Poesie assetate d’aria

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Quanto mai attuale risuona oggi l’interrogativo di Hölderlin, «perché i poeti in tempo di povertà?». La risposta suona identica a quella di allora, e ce la ricorda Heidegger: «Il linguaggio è la casa dell’essere» e la poesia è il recinto di terra dove si innalza questa casa: nei tempi di povertà i poeti ci riportano al fondamento dell’essere. È allora un’iniziativa lodevole dare la parola alle impressioni di chi modella la lingua di giorno in giorno, come fosse un manufatto prezioso e fragile, sempre sul filo dell’estinzione, e quindi un “oggetto” (almeno secondo Pessoa e Caproni) da trattare con estrema delicatezza.

L’idea di un’antologia di liriche ai tempi del Covid-19, Dal sottovuoto. Poesie assettate d’aria (a cura di Matteo Bianchi, Samuele Editore), sfida la possibilità di confrontarsi con l’effettuale, con l’hic et nunc, richiamando un ampio gruppo di poeti a redigere il diario dell’emergenza: tema di assoluta verticalità poetica — la vera poesia è sempre in emergenza —, il rapporto tra versi e libertà conferisce alla scrittura la nobilissima preoccupazione per le individualità minacciate non soltanto dal nemico invisibile, ma anche dalla prigione interiore, dallo spleen, dallo scacco esistenziale, dalle recrudescenze del solipsismo globalizzato, dal lutto. Come sottolinea il curatore, questa antologia «mette nero su bianco la volontà di confrontarsi sul tema dell’isolamento, di una quarantena tanto improvvisa quanto obbligata. L’idea è scaturita dalle sparute riflessioni trapelate sul web, ovvero dalla necessità sommersa di molti intellettuali di liberare un vuoto interiore che una volta confinato rimbombava con maggiore violenza». Continua a leggere

L’orizzonte del tragico

Luigia Sorrentino

Nota critica di Giuseppe Martella

Fatto salvo il suo valore poetico intrinseco, il testo “Olimpia, Tragedia del passaggio” di Luigia Sorrentino (in scena al Napoli Teatro Festival Italia, direzione artistica di Ruggero Cappuccio, il 16 luglio h.22.30, Giardino Romantico di Palazzo Reale, a Napoli)  ha tutte le valenze proprie di una sceneggiatura rituale, come per esempio La sagra della primavera di Stravinsky, di per sé musica memorabile che tuttavia si compie appieno nelle movenze del balletto omonimo. Alla sola lettura, Olimpia (Interlinea, 2013, 2019), sembra infatti quasi opporre resistenza come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso del testo, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandovi intorno, come in un assedio senza fine. Una città-tempio ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca.

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Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia. Il testo appartiene alla linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo (tra Otto e Novecento, da Rimbaud a Valery, da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan), condensata al massimo in un intreccio archetipico che ha già di per sé movenze da tragedia greca, dal momento che i ruoli degli attori e del coro si fondono in una dimensione estatica, impersonale e sembrano obbedire ai dettami di un fato occulto tanto più quanto ci sembra di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale” (Milo De Angelis) e quanto più la scena sembra annegare in un tripudio di luce (il dominio del colore bianco assume qui infatti la doppia connotazione della purezza e del lutto).

Strutturalmente si tratta infatti di un dramma pronominale dove la permutazione delle tre persone (io, tu, lei) avviene con cadenze cerimoniali che distribuiscono il dentro e il fuori ad ogni cambio di scena. Lasciando poi che siano gli spettatori (lettori) ad assegnare le sfere dell’immaginario, del simbolico e del reale in questo percorso iniziatico che coniuga le due facce del mito greco, essoterica ed esoterica, la luce di Olimpia e l’ombra di Eleusi, proiettandole verso l’irrisolvibile ambiguità del tragico. Nel complesso il testo organizza i suoi spazi semantici proiettandoli sulla mappa dei luoghi della città sacra, sicché l’intreccio che ne risulta è letteralmente una serie di superamenti di soglia o di riti di passaggio, per cui la costruzione e la visita di questa città di parole alla fine coincidono. L’architettura e l’archeologia si sovrappongono in modo tale che quando si è giunti alla fine del percorso si viene rinviati all’inizio e la città nuova lascia intravedere in sé lo scheletro di quella vecchia, l’insieme di detriti e di rovine che costituiscono le sue fondamenta. Torniamo così nella grotta dell’inizio, nel ventre della terra madre da cui siamo usciti, chiudendo una specie di cerchio magico di cui l’immagine del lago, che si trova al centro del poema, costituisce il fuoco virtuale della riflessione, l’occhio immoto del ciclone, la sua soglia simbolica interna: il luogo del possibile sprofondamento del volto che ci manca, la “lei che è lì” dall’inizio, l’oggetto del desiderio e dell’adorazione, della ricerca e del canto, l’Euridice di Orfeo, l’ombra amata che può ad ogni istante sprofondare “a un passo da noi”. Perché qui si tratta di una iniziazione che è nel contempo esistenziale e poetica. Ed è a questo punto che, in Olimpia, all’io poetico come allo spettatore, viene incontro “il traguardo dell’ombra” (39), la porta liquida che gli può consentire di scendere nell’immemoriale inconscio per trarne fuori immagini mirabili, oppure al contrario condannarlo a sprofondare insieme ad esse in un vortice allucinatorio, nel labirinto di specchi e nella foresta di simboli che pure deve necessariamente costruire e attraversare. La struttura del testo di Olimpia, pure nella descrizione sommaria che si è data, ci rimanda dunque imperiosamente a quell’orizzonte mitico in cui soltanto quest’opera può davvero essere vissuta e compresa.

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“Olimpia, tragedia del passaggio”

 

PREMESSA

di Luigia Sorrentino

 

Olimpia, Tragedia del passaggio (in scena al Napoli Teatro Festival Italia al Giardino Romantico di Palazzo Reale il 16 luglio 2020, h.22.30) trova la sua ragione più profonda nella distanza dell’uomo contemporaneo dal suo frammento divino.

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Questo primo testo scritto per il teatro, che riprende alcune sezioni di Olimpia (Interlinea 2013) si presenta con un altro titolo e un nuovo personaggio, Empedocle.

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Il tema centrale di Olimpia, tragedia del passaggio è il transito fra nascita e morte, un passaggio senza peso, privi di qualsiasi sostegno materiale: «Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo già stati.» (v. in Olimpia, “La discendenza” pag. 79, Interlinea, 2013-2019).

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Voltarsi indietro significa quindi, entrare in dialogo – nella contemporaneità – con l’elemento poetico universalmente umano che porta a toccare la divinità, il canto dell’infinito radicato nell’umano, che ha origine in antiche tradizioni preelleniche, oscure, ctonie. Il transito ci conduce, pertanto, all’origine del linguaggio, alla meraviglia di un mondo che rinasce in forma di parola. Continua a leggere

Gianluca Furnari, “Rileggere Virgilio”

Gianluca Fùrnari

«Omnibus una quies operum»

di Gianluca Furnari

Rilevare le variazioni di rotta della poesia è difficile anche in tempi non sospetti; non tenterò quindi d’immaginare un dopo-pandemia. Mi limiterò a proporre, a mo’ di auspicio, un passo di Virgilio, cantore di Astrea e della rinascita cosmica.
Il terzo libro delle Georgiche racconta la peste degli animali del Nòrico, che il poeta definisce una «malattia del cielo» (morbus caeli); il quarto gli fa da contraltare con la sua esposizione della vita delle api. Mi sembra che l’esperienza del virus getti una luce nuova sul legame sotterraneo tra questi due libri: se alla fine del terzo, nel contesto della peste, il contatto fisico è presentato in una luce sinistra, come veicolo di contagio, il quarto riafferma, per converso, la nostalgia della socialità e del lavoro: l’alveare è il luogo rappresentativo di tale nostalgia, divenutaci, in questi mesi, tristemente familiare.

Parlo di nostalgia perché le api del quarto libro delle Georgiche commuovono fino alle lacrime. Questo però non c’entra niente con i buoni sentimenti, perché la dedizione delle api al lavoro e alla socialità non implica necessariamente amore per il prossimo, e anzi i loro capi, come i nostri, si fanno la guerra. Un lettore diffidente direbbe che queste api sono sì insetti ammirevoli, ma restano sempre uomini.

Il passo che qui vi propongo ci dice almeno tre cose: che il vincolo sociale è tale anche quando, all’ombra del pericolo, si sta in casa e si cambia modalità di lavoro (per le api il «lavoro agile» è la raccolta dell’acqua intorno all’alveare); che la dignità del lavoro è un motore più forte della paura; che la civiltà e la memoria sono più forti dell’individuo: un’idea, quest’ultima, pericolosa quanto si vuole, ma trattata da Virgilio con immagini bellissime e il pragmatismo schietto d’un uomo di campagna.

Quella che vi offro di seguito vorrebbe essere una mia versione «equilirica» dal quarto libro delle Georgiche, meno rispettosa della lettera che dello stupore di questi versi. Soggetto implicito sono, naturalmente, «le api». Continua a leggere

Diego Bentivegna, “Il fiume mare”

Diego Bentivegna

DIEGO BENTIVEGNA  
Dopo quasi tre settimane chiusi a casa, un mese fa abbiamo ripreso ad andare in bicicletta.
Almeno una volta alla settimana, facciamo una lunga strada in bicicletta, fuori cittá, verso il Nord, dove sono nato e dove ho vissuto fino ai 28 anni.
Al Nord vivono i miei. E vive anche la madre di M.
In bicicletta, quei giorni, andiamo anche fino la casa del padre di M., che abita a 18 kilometri da casa nostra, a Victoria. Sempre verso Nord.
Per fare tutto quel pellegrinaggio, per arrivare all´ultima stazione del percorso e per tornare a casa nostra, bisogna quindi intraprendere una bella escursione, sotto alberi che, nei giorni d´autunno, hanno le foglie un po’ gialle, un po’rossastre, un po’ marrone.
Vicino al fiume.
Si è parlato tantissimo d´animali in queste settimane. Ho letto anche testi bellissimi sul rapporto tra uomo, animale, ambiente.
A dire il vero, già qualche messe prima che arrivasse il male, abbiamo visto un certo cambiamento nel nostro rapporto – diciamo un po’ lontano (da anni che non ho neanche un gatto) -, con i veri altri, con gli animali.
D´estate, nei colli, a Calamuchita, ci piace guardare gli altri.
Quasi ogni sera, quando cade il sole, usciamo di casa per trovare i gufi.
Quasi ogni mattina, verso le undici, andiamo fino il fiume del paese per guardare dalla riva gli uccelli acquatici. Siamo andati oltre il fiume, dove una azienda mineraria ha aperto enormi pozzi, oggi con acque, dove abitano cigni e dove abitano anche delle anatre.

