Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. “Nessuna immagine o parola, o disperato mondo”. È lo sguardo di un “sosia” che non ha niente del doppio speculare e proiettivo, ma che si dà come pura figura di uno scarto da sé, sosia estremo di quel sosia che era già l’io spaesato, “molto lontano dai romanzi / dove c’era la luce dei visi”, di Umana gloria. L’estrema esteriorità di questo sosia postumo, impegnato in un confronto finale con l’insostenibile incrocio tra il vivere e il morire, emerge infatti come il punto di arrivo delle dense esperienze dei libri precedenti.

In Umana gloria, il tentativo di permanere nell’incanto della vita umile dei luoghi si rivela fin da subito lacerata da un’ineludibile attrazione verso una terrestrità residuale, non più elevabile né ricopribile con le velature del canto (della gloria). L’aderenza agli oggetti e alla semplicità del quotidiano, che a tratti, soprattutto nel loro legame con l’impasto amore-dolore, ricorda l’eredità di Saba (“È stato un grande sogno vivere / e vero sempre, doloroso e di gioia”), ne rivela continuamente per eccesso la materialità inospitale, che travalica le possibilità del visibile. Gli oggetti che vengono a comporre un paesaggio essenziale (l’erba, la foglia, la pietra, il muro, il fiume etc.) bucano continuamente l’incanto speculare, l’estasi proiettiva e sdoppiata dell’io (quella che avvolge in modo assoluto i nomi delle cose della piccola patria friulana del primo Pasolini). In Benedetti, le cose s’impongono con la loro pesante presenza al di là dei nomi, alterando soprattutto le geometrie dello sguardo, e pongono senza scampo il soggetto di fronte all’insostenibilità della propria presenza smarrita del mondo: “Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi”. Nello spaesamento, l’“occhio” diventa il punto misterioso e ossessivo di un’incessante interrogazione percettiva, volta a saggiare una possibile consistenza del legame con le cose: “Io che sono delle cose negli occhi, / ma non so dire come sono quando le guardo”; “Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda”. Si assiste così a una continua dissoluzione della realtà nella labilità del sogno, nella vertigine che si respira sul confine bruciante tra lo stupore, il dubbio e l’angoscia: “Dove sono? / io dove sono?”. Da questo spazio percettivo percorso da faglie, tutto diviene resto, frammento di un’unità perduta: i lacerti di narrazioni percorsi dal tono irrealistico e perturbante della fiaba, i ricordi che confluiscono nel sogno (“Ho sognato, ho sempre sognato, d’inverno ti tenevo nei bastoncini di vischio”), la tensione affettiva sospesa tra immobilità infantile e nostalgia storica:

Mattine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita
che sta sempre lì, e ha la fabbrica di alluminio, i campi.
[…]
Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce
sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi così.
(Borgo con locanda)

Sul filo di questa tensione bifronte, nelle ultime sezioni di Umana gloria avviene uno scavo definitivo tra le macerie di un mondo scomparso, tra i frammenti della norma umana che per secoli ha retto i rapporti tra particolare e universale, e la cui fine è stato il trauma che ha sconvolto i percorsi di Pasolini e di Zanzotto. Proprio a partire dagli ultimi libri di Zanzotto, in cui vengono esplorati i resti del paesaggio, sembra possibile delineare il passaggio da Umana gloria a Pitture nere nel segno di un’approfondita assunzione della “consapevolezza geologica” evocata dal poeta veneto. Questo sodalizio nella comune percezione del pensiero e del sentimento degradati “al livello della pietra” (Zanzotto) è espresso nella poesia di Tersa morte scritta in ricordo del poeta di Pieve di Soligo: “Venuti per i prati, per non poterli dire che erbe e alberi”.

Alla fine di Umana gloria, dalla sezione Sassi, posti di erbe, resti, si attraversano gli Ultimi mondi, la cui poesia conclusiva, Area museale, già accoglie la futura scrittura in frammenti della storia reificata:

[…]
Quella mattina al museo etnografico di Teodone, di Brunico,
eternità costantemente sasso, stagno, tronco, ricordo.
La parte vivente dei morti.
[…] (Area museale)

In Pitture nere su carta il dire può dunque scendere a picco nel movimento di aderenza al residuo, in una riduzione che non si dà più come equilibrio interstiziale tra sentimento elegiaco e oralità dimessa, ma come frantumazione della parola nella frizione insistita con ciò che resiste alla sua presa:

[…]
Non guardati abbastanza.

Non guardati, abbastanza. Mai.

Sangue, capelli, orbite
nei loro globi. E gonfi,

nell’acqua, del loro cielo.
[…] (Lacrime 10)

In questa scarnificazione si intensificano le negazioni derealizzanti e l’introversione dello sguardo, che portano la parola sempre più ad incontrare gli spigoli, le sporgenze granitiche dell’inconcepibile “nulla”:

[…]
Non cortili, ghiaia, mammelle.
Nulla, sprigionato nulla.

E il cadavere…
Sagome dei secoli abitati (III, 2)

È la prossimità con il “nulla” irrappresentabile della morte a inghiottire sia lo sguardo “senza mente ormai” che il mondo nell’oscurità (“Mondo non mondo, mio mondo nero”); è questa prossimità a cancellare l’umanità codificata dei volti e delle facce, e a condurle fino al punto di sovrapposizione tra l’estraneità inerte delle cose e la spinta del vivente: “pietre meravigliosamente eccitate”. “Mani radici”. “E pensi / all’altra vita dei sassi”. “Le travi, nel sasso è muta una faccia”.

Alla fine della sua discesa metonimica attraverso i doppi museali della realtà (nei capitoli Reliquiari, Sacrifici, Sfarzi, Smalti) la parola poetica può infine incontrare, in un punto più carico di verità, il proprio nucleo originario, l’apertura traumatica e vitale allo stupore dell’esistere: “O! vocante o! dolente o! riminiscente”. Nella prossimità del nulla infinitesimo si rende percepibile la ricchezza delle possibilità d’essere che si aprono oltre le rappresentazioni normate dell’umano: “le microparticelle del nulla, del nulla. // Tutti i cammini possibili”. L’approdo del viaggio, la fine del libro, è dunque un ritorno apofatico all’origine del poetico:

physical dimensions

Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.

L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.

Qui.
Oh.

È l’incontro con il residuo verbale isolato, non ulteriormente riducibile, del proprio stare nello spaesamento originario (“qui”) esposto alla pluralità conflittuale dell’esistenza (“Oh” come meraviglia, sofferenza, piacere, indignazione, desiderio, noia etc.).

È in virtù di questo raggiunto distacco nell’esperienza di riduzione verbale che in Tersa morte il poeta recupera, sui bordi del nulla, una parola guidata dall’istanza comunitaria. Dall’esterno conquistato nel corpo a corpo con l’opacità delle cose, da quello sguardo che fa “[v]edere nuda la vita”, il poeta ha pronunciato e scritto la domanda che oggi risuona sorda in ogni casa, divenuta luogo di quarantena; ha pronunciato e scritto per ciascuno il monito più umanizzante:

[…]
E torna la domanda. Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.
Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
la pura inconcepibile assenza, non distrarti.
(Nella grotta del bosco Làndri)

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