Rebora, sulle orme di Dante

Clemente Rebora e Dante

Roberto Cicala con questo libro ci presenta una serie di sorprendenti inediti danteschi di Clemente Rebora, grande studioso del Sommo Poeta.

Nel volume Cicala come un archeologo, riprende e riporta in luce tutta una serie di appunti, riflessioni e postille di Rebora alla Commedia (segnate in matita rossa per indicare la grazia e blu per evidenziate il peccato) e un intero ciclo di lezioni tenute da Rebora a Milano nel 1929, l’anno della sua conversione.

Un libro unico che ci fa comprendere quanto Dante abbia influenzato Rebora e con lui, intere generazioni di poeti, fino a oggi, e, a quanto pare, l’anniversario dantesco non ha mai prima d’oggi messo in luce le lezioni inedite di Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento, “maestro in ombra” di poeti quali Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.

Gli inediti sono notevoli, per esempio sul passaggio – per Rebora autobiografico – dal «folle volo» di Ulisse all’«alto volo» della malattia mistica che l’ha portato alla morte a Stresa, il 1° novembre del 1957.

E proprio il primo novembre di quest’anno alle 16:00, nell’anniversario della morte di Rebora a Stresa, sulla sua tomba ci sarà un reading musicale per onorare la sua memoria, a  partire dal libro di Roberto Cicala Da eterna poesia (il Mulino, 2021) con musica di Roberto Bassa letture di Roberto Sbaratto introduzione di padre Ludovico Gadaleta Interviene l’autore

Il volume esce in libreria a fine ottobre 2021.

(Luigia Sorrentino)

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ROBERTO CICALA
Da eterna poesia
Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (Il Mulino, 2021)
Presentazione di Alberto Casadei

 

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E’ Jean-Charles Vegliante il vincitore del Premio Ceppo internazionale poesia Piero Bigongiari

Jean-Charles Vegliante

La consegna del riconoscimento alla Carriera avverrà giovedì 7 ottobre 2021 alla Biglioteca San Giorgio di Pistoia (Auditorium Terzani) alle ore 16.30.

Il poeta vive in Francia, a Parigi, ed è uno dei maggiori poeti fra i contemporanei

L’autore leggerà la “Ceppo Piero Bigongiari Lecture 2021” appositamente scritta per l’occasione e pubblicata all’interno del volume Rauco in noi un linguaggio appena edito da Interno Poesia.

L’antologia contiene le ultime poesie di Vegliante, con alcuni importanti inediti, ha la cura e le traduzioni di Mia Lecomte, poeta e traduttrice dal francese, collaboratrice della rivista di poesia comparata “Semicerchio”.

Vegliante e Lecomte leggeranno le poesie e le traduzioni contenute nell’antologia.

Fra gli interventi, quello del professor Stefano Carrai (professore della Scuola Normale Superiore di Pisa) sul rapporto fra Dante e Vegliante.

Alla manifestazione saranno presenti gli studenti del Liceo Linguistico “Filippo Pacini” guidati da Cecilia Ballotti che interverranno con domande e commenti: le migliori saranno premiate con buoni libri offerti dalla Fondazione Caript da spendere alla Libreria Lo Spazio di Pistoia per il Premio Ceppo Giovani.

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Gli ultimi libri di Roberto Calasso, il lento sprofondare nella memoria

Roberto Calasso

MEMÈ SCIANCA E BOBI 

di

Fabrizio Fantoni

 

A poco più di un mese dalla morte di Roberto Calasso vale la pena di leggere le sue ultime opere letterarie: Memè Scianca e Bobi.

Si tratta di due piccoli libri – usciti subito dopo la morte dello scrittore avvenuta il 28 luglio scorso – che ci restituiscono il resoconto di due straordinarie esperienze esistenziali – quella di Roberto Calasso e del suo amico e mentore Bobi Bazlen – intrecciate in un indissolubile sodalizio culturale ed affettivo.

In una notte di fine primavera, non lontano dal lago di Garda, un padre legge ai figli i ricordi di infanzia di Pavel Florenskij, intitolati Ai miei figli. Il racconto di eventi così risalenti nel tempo induce i giovani ascoltatori a domandare cosa il padre ricordasse dei suoi primi anni d’infanzia trascorsi presso la vecchia villa di San Domenico vicino a Firenze.

È questa l’occasione da cui ha inizio, in Memè Scianca, quel lento sprofondare nella memoria per rintracciare eventi appartenenti ad un’epoca fumosa ed incerta che l’autore rievoca affidandosi al flusso disordinato e  lacunoso dei ricordi. Non, quindi, un’autobiografia dalla progressione lineare quanto, piuttosto, una pseudo-autobiografia in cui l’autore si fa scriba di se stesso.

Con pochi particolari Roberto Calasso fa rivivere, nelle sue pagine, la Firenze degli anni quaranta. Una città segnata dalla guerra – che ne accentua il carattere di città a parte, separata da tutto anche dal resto dell’Italia – abitata da una folta schiera di intellettuali che guardavano ad essa come la culla della cultura umanistica europea. Era la Firenze di Bernard Berenson e di Roberto Longhi, di Giorgio La Pira e di Ranuccio Bianchi Bandinelli: era la Firenze in cui fioriva la civiltà delle ville.

In questo denso ambiente culturale il giovane Calasso getta, per la prima volta, uno sguardo consapevole su se stesso.
La scoperta della poesia con Baudelaire e della letteratura con Cime Tempestose della Bronte, libro che apriva la via verso una regione ignota e fascinosa, di cui nessuno parlava e si poteva scoprire soprattutto al cinema. Ma scoprirla in un libro era qualcosa di diverso. Andava più a fondo.
La scoperta della musica al Teatro Comunale.
La scoperta dell’eros frugando le languide illustrazioni di Gustave Dorè dell’Orlando Furioso.
La scoperta dell’editoria con il nonno Ernesto Codignola fondatore della Nuova Italia, casa editrice che con la collana il Pensiero Storico si poneva come strumento imprescindibile per la conoscenza del mondo antico.
E infine la scoperta del ruolo dell’ intellettuale nella formazione di una coscienza civile attraverso il ricordo dell’arresto del padre Francesco – insigne giurista e membro del Comitato di Liberazione Nazionale – a seguito dell’uccisione di Giovanni Gentile.

Memé Scianca è un’opera di testimonianza e di ricognizione umana teso a ricomporre le esperienze della vita riportandole, tutte, a pochi essenziali eventi.
Man mano che si procede negli anni e riflettiamo, in modo sempre più assiduo, sul nostro trascorso raggiungiamo la piena consapevolezza di come tutta la nostra vita sia stata determinata da un numero esiguo di accadimenti che hanno marcato, in modo indelebile, la nostra esistenza:  senza di essi noi non saremmo stati noi stessi.

Quella conversazione avuta con il proprio padre un dato giorno dell’infanzia, quel libro letto per caso in una notte dell’adolescenza, quell’amore della prima giovinezza che ci ha deluso….Se anche uno soltanto di questi eventi  non si fosse verificato, le nostre scelte, le strade dai noi percorse sarebbero state diverse.