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Stefano Raimondi, “Tremare”

Stefano Raimondi

di

Stefano Raimondi 

 

Eppure mi ero svegliato presto. Il sole aveva ancora il sapore dello zucchero filato appena fatto. Niente si muoveva smodatamente. Tutto aveva ancora un contorno pulito.  Lavandomi il viso sapevo che tutto era nel sogno: quello che avevo vissuto, quello che avevo visto. Un paese di invisibili viveva invisibilmente quello che dall’invisibile era stato colpito. Uno strano corpuscolo puntiforme stava attaccato ai respiri degli umani e quando colpiva qualcuno, faceva sparire la visibilità al malcapitato oltre che il fiato. Tutto diventava affannatamente pesante e tutto era come dentro una faticosa corsa. Nessuno più né si vedeva, né si riconosceva. Si camminava invisibili come si poteva nel tentativo disperato di farsi vedere. Ma più nessuno sapeva come ritrovarsi! Restavano le case a proteggere l’Invisibilità di ognuno. Lì ci si proteggeva dal fuori, dagli sguardi vogliosi di vedersi e repressi nel non riuscirci più. Le strade si sbendavano veloci tra le luci e per qualche ora sembravano aprirsi a qualcosa che sarebbe comparso. Ma poi ritornavano a raggomitolarsi nei cassetti e le città sbattevano ripetutamente le ante delle credenze, le assi delle loro bare di luce. Ogni mattina era un tentativo per ognuno: ognuno cercava disperatamente di farsi vedere. Ogni ricominciare nei giorni era una manovra per rendersi visibili e avvicinabili. Ma le distanze erano peggio delle menzogne. Tutti sospettavano, tutti presumevano, tutti iniziavano a non credere più a nessuno. Ma quello strano corpuscolo puntiforme teneva tutti ben nascosti nelle loro invisibilità ed oltre tutto, si era subito e arditamente dimostrato molto contagioso. Chi riusciva a farsi vedere forse diventava immune, ma anche questa era forse una bugia. Ma la questione era proprio quella: riuscire a farsi vedere senza fare paura. Continua a leggere

Tommaso Di Dio, “Il silenzio, l’assedio”

Tommaso Di Dio

DI TOMMASO DI DIO

Una qualità di silenzio unica, inaudita. Milano, come tante altre città d’Italia e del mondo, è stata fagocitata per alcuni mesi da uno stato di sospensione e apnea. È come se tutta la città e i suoi cittadini avessero smesso di respirare. La città è stata sommersa da un liquido invisibile: aveva il peso del piombo ma era come trasparente, un etere oscuro che, anche di notte, si adagiava come una pellicola sulle facciate delle case, dalle cui finestre rilucevano a centinaia le stanze dove erano intrappolate in una luce d’acquario cose affetti persone.

Mi è davvero difficile spiegare a parole quanto quel silenzio sia stato profondo, sconvolto. Confido che chi qui mi sta leggendo ne abbia una qualche esperienza. In queste settimane ho provato più volte ad ascoltarlo, a dirlo a me stesso, a pensarlo; ma niente, qualcosa sfuggiva, restava inerme al di là dello sguardo. Nella città dove vivo, anche a tarda notte, d’estate, se si tace e si ascolta a finestra aperta, di solito è possibile sentire il grande ronzio delle circonvallazioni, dove operai, automezzi, centraline, termovalorizzatori e ventole, continuano il proprio moto senza mai fermarsi. È il grande boato della città, il rumore bianco del suo sangue in circolo per le strade e le arterie nel suo corpo gigante, che si allarga fino ai confini della Lombardia, con i suoi 10 milioni di abitanti, immerso e connesso dalle sue macchine e strumentazioni, da cui la vita umana occidentale non può più prescindere. Nei mesi feroci della pandemia, gran parte del movimento di questi corpi pesanti è stato abolito; è rimasto invece lo spettrale movimento della luce e delle radiotrasmissioni: la luce che scorreva inesausta per le fibra sotterranea, entrava in ogni palazzo, risaliva i muri, pulsava, mentre il campo del 4G avvolgeva ogni nodo, ogni singolo device alla rete internet mondiale. Il silenzio di questi mesi, infatti, la sua particolare densità, non è stato causato dalla semplice assenza dei motori; è stato tutt’altro dal silenzio che si avverte quando si è dentro un bosco, in mezzo al mare, sulla cima di una montagna. Quello che abbiamo provato è stata invece l’ostinata presenza, finalmente resa palpabile dal diradarsi dei corpi visibili, del moto infinito dei dati che illuminano i nostri schermi. Quel silenzio erano onde, vaste, continue, pulsanti, di informazioni, paranoie, dolori, terrori, paure, speranze, cazzeggio, notizie, faccine. Tutto ciò che agitava il pensiero degli umani, ogni loro spostamento emotivo, era impercettibilmente tradotto in questo scroscio ondulare, frenetico, isterico che finalmente occupava, da solo, lo spazio della terra. Umano e macchinico insieme, ho sentito per la prima volta con la più grande forza questo respiro che è letteralmente l’indescrivibile contemporaneo, il suo sostrato materiale, il fondo brulicante di ogni nostro discorso. A volte, mi affacciavo dalla finestra, guardavo la strada, guardavo le altre finestre; cercavo di cogliere i minimi movimenti della gente, cercavo di sentire cosa si dicevano, cosa provavano dietro le tende, dietro i portoni, cosa si agitava all’interno di quegli spazi chiusi e sigillati e potevo vedere, con una chiarezza mai prima avuta, il fascio di dati che trasudavano e, rivolta contro quegli stessi corpi, a distruggerli, a farli scomparire in un fuoco interno, l’assedio di una forza centripeta, che poteva essere ovunque, che dilagava, che si espandeva. Continua a leggere

Fabio Ciriachi, “Una grigia e sottile pioggia obliqua”

Fabio Ciriachi, credits ph Dino Ignani

DI FABIO CIRIACHI

 

 

Ho visto il segreto della scrittura! L’ho visto a forza di leggere e leggere nonostante gli equivoci che la cosa comporta, l’ho visto dopo aver perso tempo a cercare il dettaglio sbagliato nel posto sbagliato, ad amare forme deformanti, a pretendere la risposta quando mancava la domanda. L’ho visto mentre seguivo argomenti tutti in apparenza buoni, e invece tutti prossimi a concludersi nel nulla; stelle spente che non curavo neanche con un minimo di funerea pietà.

Averlo visto è stato destabilizzante. Mi ha spinto a chiedermi, addirittura, se non fosse meglio la miopia; soprattutto davanti a cose simili a quella appena vista. Da miopi, si possono utilizzare cartografie di facile uso; i luoghi dove giudicare e essere giudicati non mancano e sono sempre molto frequentati, ci sono giochi condivisi, ruoli un po’ egemoni e un po’ gregari, niente di particolare, quanto basta per avere voce in capitolo in qualche singolo capitolo, e per non averne in quell’opera dove tutti i capitoli sono occupati da altre voci che però, dopo aver detto la loro, lasciano il posto a chi vuole dire la sua, e si può tornare a fare una nuova lettura dell’opera o di qualche suo capitolo che magari includa nuove sfumature di senso, campi di vocalizzi anche incolti dove di sera sia possibile sentir risuonare domande non proprio capitali ma capaci di suscitare un certo interesse, tipo quanto umanesimo c’è (o c’era) nel futurismo? E altre che non dico, tanto è lo stupore per quello che ho visto, inimmaginabile fino a qualche ora fa quando, dal letto, guardavo con un po’ di magone il giorno scolorire contornato dal rettangolo della porta-finestra spalancata. Poi, senza neanche dover riprendere in mano il libro, ma solo rimuginando intorno a qualcosa appena letta, improvvisamente ho visto. Continua a leggere

Gilda Policastro, “La metafora del fuoco”

Rome, September 21, 2013.
Gilda Policastro, writer, poet, literary critic and essayist, editor of the magazine Allegoria collaborates with «Alias», «Liberazione», «L’Indice dei Libri del mese ‘, L’Immaginazione. He has published essays and articles, was finalist of Premio 2009 Delfini, photographed in Rome in the Park of Villa Torlonia/Gilda Policastro, scrittrice, poetessa, critica letteraria e saggista, redattrice della rivista Allegoria collabora con Alias, Liberazione, L’Indice dei Libri del mese, l’immaginazione. Ha pubblicato saggi ed articoli, è stata finalista del Premio Delfini 2009, fotografata a Roma nel parco di Villa Torlonia.
Photo: RINO BIANCHI

Il tempo delle metafore

gilda policastro

 

