Intervista a Julia Hartwig

Julia Hartwig

Intervista di Luigia Sorrentino a Julia Hartwig, realizzata  all’Istituto Polacco di Roma nell’ottobre del 2007. E’ la prima video intervista in Italia alla famosa poetessa polacca.

Julia Hartwig nata in Polonia, a Lublino nel 1921, insieme alla contemporanea Wislawa Szymborska, è considerata una delle maggiori poetesse del Novecento. Nel 2007 la prima antologia di poesie della Hartwig, dal titolo “Sotto quest’isola” , traduzione di Silvano De Fanti con una breve presentazione di Annalisa Comes, viene pubblicata dall’editore Donzelli. Esplode in Italia il fenomeno Hartwig. Alfonso Berardinelli, uno dei più importanti critici italiani, dopo aver letto la Hartwig scrive: “Ecco il ritmo che sa chiudere il mondo in una goccia d’acqua.” Il libro, presentato in prima assoluta al festival di RomaPoesia 2007, è stato l’occasione per incontrare la Hartwig e realizzare in esclusiva questa intervista, la prima in Italia della grande scrittrice polacca.

L’intervista di Luigia Sorrentino
(Roma 27 settembre 2007)

Da quanti anni scrive poesie, Julia?
“Da molto tempo. Fin dal periodo della mia infanzia.”

Lei era già stata in Italia?
“Sono stata in Italia molte volte a partire dall’Università e poi più tardi sono tornata per conoscere meglio l’Italia. ”

Che effetto le fa venire nel nostro Paese in occasione dell’uscita della sua prima raccolta di poesie in lingua italiana?
“Sono molto contenta. Non mi aspettavo che una delle prime edizioni straniere venisse pubblicata proprio in Italia. In questo momento stanno preparando l’ edizione americana del mio libro, una raccolta di poesie presso l’editore Knoph. Ho questa duplice occasione e felicità di avere dei lettori da una parte e l’altra dell’oceano.” Continua a leggere

Pamuk “Scrivo libri per essere felice”

Orhan Pamuk

 

Pamuk, il sentimento politico
di Luigia Sorrentino

 

L’evento forse più atteso inserito all’ultimo momento nel programma dell’undicesima edizione del Festivaletteratura di Mantova è stato quello con il Premio Nobel per la Letteratura 2006, Orhan Pamuk.

Lo scrittore turco, autore di romanzi come “Neve”, “Il mio nome è rosso” e “Istanbul”, perseguitato in patria per le sue prese di posizione sui massacri degli armeni e dei curdi, è intervenuto sabato 8 settembre 2007 per parlare dei suoi romanzi e della difficile situazione politica della Turchia.

Il dibattito condotto da Marino Sinibaldi è culminato nella differenza tra i valori dell’Occidente europeo e la cultura islamica.

C’era molta tensione prima dell’inizio dell’incontro nella Piazza del Castello. In molti ci auguravamo che alla fine dell’incontro venisse concessa l’opportunità di rivolgere a Pamuk delle domande, cosa che normalmente accade a Mantova dopo gli incontri con gli scrittori.

Quando Pamuk alle 21:00 in punto è arrivato e il pubblico lo ha salutato con un lungo applauso che poi si è spento nel silenzio più assoluto. In quel momento ho sentito che dopo l’incontro con Pamuk a nessuno sarebbe stata concessa l’ opportunità di porre delle domande per interloquire direttamente con lo scrittore turco.

Perché, secondo me, Pamuk dopo il Nobel, paradossalmente, si può esporre meno, è cioè meno libero di esprimersi pubblicamente.

Perché quando si parla con Pamuk inevitabilmente il discorso inizia dalla Letteratura e si orienta verso temi cari a tutti i suoi lettori, temi che entrano, uno per uno, nell’opera di Pamuk: la diversità di culture, le religioni, la libertà di espressione, i diritti umani…

Io credo che tutto ciò che fin qui ha scritto Pamuk, è intriso di un fortissimo “sentimento politico e civile” che conduce inevitabilmente, lo scrittore e i suoi lettori, dalla parte dei “diversi”, dell’ “altro da sé”, non importa se migliore o peggiore. E questo “sentimento” per Pamuk è alla base del romanzo e del suo essere scrittore.

Per capire questo mio ragionamento, basta leggere un piccolo libro di Pamuk, “La valigia di mio padre”, (Einaudi, 2007), dove sono contenute le tre conferenze più importanti pronunciate dallo scrittore turco nell’arco di un anno.

“La valigia di mio padre”, è il discorso tenuto a Stoccolma da Pamuk il 7 dicembre 2006 in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura.

“Autore implicito”, è il discorso tenuto dall’autore turco alla University of Oklahoma il 21 aprile 2006 nell’ambito della Puterbaugh Conference.

