Renato Minore, La promessa della notte

E’ intenso e ricco di ‘storia’ questo nuovo libro di Renato Minore ‘La promessa della notte’ Conversazioni con i poeti italiani edito da Donzelli.

Bertolucci, Betocchi, Buttitta, Caproni, Cergoly, Fortini, Giudici, Giuliani, Guerra, Loi, Luzi, Merini, Pagliarani, Pierro, Porta, Raboni, Rosselli, Roversi, Sanguineti, Spaziani, Zanzotto. Ventuno poeti raccontati da Renato Minore attraverso le loro stesse parole. Poeti,  alcuni tra i massimi del Novecento, che lo scrittore ha incontrato negli anni passati a intervalli quasi regolari. “Mi sedevo di fronte o accanto al mio poeta […] e si parlava in libertà, senza un argomento prescelto, per ore (a volte anche con sedute ripetute in più giornate), seguendo gli umori che per me erano soprattutto quelli depositati dalla recentissima lettura o rilettura e per il mio interlocutore potevano anche coincidere con il sentimento della giornata, magari con un raggio di sole che tagliava la stanza e poi improvvisamente volava via, scrive Renato Minore. Schegge luminose, indimenticabili, di incontri. Come quello con Pagliarani raccontato da Minore attraverso l’intonazione, lo spessore della voce del poeta che spesso si impenna, o si incrina…

ELIO PAGLIARANI
Il filo del racconto
di Renato Minore

Il periodo è felice, molto fecondo. Elio Pagliarani si sente più libero «anche psicologicamente»; come giornalista è in pensione da qualche anno, scrive soltanto le critiche teatrali che lo interessano. Così lavora
a più progetti poetici. Ma ne parla con gioia infantile: la sua voce spesso si incrina o si impenna, diventa un impercettibile gorgoglìo per un ricordo o una rabbia improvvisa. Con le pause, gli sbuffi, le riprese strozzate nel ritmo-cantilena romagnolo pressoché integro, è un raccontatore formidabile. Gli occhi, dietro le spesse lenti, gli ridono quando parla di una donna incontrata a Roma, all’inizio degli anni sessanta:
«ma di una bellezza, una bellezza… L’arcatura, le cosce, il petto: una delle cose più regali mai viste, il dorso, una roba da matti!». Tutto il corpo ha un sussulto di partecipazione quando il discorso cade su di una sua zia di Viserba Monte, famosa favolatrice che faceva le veglie «seduta sulla cenere ancora calda dell’arola, una volta la settimana: era una vecchina curiosissima, piccolina, pesava meno di 45 chili».

Parliamo del lavoro e dei progetti, molti dei quali in fase di avanzata realizzazione: le memorie, con il primo volume di ricordi romagnoli, il secondo milanese e il terzo romano. È l’amarcord di Pagliarani? In parte. C’è pochissimo colore, «è la memoria di uno qualsiasi». Alcuni anni fa, del tutto inopinatamente, si è sentito compiaciuto della sua origine romagnola. Determinante è stata la nascita della figlia Lia Rosa. Dice: «Le voglio fornire un corredo di notizie che possano appagare sue curiosità future senza che, beninteso, ne risulti alcunché di esemplare». Perché? (va in corsivo?) «Intanto ogni eventuale esemplarità, parlando di me, mi parrebbe una forzatura. Volevo diventare inesemplare (ma senza cadere nella «vita inimitabile») e ci sono riuscito, in un certo senso: ma i giovani, da molti anni ormai, chiedono esempi di vita… Io, fra l’adolescenza e la giovinezza, sapevo molto di me, quasi tutto quello che non volevo.».

Ha sempre saputo, così, che non avrebbe avuto soldi, agi economici («eppure sono stato uno spendaccione, uno sciupone: ho sempre speso in frivolezze e in libri e, più tardi, in pasti in trattoria, parecchio di più della media dei miei compagni»). E ha sempre saputo che non gli apparteneva minimamente «la dimensione del potere».