I linguisti definiscono speciali o settoriali le lingue dei saperi tecnici e specialistici: il diritto, l’economia, il commercio, l’informatica, la medicina, tra le principali. Si tratta di lingue, come chiariva Gian Luigi Beccaria in un saggio ormai classico degli anni Settanta, parlate da una definita cerchia di persone, con riferimento e per scopi condivisi da tutta la comunità. Non si parlano nel quotidiano, ma possono fare irruzione nelle nostre vite quando abbiamo a che fare con un fenomeno particolare: se abbiamo ereditato, ad esempio, sapremo cos’è una successione, se andiamo a fare degli accertamenti e l’esito è negativo, a differenza che nell’accezione comune l’aggettivo potrà tranquillizzarci. Di solito queste lingue e questi saperi ci riguardano in circostanze particolari, perciò difficilmente coinvolgono più persone nello stesso momento. La situazione eccezionale che abbiamo vissuto negli ultimi mesi ci ha invece posto in contatto con un sapere, anzi, più saperi specialistici che hanno riguardato tutti nello stesso arco temporale (o su punti diversi di una stessa linea temporale, come aveva giustamente osservato Paolo Giordano). Abbiamo anche una data: dal 21 febbraio, dalla scoperta del presunto paziente uno (M***** di Codogno, spixellato in spregio al più elementare senso della privacy), giorno dopo giorno siamo entrati in possesso di saperi e competenze che ci erano, per gran parte, estranei. Ci siamo trovati a vivere un’eterna ora di Scienze, e la differenza col liceo è che a questa ora non ne seguivano altre, di Greco, Latino, Dante o Storia dell’arte. Tutto sospeso, in favore dell’unico sapere emergenziale. E ci nutrivamo di parole (secondo la Treccani, un centinaio) che colonizzavano il nostro immaginario in modo sempre più insistito. Alcune le conoscevamo e le adoperavamo già, in senso metaforico: Daniele Giglioli, sulla scorta di Lacan, nel suo libro intitolato Senza trauma alcuni anni fa aveva studiato la narrativa degli anni Zero considerandone i testi-campione come “sintomi”. Di un pezzo molto condiviso nella rete, abbiamo imparato a dire che è “virale”. In un saggio del 2003 intitolato Poésie action directe Christophe Hanna aveva introdotto il concetto di “poesie-virus” in riferimento a quei casi in cui la poesia “abbandona la forma del libro venduto sullo scaffale di libreria […] per agire all’interno di altri sistemi simbolici: i cartelloni cittadini, il sito web di tendenza, il giornale, la rivista, il cd-rom pedagogico o enciclopedico” (così nella traduzione di Gherardo Bortolotti e di Michele Zaffarano). Salto di specie, indubbiamente. La scienza si è ripresa il suo e abbiamo risemantizzato queste parole nella loro accezione originaria: oggi non si può dire che il sapere scientifico, anche minimale, elementare, sia pur corrotto da un’informazione non sempre scrupolosamente fedele alle fonti e al contesto inevitabilmente conflittuale degli scienziati (abbiamo, tra l’altro, imparato a riconoscere e a tifare per gli esperti delle diverse branche, dai virologi agli epidemiologi agli infettivologi agli statistici), non sia effettivamente entrato nel lessico famigliare e quotidiano. Di tutti. Se i termini sono tornati alla scienza, le parole (per riprendere la distinzione leopardiana tra i primi e le seconde) hanno tentato di riprendersi la loro forza evocativa, soprattutto nella costruzione di metafore. La pandemia è una “guerra contro un nemico invisibile”, la prima e più abusata: peraltro favorita dagli stessi scienziati, che hanno sin da subito parlato di “strategia di contenimento” e di “coprifuoco” per il nostro confinamento (o lockdown). Continua a leggere

Maurizio Cucchi, una poesia inedita

Maurizio Cucchi, Credits ph. Dino Ignani

Sono qui, uguale
in tutto a tutti noi,
in questo bizzarro oscillare
di umori nuovamente strani
e osservo dal balcone la via,
il giallo della casa dove un tempo
era la casa del Petrarca, il genio
della parola limpida, della parola
che parla, che ci parla e da lontano
nelle epoche, ancora, nel suono
ci conforta nel suo umano miracolo,
nella bellezza che non muore

in quella strenua verità del dire
senza gridare. E nella sua musica
che ci coinvolge nella meraviglia
e nell’armonia di un’adesione,
gli uni per gli altri senza vane
tensioni, in una domestica
giornata di pensieri e poesia, di ascolto
della parola d’arte, profonda
e insieme semplice, da perlustrare,
amorevolmente, come formichine
attente, su e giù per i versi e le righe
e per gli umani silenzi,

con la fiducia nella parola che davvero
parla alla nostra mente, perché la vera
poesia è la parola che non mente. Continua a leggere

Susan Stewart, “Ottave”

Susan Stewart

Natureingang

Almost May, the solitary fisherman
holds up two brown trout
on a stringer: “breakfast” he smiles around
his mask. Yanked from the eddies, scuds and caddis
flies, unfurling, by the banks, trillium,
skunk cabbage. The here and now of starts
and stoppages. One day this song will be merely
puzzling. What did they mean by a mask? they’ll say.

Natureingang

Quasi Maggio, il pescatore solitario
sorregge due trote fario
su un gancio: “colazione”, sorride di lato
alla maschera. Strappate da gorghi, gamberi e tricotteri
alati, dischiusi presso le sponde, trillium annuenti,
lanterne di palude. Il qui e ora di ripartenze
e fermi. Un giorno questo canto sarà meramente
sconcertante. Cosa intendevano con una maschera? diranno.
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Elena Pulcini, “L’epoca della grande cecità”

Elena Pulcini

IL RISVEGLIO DELLE EMOZIONI PER UN CAMBIAMENTO DI ROTTA
DI ELENA PULCINI 

“Devi cambiare la tua vita…”: questo imperativo che durante una visita al Louvre, Rainer Maria Rilke sentì risuonare dentro di sé di fronte alla statua di Apollo, viene ora adottato da Peter Sloterdijk, che in esso cerca una risposta alla sua diagnosi della crisi ecologica e alla radicalità dei suoi effetti. Una crisi a lungo rimossa dalle nostre coscienze, dalla politica e dal dibattito mediatico, che ci è caduta improvvisamente addosso con la violenza e la pervasività del Covid19. Perché, è bene ribadirlo subito: questo virus, prodotto dallo spill over, da quel salto di specie che ci ha reso vittime di un pipistrello, è l’effetto della grave alterazione dell’equilibrio naturale (in questo caso deforestazioni e inquinamento) che sta distruggendo il pianeta. Non potrebbe esserci immagine più adatta di questa pandemia a rappresentare simbolicamente la nostra epoca, o meglio la nostra “era”, quella che chiamiamo Antropocene, in cui l’agire umano ha raggiunto l’assoluta priorità, l’apice della potenza, che si rovescia però, allo stesso tempo, in potenziale autodistruzione.

Impossibile elencarne le cause: ci sono cause più storiche, come un capitalismo sempre più predatorio, e l’inversione immunitaria di Stati e individui di fronte all’insicurezza prodotta dalla globalizzazione; e ci sono cause ontologiche, come il nostro millenario antropocentrismo e la nostra hybris che ci spinge sempre più al dominio senza limiti della natura. Possiamo anche risalire alla sua origine moderna che alcuni, da Hannah Arendt a Latour, vedono nel distacco dalla Terra, ridotta ad un oggetto inerte da sfruttare a piacimento per i nostri bisogni, e sempre più deprivata della capacità omeostatica di rigenerarsi. Insomma siamo diventati vittime del nostro stesso potere, mettendo a repentaglio il nostro futuro e quello dell’intero mondo vivente.

Purtroppo, però, nonostante i segni sempre più visibili di una possibile catastrofe (riscaldamento climatico, erosione delle risorse, perdita della biodiversità, inquinamento) sembriamo inclini a denegare la realtà, a rifugiarci nell’indifferenza, e quel che è peggio a difendere ad ogni costo uno stile di vita che ci priva dell’aria che respiriamo, ci sommerge di rifiuti, ci inonda di cose inutili e superflue, ci fa ammalare… Nonostante tutto il nostro sapere e la nostra scienza, nonostante il profluvio delle informazioni e la rete comunicativa globale che abbiamo costruito, siamo ciechi di fronte a fenomeni sempre più devastanti e incontrollabili, tanto che è inevitabile chiederci, come fa Amitav Gosh ne La grande cecità: non è paradossale che “questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della grande cecità”? E’ paradossale, ma non inspiegabile: perché la nostra psiche non è capace, evidentemente, di immaginare la catastrofe e si protegge attraverso quel meccanismo di difesa che Freud ha definito diniego, impedendo che la realtà tocchi le nostre zone più profonde, la nostra emotività. Continua a leggere

Forrest Gander, due poesie inedite

Forrest Gander, Pulitzer Prize 2019, ph. by Nina Subin

FORREST GANDER
TRADUZIONE DI LUCA GUERNERI

 


When the Sky Stops Being Blue

 

In isolation they began to notice * new intimacies appear

intensified by the inhuman * oratorios of spring
but it was still * hard to recognize events

as they happened * to explode instant by instant

before them, hard for anyone * to be a whole person

not dwelling on their mistakes * inside a reality filled

with the feeling of unreality * like an ocean filled with

withdrawal, and so (she said) * they would go traveling
across borders in their minds, * and although he agreed
he really just wanted to turn   * back time (he said) to where
the meaning was, and then * both saw in an unpetaling

gift of intuition, the meaning * was here. It was now.

 

Quando il cielo cessa d’essere blu

 

In isolamento presero a notare * l’apparire di nuove intimità

intensificate dagli inumani * oratori della primavera
eppure era ancora * difficile riconoscere gli eventi

mentre andavano * esplodendo istante dopo istante

davanti a loro, difficile per chiunque * essere tutti di un pezzo

non dimorare nei propri errori * dentro una realtà piena

di un senso di irrealtà * come un oceano pieno

di risacca, e dunque (disse lei) * avrebbero viaggiato
attraverso i confini delle loro menti * e benché lui fosse d’accordo,
in realtà avrebbe solo voluto rimettere indietro * il tempo (disse lui) là dove
stava il significato e fu allora * che tutti e due videro in uno sfiorente dono

d’intuizione che il significato * stava nel qui. E nell’ora.

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Albert Camus, “Sull’avvenire della tragedia”

di  LORENZO CHIUCHIU’ 

Il testo proposto è parte di una conferenza che Camus tenne ad Atene nel 1955. La traduzione integrale è uscita su Davar III (Reggio Emilia 2006) e su “La Repubblica” del 18/11/2006.

Il tragico e la sua «immobilità forsennata», le «duplici maschere del bene e del male»; il «tutto è bene» simile all’attuale «andrà tutto bene»; la responsabilità del singolo di fronte alla dismisura della storia (per Camus la guerra fredda, per noi la globalizzazione) e delle potenze che la attraversano (la tecnica, le guerre convenzionali e quelle economiche, la peste che colpisce i corpi e quella che svuota il senso delle parole); il teatro di propaganda che somiglia alle retoriche politiche di oggi.

Camus, come tutti classici, precorre i tempi o li dissolve, fa impallidire cronaca e sociologia: a volte la storia assume il volto del destino e l’ultima parola spetta alle esistenze libere, inquiete e in rivolta.

