανάστες κι επαρχιώτες
που θα σουλατσάρουν άσκοπα
και θ’ ανταλλάσσουν κινητά
βλέμματα και βιώματα,
ας επιτρέψει και σε μένα
να είμαι πάντα εκεί
δεύτερο σκαμπό
στ’ αριστερά της σάλας
ώσπου να με ρίξεις κάτω Κύριε,

να πίνω, να καπνίζω και να σκέφτομαι.

NOSTALGIA DI GB

I grandi bar hanno
piccole porte girevoli.
In quelli popolari, al contrario
arrivi da ogni dove
-pure dalle finestre.
Adesso che siamo sparsi
in periferia come AA
(alcolisti impenitenti)
e abbiamo conquistato
ogni angolo di Atene,
uno a Petralona
e un altro a Glyfada,
apostoli del tuo verbo
Signor Nikolopoulos,
ora che piazza Syntagma
è diventata un cantiere edile,
e GB è coperta da impalcature
e hanno murato la sua porta,
la porta che solo tu
riaprirai per noi
nel prossimo Giubileo,
perché non si intende un Papa
senza cardinali,
e Ulisse senza compagni.
Signore,
speriamo in un ritorno:
come spera il mutilato
per riscoprire il suo mantello
l’innamorato nel potere
odiare di nuovo
e la donna per rialzarsi
i seni,
e l’uomo riavere
i capelli persi come sogni
sul cuscino,
cancellati da una buona colazione
con salmone e champagne,
e l’amico per rivedere l’alba
da un tetto sul mare
quando albeggia nell’Egeo,
sto aspettando che fa giorno
sul mogano del bar, Signore
lì sempre sul secondo sgabello
a destra del barista,
se GB riapre
e Giove Benefactorus
permetta
di essere riempita di nuovo con forestieri
la piazza Syntagma
e immigrati e provinciali
gironzolare senza meta
e scambiarsi cellulari
sguardi ed esperienze,
lascia
che anche io ci sia sempre
sul secondo sgabello
a sinistra della sala
sino ad abbattermi, Signore,
a bere, fumare e pensare.

(GB, il mitico bar dell’albergo Gran Bretagna, su piazza Syntagma ad Atene, di proprietà e gestione Italiane) Continua a leggere

Poesie di Jane Hirshfield

Jane Hirshfield

Tratte da “Ogni felicità assediata dai leoni” di Jane Hirshfield, traduzione e cura di Loredana Foresta e Andrea Sirotti, Elliot edizioni. © 2020 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione.

Da Capo

Take the used-up heart like a pebble
and throw it far out.

Soon there is nothing left.
Soon the last ripple exhausts itself
in the weeds.

Returning home, slice carrots, onions, celery.
Glaze them in oil before adding
the lentils, water, and herbs.

Then the roasted chestnuts, a little pepper, the salt.
Finish with goat cheese and parsley. Eat.
You may do this, I tell you, it is permitted.
Begin again the story of your life.

Da capo

Prendi il cuore logoro come un sasso
e lancialo lontano.

Presto non ne rimarrà nulla.
Presto l’ultima increspatura si esaurirà
tra le erbacce.

Una volta a casa, affetta carote, cipolle, sedano.
Glassali in olio prima di aggiungere
le lenticchie, acqua e odori.

Poi le caldarroste, un po’ di pepe, sale.
Completa con formaggio di capra e prezzemolo. Mangia.
Puoi farlo, davvero, ti è concesso.
Ricomincia la storia della tua vita. Continua a leggere

Robert Minhinnick, poesie scelte

Robert Minhinnick

A Welshman’s Flora

Ivy

They read poems here every year
In memory of the last king,
Ambushed and strung up.
But he was no better than he might have been –
That leather apron over his arse,
An iron lid on his heart.

Carnation

I stayed in Richard Burton’s buttonhole
A whole week. He never even changed his underwear.
And always the same formula:
Start with champagne, finish with scotch.
That kind of desperation is what life’s all about.
I wouldn’t have missed it for the world.

Pansy

Life was so simple then, didn’t know I was born,
A well-kept border round a new-mown lawn,
Slug pellets scattered like small sapphire stones,
Then she sews me on her knickers and throws me at Tom Jones.

Saguarao

I was raised in Swansea, up on the Buckskin,
South of the Bill Williams,
And flowered regular every year.
But it’s a ghost-town now, the doors
Stove in and the power off.
You could be a genius there
And nobody around to give a damn.

