Umberto Piersanti

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Umberto Piersanti (Credits / Dino Ignani)

di Sauro Damiani

UMBERTO PIERSANTI, Nel folto dei sentieri, Milano, Marcos y Marcos, 2015

Rose e marmellata. (“dopo la marmellata con il burro/al grande parco scendi/sopra i muri,/tra i meli e le rose/passi e respiri”, p.30). Rose; e anemoni, e colchici, e papaveri, e giacinti, e primule, e, prima di tutto, favagelli. Come nell’intera storia poetica di Piersanti, anche in questo ultimo libro sfavillano i fiori, nominati con la precisione di uno sguardo individuante e amoroso, che ne fa sprigionare la loro luce assoluta. “Luminoso” è uno degli aggettivi più frequenti e significativi del libro, spesso in coppia con altri che ne esaltano la forza evocativa, come in “chiaro e luminoso”, “ridente e luminoso”. Un “luminoso” di una tonalità inconfondibile, tutta piersantiana, che spicca nel panorama di una poesia, non solo italiana, che, al contrario, predilige le tonalità scure. Ma un fiore (o un’ora, o un evento) è luminoso solo in quanto è “assoluto”, cioè, nel senso etimologico del termine, “sciolto”, separato dal tempo “baro”; un fiore (o un’ora, o un evento) “remoto”, anche qui nel senso di rimosso dall’oggi e collocato in un orizzonte mitico, nell’eden “fragile/ e assoluto”, sempre perduto (“l’eden che ci è concesso/è sempre perso”; 209): come tutta quella nata dopo e dal romanticismo, anche la poesia del nostro è percorsa da un’insanabile scissione metafisica. Solo che Piersanti non rinuncia a dispiegare e nominare l’incontenibile efflorescenza della natura (la natura naturans), di cui egli si sente carnalmente partecipe e di cui è commosso testimone e interprete. Nel “tempo della povertà”, egli non è povero.

Rose e marmellata. Con i fiori, la marmellata, il formaggio, le salsicce, la mortadella, le castagne, la pasta rossa, i fichi, la polenta. Il che significa che per avere un’esperienza vera e totale del mondo non è sufficiente vedere, bisogna anche gustare (“niente è più bello che succhiare i fichi” p. 81). Esperienza duplicemente nutriente. Infatti la vista è l’organo della distanza, il senso più intellettuale; distanza dal giorno “colmo” dell’infanzia (“infanzia tu sei/ eterna epifania”, p.58), reso di nuovo presente e vivo dal lavoro della memoria (“la memoria/nutre la tua giornata” scrive il poeta (p. 35). Diversamente dalla vista, il gusto è il senso della più stretta prossimità, dell’ esperienza fisica, corporale, decisiva per un poeta come Piersanti, che in una delle sue più nette dichiarazioni scrive (p. 147): “sempre ho scelto la terra/e non il cielo”, rifiutando decisamente ogni prospettiva ultraterrena. Ora la bellezza, che la vista colloca nell’orizzonte assoluto e remoto della memoria, e dunque in una dimensione unicamente mentale, penetra nel sangue e nella vene, potenzia la vita, procura un godimento sensuale che ricorda – malgrado Piersanti non sia certo poeta da mezzogiorno estivo – il d’Annunzio alcionico. “Sangue”, potente simbolo della vita, è una delle parole chiave del nostro (“nel sangue ho questo giorno” 148). Riassumendo, in Nel folto dei sentieri troviamo da una parte il sentimento di una distanza e di una perdita, e dall’altra una tenace volontà battagliera tesa a recuperare, seppur per “frammenti”, per momenti privilegiati, la totalità perduta, lo spazio-tempo sacro. È la lotta della memoria e dunque, leopardianamente, della poesia, ma è anche quella dell’organismo biologico, del corpo nella sua pienezza vitale, per stabilire, con uno “sprofondamento” nel corpo vivente della natura naturata, una comunione con i luoghi in cui sono piantate le radici del poeta e che egli sente minacciati da una modernità dissacrante. Luoghi persi, ma le cui radici egli porta nel sangue, e che perciò non può non cantare, come per una vocazione più potente di ogni possibile resistenza: “tra inverno e primavera/sono nato, sempre mi porto dentro/l’erbe e i fiori/che la neve sempre/tronca e spezza,/e poi tenaci/tornano fuori/tra le crepe gelate/dalla terra” (p.108) . Il tempo e lo spazio formano dunque in Piersanti uno spazio-tempo indissolubile. Lo spazio senza il tempo scadrebbe nel cronachismo della poesia dell’area lombarda con la sua lingua prosastica, a cui la poesia del nostro è quanto mai estranea; il tempo senza lo spazio significherebbe abbandono all’elegia, al piangersi addosso del pur amatissimo Pascoli. Ma Piersanti è un lottatore “tenace” (una delle parole più insistite del libro); è un camminatore che continua strenuamente a inoltrarsi nel folto dei sentieri, per uno dei viaggi più ricchi e affascinanti che oggi sia dato di percorre. E che sia dato di leggere. Perché il percorso nello spazio è anche percorso nella memoria-poesia. Nel folto dei sentieri è un libro-percorso. Il poeta lo affronta con la sua voce pacata e meditativa, col suo canto calmo e virile, trepidante ma senza fremiti, con una lingua quotidiana ma florida, lirica ma con rare impennate, priva, salvo poche, e non del tutto felici, eccezioni, di prestiti letterari eppure ben ancorata alla tradizione. Per quest’ultimo aspetto, si pensi solo al seguente incipit di strofa, che ci proietta nel mondo del Leopardi, per distanziarsene immediatamente riportandoci a quello tipico di Piersanti: “sempre m’è stata cara/la stagione dei ghiacci” (p. 148).

