Alberto Casadei, “La rivoluzione poetica”

Alberto Casadei

La consapevolezza della metamorfosi.
Sul nostro tempo dopo il primo assalto del Covid

DI ALBERTO CASADEI

Dopo ogni evento traumatico per una collettività, adesso addirittura per il mondo intero, ci si interroga su come le arti, e in particolare la poesia, possano rispondere adeguatamente. In questo senso, le parole più celebri restano quelle perentorie di Adorno sull’impossibilità di scrivere dopo Auschwitz se non compiendo un atto “barbarico”, cioè di inconsapevole fruizione di un bello diventato ormai velenoso. Eppure grandissimi poeti come Celan vollero appunto scrivere per intercettare il senso dell’evento nefando.

Riproporre poesia o arti in genere come se nulla fosse accaduto sarebbe impossibile, certo, ma anche chiedere alla poesia una via maestra per indicare il futuro sarebbe velleitario. È in queste condizioni che si ripropone il senso perenne di ogni gesto artistico, quello di rendere percepibile un nucleo di senso altrimenti non evidente o addirittura occulto. Se fino a poco tempo fa pensavamo che la poesia in particolare andasse esclusivamente nella direzione dell’individualismo e del narcisismo, tipici della cultura occidentale, è chiaro che questo aspetto risulterà per tutti solo uno di quelli del ‘poetabile’, mentre si dovranno trovare i mezzi per descrivere una condizione di continua metamorfosi, nella quale all’improvviso gli spazi e i tempi che pensavamo fossero in nostro possesso sono ridiventati degli apriori che ci condizionano. Per alcuni mesi tutti siamo stati soprattutto tempo da riempire in uno spazio fisso, e ora dovremo riadattarci a spazi che ci risulteranno estranei, produrranno senz’altro l’Unheimlich come tutto ciò che pensavamo nostro e torna a noi come ‘altrui’.

Noi ci sentiremo come parti di una trasformazione, che è la condizione che in genere percepiamo come controllabile, all’interno delle nostre vite quotidiane, e invece non lo è: come nell’immagine di Escher che accompagna queste righe, passiamo dalla materia bruta alla costruzione razionale, dall’animalesco al civilizzato, dall’indistinto all’individuale – ma possiamo anche compiere il cammino inverso. In questa metamorfosi incessante la poesia dovrà trovare i motivi per cui è giusto cercare una strada, una direzione che riguardi l’umanità di tutti. Continua a leggere

Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

«L’ho letto su un foglio di un giornale. Scusatemi tutti.»

Mario Benedetti, poeta italiano foto di proprietà dell’autore

Giornale di un infante saggio (e insolente)

di Alessandro Anil

 

Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.

Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».

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Sloterdijk, “La mano che prende la mano che dà”

Nello scaffale: Peter Sloterdijk
“La mano che prende la mano che dà”
Raffaello Cortina Editore 2012 (euro11,00)
a cura di Luigia Sorrentino

Peter Sloterdijk, il filosofo antitasse
di Laura Cervellione

Perché la filosofia non può parlare di tasse? Soprattutto quando il fisco diventa una selva oscura, il filosofo avrebbe buon diritto di accendervi un po’ di lumi. Così rivendica Peter Sloterdijk in alcuni interventi sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, andati a comporre un volumetto polemico, La mano che prende e la mano che dà. Una mano che tormenta il teutonico di Karlsruhe, tanto da convincersi che non è l’Essere, né il Tempo, ma sono le Tasse l’assillo più orizzontale del pianeta. Giacciono lì, nella loro datità, senza che nessuno le abbia mai decentemente giustificate. Continua a leggere

Walter Benjamin, “L’opera d’arte”

L’opera d’arte – nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Tre versioni (1936-39), a cura di Fabrizio Desideri, Donzelli editore 2012.

Tra il 1935 e il 1939 Benjamin lavorò a più riprese al suo saggio forse più celebre: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un vero e proprio cantiere, accompagnato da un’avventurosa e complicata vicenda editoriale, sino ad oggi colpevolmente trascurata. Questa edizione, curata da uno dei più importanti studiosi italiani di Benjamin, offre al lettore per la prima volta insieme la traduzione delle tre principali stesure del saggio: la versione francese uscita nel 1936, tradotta da Pierre Klossowski, con la decisiva supervisione dello stesso Benjamin, e le due versioni tedesche, una del 1936 e l’altra scritta tra l’estate del 1936 e il 1939, in ciascuna delle quali l’autore apporta sostanziali cambiamenti alla prima versione tedesca manoscritta del 1935, che rifluisce per intero nelle successive due. Fondamentale in questo senso poter entrare nel laboratorio Benjamin: l’unico modo per farlo è avere sotto gli occhi gli interventi del filosofo tedesco nelle due stesure.
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