Rose

Anthony Hopkins was right.
When I look in the mirror
I don’t know who I am.
The aliases, the identities
Are like someone else’s dream.
I’ve even thought of going home
But there can’t be anyone left by now. Continua a leggere

Paul Celan, “Conseguito silenzio”

Paul Celan

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
gröBere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weiliere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

L’altro

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

*

Auch wir wollen sein,
wo die Zeit das Schwellenwort spricht,
das Tausendjahr jung aus dem Schnee steigt,
das wandernde Aug
ausruht im eigen Erstaunenund
Hütte und Stern
nachbarlich stehn in der Bläue,
als ware der Weg schon durchmessen

Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia,
il millennio giovane si alza nella neve,
l’occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.

da “Conseguito silenzio” a cura di Michele Ranchetti, Einaudi, 2010 Continua a leggere

Sheenagh Pug, poesie

Sheenagh Pug

Blue Plaque and Memorial Bench

i.m. George Mackay Brown

Every year, if I can, I’ll walk down
that street, as far as the flat

that was yours. I’ll read the blue plaque
on the wall, telling how long

you lived there, how long you were happy
to have no more of the world

than this. And then I’ll walk on
a little way, to the bench

they have named for you. It looks over
the harbour mouth, where the ships

come and go, where Franklin sailed out
into myth, where the men from the north

first entered this place and possessed it
by naming it. Here where you sat

and watched the whole world, living
and dead, come in on the tide.

Targa blu e panchina commemorativa

i.m. George Mackay Brown

Ogni anno, se potrò, camminerò
per quella strada, fino all’appartamento

che fu tuo. Leggerò la targa blu
sul muro, che dice per quanto tempo

hai vissuto lì, per quanto tempo ti è bastato
non avere altro dal mondo

che questo. E poi camminerò
ancora un po’, fino alla panchina

che ora porta il tuo nome. Guarda
l’imboccatura del porto, dove le navi

vanno e vengono, da dove Franklin salpò
verso il mito, dove gli uomini del nord

per primi entrarono e se ne impadronirono
dandogli un nome. Dove tu sedevi

a guardare il mondo intero, i vivi
e i morti, arrivare con la marea. Continua a leggere

Dylan Thomas, una poesia

Dylan Thomas

SPLENDESSERO LANTERNE

Splendessero lanterne, il sacro volto,
Preso in un ottagono d’insolita luce,
Avvizzirebbe, e il giovane amoroso
Esiterebbe, prima di perdere la grazia.
I lineamenti, nel loro buio segreto,
Sono di carne, ma fate entrare il falso giorno
E dalle labbra le cadrà stinto pigmento,
La tela della mummia mostrerà un antico seno.

Mi fu detto: ragiona con il cuore;
Ma il cuore, come la testa, è un’inutile guida.
Mi fu detto: ragiona con il polso;
Ma, quando affretta, àltero il passo delle azioni
Finché il tetto ed i campi si livellano, uguali,
Cosí rapido fuggo, sfidando il tempo, calmo gentiluomo
Che dimena la barba al vento egiziano.

Ho udito molti anni di parole, e molti anni
Dovrebbero portare un mutamento.

La palla che lanciai giocando nel parco
Non è ancora scesa al suolo.

Dylan Thomas, nella traduzione di Ariodante Marianni, Einaudi, 1965 Continua a leggere

Rilke, la percezione del terribile

Rainer Maria Rilke

COMMENTO DI MARIO FAMULARO

La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”

(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)

Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.

Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.

La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.

Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.” Continua a leggere

Octavio Paz, una poesia

Octavio Paz

PUERTA

¿Qué hay detrás de esa puerta?
No llames, no preguntes, nadie responde,
nada puede abrirla,
ni la ganzúa de la curiosidad
ni la llavecita de la razón
ni el martillo de la impaciencia.
No hables, no preguntes,
acércate, pega la oreja:
¿no oyes una respiración?
Allá del otro lado,
alguien como tú pregunta:
¿qué hay detrás de esa puerta?

PORTA

Che c’è dietro la porta?
Non chiamare, non chiedere, nessuno ti risponde,
niente può aprirla,
né il grimaldello della curiosità
né la chiavetta della ragione
né il martello dell’impazienza.
Non parlare, non chiedere,
avvicinati, incolla l’orecchio:
non senti respirare?
Di là, dall’altra parte,
qualcuno come te si chiede:
che c’è dietro la porta?