 

Sull’avvenire della tragedia
di Albert Camus

 

Un saggio orientale nelle sue preghiere chiedeva alla divinità di risparmiargli di vivere in un’epoca interessante. E la nostra epoca è interessante, vale a dire tragica. Per purificarci dai nostri mali, abbiamo almeno il teatro della nostra epoca o possiamo sperare di averlo? In altre parole, è possibile la tragedia moderna? È questa la domanda che vorrei porre oggi. Ma questa domanda è ragionevole? O piuttosto è del tipo: «avremo un buon governo?» o «i nostri scrittori diverranno modesti?» o ancora «i ricchi spartiranno presto la loro fortuna con i poveri?», domande interessanti, ma che danno più da sognare che da pensare.

Credo di no. Credo invece che per due ragioni ci si possa interrogare legittimamente sulla tragedia moderna. La prima è che i grandi periodi dell’arte tragica si collocano, nella storia, in secoli di transizione, in momenti in cui la vita dei popoli è ad un tempo carico di gloria e di minacce. Dopo tutto Eschilo combatte due guerre e Shakespeare è contemporaneo di una bella serie di orrori. Inoltre entrambi si trovano in una sorta di pericolosa svolta nella storia della loro civiltà.

Si può rilevare che nei trenta secoli della storia occidentale, dai Dori fino alla bomba atomica, non ci sono che due periodi dell’arte tragica, entrambi circoscritti nello spazio e nel tempo. Il primo è il greco, presenta una grande unitarietà e dura un secolo, da Eschilo a Euripide. Il secondo dura poco più e fiorisce nei paesi limitrofi ai confini dell’Europa occidentale. In effetti, non si è sottolineato a sufficienza che la magnifica esplosione del teatro elisabettiano, il teatro spagnolo del secolo d’oro e la tragedia francese del XVII secolo sono pressoché contemporanei. Quando Shakespeare muore, Lope De Vega ha cinquantaquattro anni e ha già fatto rappresentare la gran parte delle sue pièces; Calderón e Corneille sono vivi. L’intervallo di tempo fra Shakespeare e Racine non è più lungo di quello fra Eschilo e Euripide. Almeno storicamente possiamo considerare che si tratta, con estetiche differenti, di una sola e magnifica fioritura, quella del Rinascimento, che nasce nel disordine ispirato al palcoscenico elisabettiano e raggiunge la perfezione formale nella tragedia francese. Continua a leggere

Alberto Fraccacreta, “L’essere nel mondo”

Alberto Fraccacreta

Jaccottet nel suo studio mentre scrive Et, néanmoins

DI ALBERTO FRACCACRETA

Paroles à la limite de l’ouïe, à personne attribuables,
reçues dans la conque de l’oreille comme la rosée par une feuille.

Philippe Jaccottet, Et néanmoins

Pensa al martin pescatore del gesuita Hopkins.
L’arancio e l’azzurro come la polpa di una vetrata
della cattedrale a lui preclusa.
Riflette su come sia sfolgorante quell’esserino
accovacciato nel fiume di alcuni anni fa,
senza accorgersi che anche il suo volto lo stia diventando.
Stia distendendo le grinze, sia stirato. Sua moglie dipinge nell’atelier.
Lui rivolge l’attenzione a un frutteto di mele cotogne
che cambiò la percezione delle cose.
Ha cassato un titolo, poi ha scritto
con la pazienza e la deferenza del botanico
dei boschetti sacri sulle Alpi e di un minuscolo pettirosso
che da poco lo ha raggiunto in giardino. Si ferma Philippe. Ha un cedimento.
(La Drôme è d’animo grigioperlaceo, Alvernia rimane in silenzio.)
Ascolta parole che nessuno mai in alcun tempo sentì.
La sua penna cauterizza l’aria.

‘Tutte cose da niente, infime. Esca l’io dalla poesia’,
sembra balbettare, mentre affetta un fico
che deterge lo scrittoio e lascia un alone.
‘Entri la docilità della viola, l’umiltà
della carota selvatica, l’assenza del soggetto,
l’accoglienza della non dimenticanza di sé.’
Sorride, e la sua bocca è un grappolo di ribes.
Le nubi dell’Alta Provenza tendono l’orecchio. Il Rodano si volta.
‘Entri un soggetto capiente, che fa largo come un canneto.
Un io non io presente a sé stesso.
Entri la drappeggiatura turchina di convolvoli nel mio spazio. L’infimo. L’insulso.
Io resto.’ Philippe si alza adagio dalla scrivania
e ora cammina circospetto,
perché qualcosa sembra aver capito,
una nuova consapevolezza si erge oltre le opinioni di Starobinski
e pare condurlo nel mormorio indistinto
di un io povero,
di un centro della terra, un aratro dove non si cede
al limite del botro, non si scivola più per attrito
ma si vive la pratica di una fresca purezza
nel nido dell’anemone di Grignan. ‘Ma soprattutto, ripete,
entri l’umiltà della carota selvatica.’ Continua a leggere

Emiliano Ilardi, Il covid 19 come stress test

Emiliano Ilardi


LA MEDIASFERA DIGITALE DI FRONTE ALL’EMERGENZA.

di EMILIANO ILARDI

 

 

Tra le tante caratteristiche che rendono il disastroso terremoto di Lisbona del 1° novembre 1755 la prima catastrofe genuinamente moderna della Storia, vale la pena di isolarne una perché, a più di 250 anni di distanza, risulta ancora utile per comprendere come funziona il rapporto tra evento catastrofico ed evoluzione dei media.

La notizia del disastro lusitano si diffonde in tutta Europa a una velocità mai vista prima e dà vita a un primo embrione di villaggio globale e di opinione pubblica di massa. Così scrive Goethe nelle sue memorie:

Ancor maggiore fu l’effetto delle notizie che si diffusero rapidamente, prima in modo generico, poi corredate di dettagli terrificanti. Poi vennero i timorati di Dio con le loro prediche, i filosofi con i loro argomenti consolatori, e non fecero mancare paternali allo spirito. Questo insieme di elementi concentra l’attenzione del mondo, per un certo lasso di tempo, tutta in quel punto, e gli animi, sollecitati dalla disgrazia accaduta altrove, furono tanto più sopraffatti dall’angoscia per sé e per i propri cari quanto più affluivano da ogni parte informazioni, sempre più numerose e circostanziate, sulla diffusione degli effetti di quell’esplosione. Mai forse, in precedenza, il demone del terrore aveva avvolto tanto velocemente e potentemente la terra nel suo brivido.[1]

L’industria culturale nascente riceve un fortissimo impulso dal disastro di Lisbona. Vengono stampati in pochissimi anni migliaia di riviste, fogli periodici, gazzette, bollettini e almanacchi dedicati all’evento che diventa la prima bomba di panico mediatica della modernità. Si afferma il libro illustrato perché tutti, anche i non alfabetizzati, vogliono sapere cosa è successo a Lisbona. Tali pubblicazioni dureranno per un secolo. La catastrofe crea quasi dal nulla l’editoria istantanea, accelera l’espansione della stampa quotidiana e il passaggio da un sistema editoriale basato sulla Storia (il libro) a uno basato sulla cronaca (il giornale); mostra che non solo i mercati cominciano a globalizzarsi ma anche, grazie a nuovi media, le paure collettive.[2] Continua a leggere

Una poesia di Alberto Bertoni

Poesia Festival 2017 Sabato a Vignola l’Alzheimer : la malattia, la cura, ……. photo© Serena Campanini

20.02.2020, il potere dei numeri
di Alberto BERTONI

Ero lì,
adesso a pensarci
può sembrare incredibile,
ma io ero proprio lì,
io che a Milano vado ormai di rado,
e che l’Inter la guardo
solo in TV come le corse
nel brutto surrogato
di S. Siro trotto abbandonato,
campo straziato di rottami, erbe matte, sterpaglie
da distruggere ogni tanto dando fuoco,
non ombra di cavallo appena qualche
serpente innocuo
e l’impero del topo

Invece ero lì,
il 20 febbraio, giovedì
per fare il commissario di concorso
a professore associato
coi colleghi Antonio e Paolo
assieme ai quali a un bel momento pranzo
nella mensa promiscua dello IULM
con sandwich al salmone e minerale
sulla fòrmica ripassata di straccio
in mezzo a un massacro di studenti
ridendo e chiacchierando
senza pensieri, in un concerto
di bocche spalancate

Verso le 20 ho riavviato la mia auto
dal gelido parcheggio sotterraneo
ma non ho chiamato Mario
come pure avevo programmato
e mi sono avviato verso Modena
ascoltando l’Inter alla radio
nell’assurdo di uno stadio bulgaro

Alle 21 in punto mi sono fermato
nell’area Somaglia dell’A1
a far rifornimento di metano
fra le uscite di Lodi e Basso Lodigiano
quando poi oggi dalla Rete imparo
che non c’è dubbio alcuno
il punto originario del contagio
è all’unanimità riconosciuto
il 20 febbraio, giovedì, alle 21 in punto

Adesso, inoltre, mi ricordo
che il benzinaio,
un ragazzo basso e magro
coi baffetti sottili
e un velo bianco di sudore
inadeguato al freddo,
mi ha pulito il parabrezza
dopo almeno dieci anni che nessuno
più l’aveva fatto
e che mi ha chiesto
attraverso lo sportello semiaperto
avvicinando complice le labbra
al mio volto concentrato sul calcio
dove stavo andando e confidato
che lui era quasi a fine turno
e non vedeva l’ora di tornare
in centro a Codogno dalla moglie Continua a leggere

Giulia Napoleone, “Le fragilità dentro e fuori di me”

In questi mesi di pandemia io ho apparentemente fatto la stessa vita degli ultimi dieci anni, cioè dal mio rientro dalla Siria.

Niente di diverso. Chiusa tra casa, studio e giardino, ho vissuto tempi di completo isolamento, lavorando per molte ore, punto su punto, riga su riga, tra musica e poesia.

Ho alternato in questi anni lunghi periodi di isolamento e lavoro a viaggi anche frequenti, brevi o lunghi che fossero, sempre con accurate e precise preparazioni. Questo insieme mi ha consentito un giusto equilibrio di vita, di rapporti, partecipazioni, incontri con “l’altro da me”.

Il viaggio non è per me solo spostamento, non è lasciare un luogo per arrivare ad un altro.

Disegno di Giulia Napoleone

Per me viaggiare è una condizione, una necessità vitale che mi permette il raggiungimento di quell’equilibrio di cui sono alla costante ricerca.