Nel-folto-dei-sentieri_prima-300x480“Il tempo non esiste/va avanti e indietro” (p. 180) scrive il poeta in una delle sue frequenti riflessioni sul tempo (e anche “Tempo”: entità metafisica), uno dei temi privilegiati della poesia moderna occidentale. Anche in questo caso ci troviamo di fonte a una dicotomia. Da una parte c’è il tempo assoluto, colmo, dell’infanzia, il tempo fermo ed eterno del mito (il “tempo che precede”), dall’altra il tempo dello sradicamento dalla “radura perfetta e riparata” (p.176), il tempo che “procede e sempre incalza” (p.137). Precede/procede, in una studiata e felice paronomasia, che unisce termini dal significato opposto ma che scaturiscono da un unico nucleo sentimentale e concettuale. Il tempo che va avanti e indietro, e che perciò “non esiste” (la freccia del tempo è infatti irreversibile) introduce un terzo elemento, quello che, appunto, unisce “procede” e precede” e che ne fa un’unica realtà, nella quale convivono movimento e quiete, positivo e negativo, vita e morte, come in una quieta danza o in un laico rito. Questo andirivieni in cui il tempo è, quasi ipnoticamente, sospeso, è il libro-percorso di Piersanti. Ricordiamoci però che il tempo e lo spazio formano uno spazio-tempo indissolubile e che l’escursione temporale si ridurrebbe a un vano fantasticare se non fosse annodata allo spazio, ai luoghi in cui il poeta è sempre vissuto, ai sentieri che egli ha percorso e percorre in una ostinata e vitale fedeltà. Piersanti non è un poeta della borghesia internazionale e sradicata, tipo Montale; non è un ebreo errante, figura centrale della letteratura moderna, soprattutto mitteleuropea: il suo luogo poetico è costituito dalla Cesane, lì sempre torna, solo lì egli veramente vive. Ecco dunque il moto pendolare fra passato e presente, in una continua ripresa degli stessi temi e anche delle stesse espressioni, come dei leit-motiven, o anche un po’ come i procedimenti formulari dell’epica antica, essenziali per memorizzare la poesia orale (e vedremo quanto Piersanti sia legato all’oralità).