Traduzione di Stefano Strazzabosco.
Nell’immagine: Puerta, assemblaggio di Marie José Paz Tramini.

da Octavio Paz, Marie José Paz, Figure e figurazioni, Il Ponte del Sale, Rovigo 2018.

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Philippe Jaccottet, una poesia

Philippe Jaccottet

LETTRE

Michelle, nous avons été de ces oiseaux
qui se frôlent, portés en flèche à la lumière,
et se poursuivent en criant toujours plus haut
jusqu’à l’extase, trop pareille à l’éphémère…
– Mais plus d’images entre nous: j’ai dit en rêve
les mots qui rendent la distance un peu plus brève
entre nos corps, ces personnages infernaux;
tu savais en former d’assez étroits anneaux
pour qu’ils exultent à en oublier leurs frontières
et la mort qui attend, curieuse, derrière;
moi, j’étais trop souvent comme un enfant distrait,
je voyageais, je vieillissais, je te quittais,
et quand nous sommes remontés vers l’aube crue,
c’est un spectre que tu guidais de rue en rue,
là où le chant du coq ne pourrait plus l’atteindre.
Et pourtant cette ombre t’aimait… On ne sait pas
ce que l’on trouvera là-bas pour vous étreindre…
– Habitante de cette nuit, tu penseras
sans trop de haine à qui demeure on ne sait où
et te frôla comme un oiseau sur les paupières
puis monta, sans cesser d’apercevoir dessous
ton sourire scintiller comme une rivière…

Philippe Jaccottet

da “L’effraie et autres poésies”, Éditions Gallimard, 1953

LETTERA

Michelle, noi fummo uccelli che si sfiorano,
frecce verso la luce, che s’inseguono
gridando sempre piú in alto, fino all’estasi,
sorella dell’effimero.
− Non servono le immagini fra noi: dissi parole
in sogno, che rendono piú breve la distanza
fra i nostri corpi, figure infernali; tu sapevi
formarne degli anelli abbastanza stretti
perché esultassero scordando i loro limiti
e la morte che, curiosa, dietro aspetta;
io, ero troppo spesso un fanciullo distratto,
viaggiavo e poi invecchiavo, abbandonandoti,
e quando risalimmo su verso l’alba cruda,
era uno spettro che tu guidavi di strada in strada,
là dove il canto del gallo mai piú l’avrebbe raggiunto.
Eppure quest’ombra ti amava… E non sai mai
laggiú cosa ti attende, quale abbraccio…
− Abitante di questa notte, penserai
senza troppo odio a chi dimora chissà dove
e ti sfiorò come un uccello sulle palpebre,
poi risalí, senza cessare di scorgere in basso
il tuo sorriso scintillare come un fiume…

Philippe Jaccottet
Traduzione di Fabio Pusterla

da “Philippe Jaccottet, Il barbagianni. L’ignorante”, Einaudi, Torino, 1992 Continua a leggere

Fernando Pessoa (1888 – 1935)

Fernando Pessoa

Primiero
ULYSSES

O mito é o nada que é tudo
O mesmo sol que abre os céus
É um mito brilhante e mudo –
O corpo morto de Deus,
Vivo e desnudo

Este que aqui aportou,
Foi por não ser existindo.
Sem existir nos braços.
Por não ter vindo foi vindo
E nos creou

Assim a lenda se escorr
A entrar na realidade,
E a fecundá-la decorre
De nada, morre.

(Fernando Pessoa)

*

Primo
ULISSE

Il mito è il nulla che è tutto.
Lo stesso sole che apre i cieli
è un mito brillante e muto:
il corpo morto di Dio,
vivente e nudo.

Questi, che qui approdò,
non esistendo esistette.
Senza esistere ci bastò.
Non essendo venuto venne
e ci creò.

Così la leggenda scorre
entrando nella realtà,
e a fecondarla decorre.
in basso, la vita, metà
di nulla, muore.

(Trad. Giulia Lanciani) Continua a leggere

Edna St. Vincent Millay, “Poesie”

Edna St. Vincent Millay

Il mondo di Dio

Mondo, non so stringerti a me quanto vorrei!
I tuoi venti, i tuoi vasti cieli grigi!
Le tue brume che fluttuano e s’innalzano!
I tuoi boschi, questo giorno d’autunno dolente che declina,
tutto che quasi grida di colore! Quella squallida luce
stritolare! Sollevare quel nero, sottile promontorio!
Mondo, Mondo, non so domarti come vorrei!