Se Calasso non avesse letto un dato giorno delle sua infanzia L’homme et la mer – uno dei componimenti più belli de Les Fleurs du mal – avrebbe poi scritto La folie Baudelaire? E se non avesse incontrato da bambino Grete Bloch – la donna amata da Kafka e da cui ebbe un figlio  – avrebbe da adulto scritto il magnifico saggio K?… Forse no. Difficile dare risposte univoche.

Di certo Roberto Calasso ha voluto, con un gruzzolo di ricordi, delineare una trama precisa di eventi fra loro concatenati che tracciano un percorso, un profilo culturale che prelude ai rilevanti risultati raggiunti successivamente dall’autore.

Memè Scianca si fa chiamare l’autore. Questo bizzarro soprannome che sembra alludere ad un’infermità, deriva dalla parola sanscrita shankha che indica la conchiglia cerimoniale usata per le libagioni d’acqua o, bucata, come tromba o corno in battaglia.

È bello pensare che il suono di questa conchiglia abbia guidato tutta la vita l’autore nelle sue peregrinazioni. Del resto, come scrisse lo stesso Calasso nel libro intitolato Ka: nella mente si compie ciò che nella mente aveva avuto inizio e che forse innanzitutto nella mente era avvenuto.

I ricordi dell’infanzia trascorsa a Firenze lentamente si dileguano, si consegnano definitivamente al silenzio, e lasciano il posto – nel libro Bobi – alla memoria degli anni romani.

È a Roma, in una stanza in affitto di via Margutta 7 che Calasso, accompagnato da Elemire Zolla, incontra per la prima volta Bobi Bazlen. Continua a leggere

Alberto Fraccacreta – Premio Ceppo Leone Piccioni Succedeoggi Saggistica Under 35 – 2021

Vi proponiamo in esclusiva, il discorso tenuto da Alberto Fraccacreta, il 24 giugno 2021 a Pistoia nell’ambito della manifestazione del Premio a lui conferito. Assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Urbino, Alberto Fraccacreta poeta e saggista, scrive per Succedeoggi e per numerose testate giornalistiche nazionali. E’ fra i collaboratori del blog Rai Poesia, di Luigia Sorrentino.

 

La letteratura come gioia

Non è gioia se non nel dolore.
Eugenio Montale, Quaderno genovese

 

 

La letteratura come gioia. Mi rendo conto che è un titolo poco convincente. Ad alcuni potrebbe suonare persino retorico. È quindi consigliabile, se non necessario, il gioco delle etimologie per accattivare l’uditorio e per rivestire il nesso di almeno una parvenza d’interesse. Dunque. La radice etimologica di gioia proviene dal gaudium latino che è connesso all’idea di piacere, gaudere, e più addietro al jocum, al gioco — appunto — che produce allegrezza. (Ovviamente non si sta parlando della voluptas degli epicureisti e del giovane Marsilio Ficino.) Se però lasciamo le escoriazioni linguistiche greco-latine e ci rifacciamo per un attimo al verbo sanscrito ‘yuj’ — significa ‘unire’ o ‘legare’ —, la gioia diviene un sentimento che tiene ‘uniti’. Chi o che cosa?, verrebbe da chiedersi. E inoltre: la gioia è davvero un sentimento? Il gioco, anzi il jocum delle etimologie finisce qui. Con questi interrogativi sospesi. C’è da rimanerne delusi.

Be’, innanzitutto, bisogna domandarsi che ha a che fare la gioia, il tener uniti (chi, che cosa?) con Leone Piccioni a cui questo premio è dedicato. Prima di continuare con gli sproloqui pseudointerpretativi, desiderio ringraziare gli organizzatori, in particolare Paolo Fabrizio Iacuzzi, Gloria Piccioni e Nicola Fano per la loro fiducia e la gioia che davvero ci tiene uniti da anni con il webmagazine Succedeoggi. Dicevo che significa la parola ‘gioia’ per Leone Piccioni? Molte cose. Il volume che inaugura la casa editrice Succedeoggi Libri, Leone Piccioni. Una vita per la letteratura, curato da Gloria e da Silvia Zoppi Garampi,testimonia attraverso le voci di importanti studiosi, poeti e artisti l’humanitas di Piccioni: non soltanto la sua preparazione critica, il suo valente contributo alle humanae litterae, ma anche la sua amicizia, il suo essere solidale nei confronti del prossimo. D’altra parte, è ormai divenuto celebre il dittico aggettivale che lo accompagna: Leone Piccioni «maestro e amico». Desidero adesso insistere su un particolare della sua attività critica che bene aiuta a esprimere come la parola ‘gioia’ possa essere una risorsa per la letteratura odierna. Vorrei precisare, se non è chiaro, che il titolo di questa brevissima conferenza si rifà esplicitamente a un intervento ben più decisivo e gravido di conseguenze a opera di Carlo Bo: Letteratura come vita, pubblicato nel ’38 sulla rivista «Il Frontespizio», considerato un po’ il manifesto dell’ermetismo e anche la cifra peculiare dell’intero lavoro ermeneutico di Bo (il quale ha comunque più di un debito con il francese Du Bos, curiosa la vicinanza anche nominalistica tra i due).

Letteratura come vita è ben più attraente di letteratura come gioia, ammettiamolo. Però forse la letteratura come gioia possiede un’accezione più particolaristica e insieme universale. «Gioia, bella scintilla divina», diceva Schiller nella sua famosa ode che Beethoven riprese in quella magnifica esplosione di musica oggi divenuta l’inno dell’Europa ‘unita’. (L’Europa ha bisogno di gioia, ammettiamo anche questo. E di unione.) È necessario trovare l’angolazione corretta da cui scorgere questo sostantivo, gioia, nella sua giusta luce. Le parole, come sappiamo, invecchiano e vengono usurate dal tempo, dalle ideologie. C’è bisogno di una purificazione. Dal rinnovamento del linguaggio spesso può sorgere un rinnovamento, se non una palingenesi, delle idee.

Partiamo con Piccioni. Rileggendo Una perpetua poesia maggiore, il lungo saggio di Leone che apre Vita d’un uomo di Giuseppe Ungaretti nell’edizione «Oscar Moderni» (Mondadori 2016), mi viene in mente un’espressione, o meglio una categoria interpretativa e concettuale, che Marco Sonzogni nel Meridiano dedicato a Seamus Heaney (Poesie, Mondadori 2016) ha utilizzato per entrare nel merito della raccolta Seeing Things: la «santificazione della poesia». Vediamo uno squarcio del testo di Piccioni, in cui si parla del Dolore ungarettiano:

 

A un effetto addirittura di canto aperto, solenne, corale porta nel Dolore il tema della guerra. Il poemetto Roma occupata ha andamento di composizione sinfonica, ha i suoi tempi musicali, il suo coronamento. Ed il canto del dolore cocente, ancora è diffuso nel paesaggio: «Fa, nel librato paesaggio, ch’io possa / Risillabare le parole ingenue». Ed è la «pietra», son qui «segni», «quasi divine forme» entro cui si svolge, in contemporaneità di tempo, con l’ispirazione del poeta, la vicenda che non si può fare a meno di cantare, fino alla preghiera, alla preghiera più alta, finalmente liberatrice. 