Pagliarani mi mostra ora un’immagine dei primi del Novecento, che ha la struggente bellezza delle foto antiche attraverso il «punctum» dell’immagine prolungando una certa grana sentimentale con la visibilità
auratica accordata alle figure del racconto fotografico. C’è, dietro, la sua storia familiare. Una donna (la nonna) e quattro bambini tra cui la madre a sette anni. I bambini sono agghindati alla meglio, la madre
Pasquina calza stivaletti o scarpe alte di quelle con una lunga fila di bottoni. Sono scarpe che vengono dall’America e in America si trovava il nonno Lazzaro a cui la fotografia fu spedita. Pagliarani possiede
anche la foto che «risponde, corrisponde a questa, o viceversa». Nonno Lazzaro che faceva il minatore in Pennsylvania era «proprio un gran bell’uomo, e ha l’aria sulla foto di uno che ce la fa».

Tutte queste cose le ha raccontate soprattutto per lei, per Lia Rosa, «perché sapesse, perché capisse». E non vorrebbe che questi ricordi risultassero per lei ingombranti, pesanti. Già è pesante il rapporto tra
padri e figli e, soprattutto, quello tra figlio e padre-scrittore: «Forse perché lo scrittore aggiunge, all’arroganza del «self-made-man (uno scrittore è quasi sempre self-made-man), la complicazione della precarietà e dell’insicurezza di chi tagliuzza centrini di carta con forbici inadeguate; meno male, penso, che mi separa mezzo secolo esatto da mia figlia, e la figura del padre le si stempera in quella del nonno; e infatti io talvolta mi soprannomino paponno, anche se ho idea che ciò non le faccia tanto piacere; e ci rimangomale, beninteso, le volte chemi scambiano davvero per il nonno».

Poi, ci sono altri progetti. Per esempio, scrivere una sorta di critica dell’Inventario privato, dopo tanti anni. L’Inventario – il primo – si compone di ventuno poesie per un amore andato male: «È già autunno,
altri mesi ho sopportato/ senzaimparare altro: ti ho perduta/ per troppo amore, come per fame l’affamato/ che rovescia la ciotola col tremito», dicono alcuni suoi versi, che ormai figurano in ogni antologia della poesia contemporanea. Una relazione mancata, «priva di accordo di incontro, appassionata solo dalla parte di uno solo», solo dalla parte di lui. Ora l’idea è un’idea antica, «mi venne all’epoca, telefonai alla ragazzola per coinvolgerla, ma mi chiuse il telefono, e non poteva fare altrimenti».

Questa storia che racconta mi porta a pensare al suo rapporto con Milano. Una parte cospicua, importante, della sua poesia è ambientata in questa città. La Milano (è stato detto) grigia e anonima del rilancio
economico, tra uffici, case popolari e periferie. La Milano de La ragazza Carla. AMilano lei ha vissuto circa dieci anni, dal 1951. È uscito come stremato, esausto…
Gli ultimi anni a Milano stavo di un male da pazzi. La storia dell’Inventario privato è la storia di un rapporto tra due alienati. Io mangiavo solo riso bianco e insalata, non dormivo quasi più. Venni a Roma. Il miglioramento fu eccezionale. Ebbi per tre o quattro anni un accrescimento di vitalità incredibile. All’«Avanti!», dove lavoravo, me ne facevano di peggio che aMilano, forse anche per colpa mia, non m’importava più. Mi riprese la voglia di mangiare.Mi accorsi che mangiavo tutto e digerivo, poi mi veniva sonno al posto dell’angoscia.
Insomma, fu una vera e propria scoperta, uno choc. Ricorda qualche altra emozione di quegli anni?
C’era la gioia di camminare per le vie del centro. Dicevo tra me: «Basta, mi arrendo, è troppo bello». Eppure, a parte il rilancio fisico, c’era qualcosa che anche qui non quadrava. Mi sentivo tagliato fuori dal ritmo della gente, dalla mia materia. A Milano mi sentivo paradossalmente pieno di una incredibile passione, quando prendevo quei tram terribili, a Cinisello Balsamo. A Milano mi sentivo in ritmo con la grigia emoralistica idea della vita che avevo. Emi stupiva che le portinaie a Roma fossero tutte belle, grasse e paciocche, mentre a Milano, soprattutto quelle delle case popolari, erano tutte magre, arrabbiate, tutte tristi. Era un abbaglio: dove stava scritto che bisognava essere sofferenti e puritani? Poi a Roma ho messo radici, ho fatto la figlia. Ma mi sono nello stesso tempo isolato: perché a quell’epoca avevo più convinzioni di adesso anche se sbagliate. Io per esempio tra il ’52 e il ’53 non divenni comunista perché non mi andava bene Stalin.
 