Il “Discorso di Francoforte”, è la relazione di Pamuk del 23 ottobre 2006, conferenza che lo scrittore turco ha tenuto in occasione del conferimento del Friedenspreis.

In questo piccolo libro, Pamuk spiega, in sostanza, perché scrive e qual è, secondo lui, il senso della letteratura e del romanzo. Pamuk spiega, cioè, il gesto dello scrittore: un gesto che nasce dal rinchiudersi in una stanza nell’isolamento più totale per dare voce ai suoi personaggi e alla scrittura.

Un isolamento che nasconde, in realtà, un’apertura e una riflessione sul proprio centro, sul proprio posto nel mondo.

Se ne avessi avuto l’opportunità, avrei voluto rivolgere a Pamuk almeno una di queste domande:

“Pamuk, il destino del suo paese, come ha cambiato il suo carattere e la sua scrittura?”

“Che traccia ha lasciato sulla sua anima l’uccisione del suo amico armeno, il giornalista e scrittore Hrant Dink ?”

E ancora, avrei voluto chiedergli: “Come immagina il suo destino, di uomo e di scrittore, dopo il conferimento del premio Nobel?”

“Si sente più libero oggi di esprimere le sue opinioni, oppure è preoccupato?”

“Che cosa la preoccupa maggiormente?”

Naturalmente, non ho potuto rivolgere nemmeno una delle mie domande a Pamuk.

Ma dal punto di osservazione in cui mi trovavo, tra il pubblico della piazza, ho potuto ascoltare e fare tesoro di quest’ascolto, ho potuto esaminare Pamuk molto “da vicino”… ho potuto “misurare” il tono della sua voce e della sua emozione, ad ogni risposta.

Il resoconto del dibattito tra Orhan Pamuk e Marino Sinibaldi forse aiuterà anche voi lettori che non eravate a Mantova a capire meglio chi è Orhan Pamuk.

“Devo confessare un certo imbarazzo…” Così ha esordito Sinibaldi al dibattito con Pamuk. “Molto si è scritto del problema che per uno scrittore costituisce vincere un premio Nobel… Anche Wole Soyinka qui a Mantova ha raccontato qualcosa su questo tema… Soyinka ha spiegato come per uno scrittore che ha vinto il Nobel alcune cose diventano più complicate, altre più semplici…” Poi, Sinibaldi con la sua inconfondibile verve ironica ha aggiunto: “Nessuno però ha parlato della difficoltà che un premio Nobel dà a chi deve intervistarlo!…. E allora, facciamo finta che Orhan Pamuk non abbia vinto il premio Nobel! – ha proposto Sinibaldi al pubblico… e poi ha aggiunto: “Questo forse impoverisce il dibattito o impoverisce Pamuk…

E ancora, rivolto al pubblico ha detto: “Il problema è che con Pamuk la difficoltà non si può rimuovere. Intorno alla sua scrittura e alla sua persona, si addensano una serie di domande, di attese, di pretese, che sono molto particolari… che hanno a che fare con il suo posto nel mondo, col suo posto nella Letteratura… Io ho notato che in tutte le interviste – ma non solo nelle interviste – Pamuk è trascinato a parlare del Velo e dell’ Islam… della Turchia in Europa e degli Ottomani… e noi tutti da lui ci attendiamo dei messaggi, dei segnali, e anche delle allusioni, delle impressioni, che poi risuoneranno di qua e di là dal confine che sembra separare in due oggi il mondo, e persino quel posto strano, quel ponte piccolo, fragile, su cui Pamuk sembra trovarsi…”

Poi Sinibaldi chiede a Pamuk: “Lei riesce, qualche volta, a essere o a sentirsi, uno scrittore normale?”

“Si… mi sento sempre uno scrittore normale!” ha risposto Pamuk. Ed ha fatto un esempio per meglio descrivere la sua “normalità” raccontando che quaranta giorni prima si trovava in vacanza su un’isola con la sua ex moglie e con sua figlia, e, nonostante ciò, scriveva dieci ore al giorno. “E infatti”, ha detto Pamuk, “ho finito un nuovo romanzo”.

Poi Pamuk ha affermato: “Il premio Nobel non ha cambiato le mie abitudini di lavoro, non ha cambiato la mia devozione nei confronti della Letteratura…“, con una precisazione: “Quando scrivo, sono da solo: c’è la mia carta, la mia penna stilografica, il tavolo, magari il caffè, il tè… ma sono da solo”. Continua a leggere

Yves Bonnefoy, il poeta del sogno notturno

Yves Bonnefoy (ANSA)

Festivaletteratura di Mantova 2007

Sono stati due gli eventi che abbiamo seguito con Yves Bonnefoy a Mantova.