Moto pendolare, ho detto; ancora meglio, potremmo parlare di sistole e diastole, di inspirazione ed espirazione: la poesia di Piersanti non ha nulla di meccanico ma, al contrario, è nutrita di vita vissuta, è luminosa e polposa (“castagne e parole”, in uno dei più significativi accoppiamenti). Un polo del movimento è dunque costituito dal tempo sacro dell’infanzia, “l’eden fragile/e assoluto”, il “nido”, di memoria pascoliana (“un nido poi ricordo/così lontano/chiuso fra bassi rami,/tenero, con le foglie/e caldo come la vita” p. 12), nido che protegge dal male del mondo e gli dà significato; il polo opposto, nato dall’esperienza e coscienza che “non c’è radura/perfetta e riparata” (176) e che l’Eden è sempre perso, è formato dall’oggi, col “faticoso andare” (p.102) in una “terra squallida/e contorta, profanata/dagli uomini e dai cani” (p. 19), dove la pace è “grigia”, dove centrale è la presenza del figlio Jacopo e si impone drammaticamente la responsabilità della sua cura. È l’irruzione del principio di realtà nel vivo del principio di piacere, è il polo della caduta (quasi come per un peccato originale) nel tempo che procede, con la sua corsa, la sua fuga, la sua rapina, alla quale il poeta si oppone “rabbioso e disperato” (p. 123). La spia grammaticale di questa pulsazione è costituita dalla congiunzione avversativa “ma”, che, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non è solo negazione di un elemento positivo, ma anche di uno negativo, in un inarrestabile movimento a spirale. Lo vediamo in modo esemplare nella poesia Nei giorni dell’Avvento (p.191), col motivo classico del rapporto fra la vita umana e quella delle foglie: “d’inverno è il nostro Eden/così fugace,/torneranno le foglie…// ma l’uomo non rinasce con le foglie…// ma se torni tenace/a quel presepe/vedi allora la luce/che dislaga,/dalla paglia s’innalza/tra i pastori” (notare il “dislaga” dantesco). Il “ma” nega un altro “ma” e così via, incessantemente, senza un punto fermo. Dopo l’espulsione dall’Eden dell’infanzia, non può esserci luogo stabile, non può esserci patria (“la vera patria,/è quella che sta sempre/oltre il confine//ma questa è un’illusione”, p. 142), se non nella poesia-memoria; infatti “la fonte sta dovunque/o in nessun luogo”: sta nella memoria, appunto. Perciò la sistole implica la diastole e viceversa, in un due in uno e uno in due, il cui aspetto grammaticale è la figura della sinestesia. L’avversativo “ma” è affiancato da questa figura retorica unificante, di cui il libro offre non pochi esempi. Abbiamo già trovato la “pace grigia”. Poi “freddo bianco” (p. 116), “riso biondo” (p. 55), “riso bruno” (p. 44), “orma azzurra” (p. 119); “brivido nero” (p. 204) “silenzio scuro” (p. 219) “profumo chiaro” (p. 170). Tutti aggettivi luministici. Un’eccezione è costituita da “sorriso magro” (p. 110 e 155) riferito al padre del poeta, l’Enea che lo ha portato bambino sulle spalle. L’Enea che egli teme di non essere nei riguardi di Jacopo, forse più legato, per un rapporto ancestrale, alla madre, figura anche questa mitizzata, da Mater Matuta mediterranea: “e tu giovane madre/queti quel vento forte” (p.170).