 

Piccioni continua la sua lettura della silloge citando forse i versi più importanti di tutta l’opera di Ungaretti, tratti da Mio fiume anche tu:

 

Cristo, pensoso palpito, 
Astro incarnato nell’umane tenebre, 
Fratello che t’immoli 
Perennemente per riedificare 
Umanamente l’uomo, 
Santo, Santo che soffri, 
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, 
Santo, Santo che soffri 
Per liberare dalla morte i morti 
E sorreggere noi infelici vivi, 
D’un pianto solo mio non piango più, 
Ecco, Ti chiamo, Santo 
Santo, Santo che soffri. 

 

Giustamente Piccioni ha messo in rilievo il saliente passaggio dalla poesia alla «preghiera liberatrice»: ciò significa che lo spazio poetico si è santificato, è divenuto il luogo di perfetta adesione grazie a cui il poeta, nonostante il dolore, può riconoscere la ‘riedificazione’ dell’uomo. Ma ecco, anche, che la santificazione della poesia è diventata poesia della santità: «D’un pianto mio non piango più». La tragedia personale acquista un respiro cosmico: non è più ripiegamento su di sé, è misericordia, pietas e agape,solidarietà con la sofferenza altrui. E cos’è la poesia, infatti, se non umana solidarietà? Si è ‘uniti’ nel dolore. Se gioia significa unire, si può allora gioire nel dolore. Lo ha già anticipato Dostoevskij quando nei Fratelli Karamazov fa dire allo staretzZosima: «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità». Questo è un po’ il Leitmotiv di tutto il romanzo. C’è una differenza tra talesentimento e la gioia di scrivere della Szymborska o la solarità di Camus? Certo. Perché innanzitutto questo — e rispondiamo a uno dei primi quesiti posti — non è propriamente un sentimento, ma una ‘posizione’, un habitus esistenziale. Di nuovo Carlo Bo in Meditazione su Claudel, un saggio apparso nel ’37 sulla rivista «Letteratura», suggerisce che per comprendere le opere dello scrittore francese bisogna giocoforza assumere la sua personale prospettiva che definisce appunto la «posizione Claudel», un essere di fronte al mondo permeato totalmente dall’azione della grazia. Lì c’è la joie di un personaggio fondamentale nell’opera di Claudel, Doña Prouhèze, Donna Prodezza, la quale sostiene a chiare lettere che «là dove vi è più gioia, vi è più verità» (cito dalla traduzione di Simonetta Valenti della Scarpetta di raso, Le Château 2011).

Prima di rivelare che cos’è questa gioia indicata da Claudel, invidiata da Bo (che ammette di essere invece ancora nella posizione di Don Rodrigue, amato da Prouhèze), vorrei parlarvibrevemente di un racconto di Flannery O’Connor, Brava gente di campagna, che ho letto nella traduzione di Gaja Cenciarelli, presente nella raccolta Un brav’uomo è difficile da trovare recentemente riedita da minimum fax. Guardacaso la protagonista si chiama Joy ma si è autoribattezzata Hulga, è una filosofa raziocinante che non crede in nulla. È sedotta da un «sempliciotto», il classico «ragazzo di campagna», il quale dopo averla invitata a un appuntamento galante per i boschi ha l’ardire di sottrarle la gamba di legno (quella naturale era stata «maciullata da uno sparo durante un incidente di caccia») ed esporla come un trofeo. È un racconto abbastanza truce, contornato di un’ironia tragica. Un racconto davvero «brutale e sarcastico», etichetta che la O’Connor nelle lettere alla fantomatica «A.» ci rivela detestare. Sotto il profilo simbolico però — commenta la stessa Flannery, facendo una radiografia del testo nella raccolta di saggi Un ragionevole uso dell’irragionevole (minimum fax, 2012) — la gamba corrisponde all’«anima legnosa» della donna e in realtà il briccone, togliendole la protesi esistenziale che frena la sua adesione, le dona seppure per un attimo l’amore, la libera dalle ossessioni e dai lacci interiori che fino a quel momento le avevano impedito di vivere. Joy aveva perso la gioia e la grazia ha agito attraverso quel furfante per aprirle il cuore. La O’Connor non ci dice più nulla, il racconto finisce nel peggiore dei modi, ma è probabile che da allora Joy abbia abbandonato Hulga e sia ritornata Joy. La gioia riacquistata nel dolore.

Letture di questo tipo rientrano, a mio giudizio, in una dimensione interpretativa che potremmo chiamare ‘pneumocritica’, mutuando il prefisso pneumo- dalla speculazione teorica della filosofa Elvira Lops, autrice di un trattato di pneumanalisi antropologica, Credevo di essere qui, invece non c’ero (Aracne, 2020). Qual è la dimensione ‘pneumica’ del soggetto? Sicuramente non è la dimensione psicologica! Quindi, ci allontaniamo subito dalla psicocritica di Mauron e dal tentativo — ad esempio, del grande Giacomo Debenedetti — di leggere la letteratura alla luce della psicanalisi freudiana. La pneumocritica è un po’ una lettura ‘integrale’ del testo letterario, che tiene conto degli aspetti biografici, psicologici, esistenziali e simbolici, e prova a fissare il messaggio dello scrittore nelle regioni di frontiera tra l’io e il tu, tra lo scrivente e il destinatario, tra il soggetto e l’alterità.

Badiamo al sodo e facciamo un esempio concreto di pneumocritica. Prendiamo due versi da Iride di Eugenio Montale, forse i due versi che riescono a esemplificare meglio l’intera raccolta, La bufera e altro: «Ma se ritorni non sei tu, è mutata / la tua storia terrena». Interpretiamoli in termini biografici: il tu è Iride (o Clizia), cioè Irma Brandeis, donna amata dal poeta, americana studiosa di Dante, tornata a Firenze nell’estate del ’38 dopo qualche anno di assenza. In termini letterari: il ruolo di paladina dei valori umanistici e di «inconsapevole Cristofora» è traghettato in altre ispiratrici femminili (la Volpe) che ne prendono il carico e continuano la sua opera: dantescamente la sua femminilità ritorna in altre. In termini psicologici: il poeta vede Irma cambiata, ora è una «messaggera accigliata», il suo ritorno non ha più soltanto una valenza personale (era giunta a Firenze per ‘salvare’ Montale dalla disperazione di quegli anni) ma addirittura politico-metafisica (con il viaggio a Lussinpiccolo e a Parigi per organizzare le operazioni di salvataggio di molti ebrei in pericolo), e quindi cosmica, universale. L’interpretazione pneumocritica ricomprende tutti questi significati, aggiungendo un quid che ha a che fare con il tragitto esistenziale dell’autore: la potenza soteriologica del visiting angel non sostiene l’impalcatura religiosa, la domanda di salvezza che il poeta richiede. Dotato di un io carente, depotenziato, egli ha creduto di ottenere uno scampo storico e metafisico in una kafkiana «religione privata» (De Caro), ma tanto Clizia-Iride quanto le sue «metamorfosi tenebrose» (Cambon) conducono soltanto a conclusioni provvisorie, che apriranno alla nuova indagine sul dio dei filosofi di Satura. Inoltre, essendo la pneumocritica orientata a descrivere il contenuto ontologico delle relazioni, i confini interiori/esteriori dell’io e del tu, si può dire che le ‘tenaglie’ dell’io si allentano per l’insufficienza espressiva e la donna inizia veramente ad apparire come tu. Per la prima volta il soggetto lirico sembra essere di fronte a un tu, a un confronto con esso: è l’alba del tu nella poesia.