Che in tutto ciò albergasse qualcosa di glorioso
lo sapevo da sempre, ma mai come quest’oggi:
qui c’è tanta passione che mi lacera —
io temo, Dio, che tu abbia reso il mondo
troppo bello quest’anno, mi lascia la mia anima…
Non far cadere una sola foglia di fiamma;
non un uccello, ti prego, intoni il suo richiamo.

 

A Kathleen

Come un tempo anche oggi il poeta
in una buia, gelida e misera soffitta
deve patire fame, freddo e scrivere
su cose come i fiori, il canto e te;

e come un tempo dare la sua vita
in dono alla Bellezza, per farla sopravvivere,
quella Bellezza che non può morire
finché ci sono i fiori, il canto e te.

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Ida Vitale, “Pellegrino in ascolto”

Ida Vitale

Da: LA LUZ DE ESTA MEMORIA
1949

LA NOCHE, ESTA MORADA

 

La noche, esta morada
donde el hombre se encuentra y está solo,
a punto de morir y comenzar a andar en aires otros.

El mundo va a perder nubes, caballos, vacila,
se asombra,
se deshace,
cae como en los bordes del deseo pero ya sin milagro.
Despacio la esperanza
viste su piel de olvido.
No veo más allá
de un nombre que he llamado letra a beso a caricia
a rosa abierta a vuelo ciego a llanto.

Y como todo está deposeído, todo con el pie justo
para tocar en tierra oscura,
el cielo vuelto un hueco sin voz y sin orillas,
ya no soy yo la pobre,

medida entre mortales, melancólicos aires,
cuerpo cegado de luz o simple lágrima.
Lo que este mar, esta crecida sombra
va perdiendo,
viene a salvarse en mí, nube siempre,
caballo azul,
eterno cielo.

 

NOTTE, QUESTA DIMORA

Notte, questa dimora
dove l’uomo si trova e sta solo,
sul punto di morire e cominciare a andare in altre arie.

Il mondo perderà nubi, cavalli, vacilla
meraviglia,
si dissolve,
cade come sul bordo del miraggio ma ormai senza miracolo.

Pian piano la speranza
si riveste di oblio.
E non vedo più in là
di un nome che ho chiamato
lettera un bacio una carezza
una rosa aperta un volo cieco un pianto.

E poiché tutto è privo di se stesso, tutto col piede pronto
per atterrare in terra scura,
il cielo fatto un buco senza voce e senza sponde,
non sono più io la povera,

compresa tra mortali, malinconiche arie,
corpo accecato di luce o pura lacrima.
Quello che questo mare, questa cresciuta ombra
va perdendo,
viene a salvarsi in me,
nuvola sempre,
cavallo azzurro,
eterno cielo.

 

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Adam Zagajewski, “Guarire dal silenzio”

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Adam Zagajewski, come ricorda Andrea Ceccherelli nel volume antologico Cose di Polonia (In forma di parole, 2001), «conosce due fasi distinte». La prima è legata al gruppo letterario Nowa Fala — che traduce l’espressione italiana Nuova Ondata  — con una poetica radicata nel tessuto sociale, tesa a cogliere istantaneamente la natura. Ciò pone un dilemma estetico, teorizzato nella raccolta di saggi Il mondo non rappresentato (scritto con Julian Kornhauser), per il quale il vero deve superare ogni compiacimento relativo all’ideale disincarnato del bello. Il compito della letteratura coincide essenzialmente con un progetto di «demistificazione della retorica di regime», che si attua nella denuncia alla falsità propagandista e nella restituzione di decoro alla lingua. La «generazione ’68» — Zagajewski nasce nel ’45 a Leopoli, trascorre l’infanzia in Slesia a Gliwice, compirà gli studi universitari a Cracovia — si sgretola, verso la fine degli anni Settanta, in tanti (micro e macro) percorsi autonomi. Del resto, suggerisce Ceccherelli, uno «sguardo retrospettivo» lascia trasparire fin nelle sue fondamenta «non un gruppo coeso», bensì una «federazione di individualità».