piersantiIl viaggio inizia: “e tu t’inoltri” (p.102). Fatto un passo “nel folto dei sentieri”, ecco aprirsi uno scenario vastissimo, dove i due poli di cui ho detto costituiscono solo gli estremi, ma che all’interno ospita una straordinaria varietà di movimenti. Così vediamo il poeta “negli anni giovani” gettare fiori a una “bionda castellana” e sognare avventurose fughe d’amore; incontriamo il tempo della guerra e quello della passione politica, con l’illusione, rapidamente smentita, di un “tempo nuovo”; scorgiamo il nostro identificarsi col cavaliere di un quadro di Raffaello e col suo “cammino eterno/e infinito” (p.142), o sentirsi partecipe della Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto; e, naturalmente, incontriamo, anche se con una frequenza inferiore a quella dei libri precedenti, l’alter ego dell’autore, il pastore Madio, una delle grandi invenzioni di Piersanti, nel quale, in una sintesi originale e moderna, confluiscono – per ricordare solo i nomi più alti – il Virgilio della Egloghe, il Tasso dell’Aminta, il Leopardi del “pastore errante” con la sua inesausta interrogazione sul senso delle cose. E ci viene incontro Jacopo, il figlio autistico del poeta, presentato nell’evoluzione dei suoi anni, dall’insorgere della malattia (Un giorno non come un altro della vita, p. 99), al presente segnato da un’estraneità al mondo, di cui è agghiacciante espressione l’indecifrabile riso “stridulo e assurdo” (p. 56); figlio oggetto, oltre che di amore, di sgomento ma forse anche di invidia da parte del genitore. Presente e passato si fondono e si separano in un gioco ininterrotto, con fusioni continue fra il presente del presente e il presente del passato; gioco realizzato grammaticalmente attraverso un incessante cambiamento di soggetti e di tempi verbali, tanto che spesso non sappiamo (né dobbiamo saperlo) di chi si parla effettivamente e in quale momento siamo: fusioni che assorbono l’identità biografica e il tempo cronologico nell’andirivieni senza tempo che è il cuore del libro. Rapido cambiamento di “fotogrammi” (non dimentichiamoci che Piersanti è anche autore di felici lungometraggi) reso possibile dalle strofe di varia lunghezza di cui sono costituite le poesie, quasi tutte di molti versi, ad indicare un flusso unico, poematico (e anche graficamente il dipanarsi dei versi può ricordare un fiume), ma un flusso sussultante, franto, come il ritmo di un cuore che ha perduto, con la salute, il pieno accordo col mondo.

Inevitabilmente il viaggio del poeta “nel folto dei sentieri” comporta, oltre alla felicità del respiro nella radura e nell’Aperto, anche l’incontro col male: un incontro tanto soffocante da fargli talvolta pensare a “quant’è dolce/perdere la strada”. È il male cosmico, metafisico, di cui il male storico è drammatica manifestazione, costituito dall’insanabile frattura fra il “tempo che precede” dell’infanzia e il “tempo che procede” della vita adulta; frattura che, come abbiamo visto, il poeta cerca di risanare nel duplice modo della parola poetica e della comunione quasi pagana con la terra. Ma la lotta senza tregua contro le forze ostili e annientanti non è limitata all’essere umano, bensì coinvolge e stringe in una intima solidarietà tutti i viventi, dalle libellule che si sforzano di non essere “trangugiate” (si noti la forza del verbo) dai balestrucci, ai fiori che ogni primavera, tenacemente, rompono la scorza della terra ghiacciata e riaffermano il “dono”, seppur precario, della vita. “Natura così bella e così atroce,/quell’animale soffriva sgomento/e moriva in mezzo al cielo/così azzurro” (p.75) scrive il poeta nella sezione Aspettando l’inverno, che, in mezzo a immagini di violenza naturale, contiene alcune liriche di purezza greca, forse non immemori dei lirici greci tradotti da Quasimodo. Schegge luminose in mezzo al flusso del libro, che testimoniano di quante corde disponga la poesia di Piersanti (“oh quel grande ciliegio/giù per i fossi/che raduna gli uccelli e i ragazzini/senza foglie, l’inverno,/riluce chiaro dentro l’aria”; p. 80). Il male, dunque. Ma, come ben sapeva Leopardi, il male davvero insostenibile non è la sofferenza, non è la morte, ma la mancanza di senso: il cosmo è “ordinato e indifferente” (p. 195). Cammina il poeta, ma talvolta cammina “senza senso/e senza meta” (p.168), malgrado la memoria si ostini, tenace, “a dare un senso/ad ogni cosa” (p.203). Così gli si para davanti “il vuoto”, e un vuoto tale da far arrestare, sbigottito, perfino il tempo. Un vuoto che, al contrario, egli è costretto ad attraversare. Situazione angosciosa, tanto che il poeta può arrivare a dire “la miglior sorte/è quella della pietra/che perdura eterna/dentro il gelo” (p.166). Siamo agli antipodi dell’eternità vivente del tempo dell’infanzia. Qui l’oscillazione tocca la sua escursione massima; il tempo “colmo” dell’infanzia e il “vuoto” dell’esistenza adulta: due eternità opposte, ma convergenti nell’annullamento della condizione umana, della comune sorte, della responsabilità che giorno dopo giorno si ripresenta e che in Piersanti ha soprattutto il volto del figlio Jacopo, anche lui partecipe di un “tempo che precede”, ma tanto lontano dal mito (se non un mito alla rovescia, pietrificato). Da qui nasce il sogno della fuga: “l’unica libertà/resta la fuga,/così fragile e breve, così assoluta” (p.163). Un altro assoluto: quello del sogno, un sogno impossibile e disumanizzante. A grandi prove e grandi rischi è sottoposto il poeta nel suo cammino nel folto dei sentieri. Il punto, come ho detto, è dare un senso alla vita. Eliminare il male dal mondo è impossibile: fa parte della realtà così com’è. Esso è presente anche nell’Eden “riparato” dell’infanzia, nel suo tempo “sospeso”: et in Arcadia ego, come sappiamo. Ma nell’Eden il male assume la forma leggendaria dello sprovinglo e la realtà si popola di magie e sortilegi, di figure immerse in un’aura favolosa e domestica, rassicurante. L’Eden dell’infanzia, chiuso nel suo cerchio protettivo, converge col tempo ciclico del mondo contadino e pastorale, premoderno, dell’infanzia del poeta, quando gli uomini avevano confidenza con le forze negative della natura, col dolore e con la morte e ogni evento entrava a far parte di un rito, di una festa. Allora esisteva una intensa vita comunitaria (“e c’erano tutti/ attorno a quella panca”, p. 115), allora il Natale col suo presepe emanava una luce che vinceva ogni tenebra: luce che non si è spenta nel laico e “pagano” Piersanti, consapevole, un po’ come il Magrelli di Il sangue amaro, della forza e del significato della cultura cristiana e dei suoi miti (abbiamo già visto la Sacra Famiglia in fuga). Allora la terra “era cielo” scrive il poeta.