Equilibrio tra geometria e natura, ordine e caos, realtà e sogno, concentrazione assoluta e mondo esterno.

Essere privata dalla possibilità di viaggiare, di questa risorsa essenziale mi ha quindi creato in questi mesi un grande disagio.

Ho continuato a lavorare, spesso al limite delle mie energie, ma quello che è profondamente cambiato è lo spirito con cui ho affrontato le mie giornate di lavoro. Giorni trascorsi con profonda tristezza per le notizie, le immagini, le incertezze, la perdita di tanti amici.

Disegno di Giulia Napoleone

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Carlo Bordini, “L’Italia è nei guai”

Carlo Bordini/ credits ph. Dino Ignani

Doomsday Clock e realismo
di Carlo Bordini

1

Il Doomsday Clock (orologio dell’apocalisse) è l’iniziativa di un gruppo di scienziati dell’università di Chicago intesa a misurare metaforicamente il pericolo di un’ipotetica fine del mondo. Iniziata nel 1947, la lancetta che si avvicina alla mezzanotte dell’apocalisse è andata progredendo; all’inizio mancavano sette minuti; quest’anno, nel 2020, le lancette distano dalla simbolica mezzanotte 100 secondi, solo un minuto e quaranta.

Inizialmente gli scienziati intendevano come elemento principale di pericolo la guerra atomica; dal 2007 hanno cominciato a considerare altri elementi, come, ad esempio, i cambiamenti climatici.

Con questo atto metaforico gli scienziati vogliono ricordare all’umanità che la nostra civiltà è affetta da numerose malattie mortali che dovrebbero essere subito affrontate. Ma queste sono cose che ormai sanno tutti… Io le ho prese dal web (cosa facilissima) ma già le sapevo come le sanno tutti. E tutti sanno che l’umanità non fa quasi nulla per affrontare questi problemi.

Ho la sensazione che il covid-19 faccia parte di questa rovinosa corsa verso la distruzione. Dato che le malattie mortali dell’umanità sono molte, questa mi sembra essere una delle tante, e neanche la più tragica (pensiamo alla sovrappopolazione, ai cambiamenti del clima, alla presenza delle armi atomiche). Comunque io, poetino romano, non ho ricette interpretative o risolutive. Mi limito a constatare che siamo alla vigilia di una fortissima crisi economica, per esempio. Constato. Cerco di salvarmi personalmente.

So, da tempo, che il mio compito non è salvare il mondo, ma salvarmi nel mondo. E inoltre, accetto la catastrofe.

Potremmo chiederci: ma allora, a che serve fare il poetino romano? Non lo so. Francamente non lo so. Forse a credere in un’utopia. Come i bambini: chi vuol credere all’utopia metta il dito qua sotto. Continua a leggere

Gina Gioia, “Il diritto alla salute”

Gina Gioia

diritto a essere malati (e il dovere a rimanere sani)
di Gina Gioia

 

 

  1. Esisteva nell’antica Roma uno strano modo di dire: depontani senes o sexagenarios de ponte.

La depontazione degli anziani potrebbe essere collegata alla cerimonia che si svolgeva alle Idi di maggio durante la quale fantocci di vimini con mani e piedi legati venivano gettati dal ponte Sublicio nelle acque del Tevere alla presenza delle più alte cariche della Respublica: vestali, pontefici, pretore.

Pare che la cerimonia ricordasse degli antichissimi sacrifici umani e qualche studioso ha ipotizzato che i Romani delle primissime origini depontassero i sessagenari al fine di sgravare la società da pesi economici inutili. Usanza che del resto avrebbe riguardato molte popolazioni primitive.

Lo sviluppo della società romana indusse ben presto a interrogarsi sull’origine di questi riti, che venivano chiamati Argei e di cui si erano perse le tracce sulle origini. Sono riportati da Festo e richiamati da molti altri, compreso Cicerone. Nonostante gli sforzi per trovare una spiegazione agli Argei, non si giunse a una conclusione condivisa. Quello che è certo è che già i nostri fondatori del diritto, oltre duemila anni fa, mostrano una vera ripugnanza verso la possibile tradizione dei loro progenitori. La stessa ripugnanza che proviamo ancora noi oggi.

Il detto depontani senes, come mostrano alcuni studi moderni, non aveva niente a che vedere con la cerimonia degli Argei, per fortuna. Perciò, soprattutto grazie agli storici del diritto romano, è stato spiegato come i Romani, nemmeno ai primordi della civiltà, pensarono mai di sbarazzarsi dei loro nonni.

 

  1. Una delle caratteristiche delle società civili come la nostra è quella di garantire il diritto alla salute di tutti, senza alcuna distinzione tra gli individui che ne necessitino. Il diritto alla salute è considerato un bene del singolo e, al contempo, un bene della collettività.

Con il CoronaVirus si è rischiato di privare i singoli delle cure vitali necessarie per eliminare o attenuare gli effetti del virus, ma anche per trattare tutte le altre malattie, anche quelle più banali. Il rischio era che il sistema sanitario non reggesse l’impatto dovuto alla richiesta di assistenza provenienti da decine di migliaia di persone e che nessuno o pochissimi potessero ricevere le cure ospedaliere. Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, avrebbe potuto essere violato, in maniera massiccia e sistematica. Continua a leggere

Lorenzo Babini, “L’arca del diluvio”

Lorenzo Babini

DI LORENZO BABINI

 

Ci sono civiltà che ci hanno lasciato, attraverso i miti, le cronache e le opere letterarie, la testimonianza di calamità che hanno sconvolto il genere umano nel corso della storia, ponendolo di fronte al limite della propria fine.

L’evento del diluvio universale può fungere in questo senso da prototipo, sia per il suo primato cronologico che per la sua esorbitante portata: lo sterminio dell’uomo deciso perentoriamente da forze superiori. Qualcuno è però destinato a salvarsi e il racconto biblico, introducendo varianti alle versioni che l’hanno preceduto, si sviluppa insistendo soprattutto su questo aspetto.

Anche nelle antiche versioni assire e babilonesi, nate a partire da testi ancora precedenti, l’eroe si salva e ottiene sia l’immortalità che la possibilità di soggiornare in un’oasi di pace alla foce dei fiumi. Quando però lo ritroviamo in scena, nella tavola XI dell’Epopea di Gilgamesh, ci appare come una figura lontana e scolorita: le sue parole ristabiliscono l’ordine, affermano in maniera netta che la vanità di ogni gesto, che l’uomo è fatto per la morte. D’un colpo ci troviamo agli antipodi di quella grandezza, di quel sacrificio e di quella generosità che aveva portato l’eroe a farsi carico della semenza di ogni forma di vita, affinché non perisse nel diluvio.

Nella versione biblica Noè non viene premiato con l’immortalità e la sua storia assume contorni apparentemente più prosaici: la sua arca si incaglia sui monti Ararat, dove scopre la viticoltura e inaugura la produzione di vino, facendo per primo l’esperienza dell’ebbrezza. Gli avvenimenti sono inquadrati in un complessivo percorso di alleanza con Dio, riservato non ad un singolo ma ad una umanità nuova, non immune da crisi, angosce e sviamenti, nel continuo susseguirsi di generazioni alle prese con i propri deliri e vacillamenti, come vacillante e incerta era la sovrabbondante arca, carica di ogni forma di vita.

La sovrabbondanza dell’arca è anche la sovrabbondanza della poesia che l’ha fatta conoscere a noi, a cui va, come minimo, il merito averci tramandato la sapienza di questo “prima” del mondo. Chi di noi, negli ultimi mesi, esposto all’estraneità dell’isolamento, costretto al silenzio e quindi all’ascolto, avrà avuto modo di esperire in sé la feroce e improvvisa emersione del proprio passato, l’incapacità di trovare consolazioni, la fragile nudità dell’io di fronte al proprio tempo e agli avvenimenti, non potrà non avere avvertito anche il richiamo alla ricchezza della propria vita interiore e, con esso, il desiderio di una parola in grado di riconciliarsi con l’intima essenza dei propri sconvolgimenti e all’angoscia del tempo presente. Continua a leggere

Dario Cecchi, “La macchina della storia”

Dario Cecchi

di DARIO CECCHI

 

Mi è capitato di scrivere che una novità da subito evidente nell’attuale crisi pandemica è il fatto che la natura ha rimesso in modo la “macchina della storia”. Credo ancora che le cose stiano così, a distanza di circa tre mesi dall’inizio del lockdown. A ulteriore conferma di questa convinzione sta il fatto di aver letto altre persone – le più disparate: giovani, anziani; intellettuali, “gente comune” – pensare la stessa cosa. Se le cose stanno così, se cioè il Covid-19 ha un significato storico, mi sembra utile chiedersi quale sia.

Va detto innanzi tutto che questa idea assume una luce particolare sotto il profilo filosofico. Dal punto di vista strettamente storiografico, della storia di questa pandemia che un giorno sarà scritta, è già evidente che si tratti di un evento di svolta. Pur terribili, HIV, Ebola o SARS, solo per citare alcuni casi recenti, sono virus che siamo riusciti a mantenere circoscritti a determinate aree geografiche o che si sono potuti contenere ponendo particolare attenzione a determinati comportamenti o pratiche. Hanno colpito l’immaginario in modo diverso: erano virus di continenti lontani, oppure evocavano un rapporto “proibito” con il corpo. Il Covid-19 colpisce invece senza distinzioni: è democratico, come si ripete spesso. Inoltre questa condizione interessa anche l’Occidente ricco e industrializzato, che dopo la seconda guerra mondiale si era progressivamente abituato all’idea di aver neutralizzato gli aspetti più dolorosi della vita umana. In secondo luogo il Covid-19 ha scatenato la prima pandemia dell’epoca della globalizzazione. L’interpretazione di questa novità richiederà una lettura attenta del fenomeno. Appare chiaro però che sia le traiettorie di propagazione del virus sia la rapidità di tale propagazione sono collegate con l’accorciamento delle distanze e con la rapidità degli spostamenti che caratterizzano il mondo globalizzato.