E ora arriviamo a Claudel. È pressoché impossibile riassumere l’antefatto della Scarpetta di raso, quello che è considerato il capolavoro claudeliano, un’opera teatrale sterminata che consta di oltre sessanta personaggi, pubblicata tra il ’28 e il ’29 e rappresentata solo molti anni dopo (con grandi difficoltà, peraltro). Il cuore della pièce è nell’amore impossibile, per varie vicissitudini irrealizzabile in vita tra Prouhèze e Rodrigue. Nell’unico incontro che hanno nel dramma, la famigerata scena tredicesima della terza giornata, si svela quello che è il testamento di Claudel, tutto il significato esistenziale della sua opera. Il suo messaggio, per utilizzare una terminologia jakobsoniana. Ripeto: causa vicissitudini varie l’amore tra Prouhèze e Rodrigue, benché uniti nell’anima (attenzione: ‘uniti’) da sempre, non potrà essere realizzato in vita. Il loro vero incontro è rimandato dopo la morte, in Dio, nell’eterno. Ed ecco la sostanza di questo scambio altissimo (per i significati letterari, filosofici e teologici) di battute:

Doña Prouhèze. — […] Io, io, Rodrigue, io sono la tua gioia! Io, io, io, Rodrigue, io sono la tua gioia!
Il Vice-Re. — Parola non affatto di gioia, ma di delusione.
Doña Prouhèze. — Perché far finta di non credermi quando credi a me disperatamente, povero infelice!
Dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità.
Il Vice-Re. — A che cosa mi serve questa gioia se tu non puoi donarmela?
Doña Prouhèze. — Apri ed essa entrerà. Come fare per donarti la gioia se tu non le apri quella sola porta attraverso la quale posso entrare?
Non si possiede affatto la gioia, è la gioia che ti possiede. Non le si pongono condizioni.
Quando avrai fatto ordine e luce in te, quando ti sarai reso capace di essere compreso, è allora che essa ti comprenderà.
Il Vice-Re. — Quando sarà, Prouhèze?
Doña Prouhèze. — Quando tu le avrai fatto posto, quando avrai ritirato te stesso per farle posto, a questa cara gioia!
Quando la chiederai per sé stessa e non per aumentare in te ciò che le fa opposizione.

 

Perdere Prouhèze per Rodrigue significa perdere tutto, eppure lei lo invita alla gioia. Da questo bellissimo e terribile passaggio si capisce che essa non è un sentimento o, peggio, un’emozione (con tutto il rispetto per le emozioni). È qualcosa di più radicale, potremmo dire con lessico veteroheideggeriano di ‘ontologico’. È un habitus — si è detto —, un modo di approcciarsi al mondo, agli altri, alle cose. Nel succitato Letteratura come vita, Bo scrisse che «[la letteratura] è la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita». Se la gioia è la verità («dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità»), e la verità è la vita, e la letteratura è vita, la parte più vera della vita, allora per un ragionamento induttivo la letteratura diviene claudelianamente gioia. Una gioia però che ha due parti, due tronchi dello stesso albero: la parte dell’esultanza propria del Magnificat ad esempio (Lc 1, 46-55), e la parte della stabilità, della solidità, secondo quando detto dalla Lettera di Giacomo, che parla di «perfetta letizia» (Gc 1, 2-4): «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla». Ancora la gioia, la felicità nel dolore.Insomma, la letteratura tiene ‘uniti’. Chi e che cosa? Lo scrittore e il lettore, perché essi partecipano dell’umanità. La letteratura associa, è sociale perché mette insieme, rende una cosa sola. Continua a leggere

Ungaretti, Montale e Shakespeare

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

Vi proponiamo adesso la traduzione del Sonetto 33 Full many a glorious morning have I seen di William Shakespeare nella traduzione di Ungaretti e poi, in quella di Montale.

Quale preferite? E perché?

Full many a glorious morning have I seen
Flatter the mountains-tops with sovereign eye,
Kissing with golden face the meadows green,
Gilding pale streams with heavenly alchemy,
Anon permit the basest clouds to ride
With ugly rack on his celestial face,
And from the forlorn world his visage hide,
Stealing unseen to west with this disgrace.
Even so my sun one early morn did shine
With all-triumphant splendour on my brow;
But out, alack! he was but one hour mine,
The region cloud hath masked him from me now.
Yet him for this my love no whit disdaineth;
Suns of the world may stain when heanven‘s sun staineth.

(William Shakespeare)

Ho veduto più dʼun mattino in gloria
Con lo sguardo sovrano le vette lusingare,
Baciare dʼaureo viso i verdi prati,
Con alchimia di paradiso tingere i rivi pallidi,
E poi a vili nuvole permettere
Di fluttuargli sul celestiale volto
Con osceni fumi sottraendolo allʼuniverso orbato
Mentre verso ponente non visto scompariva, con la sua disgrazia.
Uguale lʼastro mio brillò di primo giorno
Trionfando splendido sulla mia fronte;
Ma, ah! non fu mio che per unʼora sola,
E dell’umano clima nubi già l’hanno a me mascherato.
Non lʼha in disdegno tuttavia il mio amore:
Astri terreni possono macchiarsi se il sole del cielo si macchia.

(Traduzione di Giuseppe Ungaretti)

La traduzione di Ungaretti è uscita in Giuseppe Ungaretti, 40 sonetti di Shakespeare, Milano, Mondadori, 1946 (dei quali sonetti, ventidue – ma non il nostro – erano già raccolti in Giuseppe Ungaretti, XXII sonetti di Shakespeare, Roma, Documento,1944).

Eugenio Montale

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Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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Alberto Fraccacreta, “Sine macula”

Alberto Fraccacreta

Pubblichiamo in anteprima alcuni testi tratti dal nuovo libro di poesie di Alberto Fraccacreta in uscita a novembre 2020 per Transeuropa.
Il volume  raccoglie Uscire dalle mura Basso Impero, pubblicati da Raffaelli nel 2012 e nel 2016, aggiunge sequenze inedite e riordina il materiale alla luce di Delia, ineffabile presenza femminile sempre sul filo dell’epifania, colei che è lì da mostrarsi ― com’è inscritto nel suo etimo ―, immagine della donna costantemente cercata. Delia è l’idea di Maurice Scève, la Velata che nei suoi lineamenti interiori dà ragione di una traccia sine macula, trasparenza, poesia stessa e tensione del soggetto verso un’edenica relazione con il reale.

A cena con la tua assenza

 

Talvolta viene a trovarmi la tua assenza.
Allora, in visibilio, apparecchio
con precisione che esige devozione
e già la tavola brilla di posate all’ora esatta.