Parla di un accrescimento di vitalità che le venne dal rapporto con Roma. Se rileggo alcune poesie di quegli anni (penso, ad esempio, a un inizio famoso del 1961: «Che sappiamo noi oggi dellamorte nostra, privata,
poeta»?), sento tanta disperazione che, a occhio e croce, direi molto poco vitale.
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Dietro quella poesia cui allude, Oggetti e argomenti per una disperazione, c’è una storia romana molto stendhaliana. Gliela racconterò un giorno…Ma di morboso nell’approccio a quel mondo c’era…proprio
il mio approccio. Vede? Io, con le donne, sono stato uno che a diciott’anni o a diciannove anni vince il Giro di Francia e il Tour e poi alla fine, per dieci anni, non vince neppure una tappa. Le ho già detto quanto furono terribili gli ultimi anni diMilano. E a Roma i primi anni non era successo nulla. Poi è venuta Elena, poi mia moglie Cetta, Lia Rosa. Ora sono quasi vecchio, tutto è più giusto.
Allora si sente diverso, mutato, trasformato? La leggenda di un Pagliarani ricco di umori e di collere va rivista?
Mah, vede: dopo anni di politica del no assoluto, faccio un po’marcia indietro. Stavano proprio per far finta che non ci fossi più. E io stesso gli davo il pretesto… D’altro canto, a una certa età, se uno non s’accetta, si deve proprio sparare. Entra una forma di egoismo, di sopravvivenza.
Mi vuol spiegare in cosa consiste questa sua maggiore arrendevolezza? C’entra il libro di cui mi sta parlando?
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Anche. Da ragazzo lessi due versi del Giusti nel Campanini-Carbone: «Il fare un libro è men che niente, se il libro fatto non rifà la gente». Prima i destinatari dei miei libri erano gli altri, dovevo dare qualcosa alla gente. Ora i libri sono per fare bella figura, per raccontare cose gradevoli. Sono fatti più per me e per la mia famiglia che non per la gente. Non sono fatti per rifare la gente. Non è una bella cosa.
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Gli Esercizi platonici entrano in questo clima, dunque. Ma perché proprio Platone?
Le dirò che ho aperto Platone tradotto da Turella e ho trovato un’immediata corrispondenza di ritmi. Volevo ribadire un certo tipo di contenutismo, di interesse primario ai significati, in un contesto più placato.

 

Così è stato meno aggressivo…
Mi sentivo prigioniero del ritmo forte, di quel mio verso lungo che è stato tanto lodato in America. Una volta un critico disse: ma questo verso cosa vuol significare, è come una mancanza di spazio, Pagliarani si muove come in un tunnel. E, molti anni fa, un russo anche bravo disse che io avevo irrobustito il linguaggio della poesia italiana. Io mi sorpresi un po’ poi ci ripensai: senza falsa modestia, penso che abbia ragione. Ho reso il nostro verso più robusto, meno delicatino.

 

Ma ora, a quanto pare, le va un po’ stretto. Recupera così il verso delle sue poesie d’esordio.
C’era un problema pratico: come facevo a far entrare questo verso lungo nelle paginette di Scheiwiller? Ho deciso così di spezzarlo per dimostrare che ero ancora capace di fare più tipi di esercizio. D’altro canto risulta piuttosto esaurita la mia forza centrifuga, tiro i remi in barca. Volevo tornare a disporre di un verso più duttile… Il Platone meno noto, quello del Filebo, più una due lettere, un po’ di Convivio mi sono stati molto utili. Ma permette che le legga qualcuno di questi miei esercizi?
 