Fin qui siamo alla rilevanza storica del fenomeno. Ma la “storicità” dell’evento invoca anche una riflessione filosofica: occorre chiedersi quale immagine del mondo ci accingiamo ad abbandonare, perché non risponde più alle condizioni politiche attuali, e quale nuova immagine del mondo si sta formando. Dal 1989, con la caduta dell’impero sovietico e la fine della guerra fredda, si concludeva quello che lo storico britannico Eric Hobsbawm ha definito il “secolo breve”. L’eccezionalità di questo evento geopolitico ha riportato in auge, in particolare negli ambienti neoconservatori statunitensi, l’idea che fossimo prossimi alla “fine della storia”: ne è testimonianza il saggio di Francis Fukuyama The End of History and the Last Man. Secondo questa teoria il conflitto tra le superpotenze, che stava abbandonando il terreno dello scontro ideologico, avrebbe visto il trionfo del liberalismo in politica e del liberismo in economia. Questa idea trovava un’eco in analoghe ipotesi, più vicine alla “sinistra” intellettuale, in special modo europea: penso alla lettura della filosofia della storia hegeliana condotta da Alexandre Kojève, secondo il quale la storia culminerebbe in un mondo gli individui avrebbero smesso di battersi per l’affermazione di idee e si sarebbero dedicati al mero “trascorrere” della vita. Ma penso anche alla, altrettanto criticata oggi, teoria di Jean-François Lyotard sul postmoderno come fine delle “grandi narrazioni” collettive: ideologie, politica, arte e così via discorrendo. Continua a leggere

Una poesia inedita di Vivian Lamarque

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

DEL CADERE E RIALZARSI
di Vivian Lamarque

Era così pulito il cielo tutt’intorno

che strano dicevano dai rami
è più leggera l’aria e il nido meno nero.

Ma sotto cadevano vecchini come foglie
uno le sue gialle per paura nascondeva
le tingeva di verde le legava strette al ramo
come bambine spaventate a una grande mano.

O infanzia nostra e del mondo, se cadevamo,
un cerotto un bacio e via ci rialzavamo.
Le parole erano nuove, si baciavano in rima,
era il primo tempo, il tempo d’oro del Prima.

(camminavamo, cammineremo, ci rialzeremo).

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Fabrizio Bajec, “Nel migliore dei mondi”

Fabrizio Bajec

 

di Fabrizio Bajec

 

La crisi sanitaria che stiamo attraversando a livello mondiale è in fondo pur sempre una crisi sistemica, sul vecchio modello delle scosse che fanno cadere (metaforicamente) uno a uno i pezzi del domino, perché questa è la disposizione dei tasselli che è stata creata. Ed è, una volta di più, una lezione sia sulla fragilità della vita umana (l’effimero dei discorsi che stanno a zero di fronte alla morte), sia sulla cattiva organizzazione della vita sulla terra, quando si sceglie un modello basato sulla competizione di interessi contrapposti e la sopraffazione dei mastodonti ai danni dei nani (una multinazionale oggi può far piegare un governo). Ma la buona notizia è che si può trarre anche una lezione positiva di interdipendenza, se mettiamo da parte il lato oscuro della globalizzazione e pensiamo sempre in termini di co-esistenza (« io sono perché tu sei »).

Sulle prime, non abbiamo avuto il tempo di riflettere a piani di resistenza o disobbedienza civile di fronte all’imperativo di barricarsi dentro casa e portare con noi tutti i nostri cari. Abbiamo obbedito, ci siamo sottomessi, da bravi cittadini, reagendo per contagio con la paura, sentimento fin troppo umano, grazie a cui ogni tipo di potere regna incontrastato.

Per il suo intervento pubblico, al quanto rapido, Giorgio Agamben è stato linciato dalle critiche di chi vede in lui solo un filosofo senza cuore che vorrebbe spiegare astrattamente l’ordine del mondo con la biopolitica. Ma Agamben, almeno per me, non ha avuto torto ad alludere a una strategia dello shock, riproponendo la teoria dello stato di eccezione permanente come tattica di controllo sulle masse. Forse davvero siamo passati dal capro espiatorio terrorista, che giustifica la sospensione dello stato di diritto, al pretesto della contaminazione (altro modo di praticare il terrorismo).

Non voglio certo insinuare che il virus sia stato diffuso e fabbricato volontariamente, e nemmeno che sia stato sottovalutato da Agamben. Ma certo, l’intervento umano sulla natura e le leggi del mercato alterano la diffusione di un virus e gli equilibri economici mondiali. Così, statisticamente, il Covid-19 non ha mietuto più vittime della febbre spagnola di inizio Novecento, anzi. Ma la risposta dei vari governi è stata oggi senza comune misura più drastica di un secolo fa, perché l’assetto dei rapporti commerciali e politici è nettamente diverso da quello di allora; con tutte le fragilità che questi nuovi rapporti tra potenze imperialiste comportano.

La conseguenza della chiusura delle frontiere, del confino, delle attività sociali relegate agli scambi in rete, non è stata quella di farci sentire più responsabili ma più succubi e arrabbiati perché impotenti. Di qui lo sproloquio per mezzo dei social network sulla situazione inedita e globale dove chiunque sappia leggere e scrivere si sentiva autorizzato a filosofeggiare e a produrre scritti di circostanza (diari di clausura, poesie accorate, articoli d’opinione come questo!). Ci siamo sorpresi dell’insostenibile leggerezza dell’essere, abbiamo accusato il prossimo di giocare la parte dell’untore incosciente, applaudito al balcone chi rischiava (e perdeva) la sua vita per salvare col proprio lavoro i malati, mentre non eravamo scesi in piazza per denunciare le loro cattive condizioni di lavoro e i pochi mezzi a disposizione in tutti questi anni. Certo, abbiamo anche rimesso in discussione il nostro stile di vita, poco sobrio, ma questo esercizio non è di lunga durata. Ciò che abbiamo temuto, soprattutto, è la durata dello stato di eccezione: quando finirà questa distanza imposta? Per quanto tempo dovrò lavorare da schermo a schermo? L’essere umano non è fatto per l’isolamento, ci siamo detti, e abbiamo gioito nel vedere che grandi atti di solidarietà nascevano un po’ ovunque, con la raccolta alimentare e l’intervento di vere e proprie brigate volontarie, mobilitate per il sostegno dei più bisognosi. Siamo stati anche invidiosi di chi si è potuto muovere per le grandi ricorrenze (come in Grecia per il primo maggio, se a qualcuno ancora interessa). Continua a leggere

Franca Rovigatti, “Questo è il tuo quasi-vivere, Corona”

Franca Rovigatti

CORONABLUES

di Franca Rovigatti

Cieco si spinge in fitta oscurità
verso DNA, la bella Cellula
che si inanella nelle due catene
eleganti stabili sinuose
strette in abbraccio come cari amanti.

Nel suo sferico capside Corona
punteggiato dagli spike tricuspidi
contiene un nucleo fragile e testardo
tutto stretto a se stesso arrotolato
misero filamento RNA, genoma
troppo imperfetto e instabile
troppo incapace di tenersi vivo.

Minimo essere ai confini della vita
particella desiderante, bisognosa
cieca, ma mossa da fiuto evolutivo
da miliardi di anni muti e muovi
per penetrare la vivente Cellula.
La tua manchevole sostanza
misero filamento RNA
senza le nostre cellule non vive
o ha una vivenza oscura che consiste
in cieco andare per fondersi ed entrare.

Di progenie antichissima
quando le prime forme si formarono
c’eri ma non vivevi, zombie chimico
e tuttora non vivi, sul confine
della vita da quattro miliard’anni:
che il brodo primordiale ribolliva
fremeva sotto le saette e i fulmini
da cielo di azoto e di metano
di ammoniaca, di idrogeno e di elio.
Nel brodo arcaico, miliardi di anni,
la vita fa le prove mescolando
carbonio, ossigeno, pròzio e azoto
acqua, ammoniaca e anidride carbonica
idrocarburi e brevi polimeri.
E poi succede. Infimi filamenti
risvegliati dalle scariche dei lampi
infiniti si formano vaganti
che cercano, si attraggono, si aggregano
in molecola. Forse sei proprio tu
così imperfetta e fragile
la prima quasi-vita al mondo.
Molecola di Adamo.

Prima d’ogni era geologica assodata
la terra era quest’alba misteriosa
Mondo a RNA brulicava invisibile
in apparente vuoto, solo acqua e cielo
ma in segreto il brodo concepiva
il sogno, il segno della vita.

Nasceste prima della prima cellula
prima della stabilità DNA
nel mondo delle origini
(ai tempi della Genesi)
tu prima protocellula
sì, prima della vita, e tuttavia
desiderante, che ciecamente spinge
a replicarsi trascriversi tradursi.

Che tu autonoma vita non possiedi
frammento, scarto della creazione
parassita obbligato
vieni passivamente trasportato
di fiato in fiato
verso porto agognato, Cellula
là tu ti agganci, penetri
ti spogli della capsula, produci
virioni di progenie, che si lanciano
a diffonderti ancora per il mondo.

Questo è il tuo quasi-vivere, Corona
crescere e moltiplicarsi, come Dio
disse alle generazioni dei viventi
(anche se – come si è detto e ripetuto –
tu non sei propriamente vivente,
al precetto di Dio fosti obbediente)

“Ma io dentro i pipistrelli stavo bene
era un buon serbatoio, un buon genoma
c’eravamo reciproci adattati
entravo, uscivo, stavamo tranquilli
vivevamo entrambe specie bene
proliferavo laggiù nella foresta
nelle loro colonie erano tanti
anche milioni e mi inebriava
il loro volo, i continui contatti…”

In Cina a migliaia i ristoranti
specializzati in cucina yewei
comprano per i ricchissimi clienti
selvaggina di terra mare e aria.
Manicomi zoologici i mercati
gabbie che brulicano di ratti
tartarughe tassi zibetti
serpenti pipistrelli pangolini
macellati in presenza – carne
che più fresca e selvaggia non si può.

Che noi umani tanto sapienti e ignari
vedi, Corona, ti abbiamo favorito.
Siamo potenti, desertifichiamo
deforestiamo, e l’aria si scurisce
la terra cretta, il mare risale
uragani si avvicendano a tornadi.
Siamo ricchi, abbiamo costruito
megalopoli intensive come
gli allevamenti a mille a mille
di porci, e vacche, di galline e polli.

E di fatto noi siamo la tua carne
tuo cibo e pasto, tua sopravvivenza
carne fresca per te, Corona virus.