Una piatta ripulita mi do e dal bagno sento
l’orlo distorcersi, la crepa discreparsi,
ciò che non ha corpo farsi carne ―
ecco, bussa alla soglia di anni e anni persi

il tuo non esserci che mi vive.
Non c’è la donna della mia vita
ed è tenace negazione che diventa
eventualità, dono del possibile

eppure ostinazione del diniego che amo
per un dopocena nell’incavo
del non conosciuto, delusa ricaduta in sé
in vista di una più ospitale uscita dal me

che ancora non è,
ancora per poco, incontro di te.
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Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Andrea Gareffi, “L’opus contra naturam di Montale”

Eugenio Montale

DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Chi ha detto che Eugenio Montale era un nichilista? Una vecchia tradizione di studi, avvitata sulla scettica vena diaristica di Satura (1971) e delle ultime sillogi, lo dipinse per decenni come simbolo di inflessibile negazione. Eppure Eusebio, in molte poesie e nei rivelatori (e talora depistanti) autocommenti, non ha mai nascosto una sua personale, benché velleitaria e problematica, ricerca di trascendenza. Dopo che Paolo De Caro, nell’intricato ciclo cliziano, ha scoperto legami testuali con l’eresiarca ebreo Jakob Frank, la parabola interpretativa di alcuni passaggi fondamentali dell’Opera in versi ha cominciato decisamente a correggersi. L’elegante saggio di Andrea Gareffi dal titolo junghiano L’opus contra naturam di Montale, pubblicato nella collana «Mosaic» di Loffredo diretta da Elisabetta Marino e Fabio Pierangeli, fa luce e giustizia su un aspetto ancora poco conosciuto della poetica montaliana che si pone come rivoluzione copernicana negli studi del maggiore poeta del nostro Novecento. È l’intero impianto compositivo della lirica di Montale ad appartenere a una kafkiana teologia individuale o a una tensione mistica individuata da Gareffi nell’ampio spettro del lavorio psicologico e delle conquiste della coscienza. Non una vera e propria confessione religiosa (benché siano innegabili i punti di contatto con il cristianesimo), ma una sorta di «metafisica immanente», orientata verso un’«eternità d’istante» à la Kierkegaard, che mantiene nitida la distinzione di anima e animus ed è in rapporto di prossimità con il verum ipsum factum di Vico. Ma lo studioso si spinge oltre: la spiritualità montaliana, in continua genesi e in perpetuo rinnovamento, è forse mediata anche dalla prospettiva gnostica e asiatica di Bobi Bazlen: si può parlare allora di un Montale orientale o addirittura taoista? Sarebbe troppo, ma qualcosa c’è. Continua a leggere

«L’ho letto su un foglio di un giornale. Scusatemi tutti.»

Mario Benedetti, poeta italiano foto di proprietà dell’autore

Giornale di un infante saggio (e insolente)

di Alessandro Anil

 

Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.

Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».

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Alberto Bertoni su Mario Benedetti

Un ricordo di poesia

di Alberto Bertoni

 

Al di là dei ricordi personali, non molti ma qualitativamente molto alti, di Mario Benedetti conservo un ricordo di poesia al quale sono affezionato in modo particolare. Era forse il 2007 e mi ero assunto da poco l’incarico di curare da solo il “Meridiano” dei romanzi più belli di Alberto Bevilacqua. Passavo dai corridoi dell’open space letterario alla Mondadori di Segrate, quando un amico “che poteva” mi passò quasi sottobanco la stampata del libro inedito di Benedetti che sarebbe uscito di lì a non molti mesi nello “Specchio”, chiedendomi un parere da esprimere nel giro di pochi giorni: un parere per nulla vincolante, il libro sarebbe stato comunque pubblicato a prescindere dal mio giudizio, ma solo un’impressione competente. Ovviamente accettai, poiché Umana gloria, pubblicato nella stessa sede tre anni prima, mi aveva colpito per una compattezza ottenuta tutta a posteriori, cioè riassemblando in mirabile unità i diversi “materiali per una voce” che Benedetti aveva scandito nella temporalità lunga di una storia compositiva cominciata fin dagli anni Ottanta, com’era appropriato e quasi naturale per i nati come lui e come anche me nel 1955.

Io dunque attribuivo a Umana gloria una valenza duplice: quella di condensare lo sviluppo tardonovecentesco del mio asse poetico prediletto, la strada maestra che – con ripetute vedute sull’abisso – congiunge Montale e Sereni, Giudici e Zanzotto; e l’altra che imbocca decisamente – nella sua varietà ricombinata in officina – una via diversa, quella del nuovo secolo/millennio che cominciava prima di tutto a rifiutarsi di risolvere e di chiudere “poeticamente” in unità prosodica, sintattica, tematica le antitesi, le antifrasi, le contraddizioni che sono intrinseche a quel Reale non mimetico ma insieme gnoseologico e metodologico che è il Reale dell’epoca nostra. Non è difficile accertare che le peculiari di queste contrapposizioni per così dire ontologiche sono, nel caso della poesia di Mario (che sull’espressione poetica di questo Reale di secondo grado ha buttato tutte le sue fiches di autore dotatissimo), sono dialetto/non dialetto, Friuli/non Friuli, correlazione oggettiva/sua risoluta negazione, autobiografia/suo capovolgimento oggettuale-impersonale, narrazione/trasalimento lirico, nitore fotografico/dimensione onirica, “una volta”/adesso, lucidità impietosa/fragilità, sguardo crudele/”stupore bambino”, sublime alto/sublime basso, variazioni sulla dialettica di endecasillabo e settenario/intercalare di un verso lungo esametrico o whitmaniano, paesaggio naturale/paesaggio figurativo, culturale, mentale… Continua a leggere

Adam Zagajewski, “Prova a cantare il mondo storpiato”

Adam Zagajewski

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Lirica originariamente concepita per descrivere la desolazione della provincia di Leopoli — città in cui Zagajewski è nato ma che ha rivisto soltanto dopo molti anni, durante un viaggio con suo padre —, ottenne un ampio riscontro di critica e di pubblico in America, l’indomani dell’attentato alle Twin Towers. Tradotta da Clare Cavanagh, uscì sul «New Yorker» pochi giorni dopo l’11 settembre. Secondo Valentina Parisi, Prova a cantare il mondo storpiato è «un punto di snodo tra la sua mitologia personale legata all’immagine remota di Leopoli […] e una disponibilità sempre crescente a misurarsi col mondo contemporaneo». In Zagajewski, infatti, i continui richiami alle dolcezze del ricordo si mescolano ai duri avvertimenti del presente, lasciando intravedere il valore implicitamente civile (in senso metafisico, dunque) della letteratura, quale emblema di una resistenza interiore, individuale contro il potere disgregatore delle cose. In queste settimane di emergenza, la poesia suona nuovamente come un invito alla speranza rivolto alternativamente a sé stessi e agli altri attraverso un “tu metaforico”: cantare il mondo storpiato significa non dimenticarsi degli attimi di estasi vissuti nei tempi di pienezza («Ricorda di giugno le lunghe giornate/ e le fragole, le gocce di vin rosé»). Anche nella sofferenza, quando le foglie roteano «sulle cicatrici della terra» e il tordo perde la sua «penna grigia», anche quando i profughi non sanno dove andare e i carnefici cantano vittoria, proprio in quegli istanti — nel momento in cui «tutto pare incarbonirsi», direbbe Montale — è ancora possibile ripensare al grande canto, all’amabilità dell’esistenza, alla «luce delicata» che si perde e «ritorna». La realtà mutilata è segno in negativo di una bellezza perduta alla quale siamo chiamati e destinati. Ancora una volta, anche nel dolore.

