Sergéj Esénin, “Cara patria”

COMMENTO
di Gisella Blanco

Morire non è nuovo al mondo, / ma più nuovo non è nemmeno vivere sono le ultime parole che il giovane poeta russo Sergéj Esénin lasciò scritte, con il suo sangue, su un foglio, un giorno prima di suicidarsi. L’utopia della patria, la sua “gioia breve”, è quel simbolo mitico – e mitizzato – di una condizione esistenziale astorica ed escatologica che, nella sua irrealizzabilità, conduce l’uomo alla perdizione in un’angoscia irrisolvibile.

La dimensione rurale e contadina partecipa del recupero etico di un passato ormai inattuabile ma costantemente rievocato dal poeta.

In questo poemetto, emerge il dramma del distacco dei combattenti dai familiari, delle comunicazioni spezzate, delle interminabili e sconsolate attese, della lontananza tollerabile solo attraverso i ricordi felici e l’idea di una patria che può ancora sopravvivere alla disgregazione della modernità.

 

Русь

1.

Потонула деревня в ухабинах,
Заслонили избенки леса.
Только видно, на кочках и впадинах.
Как синеют кругом небеса.

Воют в сумерки долгие, зимние,
Волки грозные с тощих полей.
По дворам в погорающем инее
Над застрехами храп лошадей.

Как совиные глазки, за ветками
Смотрят в шали пурги огоньки.
И стоят за дубровными сетками,
Словно нечисть лесная, пеньки.

Запугала нас сила нечистая,
Что ни прорубь- везде колдуны.
В злую заморозь в сумерки мглистые
На березках висят галуны.

 

RUS’

1.

Il villaggio è affondato nei botri,
le casucce hanno nascosto i boschi,
si vede solo su monticelli e fosse
come azzurreggiano intorno i cieli.

Urlano nel lungo crepuscolo invernale
minacciosi i lupi dai campi sparuti.
Nella brina che si spegne dei cortili
sotto i tetti sbuffano i cavalli.

Guardano come occhi di civetta dietro i rami
i fuocherelli nello scialle della tormenta.
E stanno dietro le reti di quercia
i ceppi come demoni di bosco.

Ci ha spaventati la forza impura,
per ogni buco ci sono stregoni.
Nel gelo maligno del nebbioso crepuscolo
alle betulle pendono galloni.

 

2.

Но люблю тебя, родина кроткая!
А за что – разгадать не могу.
Весела твоя радость короткая
С громкой песней весной на лугу.

Я люблю над покосной стоянкою
Слушать вечером гуд комаров.
А как гаркнут ребята тальянкою,
Выйдут девки плясать у костров.

Загорятся, как черна смородина,
Угли-очи в подковах бровей,
Ой ты, Русь моя, милая родина,
Сладкий отдых в шелку купырей.

 

2.

Ma ti amo, mia mite contrada!
E per che cosa capire non posso.
Dà lietezza la tua gioia breve
col canto sonoro di primavera pei prati.

Amo ai bivacchi della fienagione
ascoltare di sera il ronzio delle zanzare.
E quando i ragazzi con l’armonica strepitano,
le fanciulle vanno a danzare ai falò.

Ardono gli occhi-carbone come nero ribes
nei ferri di cavallo delle ciglia.
Ohi tu, mia Rus’, cara patria,
è dolce il riposo nella seta dell’angelica. Continua a leggere

Il silenzio tenace di Mario Benedetti

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Lorenzo Babini

La mancanza di Mario Benedetti è per me innanzitutto legata ad alcuni ricordi personali, di quando cioè, tra gli anni 2011 e 2013, lo incontrai diverse volte, sempre in compagnia di Tommaso Di Dio. Rimasi sin da subito colpito da quella figura silenziosa, appartata e indifesa, le cui parole sembravano uscire a stento. Non ho avuto modo, tempo o fortuna di instaurare una consuetudine con lui ma posso dire che la mia percezione di allora fu che quel silenzio umile, grave e profondo avesse qualcosa da dire alla mia esperienza.