Il primo, Un sogno fatto a Mantova si è tenuto mercoledì 5 settembre alle 18:45, nel Cortile del Castello di San Giorgio. Yves Bonnefoy con Fabio Scotto.

“Una notte d’ottobre a Mantova, in una stanza poveramente illuminata di una piccola locanda, nell’attesa di visitare il giorno dopo la grande mostra del Mantegna. Un sogno. Un giorno di primavera o d’inizio estate, un giardino con alberi da frutto, ragazze che ridono. ‘Noi siamo le fate,’ dicono ‘questa è la casa dell’immortalità’ “.

Un racconto del poeta francese Yves Bonnefoy che dà il titolo a una raccolta di appunti di viaggio, meditazioni artistiche, stravaganze. Un sogno che ritorna a Mantova, in forma di reading.

Il secondo incontro con il poeta francese, La chiarezza dell’oscuro si è tenuto giovedì 6 settembre alle 10:15 al Teatro Bibiena.

Yves Bonnefoy, ritenuto il maggiore poeta francese vivente e uno dei più grandi autori del ‘900, ha proposto una riflessione e una lettura poetica bilingue che ha saputo attraversare le varie stagioni letterarie del secolo senza mai perdere di vista il nesso inscindibile tra poesia ed esperienza, aperta ad altri saperi e devota al paesaggio, con una particolare predilezione per l’arte e i luoghi italici. Con Yves Bonnefoy è intervenuto Fabio Scotto, curatore e traduttore,  del recente  Le assi curve pubblicato da Mondadori dal quale ha letto il poeta. Bellissima la poesia che legge da “La casa natale”.

L’intervista a Yves Bonnefoy è di Luigia Sorrentino


Nota a margine

Una delle domande che posi a Yves Bonnefoy e che non riuscii a inserire nell’intervista televisiva, ma che secondo me merita la nostra attenzione, è quando gli chiesti di Paul Celan, che lui aveva conosciuto frequentato e conosciuto. Bonnefoy mi rispose così:

“L’esperienza personale di Paul Celan è diversa dalla mia. Lui è una vittima, io no. Celan utilizzava per scrivere la lingua tedesca, ma con questa lingua aveva un rapporto conflittuale. Alla lingua tedesca cercava di restituire la generosità, la verità antica. Io invece sono in pace con la mia lingua, non ho vissuto la sua esperienza drammatica, però gli sono stato molto vicino”.

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Omaggio a Giovanna Sicari

Giovanna Sicari, credits ph. Dino Ignani

Video su Giovanna Sicari realizzato da Luigia Sorrentino per RaiNews24 nel 2005

Nel video la vita e la poesia di Giovanna Sicari viene raccontata dai poeti: Milo De Angelis,  Alberto Toni, Luigi Fontanella,  Elio Pecora, Roberto Mussapi, dall’amica Chiara Scalesse e dalla sorella, Lucia Sicari.

Alcune interviste televisive furono raccolte a Milano, alla Libreria del Novecento, (libreria che adesso non esiste più) nel corso dell’evento organizzato da Milo De Angelis per Giovanna Sicari,  il 10 gennaio del 2004, pochi giorni dopo la scomparsa di Giovanna – 31 dicembre 2003- . Altre interviste furono raccolte a Roma alla Libreria Bibli e in un appartamento privato di Trastevere, città nella quale prevalentemente Giovanna visse prevalentemente la sua breve vita.

Nel video su Giovanna Sicari realizzato da Luigia Sorrentino per Rai News 24 Storia/Storie trasmesso nel 2005 (magazine a cura di Fabrizio Biamonte e Fausto Pellegrini) Maria Callas canta dalla Norma di Bellini “Casta diva“.

 

Da: Roma della vigilia, di Giovanna Sicari, Il Labirinto, 1999

IV.

Roma dell’eterna vigilia spariva
nella sua foto di festa, spariva per tutto ciò che
non mi riguardava, per la sua macchina goliardica e oscena
per quella luce portentosa dell’adolescenza
per quella luce dei fari e dei piccioni
per quegli infiniti mesi di maggio
di tutti i tempi, di tutti i tempi
con la stessa febbre che solo qui
dà quella brama non per me protesa.

Fonte Wikipedia

Giovanna Sicari, poetessa e scrittrice, è stata moglie del poeta Milo De Angelis. Dal 1962, con la famiglia, si trasferisce a Roma, nel quartiere Monteverde. Le sue prime poesie escono a partire dal 1982 sulla rivista «Le Porte», quindi su «Alfabeta», «Linea d’Ombra», «Nuovi Argomenti». A partire dal 1986 pubblica sette libri di versi e tre di prosa, tra questi un volume miscellaneo, La moneta di Caronte, che raccoglie contributi di scrittori contemporanei. Dal 1985 al 1989 è redattrice della rivista «Arsenale». A partire dagli anni ottanta inizia inoltre a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, incarico che mantiene fino al 1997, quando si ammala gravemente. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano, dove nel frattempo si era trasferita col marito Milo De Angelis e il figlio Daniele, torna a Roma nell’estate del 2003, dove muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre.