LEGGI QUI L’INTERVISTA A ADAM ZAGAJEWSKI REALIZZATA DA LUIGIA SORRENTINO IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO AL POETA DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA CIVILE CITTA’ DI VERCELLI (OTTOBRE 2019)

Spróbuj opiewać okaleczony świat

Spróbuj opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o długich dniach czerwca
i o poziomkach, kroplach wina rosé.
O pokrzywach, które metodycznie zarastały
opuszczone domostwa wygnanych.
Musisz opiewać okaleczony świat.
Patrzyłeś na eleganckie jachty i okręty;
jeden z nich miał przed sobą długą podróż,
na inny czekała tylko słona nicość.
Widziałeś uchodźców, którzy szli donikąd,
słyszałeś oprawców, którzy radośnie śpiewali.
Powinieneś opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o chwilach, kiedy byliście razem
w białym pokoju i firanka poruszyła się.
Wróć myślą do koncertu, kiedy wybuchła muzyka.
Jesienią zbierałeś żołędzie w parku
a liście wirowały nad bliznami ziemi.
Opiewaj okaleczony świat
i szare piórko, zgubione przez drozda,
i delikatne światło, które błądzi i znika

Prova a cantare il mondo storpiato

Prova a cantare il mondo storpiato.
Ricorda di giugno le lunghe giornate
e le fragole, le gocce di vin rosé,
e le ortiche implacabili a coprire
le dimore lasciate dagli esuli.
Devi cantare questo mondo storpiato.
Hai visto navi e yacht eleganti
Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,
ad attendere altri era solo il nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare da nessuna parte,
hai sentito cantare di gioia i carnefici.
Dovresti cantare il mondo storpiato.
Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme
e la tenda si mosse nella stanza bianca.
Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.
D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.
Canta il mondo storpiato
e la penna grigia perduta dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.

(Traduzione di Valentina Parisi, in Adam Zagajewski, Prova a cantare il mondo storpiato, Interlinea 2019) Continua a leggere

La lingua aspra di Michelangelo

Gandolfo Cascio / Credits photo Dino Ignani

 

Michelangelo scrisse le Rime per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Il volume di Gandolfo Cascio, Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori, Venezia, Marsilio, 2019,  indaga per la prima volta il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.

ESTRATTO DAL LIBRO

INTRODUZIONE
di Gandolfo Cascio

LE CONVERSAZIONI TRA SCRITTORI

 

Per Michelangelo dura la maldicenza – non sempre a suo sfavore – del carattere saturnino, sdegnoso, «selvatico»[1]; ma ciò che conta è che la sua collocazione nella storia della cultura occidentale è netta: egli fu l’uomo che dominò consapevolmente lo spazio in cui agì, che incarnò mirabilmente la quintessenza del Rinascimento superando chicchessia.

Ormai molti sanno che fu anche poeta[2]. Il primo autografo si fa risalire al 1503, o a pochi anni prima, e tranne brevi intervalli continuò a scrivere per il resto della sua vita. Il tesoro del corpus considera 302 componimenti perfetti, perlopiù madrigali e sonetti, in una lingua aspra, sprezzante, a momenti spassosa e schietta, discosta dalla limpidezza e dalle fresche acque che allagarono il Cinquecento. A questi vanno aggiunti degli esercizi e abbozzi, incipit irrisolti, smilze adattazioni da classici e autocitazioni, sovente riportati nel verso degli schizzi o su foglietti. Di molti sono pervenuti diversi testimoni: dato che sfibra l’ipotesi del dilettante. Il romanzo[3] racconta molto: il senso dell’esistenza, qualche avvenimento della Storia, la bellezza e, supremo su tutto, l’amore dolente o benevolo nelle varianti di ἀγάπη e ἔρως, della φιλία e στοργή e, a modo suo, della ξενία.

Alcune rime erano note nei giri dei coltissimi romani e fiorentini che si passavano le trascrizioni, le incastonarono in lettere, assistettero a esami pubblici. A metà degli anni quaranta si pensò addirittura d’allestire un canzoniere; non se ne fece niente ma questo non vuol dire che Michelangelo non si curasse della propria reputazione di poeta, tutt’altro. Malgrado queste premesse favorevoli, la princeps, parziale e corrotta, venne data fuori soltanto nel 1623; la prima edizione critica nel 1863[4]. Continua a leggere

La poesia di Alberto Bertoni

Poesia Festival 2017 Sabato a Vignola l’Alzheimer : la malattia, la cura, ……. photo© Serena Campanini

Per l’altrove quotidiano
di Marco Marangoni

Ormai dopo la pubblicazione di tutte le poesie, in lingua italiana (Poesie, 1980-2014 , Nino Aragno Editore, Torino, 2018 ), nonché di tutte le poesie scritte in dialetto modenese
(Zàndri, Book Editore, Ro Ferrarese, 2018), e tenendo conto sia della terza edizione di Ricordi di Alzheimer ( Book editore, Ro Ferrarese, 2016), sia della plaquette, Ricordi e cromosomi, uscita da Stampa 2009 (Azzate, VA, 2018), la poesia di Bertoni si presenta come un vertice di ricerca espressiva oltre che di consapevolezza teorica. Molto utile per accostare i testi è tra l’altro la diretta riflessione critica con la quale l’Autore ha sempre accompagnato il proprio lavoro lirico, e che si può apprezzare anzitutto a partire dalle annotazioni presenti nei libri citati.
Poeta, dal punto di vista generazionale, degli anni ’80, Bertoni condivide con autori usciti in quel decennio, e registrati in sede critica da Roberto Galaverni (Nuovi poeti contemporanei, Guaraldi, Rimini, 1996) l’interruzione del flusso utopico. Tutta la poetica del progetto-desiderio, dalla neo-avanguardia a La parola innamorata– antologia voluta non casualmente da A. Porta – sembra appannarsi presso i nuovi poeti degli anni ‘80. Il neoliberismo imperante che di lì cominciava e il sentimento di decentramento dalla “storia” hanno prodotto sul piano lirico un soggetto linguistico spaesato, del “dopo” – Così Bertoni: “A ogni costo, stasera/ rendiamo dialogiche le dissonanze/ perché la coscienza infelice diventi felice ma/ manca il minimo senso e cosa stai a fare, cosa/ hai paura di dire, cosa…”, da Le cose dopo (1999-2006), ora in Poesie ( 1980-2014) , op. cit. p. 56. –
E si aggiunga che con il senso di posterità, anche per la revoca del mandato sociale del poeta come in generale dell’intellettuale, la poesia fiorita in quella decade retrocede ad un sentire primonovecentesco, di “crisi”, di età dell’ansia, e dunque a maestri che pongono l’accento sull’assenza, sui vuoti: da Montale, a Caproni, a Sereni. Insomma la “cosa” politica o metafisica, comunque intesa, appare impraticabile: “Res amissa”. E In particolare per Bertoni, che scrive “questo lungo/ scolorare d’Occidente in grigio chiaro” (Poesie 1980-2014, op. cit., p.59), anche Gozzano è un classico di fondamentale riferimento. Continua a leggere

Jean-Charles Vegliante, “Variazioni italiane”

Jean-Charles Vegliante

Stamane ancora, Dio, Grande
Madre, o chi altro, Coniglio
scorticato, supplice vi supplico
scordatevi di noi – spregevoli
e lassi di subire, di contemplare
l’inutile beltà, di aver
male, non avete di meglio
da fare? –
tra di voi nella corte del cielo?