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

E ora? Ora è il tempo dello smarrimento, dell’estraniazione da una mondo desacralizzato che ha visto crollare tutti i miti, lasciando gli uomini in un deserto senza sorgenti d’acqua, in una corsa affannosa senza riposo e senza meta: “in una terra ignota/ora t’addentri” (p. 136). Il tempo sacro dell’infanzia decade nella “cronaca dei giorni, /fragili e falsi come notiziari” (p.119). Gli esseri umani, privi di memoria, incapaci di vedere e apprezzare la bellezza sempre nuova della natura, sono come delle leibniziane monadi senza porte e senza finestre (p.12), esseri alieni, fra i quali il poeta cammina senza conoscerli né riconoscerli, o, ancor di più, osserva in disparte “tra le foglie nascosto/e riparato” (p. 31): due universi paralleli e non comunicanti. Il poeta si sente estraneo perfino a quanti sono legati a lui da un rapporto letterario e che dunque, in ipotesi, dovrebbero formare una comunità fondata sui medesimi valori: “i letterati tutti sono andati,/con scie di parole/e di caffè” (p. 225). Parole e caffè, binomio che stride non poco con quello, a cui ho già accennato, formato da “castagne e parole/così calde”, di una poesia precedente. (p.113). Le parole gustose e calde di una realtà intima e significativa si oppongono a quelle che si disperdono in un mondo moderno privo di centro, di cui il caffè è tipico emblema. Tanto più sconsolante è la situazione dell’autore in quanto egli, diversamente da una nobile e antica tradizione (pensiamo solo al ciceroniano De senectute), pensa che “non c’è saggezza/nell’età che s’inoltra” (p.213). Professione di vitalismo che lo avvicina al conterraneo Leopardi col suo orrore per la vecchiaia e forse anche al Nietzsche dionisiaco, benché in un precedente libro Piersanti abbia affermato “con Dioniso non c’entra”, e benché la poesia del nostro sia essenzialmente apollinea, contemplativa (si pensi alla frequenza dell’aggettivo “queto”). E tuttavia non possiamo dimenticare il suo “paganesiamo”, il desiderio di sprofondamento nel corpo della terra, in una sensuale comunione, l’altra via, come ho già detto, per medicare, senza poterla guarire, la ferita metafisica che lo lacera. Insomma la poesia di Piersanti ha un respiro amplissimo, tendente ad abbracciare la vita nella sua totalità: egli infatti cammina in unità con “lo stupendo passo delle stagioni/della vita e della morte/del cosmo stesso” (p. 75). Poesia cosmica, ancor più che esistenziale, quella del poeta marchigiano, in questo non lontana da quella di un poeta per altri versi ben distante da lui, cioè l’ultimo Luzi, il Luzi poematico e paradisiaco.