 

Si alza, rovista in un armadio, mette in ordine i fogli. Legge come sempre, con grande partecipazione, è bravissimo nel disseppellire i ritmi celati dentro le parole. «Ma le scritture e le figure dipinte/ ti sembrano
in rapporto col tempo/ presente e passato, e non col futuro?/ O vuoi intendere invece/ nel senso che tutte queste figure/ sono rivolte in attesa al futuro? E che noi,/ per tutta la vita, siamo sempre pieni/ di attesa e di speranza?Ma vi sono ancora/ quelle immagini dipinte. E c’è chi arriva a vedere/ oro». In questo momento ha di fronte un solo ascoltatore, ma il ricordo corre a piazza dei Dauni, a Roma, qualche anno fa, quando riuscì a coinvolgere centinaia di persone. Il ricordo corre a un’altra sua memorabile esibizione pubblica: a Palermo, durante l’annuale premio Mondello, quando incantò tutti leggendo i vecchi versi della Lezione di fisica. Gli rammento i due episodi.

L ‘ oralità passa anche attraverso le letture pubbliche?
Io leggo pochissimo in pubblico. Mi fa troppo male. A Roma la pressione mi salì a duecento, davanti a me vedevo tutto confuso. Ma mi fanno ridere e arrabbiare quei falsi quesiti se la poesia vada letta o
no in pubblico. Sono falsi problemi di chi ora, alla ricerca di titoli nobiliari, si accorge che quell’argentino, quello scrittore tanto osannato… Come si chiama?
Dice Borges?
Proprio lui. Qualcuno ha scoperto che Borges era per la lettura pubblica. Ma sa perché Montale era contro? Perché era geloso, Ungaretti era tanto più bravo di lui! La poesia è nata molto prima del libro, il libro finirà, la poesia no. È stata calata nel libro e quindi un po’ deviata perché il mezzo incide sempre sul messaggio. Così c’è una poesia adatta a essere letta con gli occhi, una poesia che va bene in salotto, una in famiglia, tra dieci persone. C’è una poesia adatta al comizio, alla piazza.
Così la sua poesia è stata sempre vocale.
Non è che sono bravo a leggere, è che la mia poesia è così strutturata. Tutte le poesie che ho scritto le ho scritte gridandole. E ho avuto sempre la mania di leggere: a 13-14 anni organizzavo gare tra i bambini della mia strada a chi leggeva meglio. E davo un premio di tasca mia ai migliori. La ragazza Carla l’ho letta e riletta infinite volte nelle osterie, con amici, a Milano.

Si parla ancora di poesia letta in pubblico e, più estensivamente, delle tecniche del racconto. Pagliarani ricorda donna Gina, una vicina di casa quando era bambino a Viserba. Una volta gli raccontò una storia. Il protagonista è uno che vuole andare a letto con la nipote del prete, si finge donna incinta, il prete lo mette nel letto della nipote e quando la nipote protesta: «È un maschio!», il prete felice benedice da dietro la porta…La stessa storia, poi, la lesse a scuola: era una famosa novella del Sacchetti. «Vede cosa significa il racconto orale? Io avevo attinto alla stessa fonte da cui aveva attinto il Sacchetti seicento anni prima!».

Al momento dei saluti, da un armadio tira fuori ilmateriale più prezioso, alcuni incunaboli. Ne è fiero: «Guarda, guarda la bellezza di questo, c’è la pianta uomo secondo Socrate e secondo Platone». Il testo è del 1495, edito a Venezia, preziosissimo: Alberto Magno commenta Aristotele. «Guardi, guardi, queste macchie. Sono malattie della carta e io immaginavo che fosse vino e che questo anonimo lettore si ubriacasse la notte a lume di candela rovesciando il vino mentre leggeva Aristotele e lo commentava». E, raccontando la fantasia, ride di gusto. Mi viene da pensare che così ridessero la zia piccolina di Viserba e donna Gina quando raccontavano ai bambini le loro storie, quando Elio aveva dieci anni e girava il paese recitando versi.

2 pensieri su “Renato Minore, La promessa della notte

  1. Credo che per capire un poeta sia utile udire dalla sua viva voce le ragioni della sua poesia, il racconto delle sue esperienze e quanti più dettagli della sua vita. Anche facendo attenzione a percepire le variazioni emotive che sottendono le variazioni di tono della voce mentre racconta. Come fa Renato Minore con Pagliarani.

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