Non bruciate il mio corpo, tanto non servirebbe
nemmeno (insufficiente) a scaldare una
famiglia acquattata là sotto il muro – lasciate
il mio rompimento, le mie ossa lenirsi miste
all’umida terra al fieno magro da concime,
convertire i miei atomi in fiori vapore…

Chi dice di no

Crede di sentire tra la musica di fondo
sinistro del gioco ove si contorce la sua infanzia
qualcosa che ripete in ciclo continuo I love you love
e for ever e ancora in un lampo
che torna e torna per un rimuginare
senza scampo per l’altro che lo spaventa,
scoppio di risa così lontano che gli pare
non dover finire se non con le ultime dee.
Perché avresti quasi voglia di piangere,
perché non parti in quelle false guerre
al mondo, a tutte quelle che delusero l’attesa
in cui eri interamente facile preda
e uomo fragile erto di fronte al cielo?
perché non puoi ammettere ciò che ci sottomette? Continua a leggere

OLIMPIA, Dal grembo alla Torre

di Elio Grasso

I “libri della vita” hanno limiti soltanto davanti. Indietro, l’orizzonte cambia per sempre. E la poesia da lì in poi potrebbe farsi sempre più libera. Non si tratta di tempo, ma di spazio in cui bisogna difendersi e tirare alla svolta. Olimpia ha già le sue leggi, trovate in quelle radici che Luigia Sorrentino ha riunito una volta per tutte. De Angelis, nella prefazione, lo conferma puntandosi sul “tema della salvezza”. Anche se lui stesso intuisce che non si tratta di uno scioglimento completo. La pressione mondiale, quando ha a che fare con la vita, non dà per sempre un polo certo. La materia ha salti imprevisti: invadono la lingua del poeta, rinfacciano il dissidio originale, corrugano la poesia fino a che non si comprende che occorre ancora una volta affrontare il “mostro iniziale” (così Montale definiva il big bang della poesia). Ma all’approdo questo libro affida le diverse stazioni dell’umano femminile, dalla giovinetta che annaspa nel vuoto di “milioni di notti” alla visione finale delle città del mondo circondate da sabbie monti e boschi. La dichiarazione di essere “finalmente comprensibile” è come l’originale singolarità da cui tutto inizia. La parola fa debuttare l’antropologia di quanto definiamo vita, comprendendo occhi e bocca e corpo intero. Da lì alle mura, vicine al cielo, il salto è breve. Tutta la prima sezione si attesta sull’abitare quel che improvvisamente esiste: pareti risuonanti, incarnazioni, grembo meraviglioso cui esser grati. Controllo e abbandono rilanciano la natura stessa della poesia come fluttuazione e canto. Nel mezzo la giovinetta schiude tutto lo stupore che l’accresce, dentro la prima lezione di realtà. Continua a leggere

Alberto Pellegatta, “Ipotesi di felicità”

Lo Specchio Mondadori, storica collana di poesia italiana che ha pubblicato in presa diretta autori come Montale, Ungaretti, Sereni, Fortini e Zanzotto, rinnovata graficamente e ora a cura di Maurizio Cucchi, pubblica il poeta under 40 Alberto Pellegatta.

Nota di Maurizio Cucchi

La concretezza di una visione disincantata viene espressa nell’eleganza raffinata di una scrittura insieme sciolta, comunicativa, vivace e capace di passare dal verso alla materica densità di brevi componimenti in prosa. Notevole è poi il senso esplicito per l’insieme architettonico del libro, concepito come vero e proprio organismo, in linea con i maggiori esiti della poesia contemporanea. Continua a leggere

Anteprima Editoriale, Lo Specchio – I poeti del nostro tempo

IL RESTYLING giugno 2017

Il rilancio editoriale dello “Specchio” segna il ritorno della collana alla sua vocazione originaria. Lo dichiara il testo programmatico con cui si aprono i nuovi volumi:

Negli anni 40, sullaletta de Lo Specchio, lEditore scriveva: «Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi».

A settantacinque anni dallesordio della più prestigiosa collana italiana dedicata alla poesia – che, a partire da Cardarelli, tra i tanti ha ospitato Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, Sereni, Zanzotto, Raboni, Giudici, Porta, Gatto –, lEditore riprende e conferma la sua originaria vocazione.

In questo nuovo formato, Lo Specchioaffiancherà alla poesia più recente le voci già celebri in Italia e nel mondo e chiederà ai poeti italiani di offrire al nostro pubblico la poesia universale, ravvivando quella consuetudine che in anni lontani ci ha regalato traduzioni memorabili. Infine, con le antologie, Lo Specchiotornerà a fare il punto sul percorso creativo ed estetico delle nuove voci che mirabilmente stanno continuando «la gloriosa tradizione italiana».

Il rilancio intende richiamare le caratteristiche di varietà ed eclettismo che hanno contraddistinto “Lo Specchio” nel corso della sua ricca e gloriosa storia.

A partire dal 2017 saranno pubblicati sei titoli all’anno, suddivisi secondo alcuni grandi filoni che verranno costantemente alimentati:

  • novità di poeti italiani
  • novità di poeti internazionali
  • raccolte o antologie per fare il punto sul percorso dei principali poeti del nostro panorama
  • rivisitazioni di grande voci della poesia classica e novecentesca per il tramite di poeti contemporanei.

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Edith Bruck & Joëlle Gardes

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Edith Bruck fotografata nella sua casa di Roma vicino Piazza di Spagna durante l’incontro con la traduttrice e scrittrice francese Joelle Gardes, a dicembre del 2016. La sua poesia, scritta in lingua italiana, richiama molto lo stile di Primo Levi, ha la forza della testimonianza del dolore dei sopravvissuti alla Shoah.