Ricordo che ne parlai una volta con Massimiliano Mandorlo, al termine di un reading che avevamo organizzato in un bar vicino a via Venini a Milano, in quel quartiere che oggi viene chiamato NoLo e di cui fino a pochi anni fa se ne ignorava l’appeal. Era venuto ad assistere a quella lettura di giovanissimi poeti anche Mario, che abitava in quella zona. La sua figura, da cui traspariva l’esposizione dolorosa e radicale dell’uomo di fronte al destino, aveva quella sera affascinato alcuni di noi, nonostante nessuno di noi lo avesse sentito pronunciare una sola parola. Questo accadeva per me prima di conoscere la sua poesia.

Più tardi, leggendo la sua opera, riconobbi la stessa presenza che era dell’uomo: la presenza cioè di un silenzio fragile e tenace, nato dall’umile aderenza alle cose, seriamente impegnato con il proprio vissuto e improvvisamente capace di esprimere, in un due versi slogati, dalla sintassi anomala, verità disarmanti sull’esistenza. Continua a leggere

Elisa Donzelli, La poesia per i bambini

Il senso perso dei bestiari per bambini
di Elisa Donzelli

Chi è stato bambino negli anni Settanta e Ottanta ha una risorsa nascosta che potrebbe tornargli utile in tempi di magra come quelli che stiamo vivendo. E al bambino di oggi, intento a osservare la più gigantesca delle navi abbandonata dal suo Capitano prima ancora che l’avventura sia incominciata, potrebbe rispondere ripescando in soffitta quelle edizioni che trent’anni fa avevano mostrato il volto più fine e intraprendente dell’editoria italiana per ragazzi. Parlo delle edizioni Emme ed EL nate nel 1966 e nel 1974 e poi confluite, insieme a Einaudi Ragazzi, sotto un unico marchio. Tra i protagonisti di un’avventura ‘di genere’, capace di intrecciare qualità letteraria e qualità artistica delle immagini, c’erano Mario Lodi, Lele Luzzati e Gianni Rodari. Queste cose le ricordano in molti pur non sapendo forse che i “giocattoli poetici” di Rodari vantano un illustre precedente nel Sigaro di fuoco di Alfonso Gatto, una raccolta di versi del 1948 destinata “ai bambini di ogni età” cui si erano aggiunte nel 1963 le poesie ‘nautiche’ del Vaporetto (riprese nel 2001 da Mondadori con postfazione di Antonella Anedda). Continua a leggere

Cristina Campo, “Il mio pensiero non vi lascia”

Ci sono prosatori che proprio nelle lettere raggiungono una sorta di perfezione assoluta: riuscendo, nel breve volgere di una frase, a toccare vertici di bellezza e di intensità. Che la Campo sia uno di essi lo hanno dimostrato le Lettere a Mita e Caro Bul: e questo terzo pannello dell’episto­lario, che raccoglie le lettere scritte agli amici del periodo fiorentino, ne è una conferma. Nel 1956 Cristina è costretta ad abbandonare Firenze per Roma; e gli anni romani saranno costantemente pervasi dal ricordo struggente di quel giardino incantato che era la cerchia degli «amici d’infanzia»: Piero Draghi, Mario Luzi, Anna Bonetti, Venturino Ven­turi, Giorgio Orelli. A tutti loro scrive dal suo «esilio» parole di nostalgico affetto («C’è con voi­altri, nell’aria, gusto di latte»); ma il più rimpianto è senza dubbio Gianfranco Draghi, quel Gian che guarda ai suoi stessi «fari» (i più luminosi: Hofmannsthal e Simone Weil), lo scrittore e poeta di cui ammira la personalità e l’opera, l’amico che «conosce sempre, sottilmente, il disegno del tempo, e trova la parola magica da incidervi». Continua a leggere