umbertoInspirazione ed espirazione, sistole e diastole: due in uno e uno in due. Lo notiamo anche a livello metrico. Il metro di Nel folto dei sentieri, salvo poche eccezioni, è unico, come è canonico per un poema. O meglio, Nel folto dei sentieri costituisce la terza parte di un’ideale trilogia le cui due prime parti sono Il tempo che precede e L’albero delle nebbie (forse il capolavoro del poeta): non a caso il libro inizia con la congiunzione “e” (“e quella forma immensa/di bruno metallo o altro”, p.11), come riallacciandosi all’opera precedente. Il respiro poematico è particolarmente sensibile in Nel folto dei sentieri, opera mossa da un unico, vasto afflato, malgrado il libro sia scandito in sezioni e malgrado ne contenga una formata da un poemetto (Aspettando l’inverno) che si differenzia dalle altre sia per la sua origine orale sia per la brevità delle poesie, alcune delle quali, come ho già detto, non sono forse immemori dei lirici greci tradotto da Quasimodo. In controtendenza rispetto al resto del libro, in questa sezione prevale la miniatura, se non il frammento (“dove il ginepro cerchia/la quercia grande/scende piano la donnola alla cova”, p.78); “le bianche vacche/pascolano sui monti;/pensa al fiume il ragazzo, a quelle donne”, p.93). Poemetto assai notevole, e più che per la variatio che introduce in un’opera di notevoli dimensioni, per essere quasi un compendio delle figure e dei temi che costituiscono il cuore della poesia di Piersanti. Ma ancora più rimarchevole perché mette in luce la radice orale, affabulatoria della poesia del nostro, il suo radicamento in un mondo premoderno, agricolo e pastorale, in un tempo che è insieme mitico (cioè mitizzato) e ciclico. Eppure questo poeta in cui scorre la linfa di una realtà che non è più, è, come ho detto più volte, un poeta modernissimo. Anzi, una delle ragioni del fascino di questa poesia risiede proprio nell’essere insieme luminosa e ferita, nel saper cantare insieme la bellezza e la crudeltà, il precede e il procede, lo splendore dei fiori e la caduta delle foglie. Le Bucoliche intonate da un Virgilio rauco, dalla lira che ha perduto l’accordatura. Rapporto premoderno-moderno che, malgrado vistose differenze e innanzitutto lo sperimentalismo linguistico del secondo, accosta Piersanti a Zanzotto, non a caso autore di IX Ecloghe.

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Umberto Piersanti (Credits/Dino Ignani)