La raccolta di poesie di Milo De Angelis Tema dell’addio è a lei dedicata, così come la suite Poesie per Giovanna di Biancamaria Frabotta.

 

Raffaele La Capria e la lezione del canarino

Raffaele La Capria

Video Intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino
Roma, 6 maggio 2007

Nel libro “Guappo e altri animali”, Mondadori 2003, Raffaele La Capria, nato a Napoli nel 1922, ripropone la lezione del canarino: “Nel momento in cui il canarino si posò sulla mia spalla, io rimasi immobile per lo stupore”. E la storia dello scrittore La Capria, come lui stesso dice, cominciò subito dopo, quando, tornato a casa, volle raccontare a sua madre quell’esperienza. Ma non appena pronunciò la frase “Mamma, oggi un canarino si è posato sulla mia spalla”, il bambino-La Capria si accorse che non aveva comunicato nulla di quella emozione.

La video intervista a Raffaele La Capria di Luigia Sorrentino

Milo De Angelis, Video-Intervista

Milo De Angelis: L’imperativo categorico e l’infinito presente

di Luigia Sorrentino

Ho conosciuto Milo De Angelis in occasione di una lettura di poesie a Ortona nel 1986. Fu in quel contesto che De Angelis mi mise di fronte alla sua poesia, regalandomi la prima edizione di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. I suoi versi mi colpirono per la solennità e la compiutezza della voce con la quale il poeta anticipava un sapere sconvolgente che pochi riuscivano a percepire. Dopo quel primo incontro andai più volte a Milano, la città dove il poeta tuttora vive, per rivedere De Angelis. Ricordo i lunghi pomeriggi trascorsi nella casa di via Rosales a parlare di poesia. Fu in uno di quegli incontri che il poeta divertendosi a giocare con la radice del mio cognome disse: “lo sai cosa significa sorren in tedesco?”. E poi aggiunse: “Significa approdo“.
Recentemente ho appreso che  la parola sorren non è più di uso comune In Germania. Grazie all’intermediazione di Soledad Ugolinelli, nel Goethe Institute di Roma che ha consultato il dizionario della lingua tedesca dei Fratelli Grimm, edito nel 1854, è venuto fuori che sorren significava letteralmente “legare saldamente con una fune”, un termine che si usava, in particolare, per indicare il modo in cui i barili dovevano essere legati nella stiva a bordo di una nave, onde evitare che si perdessero durante un viaggio.
Scopro oggi che De Angelis aveva utilizzato la radice del mio cognome, sorren, per dare forza al legame che si era instaurato fra noi. Saldamente legati durante il viaggio. L’approdo, altro non era, metaforicamente, che il luogo della poesia.

 

T. S.

I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II
E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

Intervista a Milo De Angelis
di Luigia Sorrentino
Milano, Vita Bovisasca, 85
23 dicembre 2006

 

De Angelis, quando si viene toccati dalla poesia? Quando la poesia si chiama?

“si viene toccati dalla poesia quando sentiamo che è una via obbligatoria e tutte le altre vie ci sembrano un’evasione… Sì, un’evasione da ciò che è essenziale,  dalla parola che è più antica in noi e che il tempo ha reso un destino. Una parola non ritrattabile, una parola d’onore, una parola depositata da sempre, a cui dobbiamo a tutti costi dare un nome. Dare la parola dice bene di questa fedeltà alla promessa poetica.e questo lo sentiamo già poeticamente, con quella forza imperativa con quella voce da ultimatum che è propria del verso”.

Somiglianze, pubblicato nel 1976, trent’anni fa, è la prima raccolta di versi di Milo De Angelis, nella quale ricorrono tematiche forti, legate al mito dell’infanzia e dell’adolescenza. Una poesia in cui il presente diviene l’imperativo categorico della parola poetica: “Se ti togliamo ciò che non è tuo/ non ti rimane niente.” Il verso è tratto da la poesia che s’intitola L’idea centrale. Un verso forte, imperativo e categorico. 

“L’imperativo è il tempo e il modo della poesia. È un imperativo in cui lettore deve entrare, deve sentire che quel verso è un grido… Grido di soccorso, di gioia, di stupore, di rabbia, di memoria, di dolore. Un grido comunque che ci chiama, e che è rivolto a noi, proprio a noi… e dobbiamo ascoltarlo, a tutti i costi. La poesia porta in sé l’ultima volta. L’ultima cena, la razza estinta, l’estrema unzione, qualcosa che ci chiama con violenza a essere presenti, ci avverte che non ci saranno repliche, perché è un atto unico”.

 

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