 

Infanzia

Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio
dalle sagome umane che colpivano nel buio
dai cani aizzati contro dai padroni taciturni e grevi
dallo sputo di bambini nutriti d’ignoranza
dagli idioti lasciati liberi
dalle vergogne e dalle catene familiari
per sfogarsi con gli ebrei
all’uscita della sinagoga. Continua a leggere

La Biblioteca Nazionale Centrale di Roma diventa anche un Museo

spazio900Giornate internazionali di studio
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma
Mercoledì 16 e Giovedì 17 Novembre 2016

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Le Biblioteche anche come Musei: dal Rinascimento ad oggi

Negli ultimi decenni, grazie ad una mirata politica d’incremento dei suoi fondi, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma ha sempre più assunto la connotazione di archivio di raccolte degli autori contemporanei: è nata da qui l’idea di realizzare un vero e proprio museo della letteratura del Novecento, l’area espositiva permanente Spazi900, ideata e progettata dal Direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma Andrea De Pasquale, inaugurata il 10 febbraio 2015 alla presenza del Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo Dario Franceschini. Continua a leggere

Compie quarant’anni “Somiglianze”, di Milo De Angelis

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Milo De Angelis

 

Giovedì 10 novembre 2016, ore 20, Quarant’anni di Somiglianze con Milo De Angelis. Casa della Poesia, Laboratorio Formentini, via Formentini 10, Milano.

La somiglianza

Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?

Prese la rincorsa, tese il braccio. Continua a leggere

Jean-Charles Vegliante, “Pensiero del niente”

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Dalla Prefazione di Maurizio Cucchi

Nel 2004 Giovanni Raboni traduceva per Einaudi un primo libro importante di Jean-Charles Vegliante “Nel lutto della luce” e definiva l’autore “un poeta che viene da una grande tradizione come quella francese, ma anche, contemporaneamente, da una Continua a leggere

Giorgio Caproni, Il «Terzo libro» e altre cose

caproni_il terzo_libroANTICIPAZIONE

E’appena uscito con Einaudi Il “Terzo libro” e altre cose, di Giorgio Caproni, con la presentazione di Enrico Testa e un saggio di Luigi Surdich.

«Questa mia scelta di versi è quasi per intero tratta dal Terzo libro del Passaggio d’Enea. Vuol essere la ricostituzione d’un libro – il mio terzo libro, appunto – che già incorporato nel folto Passaggio d’Enea, mancò tuttavia d’uscire al netto nella sua propria e precisa fisionomia, e che isolato e riorganizzato nella sua intima struttura, e infine tutto in sé concluso, mi piace oggi riconsiderare, con sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione – credo rimasta determinante – della mia ricerca negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal 1944 al 1954».

Giorgio Caproni Continua a leggere

Jonathan Galassi, “Lateness”

 

Galassi1Proponiamo, per la prima volta in lingua italiana, “Lateness”, una delle più belle poesie di Jonathan Galassi tratta dalla sua prima raccolta di versi, Morning Run, (Corsa Mattutina), del 1988, nella traduzione di Marco Sonzogni.


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1975-2015: QUARANT’ANNI DI POESIA ITALIANA

centro_poesia_milanoGiovedì 3 dicembre 2015 ore 18.30
Milano, Palazzo del Lavoro piazza IV novembre, 5
1975-2015: QUARANT’ANNI DI POESIA ITALIANA. IL PUNTO
Ciclo di poesia “Colpi da maestro” Continua a leggere

Giorgio Orelli, “Tutte le poesie”

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Giorgio Orelli, “Tutte le poesie” , Oscar Mondadori, Milano, Mondadori, 2015

A cura di Pietro De Marchi
Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo
Bibliografia di Pietro Montorfani Continua a leggere

Silvio Ramat, “Poesie da un esilio”

 

silvio_ramat-copertinaDalla quarta di copertina

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Un romanzo epistolare, condotto su un doppio registro: quello in versi del poeta che scrive per lunghi mesi da una casa di cura, e quello in prosa della dolce amica che gli risponde, Elisabetta, Elis, con cui il dialogo si infittisce tra ricordi, riflessioni, e il muoversi con discrezione estrema del sentimento. Così si realizza questo nuovo libro di Silvio Ramat, Elis Island, dove la corrispondente diviene un ideale punto di approdo, un’isola sognata verso cui il poeta apre lo sguardo. E lo riapre anche, o soprattutto, condividendo le sue emozioni con Elis, sui mille rivoli e i molti territori di un passato anche remoto, poiché “la memoria aduna / i luoghi del mondo visitati”. E infatti, lettera dopo lettera, si viene disegnando una geografia vastissima che va dalla Lombardia alla California da New York alla Cina o al lago di Garda, mentre in questo intenso scambio epistolare fra il poeta e l’amica letterata si affacciano i nomi e le opere di numerosi poeti e scrittori, come Stendhal o Virginia Woolf, come Carducci, Pascoli, Montale, magari intrecciati a ricordi di film celebri, come quelli di Hitchcock, o al suono di belle canzoni d’amore di un’epoca ormai lontana. Continua a leggere

Maria Borio & Dario Bellezza

dario_bellezza_1(Foto di Dino Ignani)

Invettive e licenze e la poesia degli anni Settanta. Analisi di Il mare di soggettività sto perlustrando… di Dario Bellezza

di Maria Borio Continua a leggere

Lorenzo Calogero & John Taylor

Lorenzo-Calogero3Anticipazione editoriale

Le Edizioni Chelsea di New York (http://www.chelseaeditionsbooks.org/) pubblicheranno nei prossimi giorni, la prima traduzione inglese – con testo italiano a fronte – delle poesie del poeta italiano Lorenzo Calogero, nella traduzione di John Taylor.

Il titolo del libro An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, raccoglie una vasta produzione poetica di Lorenzo Calogero.
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Un poeta legge un poeta

pasolini.pgCari amici di Poesia,

Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento.

Il video deve avere questa struttura

1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia;
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere

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cesare-paveseCari amici di Poesia,

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 alda-merini
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zanzotto1Cari amici di Poesia,
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Colloquio con Felice Casucci

felice_casuccidi Antonietta Gnerre
Incontro Felice Casucci a Telese Terme, Benevento, nella sede della Fondazione “Gerardino Romano”. Mi accoglie nel suo studio pieno di libri che spaziano da Platone a sant’Agostino, da John Donne a William Shakespeare. Nel suo studio i libri sbucano ovunque, ce ne sono tanti, manuali, libri di ricerca e saggistica. I romanzi e i libri di poesie che sta leggendo sono adagiati, invece, sul suo scrittoio come se fossero dei tesori. Ne prendo qualcuno tra le mani e mi colpisce immediatamente il rosso delle sottolineature. Il suo studio è anche ricco di ricordi, di dettagli che compaiono dalle numerose foto. Iniziamo a chiacchierare dei suoi e dei miei progetti, dei suoi interessanti corsi all’Università del Sannio. Continua a leggere

Giovanni Raboni, Tutte le poesie

 
raboni_coverCon il Porta comincia, nella poesia italiana, quella linea lombarda, potentemente realistico-narrativa e, per cosí dire, antipetrarchesca, che si ritrova anche all’interno della poesia del Novecento e che è l’unica della quale io aspiri a far parte, nonostante i molti debiti che so di avere nei confronti di altri poeti, da Baudelaire (che considero il piú grande poeta moderno) a Pound (che considero il piú grande inventore di possibilità poetiche del nostro secolo), – e poi, per venire a nomi piú vicini o addirittura vicinissimi, quasi fraterni, a Rebora, a Montale, a Saba, a Sereni.
 
Da: Giovanni Raboni, Autoritratto 1977
 
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