(Nella tua storia, se qualcuno la scrivesse
questa è una guerra vinta, un impero.) Continua a leggere

Alberto Casadei, “La rivoluzione poetica”

Alberto Casadei

La consapevolezza della metamorfosi.
Sul nostro tempo dopo il primo assalto del Covid

DI ALBERTO CASADEI

Dopo ogni evento traumatico per una collettività, adesso addirittura per il mondo intero, ci si interroga su come le arti, e in particolare la poesia, possano rispondere adeguatamente. In questo senso, le parole più celebri restano quelle perentorie di Adorno sull’impossibilità di scrivere dopo Auschwitz se non compiendo un atto “barbarico”, cioè di inconsapevole fruizione di un bello diventato ormai velenoso. Eppure grandissimi poeti come Celan vollero appunto scrivere per intercettare il senso dell’evento nefando.

Riproporre poesia o arti in genere come se nulla fosse accaduto sarebbe impossibile, certo, ma anche chiedere alla poesia una via maestra per indicare il futuro sarebbe velleitario. È in queste condizioni che si ripropone il senso perenne di ogni gesto artistico, quello di rendere percepibile un nucleo di senso altrimenti non evidente o addirittura occulto. Se fino a poco tempo fa pensavamo che la poesia in particolare andasse esclusivamente nella direzione dell’individualismo e del narcisismo, tipici della cultura occidentale, è chiaro che questo aspetto risulterà per tutti solo uno di quelli del ‘poetabile’, mentre si dovranno trovare i mezzi per descrivere una condizione di continua metamorfosi, nella quale all’improvviso gli spazi e i tempi che pensavamo fossero in nostro possesso sono ridiventati degli apriori che ci condizionano. Per alcuni mesi tutti siamo stati soprattutto tempo da riempire in uno spazio fisso, e ora dovremo riadattarci a spazi che ci risulteranno estranei, produrranno senz’altro l’Unheimlich come tutto ciò che pensavamo nostro e torna a noi come ‘altrui’.

Noi ci sentiremo come parti di una trasformazione, che è la condizione che in genere percepiamo come controllabile, all’interno delle nostre vite quotidiane, e invece non lo è: come nell’immagine di Escher che accompagna queste righe, passiamo dalla materia bruta alla costruzione razionale, dall’animalesco al civilizzato, dall’indistinto all’individuale – ma possiamo anche compiere il cammino inverso. In questa metamorfosi incessante la poesia dovrà trovare i motivi per cui è giusto cercare una strada, una direzione che riguardi l’umanità di tutti. Continua a leggere

Una poesia inedita di Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta credits ph Dino Ignani

L’ASSENZA 

di Biancamaria Frabotta

In una buia alba di vento
ho rimesso al mondo i morti
sognando a occhi chiusi
come è giusto che sia.
L’assenza unisce e disunisce
avvicina e divide ai vivi i risorti.
Di questa sacrosanta finzione
Ridevamo di gusto, mirabile irreale.
Capirete. Dall’alto qualcuno attende
una parola. Altro miracolo non conosco.
Capirete. Non posso svegliarmi ora.
È un addio senza domani.
Ancora qualche minuto
La realtà può attendere.
Capirete. E non mi crederete. Continua a leggere

Alessandro Cucchi, “Linea Covid”

 

Bianca H3

Chi mette la mascherina è un pezzo di merda
di Alessandro Cucchi

-Pronto?-
-Linea Covid-23, sono il medibot Bianca H3, proceda con la descrizione dei sintomi-
-Buongiorno io chiamavo per sapere..-
-Sapere non è consentito in questo momento. Proceda con la descrizione dei sintomi-
-Prima della descrizione volevo spiegarle il perché sto…-
-Non ho bisogno di alcun perché, sono un medibot preparato alla situazione, per velocizzare la pratica e diminuire il fattore di rischio, lei mi deve immediatamente riferire quali sono i suoi sintomi-
-Senta, mi scusi, forse non dovevo chiamare..-
-Sto attivando la rete anti-complottismo. Estraggo i suoi dati dall’etere. Lei si chiama Lillo Hu, residente nel blocco3, ex conglomerato urbano chiamato Napoli.
La sua temperatura attuale, rilevata tramite il telefono da cui sta chiamando, è lievemente sopra la media. Le telecamere del suo lampadario indicano un lieve eritema alla gamba sinistra, la risonanza magnetica appena svolta dal suo forno a microonde evidenzia tre siti di infiammazione, relativi al ginocchio sinistro, alla vertebra L5 e al fegato; inoltre siamo di fronte una calvizie imperante.
Un drone ambulanza si sta già dirigendo alla finestra della sua cucina, la spalanchi o farò predisporre l’apertura forzata dal dipartimento di Domotica, sto attivando il codice Ventana-.
Lillo mise giù il telefono. La linea si interruppe, ma il processo era già stato avviato. Il sistema domotico della sua abitazione scricchiolò, craccato velocemente dalle entità governative. La finestra della cucina, tapparelle verdi, iniziò ad aprirsi senza un rumore. Continua a leggere

Brunella Antomarini, “Il dio del momento passeggero”

Brunella Antomarini, Credits ph Dino Ignani

di

BRUNELLA ANTOMARINI

Il grande è importante, il piccolo tende all’irrilevante. Il tempo è tanto più grande quando prosegue all’infinito e l’eterno è la sua massima iperbolica estensione. L’istante invece non è nemmeno immaginabile. Nelle tre religioni monoteistiche la divinità è grande. Fa sentire la sua ala protettiva.

L’estensione dà continuità alla psiche che si affida al prima e al dopo nel cui fluire ogni cosa che accade è successiva, lineare, strutturata. Poi c’è uno strappo. E lo shock. Lo stato di shock rovescia quella percezione delle cose.

Nel discontinuo improvviso che accade, il prima e il dopo vengono risucchiati in un tempo del momento, un inconcepibile attuale. Un eterno ora.

Inutile guardare all’indietro e cercarne cause generali e le ipotetiche cause occasionali che si immaginano restano alibi.

Inutile cercare di anticipare quello che accadrà dopo, perché è del tutto incerto. Le statistiche che provano a prevederlo, cambiano a seconda di minimi scarti contingenti, lievi modifiche quotidiane di pesi; viste tutte insieme si avvicinano all’equiprobabile. Si sovrappone catastrofe a risoluzione, prossimità di morte a istinto di sopravvivenza.

Chi cresce in stato di guerra è abituato a questo stato vulnerabile e a questa logica non-binaria e potrebbe dare consigli a chi viveva nella bolla dell’esteso prevedibile, nel privilegio della continuità. Ma quello è stato considerato piccolo e irrilevante da questo. Ma nel piccolo è la visione, dice il Tao. Basta un istante e il minuscolo simultaneo sfugge al controllo e si installa ovunque, prende tutto lo spazio che può e si trasforma nell’immenso ma senza sovrastare e provvedere come il dio onnipotente, anzi mangia da dentro prede enormi come mondi. Continua a leggere

Giuseppe Capitano, “Impastare la calce”

Opera di Giuseppe Capitano

DI
GIUSEPPE CAPITANO

 

Come immagino il dopo quarantena?
Io penso che animarsi di BUONI sentimenti è sempre BENE.
Questi sentimenti in quanto tempo si esauriranno?
Quanti potranno permettersi di conservarli?

Sentimenti generati dal pensarsi meglio di quello che si è , secondo una visione cristiana nella quale il passato è male , il presente è espiazione e il futuro redenzione.

Sentimenti ancora assorbiti da una società disillusa e scissa nei suoi mattoni base: la famiglia, le istituzioni, la chiesa. Piena di bisogni non tutti primari ma comunque bisogni, non per nulla disposta a cambiare vita.

I cambiamenti coatti degli ultimi mesi sono stati imposti con la forza per limitare il contagio e aiutare la gente a prendere maggiore consapevolezza di un distanziamento che era già in atto anche prima della diffusione del virus.

La crisi di identità che i più dementi esplicano con un ego smisurato , con cattiverie di vario genere (neanche troppo nascoste ), mostra la fragilità di uno schema che risulta ai più lucidi, superato .

Opera di Giuseppe Capitano

I sogni per il futuro erano già annichiliti prima del male comune, tolto il domani, oggi si rosicchia l’oggi. Mi spiego meglio: l’ ordine sociale è garantito da regole condivise non solo dalla legge ma da un senso comune.

Il discorso dell’ uomo è un discorso evidentemente di specie e non di individuo; la politica economica che ci ha amministrato ha diffuso un modello che sviluppa l’ individualismo, ai fini del prestigio, della ricchezza e della notorietà.

Questo modello tende alla monade , la monade però non ha né porte né finestre , così cresce in noi un senso di smarrimento che pare verso gli altri ma è prima di tutto verso noi stessi.

Già prima del virus avevamo disimparato a stare insieme, oggi è legge non formare assembramenti .

I cambiamenti di costume , anche se forzati servono alla maggior parte per sentirsi parte di qualcosa che vorrebbero essere e non saranno mai se non a discapito di qualcun altro , 60000 volontari per vigilare contro gli assembramenti è un evidente principio di fascismo.

Il blocco ha avuto degli effetti positivi ? Certo.

Porre l’ attenzione su problematiche che sono più profonde : qual è lo scopo del nostro vivere insieme? Dimostrare di essere un po’ meglio del vicino? Certo che no.

Possedere più cose per aumentare la distanza dagli altri? Certo che no.

Avere la capacità di provare empatia anche per chi non ci è vicino? Certo.

Saper rinunciare a qualcosa per un bene superiore: la collettività? Continua a leggere

Umberto Piersanti, “Una strana primavera”

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

UNA STRANA PRIMAVERA
DI UMBERTO PIERSANTI

tra febbraio e marzo il bruno accende
col suo bianco squillante
i greppi e i fossi,
dalle lunghe Cesane
al Petralata,
e tutt’attorno nascono
i prugnòli,
il solo fungo della primavera,
lo si mette in padella
con l’aglio e l’olio
e la terra non da
erba più buona

attorno al pruno
le streghe fanno i cerchi,
cerchi di sortilegi
inqueti e strani

oggi i cerchi s’alllargano
dovunque,
giungono fino al mare
salgono i monti,
dalle fessure dei muri
e delle porte
entrano nelle case
degli umani

primavera crudele che s’inoltra
col suo riso sinistro
di cieli e campi,
di fiori,
d’acque azzurre
e venti lievi

da dietro le finestre
e stretti ai muri,
del sortilegio
s’attende la fine,
guardare un’erba
o un fiore
senza il male nascosto
dentro i colori Continua a leggere

Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Paul Celan, “Svolta del respiro”

Paul Celan

PAUL CELAN
ATEMWENDE

FA’ PURE, se a un pasto di neve
tu vuoi invitarmi:
ogni volta che spalla a spalla
col gelso percorsi l’estate,
il suo fogliame più fresco
vociava.