Dal 1983 con la raccolta Lettera. Ode alla pluralità Zagajewski sviluppa una visione molto meno inserita in istanze collettive, perché tende a confrontarsi con temi assai vicini a quella che, da Baudelaire in giù, è definita a rigore critico poesia metafisica. È a partire da tale svolta che la sua opera assume una più decisa dimensione internazionale. Un aneddoto su tutti: il futuro Premio Nobel Derek Walcott, leggendo in taxi Andare a Leopoli (un po’ come Heisenberg che in taxi ripensò a un passo del Timeo e scoprì il principio di indeterminazione), rimase letteralmente sbalordito. A dispetto della fama crescente, Zagajewski vive in questo periodo, per lungo tempo e con dolore, lontano da casa: l’anno precedente alla pubblicazione di Lettera, a causa della legge marziale polacca — il governo della Repubblica Popolare limitò drasticamente la vita quotidiana nel tentativo di annientare Solidarność – è costretto all’esilio e si rifugia a Parigi (nel biennio ’79-’81 era stato a Berlino per un’iniziativa di scambi culturali). Insegnerà, inoltre, negli Stati Uniti, precisamente a Houston e a Chicago. Soltanto dal 2002 tornerà a vivere per metà semestre in Polonia. Sono anni in cui Zagajewski affina parallelamente un metodo saggistico che lo congiunge all’elegante tradizione mitteleuropea. Con leopardiana destrezza perviene, infatti, a due pilastri indiscussi della sua scrittura: Tradimento, di cui nel 2007 è uscita l’edizione Adelphi, e La leggera esagerazione, composta un po’ à la Kertész, sfortunatamente ancora non edita nella nostra lingua, ma considerata dall’autore stesso uno dei suoi massimi lavori. La prosa coincide sostanzialmente con l’impegno epico sulle cose, con la solidarietà e la solitudine, fondamenti del vivere umano per penetrare l’enigma e il fascino della bellezza altrui (il titolo di un celebre saggio è Nella bellezza di qualcun altro).

 

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Addio a Anne Stevenson

Anne Stevenson

Solo qualche giorno fa avevamo pubblicato alcune poesie della poetessa Anne Stevenson senza sapere che ci stava per lasciare. Nata nel 1933 si è spenta il 14 settembre 2020, a 87 anni.

Anne Stevenson nata a Cambridge, in Gran Bretagna, aveva sei mesi quando i genitori, americani, ritornarono negli Stati Uniti. Crebbe e studiò prima nel New England, dove il padre insegnava filosofia a Harvard e Yale, poi a Ann Arbor, nel Michigan. In America studiò musica, pianoforte e violoncello, e letteratura europea. Sembrava avviata a una carriera concertistica ma, ancora molto giovane, iniziò ad avere seri problemi all’udito. Si dedicò allora completamente alla poesia. Dopo una serie di spostamenti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (ha risieduto in Inghilterra, Scozia e Galles), si è infine stabilita definitivamente in Inghilterra, a Durham, assieme al marito Peter Lucas.

È autrice di più di venti raccolte di poesia, le più recenti sono “Poems 1955-2005” (2005), “Stone Milk” (2007) e “Astonishment” (2012), tutte pubblicate da Bloodaxe, e di libri di saggi e critica letteraria che includono una biografia della poetessa Americana sua coetanea Sylvia Plath, Bitter Fame: “A Life of Sylvia Plath” (1989), un notevole studio critico dell’opera di Elizabeth Bishop, Five Looks at Elizabeth Bishop (Bloodaxe Books, 2006) e “About Poems and how poems are not about” (2017), basato su una serie di conferenze da lei tenute alla Newcastle University.

Ha vinto numerosi premi, in America e in Inghilterra, tra i quali nel 2002 il Northern Rock Foundation Writer’s Award e nel 2007 il Lannan Lifetime Achievement Award for Poetry e il Poetry Foundation’s Neglected Masters Award. Nel 2008, la Library of America ha pubblicato Anne Stevenson: Selected Poems, a cura di Andrew Motion, l’allora Poeta Laureato del Regno Unito, nell’ambito di una serie dedicata alle maggiori figure della poesia americana.

Una selezione di sue poesie, tradotte in italiano e curate da Carla Buranello, è stata pubblicata nel 2018, in edizione bilingue, da Interno Poesia Editore, con il titolo Le vie delle parole.

Il suo ultimo libro, “Completing the Circle”, è appena uscito in Inghilterra. Continua a leggere

Tre poesie di Abigail Ardelle Zammit

Abigail Ardelle Zammit

Sculpting the Girl with a Bee Dress *

One is not born, but rather becomes, a woman
–Simone de Beauvoir

Before her nipples blush
into stone buds,
he casts bees in wax
so her eyes are abuzz
with wings in flight,
her larval tongue
steaming pink and red.

Next, he hems her ovaries
into honeycombs,
graces her hands into
a hymn of flowers,
pins her forehead
inside a halo of sky.

He’d let her slumber
in honey and song
expecting no battle cry
in B sharp, nor the frenzy
of the swarm, the insect fury
that might kill him.

*Ispirato da Maggy Taylor, ‘Girl with a Bee Dress’

Pubblicato per la prima volta in ‘Bracken Magazine’
https://www.brackenmagazine.com/issue-vii/zammit-sculpting-the-girl-with-a-bee-dress

Scolpire la ragazza col vestito di api

Donna non si nasce, si diventa
Simone de Beauvoir

Prima che i capezzoli avvampino
in fioriture di pietra,
lui getta le api nella cera,
così gli occhi di lei sono
un pullulare di ali in volo,
la sua lingua di larva
un’effusione di rosa e di rossi.

Ripartisce
le ovaie in favi,
raffina le mani
in un inno di fiori,
appunta la fronte a
un alone di cielo.

La lascerebbe assopire
in miele e canto,
non si aspetta grida di guerra
in Si diesis, o la frenesia
dello sciame, la furia dell’insetto
che lo potrebbe uccidere. Continua a leggere

Carol Ann Duffy, “Sincerity”

In un’intervista rilasciata il 27 ottobre 2018 al quotidiano The Guardian, per presentare al pubblico di lettori la sua raccolta di poesie, intitolata Sincerity, Carol Ann Duffy spiegava la scelta del titolo dato all’opera che sarebbe stata pubblicata qualche settimana dopo e che è stata l’ultima alla successiva conclusione del ciclo decennale del suo mandato di Poet Laureate del Regno Unito che le era stato conferito il 1 maggio 2009: “Mi piace la parola ‘sincerità’, nel senso di parlare e comportarsi secondo le proprie convinzioni e i propri pensieri e sentimenti”. Inoltre la poetessa si
dichiarava ispirata anche dalla versione etimologica del termine, mutuata dalla vulgata, riferita alla pratica adottata da scultori mediocri e maldestri, ai tempi dell’antica Grecia e di Roma, nel tentativo di coprire con la cera, pecche e imperfezioni altrimenti visibili sulle proprie sculture. Da qui, appunto, il significato popolare del termine “sincerità”, dal latino sine cera, ossia senza cera, quindi genuino, autentico, non falso.

(Dall’introduzione di Floriana Marinzuli e Bernardino Nera)

Clerk of Hearts

As they step from the path onto the boats,
I am there at my place under the trees,
listing the Categories. Humility. Shame.

My dealings with life have been so long ago,
I imagine I resemble shadow or watermark.
I am unanswered prayer, like poetry. Dread.
Whatever I did – it might have been that – now,

I watch each one depart, perceive their hearts;
old diaries I read at a glance. Acceptance. Disdain.
They will forget, but I take Time, devoted,
clerk of hearts. Sometimes I stand on the bridge

as they drift away, being more and more dead…
a kingfisher arrowing upriver, joy as colour;
then thunder above, a boiling of last words,
and their crafts vanishing into the heavy rain.

Addetto ai cuori

Mentre salgono sulle barche, dal sentiero,
io sono lì al mio posto sotto gli alberi,
a elencare le Categorie. Umiltà. Pudore.

Le mie pratiche con la vita sono state sbrigate tanto tempo fa,
immagino di somigliare all’ombra o alla filigrana.
Sono una preghiera non esaudita, come la poesia. Terrore.
Qualunque cosa abbia fatto – può essere stato quello – ora

le osservo tutte andar via, percepisco i loro cuori;
vecchi diari letti in un batter d’occhio. Accettazione. Disprezzo.
Dimenticheranno, ma prendo il Tempo, devoto,
addetto ai cuori. A volte sosto sul ponte

mentre se ne vanno alla deriva sempre più morte…
un martin pescatore sfreccia controcorrente, gioia come colore;
poi un tuono in alto, un ribollire di ultime parole,
e le loro barche svanire nella pioggia fitta.

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