Tornando al metro di Nel folto dei sentieri, notiamo anche qui, come ho detto sopra, la sistole e diastole dell’intero libro. Infatti fondamentalmente il metro è costituito da un endecasillabo spezzato in due parti, settenario e quinario o, più raramente, l’inverso (l’endecasillabo perfetto si forma quando fra i due versi c’è sinalefe). L’endecasillabo è il verso poematico per eccellenza, e naturalmente Nel folto dei sentieri lo presenta integro, e spesso splendido, numerose volte, come in questi esempi: “tremano nella terra ghiri e topi” (p. 79); “questo tiepido marzo che declina” (p.131); “come nei giorni più lontani e persi” (p.182); “ma l’uomo non rinasce con le foglie” (p 193); “dimentichi gli agnelli alla piantata” (p.226). Sfogliando anche casualmente il libro, troviamo continui esempi di endecasillabo spezzato, con o senza sinalefe: “nel tempo che precede/hanno dimora” (p. 39); “masticano lenti i buoi/la paglia scura” (p. 69); “sempre ho scelto la terra/e non il cielo” (p. 147); “nascono quelle viole/a due colori” (p. 159); “la miglior sorte/è quella della pietra” (p. 166); “la più remota e persa,/la più lontana” (p. 179); “non lo dissolve il tempo/o trascolora” (p. 205). Talvolta, invece della coppia settenario-quinario, abbiamo quella settenario-quaternario (o ternario); altre volte il settenario è sostituito da un ottonario o un novenario: ciò che dà luogo, con un procedimento tipicamente moderno (si pensi solo a Montale), a un ritmo zoppicante, a una continua tensione fra regolarità e irregolarità, da cuore che non pulsa più come dovrebbe. Altre volte ancora il settenario e il quinario (più il primo che il secondo) si presentano autonomi, formando brevi serie di versi. Altre volte ancora – ed è forse la soluzione che meglio mette in luce la straordinaria libertà del poeta all’interno di forme codificate – l’endecasillabo, anziché in due membri, si spezza in tre: “occhi e mani/riscalda,/il sangue e il cuore” (p. 45); “dal dolore/che sempre/c’accompagna” (p.109) (notare il “c’accompagna”, spia dell’oralità); “ma poi ritorna/a tratti,/e non sai come” (p. 210). La combinazione di due e tre non poteva mancare, come in questo esempio: “e quelle rocce fitte/nella panca,/con le sue luci,/ a sera,/ il pino accende (p. 52). Non si deve tuttavia credere che Piersanti sia prigioniero di un’intellettualistica ars combinatoria. Nulla di più lontano da una poesia pulsante come quella del poeta marchigiano, che ha forse nella parola “sangue” il suo emblema. La pulsazione ci riporta al due in uno e all’uno in due di cui ho già detto. Questo rapporto è presente anche nelle frequenti coppie di aggettivi sparse in tutto il libro: coppie in cui i due termini si potenziano l’un l’altro sì da formare una stretta unità e che fanno spiccare il particolare, apollineo luminismo del poeta marchigiano. Ecco alcuni significativi esempi: “giardino chiaro e luminoso” (p. 13); “pagine… ridenti e luminose” (p.27); “radici vaste e chiare” (p. 29); “acqua così chiara/e così azzurra” (p. 35); “aria/fredda e chiara” (p. 69); “giorni chiari/e luminosi” (p. 172); “acqua azzurra/e trasparente” (p. 44); “buoi/nitidi e incisi” (di icasticità carducciana); “radura/perfetta e queta” (p. 70); “crochi/ azzurri e lievi” (p. 121); “favagello…/giallo e acceso” (p. 158); ma le viole, con una variazione del rapporto fra i due aggettivi che altrimenti diventerebbe monocorde, sono “pallide e stupite” (p. 18) e “cupe e splendenti”. Luce apollinea quella di Piersanti. Ma di un apollineo moderno, di un tempo segnato dalla frattura e dalla perdita. Così il rapporto fra i due aggettivi talvolta cambia e il secondo si oppone al primo. La luce è “breve e assoluta” (p. 141); l’eden è “fragile e assoluto” (p. 197); il cigno è “chiaro e fugace” (141). Il massimo della tensione fra gli aggettivi si ha nei versi “cosmo ordinato/e indifferente” (p.195) e soprattutto in “Natura così bella e così atroce”. Dove il negativo prevale, i due aggettivi tornano a potenziarsi, ma con segno inverso rispetto al positivo. I giorni sono “fragili e falsi” /(p 119); l’amore è “fragile e fugace” (120); i giorni sono “lontani e persi” (182); la terra è “squallida/e contorta” (p.19), copia “pallida e sbiadita” della “radura” luminosa dove il tempo non entra.

Ecco dunque la pulsazione della poesia di Piersanti. Pulsazione che sembra cessare proprio nei versi finali: “ma alla finestra resti,/solo a guardare,/i molti libri pesano,/i molti anni” (p. 226).   A parte il sentimento di distacco dal mondo moderno, spicca qui un atteggiamento rinunciatario che contrasta con la volontà “tenace”, “rabbiosa” che percorre tutto il libro. Pesano gli anni, ma pesano anche i libri, come se l’accumulo della cultura si opponga alla spontaneità della poesia, ne inaridisca la fonte. Il cammino nel folto dei sentieri, col suo danzante andirivieni che sospende il tempo, sembra a un tratto arrestarsi. Dobbiamo crederlo?

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