DU DARFST mich getrost
mit Schnee bewirten:
sooft ich Schulter an Schulter
mit dem Maulbeerbaum schritt durch den Sommer,
schrie sein jüngstes
Blatt.

*

(TI CONOSCO, sei colei che sta ricurva,
io, il trafitto, ti sono soggetto.
Dove divampa un verbo, che sia d’entrambi
testimonianza? Tu – interamente,
interamente vera. Io – pura follia.)

(ICH KENNE DICH, du bist die tief Gebeugte,
ich, der Durchbohrte, bin dir untertan.
Wo flammt ein Wort, das für uns beide zeugte?
Du – ganz, ganz wirklich. Ich – ganz Wahn.)

*

PRESSO I CALPESTATI
segni, nella
tenda dell’olio, con pelle di parole.
Al termine del Tempo,
lamentandosi
senza un suono
– Tu, aria regale, inchiodata
alla Croce della Peste, ora
tu fiorirai -,
con occhi porosi.
con squame di dolore, a
cavallo.

BEI DEN ZUSAMMENGETRETENEN
Zeichen, im
worthäutigen Ölzelt, am Ausgang
der Zeit,
hellgestöhnt
ohne Laut
– du, Königsluft, ans
Pestkreuz genalgelte,
blühst du -,
porenäugig,
schmerzgesschuppt, zu
Pferde.

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Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

Donatella Di Cesare

INDENNI?
DI DONATELLA DI CESARE

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro». Continua a leggere

Franco Buffoni, “Le bare bianche senza estreme unzioni”

Franco Buffoni, Credits ph Dino Ignani

MICROTRAGEDIA IN TRE QUADRI
DI FRANCO BUFFONI

Qui come tante Lady Macbeth
A lavarci le mani di continuo

Coro: Non va via… Non va via…

Rimpiangendo cattedrali ripiene
Di fedeli convinti al Te Deum

Coro: Così sia… Così sia…

E a scansarci nei supermercati
Riforniti d’ogni bendidio

Coro: Vada via… Vada via…

Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Le notizie sul contagio a Gallarate,
L’occhio mi è caduto sul servizio
Con le foto da Marte. Trentaquattro istantanee
Inviate da Curiosity, il rover della Nasa
Che da otto anni vaga sul pianeta.
Il Sole da Marte in un tramonto blu,
Mount Sharp e il cratere di Gale,
I sedimenti d’un antico fiume
Rocce meteoriti e dune
E poi ad un tratto quel pallino chiaro
The Earth
La Terra vista dal cortile del vicino
Con le fidejussioni i rogiti i contratti
Le zone rosse ed arancioni
Le bare bianche senza estreme unzioni.

(12/05/2020)

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Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

Giancarlo Pontiggia, “Il mondo nuovo”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

IL MONDO NUOVO

DI GIANCARLO PONTIGGIA

1

Qui, né Lete né Eunoè. Ci scorre, sì, un fiume,
ma nient’altro che acque: torbide, grevi, ferrigne.
Anche la terra è terra, e basta: umida, tediosa, fetida,
per troppa piova che ci batte. Ma uomini,
di quelli ce n’è tanti, e bestemmiano, sudano,
s’accapigliano. Stridono, anche, su e giù, e gemono
fino al cielo; ma il cielo
non è altro che cielo: vuoto, impervio, rado.
Né voli, né nubi: solo aria, umida e fina, che ti s’impasta
sulla pelle, dappertutto

2

E non si dorme, vedi, ma tutti
abitano qui come talpe laboriose, brulica
la vita per le vie della notte, gridano
i loro nomi, gridano
i nomi che non ci sono, che s’incidono
sulla lastra, vuota, del cielo

3

Chi se li ricorda, i tempi
di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
che compare, talvolta, in sogno, per chi sogna,
ancora.
Ma nessuno più sogna, credimi,
e questo è per voi, che venite di lontano,
l’ostacolo più grande: resistere
al sonno che vi invade, e annienta
la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
come ragne liquorose nella cella
della mente.
Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo dei tempi
che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
si abitua a non farne,
e così diviene simile a noi, ombra
come tutti Continua a leggere

Valerio Magrelli, “violando l’ambiente l’uomo distrugge se stesso”

Valerio Magrelli credits ph Dino Ignani

UNA MODESTA PROPOSTA
DI VALERIO MAGRELLI

Era del 1969 l’articolo di Gregory Bateson Patologie dell’epistemologia. Lo si trova nel volume intitolato Verso un’ecologia della mente (Adelphi, 1991). Solo per dire che, oltre mezzo secolo fa, lo studioso aveva già perfettamente analizzato la situazione in cui ci troviamo in questi mesi. Il mio intervento si riduce a un semplice, sentitissimo invito: proporre l’adozione del suo testo nelle scuole dell’obbligo. Nient’altro. E passo adesso a riassumerne brevemente qualche pagina.

L’intervento denuncia gli errori epistemologici commessi dalla civiltà occidentale, a cominciare dai danni del Positivismo. In armonia con il clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era la famiglia, la specie, la sottospecie o qualcosa di simile. Oggi, però, sappiamo che l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale non è questa: l’unità di sopravvivenza è piuttosto L’ORGANISMO PIÙ L’AMBIENTE.

Stiamo imparando sulla nostra pelle che, distruggendo il suo ambiente, l’organismo distrugge se stesso. Con la pandemia, aggiungo io, stiamo vedendo cosa accade quando si commette l’errore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata.

Nella loro forma più virulenta, le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono alla rivoluzione industriale, e si possono riassumere così: noi contro l’ambiente; noi contro altri uomini; l’unica cosa importante è il singolo (o la singola compagnia o la singola nazione); possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all’interno di una frontiera che si espande all’infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuarlo.

Ora, alla luce delle grandi ma in definitiva distruttive conquiste della nostra tecnica negli ultimi 150 anni, tutte queste idee, spiega Bateson, si sono dimostrate false. La moderna storia ecologica (e l’attuale contagio da virus, torno a sottolineare io) dimostrano che, violando il proprio ambiente, la creatura distrugge stessa. Possiamo dire anzi (continuo a parafrasare un saggio di cinquant’anni fa…) che tutte le attuali minacce alla sopravvivenza dell’uomo sono riconducibili a tre cause originali: 1) progresso tecnico; 2) aumento della popolazione; 3) errore nel pensiero e negli atteggiamenti della cultura occidentale. Insomma, i nostri valori sono sbagliati perché la maggioranza degli uomini è ancora guidata da un’epistemologia errata. La nostra insensata volontà di concentrarci sulla vita dei singoli individui, ha creato, nell’immediato futuro, la possibilità di una catastrofe mondiale. Continua a leggere

Jean-Luc Nancy, “Il virus ha aumentato il divario sociale”

INTERVISTA A JEAN-LUC NANCY
DI LUIGIA SORRENTINO
(22 -28 maggio 2020)
Traduzione di Letizia Tesorini

Luigia Sorrentino. La pandemia da Covid-19 ha innescato una crisi globale che ha investito la popolazione di tutto il pianeta. I limiti e le restrizioni della libertà imposti dai governi in cui vige la democrazia sono stati avvertiti dalla popolazione come una minaccia dei diritti umani. Una necessità per contenere la pandemia confinare  la libertà individuale e collettiva che ha reso i cittadini più responsabili?

Jean-Luc Nancy. In realtà non è la limitazione delle libertà individuali di movimento e di assembramento che costituisce una minaccia per i diritti e per la dignità perché al contrario ha dato vita a molteplici iniziative per adattarci a queste misure, per riproporre invenzioni per circoscrivere o superare gli effetti di queste misure, per cercare anche di liberarcene – tanto in modo prudente, consentendo comunque di aiutare gli altri, quanto in modo imprudente per il semplice piacere di trasgredire. In ogni caso, c’è stata una maggiore presa di coscienza delle nostre interdipendenze. La nostra realtà comune è diventata più sensibile e allo stesso tempo è aumentato il divario sociale sulla base delle proprie condizioni abitative, lavorative, ma anche in termini di accesso alla sanità, all’istruzione e all’informazione. Andando più in profondità, si può pensare a un grande interrogativo sulla natura stessa della nostra esistenza comune,  che nasce non a causa del virus, ma dei suoi effetti. Forse questo interrogativo era già lì, meno immediato ma già sensibile. Oggi abbiamo una maggiore sensibilità.

Luigia Sorrentino. Lei non ha timore che con la scusa di contenere la pandemia possano  generarsi dei regimi totalitari? Intendo dire, secondo lei l’umano non rischia di perdere il diritto all’autodeterminazione della libertà?

Jean-Luc Nancy. E’ un timore plausibile, sebbene i regimi autoritari attualmente esistenti non costituiscono esempi particolarmente convincenti. Infatti non siamo abbastanza informati su ciò che accade realmente in alcuni paesi. Detto questo la seduzione della rappresentazione di un potere forte da una parte e la tutela di una nazione o di un popolo dall’altra agiscono o possono agire in questa direzione. Tuttavia, le interdipendenze e le interconnessioni mondiali – tra queste anche quelle europee – sono così forti che è impossibile non prenderle in considerazione. Il problema di fondo, però è altrove, sicuramente: non sappiamo più cosa significhi “potere”. La potenza tecno-economica ha reso il potere politico o simbolico (compreso quello religioso) uno strumento al proprio servizio. Sarà necessario reinventarsi qualcosa….

Luigia Sorrentino. Si è parlato di “immunità di gregge” per proteggere la popolazione mondiale dalla pandemia, anche se occorrerà almeno un anno per sperimentare il vaccino contro il covid-19. Questo meccanismo non può generare cittadini di serie A “gli immuni” e cittadini di serie B, “i non immuni”? Intendo dire, non c’è il rischio che si generino discriminazioni ad esempio fra persone più giovani e persone meno giovani? Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere