8 marzo: la libertà delle donne

In un mondo disegnato dalle parole degli uomini, irrompe il racconto delle donne a modificarne gli orizzonti.

Alla luce di tredici candele si ritrova un cenacolo di scrittrici, dalle loro voci nasce un nuovo continente: è la terra inesplorata delle donne.

Parte del ricavato delle vendite sarà devoluto all’Associazione Difesa Donne: noi ci siamo (via Val di Sole, 10 – 20141 Milano).

Il libro sarà presentato a Roma l’8 marzo 2023 a Lettere e Caffè (Trastevere) alle 18:00.

Con la curatrice del volume, saranno presenti le autrici:

Cettina Caliò, Ilaria Palomba, Gisella Blanco, Patrizia D’Antonio, Manuela Mazzi, Antonietta Gnerre, Emma Saponaro, Raffaella Gambardella, Elisa Ruotolo, Antonella Rizzo, Sabrina Caregnato, Luigia Sorrentino, Elisa Longo.

Sara Durantini, foto di proprietà dell’autrice

Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, consegue la laurea magistrale in lettere moderne presso l’Università di Parma; vincitrice dell’edizione 2005-2006 del Premio Tondelli per la sezione inediti con il lungo racconto L’odore del fieno, nel 2007 pubblica il primo romanzo, Nel nome del padre, con la casa editrice Fernandel. Nel 2008 pubblica un racconto inserito nell’antologia Quello che c’è tra di noi, a cura di Sergio Rotino (Manni Editore), nel 2009 partecipa al Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta (Fandango Libri), nel 2011 pubblica un racconto inserito nell’antologia Orbite vuote (Intermezzi Editore). Nel 2019 partecipa all’edizione aggiornata del Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango Libri) e nello stesso anno partecipa al volume L’unica via è il pensiero (Intermedia Edizioni) a cura del professore Hervé A. Cavallera. Continua a leggere

Gian Mario Villalta al Teatro Bellini

Gian Mario Villalta presenta a Napoli il 2 dicembre 2022 alle 17:00 la sua ultima raccolta di poesie Dove sono gli anni (Garzanti, 2022)

Gian Mario Villalta

Dialogano con l’autore Antonella Cristiani e Alberto D’Angelo

 

Da “Dove sono gli anni“, di Gian Mario Villalta, Garzanti 2022

 

Sempre ti manca quello che hai: vivere.
Qualcosa di più necessario, seguiti a chiedere,
qualcosa che ti convinca, ti vincoli a.
«Perché continuo a scrivere?»
Forse perché puoi finire
lo fai, come uno cammina di sera
prima di cena, o un altro vanga l’aiuola,
o mette a posto il garage, perché tu potresti
– come lui – non varcare più l’ombra
dei lampioni, l’altro smettere di sperare
che germini il seme o più non sapere se le sue cose
sono ancora lì – potresti così tu non essere
più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu
che diventi tu che lo scrivi.

*

Anni fa, adesso, lo stesso pensiero di non tornare più
quel momento che la mente ristampa e pare uguale
mentre accampa la strada, è novembre, e sono le foglie
la quiete che manca, i rami neri nel cielo che c’è.

Adesso, allora. Soltanto più tenue è il respiro del tempo
che sfiora gli anni e le ore dove provi i risvegli e gli insonni
globuli rossi, i globuli bianchi, le cellule si avvicendano,
qualcuno che diventa qualcuno, a tua insaputa, tu.

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Mimmo Paladino alla Galleria Mazzoli

Mimmo Paladino a partire dal 3 dicembre 2022 torna a esporre alla Galleria Mazzoli di Modena dopo la mostra EN DE RE del 1980, la personale del 1992, Dieci arazzi con Alighiero Boetti del 1993, Vasi Ermetici del 1994 e le mostre personali del 2012 e del 2014, proponendo Il tema dei fiori, un ciclo di opere inedite in cui sono protagonisti i fiori, soggetto ricorrente in tutta la storia dell’arte, dall’antichità fino ai nostri giorni.

Paladino realizza per questa mostra sia opere di grandi dimensioni che piccoli dipinti in cui convivono pittura, scultura, incisione e disegno e in cui campeggiano le sue teste, la figura umana e le sue classiche figure geometriche delineate con segni primordiali, opere in cui si percepisce il dialogo tra l’uomo e la natura attraverso le stratificazioni materiche e gli elementi floreali immersi nell’immaginario poetico dell’artista.

Nel testo del catalogo della mostra Lorenzo Madaro ci parla di “Fiori che germogliano, fiori che si amalgamano a corpi antropomorfi arcani, fiori che persistono e fiori che si dissolvono; fiori che lievitano verticalmente e altri che compiono viaggi imperscrutabili e che svelano in maniera ancor più precisa che per Paladino questo del fiore non è un tema fine a sé stesso, perché d’altronde nella sua ricerca non esistono tematiche, quanto piuttosto un presupposto che gli consente una maggiore disinvoltura e una libertà di segno, anche al di là del segno stesso.[…] La forma di questi fiori è totemica, arcaica, appartiene a un lessico visuale che nella ricerca del maestro è parte integrante di un alfabeto ermetico ma al contempo ormai famigliare. A guardarle queste tele sono singole sezioni di un discorso più ampio e aperto, sono elementi di un grande giardino, che è un tema che appartiene da tempo a Paladino.” Continua a leggere

In ricordo delle vittime di femminicidio

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Luigia Sorrentino 25 novembre 2022

Nel lago della sera

Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia, scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada che costeggiava la fabbrica di ghiaccio. Brandelli di morte erano caduti nel pietroso mondo invernale. in un ritmo feroce, il ghigno dell’animale stringe, sempre più. Uno sciamare esaltato imbriglia la preda. Respira nella morte la danza armata, ingoia il grido nel grembo.

Sale la musica, sempre più in alto. – Cara compagna dei miei anni sopravvissuti –. Una corona cade sulla sua testa.

 

Nunzia

essere portata in un’urna
diranno – reca le ceneri –
con il corpo privo di resistenza
la ragazza dal volto antico
si sottomette
rende cadavere la cosa

una forza la preda
non uccide ancora, è sospesa
su di lei

l’imperativo potente
l’ha resa schiava

di notte quando è sola
lava via dal corpo
segni vaghi e confusi

*

qualcosa incrina la sua forza
il posto si svuota

– tu sei inutile, non vali niente –

la violenza ha la lingua del fuoco
lo scudo sul quale rimbalza
le protegge il volto, chiaro

la testa fra l’incudine e il martello
montava rabbia incandescente

poi scendeva la tenebra
il silenzio di tutte le parole

*

si rivestiva in un angolo
senza più dire niente
restava lì, nella penombra
separata da sé

era accaduto di nuovo
era già accaduto prima

sulla strada
la testa ciondolava nel niente

precipitata l’innocenza della rosa
coagulato l’umido degli occhi
dal profondo l’assicuravi
del nulla, del tuo trionfo

– nessuno ti vorrà più –

*

l’arteria della gola tesa
porgeva il collo alla lama
il promontorio dagli occhi languidi

tornava a deporla
sulla città distesa davanti ai loro occhi
quell’odore di labbra poteva già essere
c’era sempre stato

non sospettava di essere
coraggiosa e giovane

dà l’imbeccata al falco

l’isola ferita
il palmo della mano avvicina
il basso graticcio delle rose

*

la nuvola sembrava una montagna

non era niente
la carnagione bianchissima
aveva il carattere provvisorio
dei morti

la tenebra le parlava
ossessivamente
occupando il suo destino

il canto degli uccelli notturni
annunciava in un grido
la fine di ogni cosa

*

il dio dei morti autorizza l’amore
soltanto presso i morti

lo dissotterra,
amore disperato e sterile
dal naufragio lo difende, in seno
cara luce
tiene il lembo
lascia cadere
una speranza debolissima
si propaga all’umanità intera

deperita vittima espiatoria
adorazione terrorizzata
verità della violenza Continua a leggere

Ilaria Palomba, la forza del corpo

Ilaria Palomba / Credits foto Dino Ignani

Nota di Luigia Sorrentino

Pubblichiamo in esclusiva alcune poesie inedite di Ilaria Palomba scritte dall’autrice nella stanza del CTO, Centro traumatologico ortopedico di Roma, nel quale è ricoverata dal 3 maggio 2022.

I versi, in stile “confessionale”,  non sono il racconto o la cronaca del salvataggio o del l ricovero in emergenza, ma sono la reale e autentica esperienza di chi ha attraversato la morte ed è ritornata alla vita.

Ogni verso qui, rivela forza, azione, pensiero, resistenza.

Poesie con le quali Ilaria investe le vicende del nostro tempo e consegna al lettore un’altra, inedita figura della vita, quella che ci osserva dal margine della vita, e lo fa con una poetica che ci tocca nell’intimo e ci coinvolge profondamente.

Ilaria Palomba ricoverata al CTO di Roma, 14 settembre 2022

sperimentare l’invisibile 

Il silenzio è una fuga
strofa che trama
non fidarti – farà
di te spariglio – lei
come tutti i mostri
legata a un desiderio
spezzato, ha lottato
e ha perso. Non ti perdona
la vittoria – su cosa poi?
nei luoghi del nulla
il tempio – di cosa?
delle abbandonate.
Ferita – tu – lepre
tra fauci di iene
giurasti fiducia
sacrificarsi i figli.
Non ti perdonano
la giovinezza, l’amore.
Di questo tuo corpo
faranno macello.

5 luglio 2022

In zone tormentate
ho patito l’assenza
ma né i suicidi né
i morti metteranno
mai piede qui.
L’aria del mattino è
calda di un tepore
umido e rovente eppure
io sento il freddo del
trapasso. Chi mi vuole
viva non sa quale regione
mi tocca attraversare
Il corridoio con i vassoi
pieni di pillole e siringhe
il rumore dei vassoi.
Il corridoio che mi guarda
spietato e io immobile.
Poi la sesta vita (se resisti
al presente e non urli).
Tu dove sei?

24 luglio 2022

Ieri ho scoperto di non essere
più in grado di scrivere a penna.
L’incidente si incide in me
ogni giorno con un volto diverso.
Una volta prendevo appunti
con la velocità di un missile,
anche questa dote è stata cancellata.
Ho ritrovato però l’abbraccio sperato
il mio tu si è moltiplicato e non è
più persecutorio, non solo. Il
persecutore interno è il più cattivo
di tutti. Ogni tanto dovrei affacciarmi
a guardare un tramonto e dirmi:
tu ce la farai. Uscirai di qui come
uscirai dal dolore, dall’incantamento
e dal delirio. Attanagliata da ricordi
e desideri infranti, anche tu dirai:
ho sofferto ma ora basta. Il corpo
obbedisce solo all’infinito. Oggi
è un’illusione della coscienza.

30 luglio 2022

Di tanto in tanto mi trucco
per illudermi di esser fuori.
Fuori dalle punture di eparina
alle sette di sera, fuori dal
confronto con la mia schiena
o con la mia gamba – quale delle
due? – mi trucco perché uscirò
non importa se stasera o tra sei
mesi – forse anche dieci – uscirò
e non avrò dolori che non siano
l’intimo dolore di aver perduto
persone di cui sembro essermi
dimenticata, e altre che ho
asfissiato con una fantasmatica
invadenza. Non sono capace
di mantenere alcun rapporto
a partire da quello con me stessa.
Ricordi quando ci mostrammo le
cicatrici sui polsi? Guardammo
poi la folla ascoltando Purcell.
Tu sei tutti loro e da nessuna parte.
Cosa sto aspettando?

3 agosto 2022

Quattro mesi fa ero intubata,
mi trasferirono qui per
la riabilitazione, ma le
gambe non sembravano
volersi riabilitare.
E neanche la schiena.
Chiedevo sempre
ai miei di cambiare
ospedale, come se
cambiare ospedale
significasse qualcosa.
In stanza con me
due ragazze che
consideravo più
allenate alla vita.
La stanza cambia
ogni volta che qualcuna
va via. Diventa più
grande o più piccola,
muta colore, ma sono
mutazioni infinitesimali.
Oggi la ragazza che
si è buttata dal quarto
piano ha camminato
con un deambulatore
sul pavimento della palestra.
Probabilmente si è
sentita una bambina,
era molto buffa da vedere
una delle sue gambe
non riusciva a muoversi
correttamente. La degenza
è ancora lunga, e ho
sempre voglia di fuggire,
ma ho la sensazione che
quando andrò via avrò
nostalgia del reparto
come di una cosa
intima da non dire
a nessuno.

18 agosto 2022

Mi sono truccata di lacrime
ho indossato lo sguardo
più feroce che potessi
per dire alla Vita: Questa
volta sarò più forte di te.
Lei mi ha risposto:
l’ho sentita sibilare
poi urlare forte più
forte che potesse
ma non parlava la mia lingua.

25 agosto 2022

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“Ci siamo proprio divertiti”

Mattia Tarantino a due anni dalla morte di Gabriele Galloni si rivolge a lui per la prima volta con una lettera scritta dalla Grecia: “Abbiamo riso da morire”.

Mattia e Gabriele a Napoli da “Michele” in uno scatto fotografico di Simona Russo, 21 marzo 2019

 

Nota di Luigia Sorrentino

Oggi ricorrono due anni dalla morte del poeta Gabriele Galloni (1995-2020).
In questa speciale ricorrenza abbiamo scelto di ricordare Gabriele con una lettera scritta da Mattia Tarantino all’amico fraterno, Gabriele che ha diretto con Mattia la rivista Inverso fino al 2020.

E’ una lettera speciale per diverse ragioni: la prima e forse la più importante è che la lettera ci è arrivata dalla Grecia, dal Patras World Poetry Festival, un’importante manifestazione poetica internazionale con un ricco programma di eventi che si sono svolti in diverse sedi culturali dal primo al quattro settembre 2022. Un Festival al quale Gabriele avreva desiderato dì partecipare per vivere questa esperienza con Mattia  e i loro amici poeti.

Per una strana coincidenza, Mattia proprio da Patras ricomincia a “parlare” con Gabriele, prima non era riuscito a farlo, e lo fa rivolgendosi direttamente a lui nella forma della epistola.

“Sono due anni che Gabriele mi parla con i suoi versi –  ha detto Mattia Tarantino – sono due anni che mi invia segni, presagi, li semina sul mio percorso, segni che solo adesso sono riuscito a decifrare”.

Nella lettera indirizzata all’amico, Mattia ricorda che Gabriele facendo riferimento alla loro amicizia, aveva più volte invitato Mattia a leggere un libro I detective Selvaggi, di Roberto Bolaño, edito da Adelphi. Gabriele cioè aveva invitato Mattia a cogliere il legame che li univa:   un “viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”. I due protagonisti del romanzo di Bolaño sono Arturo (con il quale si identifica Mattia) e Ulises (con il quale si identifica Gabriele).

Fra i segni di questa particolarissima lettera sono poi richiamati molti altri protagonisti reali della vita di Gabriele Galloni e Mattia Tarantino: amici poeti, simpatici e allegri, ma già segnati dalla sconfitta e dalla follia di una generazione esaltante e allucinata. Fra essi  ricorrono i nomi dei poeti Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Giorgio Ghiotti e poi Julia Gianferri, Ludovica Bernazza, Nicola Barbato e Giovanni Ibello.

Decifrare i segni, dirottare il presagio

Atene, settembre 2022

 

A Villa Kolla, Sotirios e Vanguelis si sono abbracciati. Uno poggiato all’altro hanno camminato insieme fino alle sedie, per prendere posto. Ridevano. “Da quanto tempo vi conoscete?” – “Ah, Mattia, non lo ricordo neanche…”.

Tornato in albergo, mi sono seduto al piccolo scrittoio davanti allo specchio. Dalla finestra, Patra era un crocevia tra i mondi.

Qualcuno cantava in cretese – lingua perduta, lingua irrimediabile – qualcuno in macedone. Qualcuno parlava della guerra, dei nonni, dei bombardamenti.

Due ragazzi, all’angolo della strada, suonavano la chitarra e bevevano un’ultima birra.

La sera prima di partire non ho preso sonno. Pensavo a Bolaño, a I Detectives Selvaggi. “Bello mio, devi proprio leggerlo; sì, si, parla di noi questo libro!”. Per tutta l’estate avevi detto che mi sarebbe piaciuto: capitava, in piena notte, me ne inviassi qualche pagina, oppure me la leggessi. Anche Julia lo stava leggendo, pochi mesi prima.

Ricordo che avevamo litigato, che per settimane non ci eravamo parlati, che c’era voluto tanto tempo per chiederci scusa. Alla fine, però, avevamo scelto di non lasciarci, di continuare insieme, “come Arturo e Ulises”: “Davvero, è pazzesco – c’è qualcosa della tua lirica, e di William Blake; i medesimi angeli vedete voi”.

Alla fine il libro l’ho letto nei giorni del tuo funerale.

Lo ricordo in cucina, a casa di Ilaria, accanto a un pacchetto di Winston. Blue 100’s, rigorosamente.

Ne parlai anche con Giorgio, e con mio padre. Eravamo strani, è vero. Mi chiedevi spesso cosa gli altri ne pensassero di te e io mi chiedo, adesso, cosa pensassero di noi.

L’anno prima diverse riviste e quotidiani parlarono di noi, di noi due insieme, e ci divertivamo, la mattina, a leggerli e immaginare cosa sarebbe successo se uno dei due fosse morto.

Su Carteggi Letterari, Giulio ci aveva chiamati Lucifero e Trismegisto, “compagni di merendine avvelenate. Quel giorno eravamo felici, proprio felici.

Insomma, dicevo, non ho preso sonno.

“Secondo me se andiamo in Grecia se divertimo, oh, ce tocca, là ci vogliono tutti bene”.

Mi sono alzato, ho preso le mie pillole, poi ho vomitato.

Ho acceso una sigaretta sul balcone, sulla Torre. Tu lo sapevi: la Torre nei miei libri non era un Arcano, non lo è mai stata; piuttosto il mio balconcino, il balconcino che conoscevi, con l’ulivo e le piante grasse, lo stesso di cui parlavo tanto spesso a Letizia, lo stesso in cui lessi a Ilaria Bonnefoy.

Movimento e immobilità di Douve” è ancora il mio libro preferito.

Sulla Torre ci ho passato tutta l’estate – e che estate. Ho avuto paura, per la prima volta e a lungo, per mesi. Ho dovuto imparare a dormire con la porta aperta. Per qualche ragione ero convinto che così non mi sarei gettato, che mia madre avrebbe capito tutto un minuto prima che accadesse, che mi avrebbe fermato. In qualche modo, ho avuto ragione.

Devi sapere che, da alcuni mesi, la mia lingua è una geografia sotterranea – una “Mesopotamia dell’invisibile”, direbbe Giovanni – di cunicoli, scorci, trapezi. La prima parola, appena prima dell’estate, è stata “Passaggio”. Poi, “Porta”.

Ora c’è qualcosa che ha a che fare con il mondo di un dio-gufo, con un traghetto per Buenos Aires, con San Lazzaro e gli armeni.

Ho baciato la croce di Sant’Andrea, pochi giorni fa. Il bacio dell’Icona… Dimitris mi ha detto che ho fatto bene, che la croce è una sola e che qualcosa, nella liturgia, è stato tradito per sempre.

Abbiamo a che fare con la calce del sacro, con la sua crosta. Al posto dei capelli abbiamo delle candele accese con bastoncini d’incenso e al posto delle mani qualche rotolo di preghiere indifese, sconsolate, nervose. Qualcosa come una macchina-divina, come un’Asina che scalcia e prende il posto dell’Orsa:

 

Notte irrimediabile. La stella crepita, scortica, rischiara.

Fuori, qualcosa chiede un nome: è un dio dalla testa d’asino. Mascella robusta, pupilla trasparente e spiraloide. Dio Carnevale. Ascoltami: siamo di passaggio. Quel pane, la strada per la porta, cosa significa il cerchio che portiamo. Non chiediamo altro. 

[…]

Vieni a me. Signore del ferro battuto, della sabbia arsa. Signore del latte alle ginocchia, dei merli di cenere. Qui la notte è bianca e io ti chiamo. Noi chiamiamo.

Quando sei morto era un anno che non scrivevo versi.

Solo tu, all’improvviso, avevi fatto in modo che rompessi il silenzio. Come un congedo, un dono d’addio.

Ora i quaderni non bastano, invece, ma i versi sono sciatti, quotidiani, giallognoli – proprio come quelli dei poeti che non ci sono mai piaciuti. I poeti che piacciono ai critici ma che non hanno un lettore, quelli a cui si chiedono dei versi inediti per l’autunno ma non riceveranno mai una lettera da qualcuno all’orlo, all’Orlo.

L’Orlo: se un’aldilà esiste, ed esiste, questo è il nome della stanza che ti è stata assegnata. Ne sono certo. A vent’anni ho capito questo, della vita, e che sono innamorato di tutte le cameriere del mondo e un cioccolatino lo accetterò sempre.

Penso anche che mentre scrivo l’Orlo si sia manifestato e abbia preso posto, ora, alla fine del Passaggio, appena dopo la Porta.

Occorre decifrare i segni, Gabriele, dirottare il presagio. L’ho detto anche a Ludovica, qualche giorno fa. L’ho detto anche Nicola. “Attendo il tempo in cui il miracolo riscriverà / la storia, la spalancherà, lascerà traballanti / le colonne del mondo”, scrive lei, e lui risponde che “Siamo il raggio di un mondo / che cigola. Una lettera al posto / di un’altra che le somigli ma parli / un’altra lingua”.

Entrambi sono nella mia stanza, lei suona il tamburo, lui fuma una sigaretta, guardano la fotografia che Simona ci ha scattato a Napoli.

Avrei voluto scattarla, una fotografia, a Sotirios e Vanguelis. Avremmo potuto essere noi, lo sai. Avremmo potuto camminare insieme fino alle sedie, poi sederci, ridere. Avremmo potuto dire che no, non riusciamo a ricordarlo da quanto tempo ci conosciamo. Magari a un giovane poeta greco, in qualche paesino accanto Roma. Magari a San Lorenzo.

Ti piaceva tanto, San Lorenzo. È un santo ed è un quartiere, è una notte ed è una piazza.

Poco prima che morissi ti avevo fatto il verso. Lo avevo fatto alle quartine sui morti. Continua a leggere

Romana Petri, “mostruosa maternità”

Madri che uccidono i figli. La scrittrice indaga e scandaglia il sentimento che separa la madre dal figlio fino al punto di portarla a sopprimerlo

Romana Petri

È molto significativo che l’attenzione della scrittrice Romana Petri abbia messo in luce un argomento molto forte, scottante oggi come ieri: quello delle madri che uccidono i propri figli.  Un argomento che in taluni casi divide l’opinione pubblica, e divide soprattutto le donne, quelle che hanno messo al mondo dei figli e che hanno conosciuto l’esperienza della maternità come un potenziamento della propria individualità e quelle che invece non hanno fatto figli e che hanno vissuto questa condizione come una privazione, un indebolimento della propria femminilità.

E’ quanto si evince dalla lettura dei dodici racconti pubblicati da Romana Petri con il titolo di “mostruosa maternità” (Giulio Perrone Editore, 2022).

Intervista a Romana Petri
di Luigia Sorrentino
Roma, 2 settembre 2022

 

Lei, Romana, madre a sua volta, non giudica le donne delle quali ci racconta. Non si pone con loro né contro di loro. Perché non le giudica? Che cosa vuole suscitare nel lettore?

 

“Una lezione che ho imparato bene è quella di Flaubert. Chi scrive deve riportare le cose come stanno, anche quando inventa. Vuol dire, raccontare mettendosi da parte, non solo senza emettere giudizi, ma nemmeno interpretare al posto del lettore. Il lettore deve essere libero di fare suo il libro, di continuarlo, di rimasticarlo dentro di sé, di stare da una parte o dall’altra. Se lo fa chi scrive lo condiziona.
Io credo in un rapporto di collaborazione tra chi scrive e chi legge. E spesso può capitare che un lettore abbia una visione di quel che scrivo io molto diversa dalla mia. Sono situazioni che mi piacciono molto, perché chi scrive è l’ultimo che può spiegare quel che fa. Nelle presentazioni ci proviamo, ma è una visione parziale. Per questo sono interessantissimi i circoli di lettura, perché si parla del proprio libro con persone che lo hanno già letto. Sono situazioni nelle quali imparo molto sul mio lavoro”.

 

Nel primo e nell’ultimo racconto riprende il caso di Annamaria Franzoni condannata in primo grado con rito abbreviato a 30 anni di carcere per l’omicidio del figlio Samuele, omicidio mai confessato dalla donna. La Franzoni è tornata libera nel 2019 per buona condotta, e il suo è stato, in assoluto, il caso di cronaca maggiormente seguito dai media. Nel suo primo racconto la Franzoni parla, a volte sembra pensare a alta voce. Nell’ultimo, sono due donne a confrontarsi sul caso “Franzoni” dal parrucchiere. Una è colpevolista l’altra è innocentista. Dal primo racconto sulla Franzoni emerge una generale condizione di insoddisfazione e di sofferenza della donna non percepita come grave dal marito. Cosa questa che ritorna anche nell’ultimo racconto, nel confronto fra le due donne. E’ come se dalla loro “chiacchiera” nascesse un dubbio sulla maternità, sul come debba essere o non essere una madre.
Romana, crede che non esista la madre perfetta? Pensa che dietro la “mostruosa maternità” si possa nascondere una buona dose di responsabilità nei mariti delle donne che uccidono i propri figli?

 

“Allora, io sono e sarò sempre convinta che l’unico omicidio ammissibile sia quello per legittima difesa. Non ce ne sono altri. Credo molto anche nella responsabilità personale, quindi una madre che uccide il proprio figlio, al dunque lo ha fatto lei. Può essere un raptus o una decisione fredda e calcolata, come il terribile, ultimo caso di Diana, lasciata sola a casa per sei giorni a sedici mesi.
Quando si parla di femminicidio, per fortuna non pensiamo mai che la donna abbia potuto influenzare con il suo comportamento l’uomo ad ucciderla. L’uomo la uccide perché è un assassino, perché non sa gestire l’abbandono e perché spesso il femminicidio è un omicidio di Stato perché le donne, anche quando vanno alla polizia non sono ascoltate.
Dunque, premettendo che nessuno può arrivare al punto da far commettere un omicidio a un’altra persona se questa non è già predisposta di suo, io direi che la responsabilità principale è della madre che uccide, poi c’è tutto il resto, soprattutto un’assenza dello Stato, anche perché purtroppo, della vita che i bambini molto piccoli fanno in casa non sa nulla nessuno. La casa può essere davvero una prigione. Vediamo gli ultimi casi. Una madre uccide il figlio perché il bambino si è accorto che lei a una relazione con il suocero; una madre uccide con undici coltellate la figlia perché quest’ultima si sta affezionando alla nuova compagna del padre; l’ultima la lascia sei giorni da sola per stare con il suo nuovo compagno, al quale, ovviamente, dice di aver sistemato la bambina presso sua sorella al mare.
In questi casi, chi può aver spinto la madre a uccidere i figli se non la fragilità della madre stessa? Le donne hanno un profondo senso di autodistruzione. Il mondo ha insegnato alla donna a non stimarsi, a non amarsi, a pensare sempre di valere poco.
Il peggio avviene sempre quando l’ego viene ferito. Pensiamo al suicidio.
Quali sono le maggiori cause di suicidio?
Delusioni amorose e fallimenti sul lavoro. Tutto quel che ha a che vedere con l’ego.
Si è mai sentito di chi si è suicidato per la morte di una persona amata, magari proprio di un figlio? Viviamo da sempre (vedi Medea) nel culto di noi stessi. Guai a chi tocca quella parte così fragile, così esposta, che ci pulsa addosso come un cuore scoperto. Appeso al petto”.

La sua narrazione esprime un forte disagio sociale che vivono alcune donne oggi all’interno della famiglia. Anche se le madri che uccidono i propri figli ci sono sempre state e infatti i suoi racconti sono ambientati in epoche differenti. Essere madre oggi come ieri è una responsabilità che incombe principalmente sulla donna nella relazione con il figlio, ma anche con il marito, o con il proprio compagno. Ci sono donne che hanno una storia difficile alle loro spalle, non sufficientemente elaborata dalla donna stessa, altre donne, invece, quelle che hanno avuto la possibilità di elaborare il proprio vissuto riescono nella maternità perché non riflettono sui figli i propri fallimenti, la propria autodistruzione. Insomma il figlicidio può celare il dubbio che la responsabilità non sia soltanto delle madri che lo commettono ma anche della società che ha inculcato loro di dover essere madri a tutti i costi?

 

“Anche qui dipende molto dalla personalità della donna. E non ci sono dubbi, non tutte sono nate per essere madri, la maternità deve essere una scelta. Purtroppo la donna, a differenza dell’uomo, ha un ciclo riproduttivo oltre il quale non può andare. Ecco perché a volta può capitare che sentendo la corsa affrettata del tempo possa decidere di avere un figlio prima che sia troppo tardi. Come se un possibile rimpianto possa essere più grave di una scelta sbagliata. La donna ha la possibilità di procreare, non l’obbligo.
Vedremo cosa accadrà dopo le elezioni… Già si parla di bonus per chi ha figli, di pensioni anticipate per le madri. Insomma un incentivo a “figliare” comunque. E poi c’è un fondamentale pregiudizio che ormai ho rinunciato a veder scomparire: una donna non madre non è una donna completa. Lo abbiamo mai sentito dire di un uomo? No.”


La letteratura può raccontare e far riflettere molto più della chiacchiera, del dito giudicante puntato sulla madre assassina tipico del giornalista di nera dal quale lei si discosta nettamente. La sua narrazione è potente perché mette in luce l’anima nera che è presente in ognuno di noi.

“Siamo tutti figli di Caino e non di Abele. Il lato oscuro ce lo portiamo dentro. È un seme con il quale nasciamo, veniamo al mondo e ce lo danno in dotazione. Poi dipende dal tipo di vita che affronteremo se questo seme resterà tale o diventerà una pianta; dalle persone che incontreremo e dalla nostra forza di volontà. Accade lo stesso anche per il bene, per il talento. Siamo i protagonisti della nostra vita, proprio come fosse un film, ma anche il più piccolo comprimario può avere la sua importanza. Mi viene da dire che sia per il bene che per il male, ogni tanto abbiamo bisogno di un annaffiatoio che gli dia di che crescere. Ma poi dipende da noi. La violenza non mi stupisce, fa proprio parte dell’essere umano. Però continua a indignarmi. Tutte le persone in pericolo dovrebbero essere aiutate. Simone Weil parlava di fratellanza, di uguaglianza, di giustizia. Un’ illusione così grande che alla fine anche una come lei ha rinunciato ai suoi ideali”.


Forse si potrebbe pensare che nella sua narrazione alcune donne commettano questo crimine per ragioni profonde, radicate nella loro esistenza, in altre il crimine è assolutamente superficiale. Accade a quella madre che nel suo racconto si suicida sulla Prenestina a Roma con il figlio perché è ingrassata e il marito la tradisce.

“Le donne non dovrebbero subire così tanto il giudizio dei loro compagni, perché ce ne sono proprio di indecenti che dopo il parto considerano la loro compagna nient’altro che la madre del loro figlio, solo perché dopo il parto non è più tornata immediatamente come prima. In questo la donna dovrebbe emanciparsi.
Se un compagno vive in casa con te, ma come compagno e come padre non esiste, allora non bisogna avere paura della solitudine. Meglio chiedere aiuto altrove che rischiare di farsi fare il lavaggio del cervello.
Ci vuole una forte personalità per non dare importanza a uno sguardo che ci oltrepassa come fossimo trasparenti. Restare accanto a uno sguardo così ci farà malissimo, possiamo caderci dentro e finire nell’abisso. Ma alcune donne preferiscono l’uomo al figlio, danno un’importanza determinante al desiderio che suscitano. Se di questi uomini si liberassero sarebbero profondamente più felici, più belle. Certe volte, rimanere sole è la miglior cura possibile. La solitudine come creatrice di nuove possibilità”.

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Jaufre Rudèl, “un amore lontano”

Gisant d’Aliénor d’Aquitaine à l’abbaye de Fontevraud

Jaufre Rudèl
Lanquan li jorn son lonc en mai
Traduzione di Alberto Fraccacreta

Lanquan li jorn son lonc en mai
m’es belhs dous chans d’auzelhs de lonh,
e quan me sui partitz de lai,
remembra·m d’un’amor de lonh:
vau de talan embroncx e clis,
si que chans ni flors d’albespis
no·m platz plus que l’iverns gelatz.

Ja mais d’amor no·m jauzirai
si no·m jau d’est’amor de lonh:
que gensor ni mielher no·n sai
ves nulha part, ni pres ni lonh.
Tant es sos pretz verais e fis
que lai el reng dels sarrazis
fos ieu per lieis chaitius clamatz!

Iratz e jauzens m’en partrai,
s’ieu ja la vei l’amor de lonh;
mas no sai quoras la veirai,
car trop son nostras terras lonh:
assatz i a pas e camis,
e per aisso no·n sui devis…
Mas tot sia cum a Dieu platz!

Be·m parra jois quan li querrai,
per amor Dieu, l’alberc de lonh:
e, s’a lieis platz, alberguarai
pres de lieis, si be·m sui de lonh.
Adoncs parra·l parlamens fis
quan drutz lonhdas et tan vezis
qu’ab cortes ginh jauzis solatz.

Be tenc lo Senhor per verai
per qu’ieu veirai l’amor de lonh;
mas per un ben que m’en eschai
n’ai dos mals, quar tant m’es de lonh.
Ai, car me fos lai pelegris,
si que mos fustz e mos tapis
fos pels sieus belhs huelhs remiratz!

Dieus, que fetz tot quant ve ni vai
e formet sest’amor de lonh,
mi don poder, que cor ieu n’ai,
qu’ieu veia sest’amor de lonh,
veraiamen, en tals aizis,
si que la cambra e·l jardis
mi resembles totz temps palatz!

Ver ditz qui m’apella lechai
ni deziron d’amor de lonh,
car nulhs autres jois tan no·m plai
cum jauzimens d’amor de lonh.
Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis,
qu’enaissi·m fadet mos pairis
qu’ieu ames e nos fos amatz.

*

Quando i giorni sono lunghi a maggio
trovo solenni i miti canti di uccelli lontani,
e quando di là me ne sono partito,
torna il ricordo di un amore lontano:
proseguo per il desiderio abbattuto e a capo chino
sì che canti o fiori di biancospino
non mi giovano più dell’inverno gelido.

Io non gioirò mai d’amore
se non gioisco di questo amore lontano:
perché nobile e migliore non ne conosco
in nessun luogo, vicino o lontano.
Così vero e puro è il suo pregio
che laggiù nel regno saraceno
potessi io per lei essere schiavo!

Cupo e gioioso me ne partirò,
se l’avrò visto l’amore di lontano;
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane:
vi sono valichi e sentieri
e io non posso indovinare…
Ma tutto sia secondo la volontà di Dio!

Davvero mi parrà gioia quando le chiederò,
per amore di Dio, l’albergo lontano:
e, se a lei piace, abiterò
presso di lei, anche se di lontano.
Allora sarà perfetto il parlare
quando l’amante lontano sarà tanto vicino
che con cortese astuzia gioirà dell’amicizia.

So bene che il Signore è veritiero
per il quale io vedrò l’amore di lontano;
ma per un bene che ricevo
ho due mali, poiché tanto mi è lontano.
Ah, perché non andai là da pellegrino
sì che il mio bordone e la mia cappa
fossero dai suoi begli occhi rimirati!

Dio, che fece tutto quanto viene e va
e plasmò questo amore di lontano,
mi dia possibilità, perché volontà ne ho,
che io veda questo amore di lontano,
veramente, in tale ricchezza
che la camera e il giardino
mi ricordino per sempre un palazzo!

Dice il vero chi mi chiama avido
e desideroso dell’amore lontano,
ché nessun’altra gioia tanto mi piace
quanto dell’amore lontano gioire.
Ma ciò che voglio mi è negato,
così mi diede in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.

Il testo originale segue l’edizione critica di Giorgio Chiarini in Jaufre Rudèl, L’amore di lontano, Carocci, Roma 2003. Continua a leggere

I poeti, i re che amano troppo

[Nota a Margine ]

Alessandra Leone che scrive questo articolo, riprende  il  brano musicale “Il re di chi ama troppo” della cantante italiana Fiorella Mannoia, inciso in duetto con Tiziano Ferro e scritto da quest’ultimo.

La ballata racconta il punto di vista di chi si spende totalmente in amore, rischiando così di rimanere spesso bruciato. Per Alessandra Leone questa figura è quella del poeta.

Commento

di Alessandra Leone

C’è differenza tra i poeti e gli intellettuali del passato e quelli di oggi? Esistono ancora veri intellettuali, e se sì, perché si preferisce dar voce ai vari opinionisti, giornalisti e pseudo studiosi che si ergono a esperti di tutto? Cosa è cambiato, se effettivamente è cambiato qualcosa? Sono domande che possono apparire provocatorie, ma in realtà intendono stimolare una riflessione.

La poesia con i suoi messaggi e i suoi valori, quali libertà e uguaglianza, con quelle domande esistenziali e le sue riflessioni, non cambia né cambierà mai, essendo senza spazio né tempo. I tanti Ulisse del passato, del presente e del futuro non cercano forse quelle risposte già avute secoli fa? La voglia di capire qual è il proprio posto nel mondo e di realizzarsi, quel continuo anelito di esprimersi senza pregiudizi e paure riuscendo ad essere davvero se stessi, quella sete di serenità, pace e felicità sembrano essere sempre i medesimi.

I frammenti in dialetto eolico di Saffo, vissuta oltre 2.500 anni fa, le sue parole su sensazioni, sentimenti e tormenti amorosi verso gli uomini e verso le donne sono ancora attuali. Anche i protagonisti delle tragedie greche hanno la stessa modernità, se pensiamo che nella nostra vita capita di incontrare tanti Edipo accecati da tracotanza e superbia, dal proprio ego e dalle proprie convinzioni. Rimanendo nella famiglia del re di Tebe, l’eterno conflitto tra autorità e potere di Antigone, anticonformista contro i totalitarismi e le convenzioni sociali che consideravano la donna in secondo piano, sembrano scritte da un contemporaneo e non da Sofocle, vissuto nel V secolo a.C., se è vero che ne hanno tratto ispirazione autori come Vittorio Alfieri e Adolfo Lauro De Bosis.

Esiste ancora oggi quell’impegno civile di cui Antigone si è fatta portavoce, così come hanno fatto intellettuali, scrittori, poeti, artisti e giornalisti che hanno rischiato e rischiano anche la vita per difendere gli ideali in cui credono? Penso a personalità capaci di scuotere le coscienze attraverso la propria voce e le proprie idee, come Ungaretti e Pasolini, Yves Bonnefoy e Derek Walcott, Seamus Haeaney e Anna Politkovskaja, solo per citarne alcune. Continua a leggere

Il segno del tragico nella poesia di Luigia Sorrentino

Luigia Sorrentino Photo di Gianni Rollin

Luigia Sorrentino, da Olimpia (Interlinea, Novara 2013-2019) a Piazzale senza nome (Pordenonelegge-Samuele Editore, Fanna, PN, 2021), le tracce di una scrittura sovrana.

Note in margine

di Marco Marangoni

La scelta stilistica della Sorrentino, giunta a piena maturità già con Olimpia, ha la forza e la rarità di restituirci un tempo arcaico, circolare, di distruzione e rigenerazione del tempo, del ritorno.

E’ significativo che a proposito di Olimpia sia De Angelis (in Prefazione) che Benedetti (in Postfazione), al fine di sottolineare tale cifra poetica, abbiano citato lo stesso passo lirico del libro, che sembra davvero esplicitare una poetica del ritorno: “Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo stati”.

La poesia, a cui quel verso appartiene, si intitola “Deformazione”: titolo, utile a sua volta, per comprendere uno stile che, pur accedendo alla forma, de-forma (diversamente dunque dal gesto avanguardista), la comunicazione: non in quanto la nega, ma in quanto piuttosto la de-situa, realizzando quel particolare “spasimo dell’intelletto che non fa parte di un individuo ancorato a se stesso e alla società in cui vive” (Benedetti, op. cit.).

Di qui la difficoltà specifica di questa poesia, inesplicabile senza una concezione arcaica o mitica del linguaggio.

Non è insomma quello della poetessa uno sguardo usuale, mimetico-critico, radicandosi invece in livelli cosmici che presuppongono per la loro intuizione che il tempo cronologico sia abolito o messo tra parentesi.

Ecco che in Olimpia si potevano leggere le seguenti sequenze liriche: “Fluttuando nella sostanza emotiva che pre-/ serva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella/ morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese,/ avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici […].”.

Abolito il tempo, vita e morte possono scambiarsi in una coincidenza di opposti: “tutta la nostra attesa era/ in una madre che ritorna/ nel regno dei vivi e dei morti”.

Avviene allora che il dramma della realtà-poema nel suo intero (“tutto si era placato”) ha il suo acme nel pathos della distanza-prossimità, nella misura attimica tra quiete perfetta e totale vicissitudine: “non chiamate la rosa […] quasi da vicino,/ lasciate ciò che è immobile attorno/ a lei […] chiaro brivido che all’indietro guarda/ e sorregge il lontano in quell’istante/ la rosa”.

Portarsi qui, in questa misura, è la vocazione della Sorrentino. Ma non è possibile alcun adunare senza volgere/ rivolgere, senza dissidio: “inaudito era il volto della fonte// e quando il dio le entrò dentro/ più forte adunò tutti i fiumi/ nel suo volgersi e rivolgersi”.

In questi versi che ricordano il Werden (Divenire dell’Uno-tutto) di Hölderlin, la poetessa ci avverte che per accedere al tragico si deve sacrificare l’orientamento pratico, l’atteggiamento reattivo, la metafisica della presenza.

Qui cade il confronto/incontro di questa poesia con il male in letteratura, con quel male che non si può non incontrare una volta che sia stata aperta la porta a quel “grumo di forze” che abbiamo già citato. G. Bataille, molto istruttivamente ha scritto: “L’umanità persegue due fini, di cui uno, negativo, è di conservare la vita (evitare la morte), l’altro, positivo, di accrescere l’intensità della vita. […] Ma l’intensità non si accresce mai senza pericolo […] può esserlo in modo disperato, al di là del desiderio di durare.” (La letteratura e il male, trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano, 1997, p.67).

L’intensità che si accresce in corrispondenza del “pericolo“ è una formula che richiama il tragico e il famoso verso di Hölderlin: “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.

Questo a dire che non c’è sviluppo possibile, per una poesia come quella della Sorrentino, che non sia quello che consiste nel penetrare, per atti concentrici e rituali, nel doppio di vita/morte: “nella ferita – leggiamo in Piazzale senza nome, op. cit.- che voi non avete mai visto”.

Di certo però è in questo nuovo lavoro (Piazzale senza nome) che Luigia Sorrentino, oltre a tessere fedelmente, (in un senso prossimo, se non identico, a quello di Bataille) della poesia dove il terreno dell’esperienza diventa più trasgressivo, maledetto: “luminosa potenza/ abbandonata e sola/ trascina giù, riempie/ tutta la forza“; “La fine era lì, dove qualcos’altro cominciava./ Un patto muto ci consacrò per sempre al cuore di quella terra scura/ e insanguinata.”

L’ispirazione è qui continuativamente rivolta a un senso radicale di rapimento, vorticità, discesa.

Placamento o catarsi sono al termine del rivolgimento catastrofico (katá stréphein: voltare in basso): “aveva oltrepassato/ il confine/ restituita la voce all’universo”; “perduta nell’oceano/ la frequenza cardiaca/ la voce dell’universo”; “ora la tua voce ha la struttura del suono.// La stanza è un’urna fiorita. Avvolge un ritorno senza confini./ Adunata sul petto risuona fra le braccia la corrispondenza armonica/ del cuore in esilio.”

E la morte diventa un luogo sacro, un luogo impossibile (Goethe) con cui la poesia è chiamata a confrontarsi abissalmente: ”il grembo della voce si spegne/ reclama il buio/ la cupa processione della negazione/ nomina un paese morto”.

Photo di Luigia Sorrentino 22 gennaio 2017

La direzione “a scendere” inverte, nel modo più crudo e violento, l’orientamento costruttivo, l’edificante, l’apollineo. Un Dionysus redivivus agisce qui – ancor più che in Olimpia– dove si svolta dalle distinzioni razionali del bene e del male, verso uno spazio inaudito eppure ancora ancorabile a un linguaggio: alla parola simbolica cioè, ambivalente, fluttuante, frammentaria, e poematica al tempo stesso: alla parola-che-canta come una salvezza-che-cade: “ abita la sordità della morte […] la sua luce è potente e tragica// ha la forza della musica/ il canto cardiaco/ l’impronta della tenerezza/ caduta dalla mano del padre”. Continua a leggere

Video Intervista a Franco Loi

Franco Loi e Luigia Sorrentino, Milano 2006

Nota di Luigia Sorrentino

Vi propongo oggi una delle versioni più complete della mia video-intervista al poeta Franco Loi realizzata nel 2005.
L’aneddoto che mi lega a questa intervista è interessante. Ve lo racconto.
Avevo ricevuto dal mio direttore di Rainews24 l’incarico di andare da Roma a Milano per intervistare la poeta Alda Merini.
Conoscevo la Merini, il suo carattere particolare… quindi dissi al direttore che avrei “provato” a intervistarla, ma non era detto che l’intervista sarebbe andata a buon fine e allora, “contrattai” che se la Merini mi dava “buca”, avrei intervistato a Milano a Via Misurata, il poeta Franco Loi. Poiché la Merini mi diede appuntamento alle 14 nell sua casa sui Navigli, senza perdere tempo decisi di andare prima a intervistare Franco Loi alle 11:00. C’era la moglie, Silvana e Franco che mi ricevette in giacca da camera. Bene. Questo è il risultato di alcune ore che trascorremmo insieme, poi andai dalla Merini che ovviamente mi negò l’intervista sbattendomi la porta in faccia.
Però io andai dalla Nanda, da Fernanda Pivano, e feci con lei un’intervista molto esclusiva che vi proporrò fra qualche giorno. Quando tornai in redazione il mio direttore fu molto contento. Pacca sulla spalla! “Hai intervistato la grande Nanda”! Ma a dire il vero io ero felice soprattutto per Franco Loi.
Eccolo nella nostra indimenticabile (per me) intervista.

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Maddalena Lotter, “L’era degli uomini è finita”

Maddalena Lotter

Nota di Luigia Sorrentino

Leggiamo insieme cinque poesie tratte da Atlante di chi non parla dalla nuova raccolta di versi di Maddalena Lotter pubblicata con Nino Aragno Editore nel 2022.

L’Atlante del titolo rimanda al titano Atlas condannato a reggere il peso del mondo sulle spalle. Ma la figura oppressa da questa grande responsabilità, qui trova un’espressione artistica luminosa, che dà valore alla testimonianza, all’atto del testimoniare.

Maddalena Lotter con voce consapevole, a tratti sapienziale, iconica, conduce il lettore a un universo poetico che dà voce e ritmo a un teatro naturale che emerge dal silenzio.  Vi si incontrano così Storie di animali grandi estinti, ma anche le voci dei campi, i faggi, la cicala, le formiche, e il cosmo, con le sue galassie e le costellazioni.

Dare voce a chi non parla è qualcosa che riguarda molto da vicino i poeti e la poesia e fa piacere constatare che questa necessità ritorna con una nuova linfa vitale, rigeneratrice, nelle nuove generazioni di poeti.

 

dichiarazioni spontanee

I.

Prendo coscienza troppo presto
ancora imbrigliato nelle pareti molli.
sento di conoscere lo sbadiglio
e sbadigliando ho rotto tutto

ora
c’è un prima e c’è un dopo

si sono aperte le galassie
diluite in costellazioni
atmosfere
d’albe viola, rocce e gas

mi trovo in una solitudine immensa

 

II.

scrivo perché il primo valore
è la testimonianza

ma non so dire con esattezza quello che vedo,
se qualcuno leggerà
sappia che anche la mia è una traduzione
non è questo quello che ho visto.
quello che ho visto prima di parlare
non viene centrato da nessun linguaggio.

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Ascanio Celestini, “Museo Pasolini”

Ascanio Celestini

Ascanio Celestini attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano è uno dei rappresentanti più interessanti del teatro di narrazione in Italia.

Nell’anno delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, Ascanio Celestini porta in scena “Museo Pasolini”. Un museo “immateriale” del quale lui è “il custode”.

“Museo Pasolini” è quindi, un museo immaginato attraverso le testimonianze di uno storico, uno psicoanalista, uno scrittore, un lettore, un criminologo, un testimone che l’hanno conosciuto.

Lo spettacolo prende vita da una dichiarazione di Vincenzo Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, l’ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni”.

“Il pezzo forte di Museo Pasolini” è il corpo di Pasolini, racconta Ascanio Celestini nella mia intervista realizzata per la TGRCampania il 29 giugno 2022 nell’ambito delle Celebrazioni delle Giornate leopardiane a Torre del Greco, a Villa delle Ginestre, e rivela verità molto importanti sui veri responsabili di quella morte.

Pier Paolo Pasolini e sua madre

Alla fine dell’intervista ho notato che Ascanio porta un braccialetto giallo con una scritta: “Verità per Giulio Regeni”. Per poterlo leggere ho dovuto toccargli la mano,  e far girare il braccialetto sul suo polso. Un gesto intimo, di solidarietà e di vicinanza che mi ha fatto sentire la grande forza del suo impegno umano e civile.

Gli ho chiesto se ci fosse per lui una qualche relazione fra Pasolini e Giulio Regeni.

Lui ha risposto così: “Prima cosa sono tutti e due legati al Friuli. Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna però poi viene sepolto a Casarsa della delizia perché la mamma è di Casarsa è friulana e Giulio Regeni vive vicino, a Fiumicello… però tutti e due sono esposti, lanciati nel mondo, ma proprio esposti, liberi e anche indifesi nei confronti del mondo. Continua a leggere

Addio a Raffaele La Capria

Raffaele La Capria ph di Luigia Sorrentino, Roma 2005

Lutto nel mondo della Cultura. Si è spento a Roma a 99 anni, Raffaele La Capria.

Il grande scrittore napoletano che viveva a Roma, verrà sepolto per sua volontà a Capri nel Cimitero degli artisti accanto alla moglie, Ilaria Occhini.

In occasione di questo tristissimo evento, che segna la fine di un’epoca e di una generazione di scrittori, vi riproponiamo il testo scritto di un’intervista televisiva realizzata da Luigia Sorrentino con Raffaele La Capria nel 2005 per RaiNews24 subito dopo l’uscita del suo libro “L’estro quotidiano” (Mondadori, 2005).

Intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino

 

L’epoca che viviamo è tragica, funestata da eventi tragici. Come vive Raffaele La Capria questa sua epoca?


‘L’ho scritto nella ultima pagina del mio libro ‘L’Estro quotidiano’. Quel libro l’ho scritto nel 2003, ma per ragioni editoriali è uscito nel 2005. Dal 2003 al 2005 la situazione è peggiorata e il tasso di odio, ferocia, crudeltà, è aumentato nel mondo in maniera inimmaginabile. Dopo le esibizioni filmate delle teste tagliate e la strage programmata dei bambini in Ossezia, si è persa la bussola dell’umano e le parole non sono più all’altezza del male che vorrebbero denunciare. Il nostro privato rispetto a questi eventi tragici, sembra una futilità. Qual è il risultato? Di ridurre la nostra vita quotidiana a un assurdo. Adesso la nostra vita quotidiana non ci sembra più normale, è una pretesa normalità. Ma è una normalità falsa quella in cui crediamo di vivere noi privilegiati, credendo di stare in pace, di non soffrire di queste terribili calamità che il mondo soffre’.

Quest’epoca, ha cambiato qualcosa nella sua scrittura?

‘Certo. Soprattutto se si legge tutto il mio libro ‘L’Estro quotidiano’ si sente che è attraversato come da un’angoscia, da un sottile rimorso di star bene. Si sente che c’è una frattura spaventosa tra quello che sappiamo e la vita che viviamo. Questo aspetto lo metto in evidenza in un punto preciso del libro in cui racconto che sto guardando la televisione e vedo massacri, cose orrende e dico: “questo è il telegiornale delle otto, e io devo vestirmi in fretta, alle nove ho un appuntamento al ristorante”. Ed è proprio questo l’assurdo: vedere il male, ma poi andare al ristorante’.

In un articolo uscito sull’ Espresso Giorgio Bocca ha detto che La Capria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo le due Napoli, quella della borghesia, colta e aristocratica, e quella selvaggia, del popolo napoletano. Praticamente Bocca dice che lei ha inventato la napoletanità.

‘Non ho inventato la napoletanità, ma l’ho analizzata criticamente. L’ho analizzata e criticata anche più ferocemente di quanto Bocca, qualche volta, abbia criticato il sud e i mali del sud. Bocca dice, però, che questa mia teoria è elegante, ma consolatoria. E io gli ho risposto: “Bhe? Che c’è di male che sia consolatoria? La letteratura deve essere anche consolatoria, oltre che critica.’

Il suo linguaggio narrativo di certo non rappresenta la Napoli della camorra e della illegalità. È una sua scelta non rappresentare quella Napoli?

‘Uno scrittore non è obbligato a scrivere di camorra. Credo che uno scrittore abbia il compito di dare un’immagine della sua città molto più grande e più complessiva, che include tutto. Una rappresentazione della città, una rappresentazione mentale che sottragga la città dalle false rappresentazioni che gli vengono date continuamente. Tanto utile, rivoluzionaria, importante è l’opera di uno scrittore, quanto più questo scrittore si affranca dalle false rappresentazioni e cerca, come un archeologo della mente, di scavare attraverso la cenere di queste false rappresentazioni, il documento vero, la sostanza vera di quella immagine della città che lui sta creando mentre scrive. A tutto questo deve corrispondere, anche, uno stile adeguato, perché soltanto quando c’è questa fusione tra un’idea e una rappresentazione, e uno stile che la sostiene, funziona la comunicazione.’

Lei tempo fa ha scritto un racconto per spiegare perché ha voluto diventare uno scrittore. Il racconto parla di un bambino di otto anni sulla cui spalla va a posarsi un canarino… Continua a leggere

La divina Abramović al San Carlo

“7 Deaths of Maria Callas”

di Luigia Sorrentino

Si è tenuta il 13 maggio alle 17:00 a Napoli la prima italiana di “7 Deaths of Maria Callas” con Marina Abramović in scena al Teatro San Carlo  fino a domenica 15 maggio.

Lo spettatore che ha seguito il lavoro svolto da quarant’anni dalla celebre artista serba si troverà di fronte a un’opera profondamente diversa da quelle a cui aveva assistito in passato.

Il desiderio di mettere in scena la Callas era qualcosa che covava da molto tempo nella mente di Marina. Nella sua autobiografia, la Abramović ha scritto di sentire la necessità di voler creare un’opera dedicata alla vita e all’arte di Maria Callas.

Nello spettacolo l’artista ricostruisce scene di donne morte in sette opere liriche. “Perché lei, la Callas, è morta come molte delle sue interpreti, per amore, di crepacuore, per amore di Aristotele Onassis. La Callas è morta come le donne che cantava”.

Tutto fa pensare che Abramović presti il suo corpo sacrificale anche a tutte le donne  che nella contemporaneità hanno sofferto per amore, che sono state picchiate, abusate, che hanno subito violenza, presta il suo corpo a quelle donne che sono sopravvissute e a quelle che non ci sono più. 

Ma il motivo che spinge la Abramović a mettere in scena la Callas è anche un altro.

C’è qualcosa in comune fra loro. Una somiglianza. Un sentire comune.

Forse è l ’amore per l’arte e l’essenza profondamente spirituale il punto di contatto fra Marina Abramović e Maria Callas. Un’aderenza nata quando Marina aveva quattordici anni: “Sedevo nella cucina di mia nonna che aveva sempre la radio accesa. A un certo punto ascolto una voce: ricordo di essermi alzata in piedi ed essermi messa a piangere. Non avevo idea di chi fosse quella voce, era una voce di donna e lo speaker disse che era la voce di Maria Callas.”

Senza dubbio nelle sette morti di Maria Callas vi è un pensiero cosmico che mette su un piano analogo la vita e l’espressione artistica di Marina Abramović, con la vita e l’espressione artistica di Maria Callas.

Fra le due donne vi è un pensiero unico che travolge e unisce le due dive apparentemente diverse, ma in realtà molto simili. L’una è il corpo tragico dell’altra: quell’andare vacillante del corpo nella vita.

Entrambe sono eroine tragiche: l’una, Marina, regina della Performance art, l’altra, la Callas, regina mondiale dell’opera lirica.

A unire le vite delle due artiste c’è dunque un comune sentire: “essere possedute dall’arte e dall’amore”, qualcosa che coinvolge la vita di Marina e Maria: il donare la propria anima e il proprio corpo, il donarsi strenuamente.

Lo spettacolo inizia con un prologo musicale di grande intensità scritto dal compositore serbo Marko Nicodijević. Un grande talento, se si pensa che è nato nel 1980.

Sulla destra del palcoscenico si intravede la sagoma di una donna distesa su un letto, una donna che sembra ammalata o in punto di morte. É la figura della Callas che sta lì, deposta come qualcosa che dimora da sempre nel cuore di Marina. Sta lì immobile,  è come se chiedesse di non essere abbandonata da tutti quelli che aveva incontrato nella sua grande carriera di artista: “Luchino, Pier Paolo, Zeffirelli, dove siete adesso?” chiederà la Callas-Abramović nell’ultima scena. E ancora: “Elvira, Franco, Giancarlo, Aristotele, Bruna? Bruna?”

Ma quante volte è morta Maria Callas?

Marina ci mostra sette morti scelte tra le più importanti opere liriche interpretate da lei e le circoscrive in  sette quadri – sette cieli -. Dal chiarissimo e azzurro colmo di nuvole, al cielo scuro, a quello nerissimo, e infine,  al cielo rosso che è il rogo in cui morirà Norma.  L’’opera cinematografica diretta da Nabil Elderkin è immersiva, siamo tutti coinvolti, nelle immagini forti, drammatiche alle quali assisteremo. I protagonisti della carneficina sono Marina Abramović e Willem Dafoe.

A morire di malattia nel corpo della Abramović è Violetta de La Traviata, poi Tosca che si lancia da un grattacielo di New York guardando davanti a sé l’Empire State Building. Commovente e tragica approda sul cofano di un’auto nel centro della metropoli. Poi la Abramović è Desdemona strozzata da un serpente stretto attorno al collo dalle mani cruente di Willem Dafoe (Otello). E ancora: Carmen, imprigionata in una corda da don José e poi accoltellata.

Nel sesto quadro Abramović è Lucia di Lammermoor: tutto l’ universo congiura contro di lei. E allora colpisce violentemente la sua immagine nello specchio, spacca tutti gli specchi, fino a ferirsi a morte. Lo spargimento di sangue copre totalmente il volto della Abramović, c’è sangue sulle mani, lei stessa piange sangue. Ebbene, tutto questo sangue sparso ha qualcosa di universale. Esprime un’innocenza fondativa e un’emergenza, un pericolo che incombe come una minaccia su tutte le donne.

Marina in “7 Deaths of Maria Callas” esprime gradualmente un mondo desertificato e sterile come quando interpreta la morte di Madame Butterlfly sedotta, abbandonata e suicida e infine, quella di Norma, la casta diva senza più alcuna forza vitale che avanza tragicamente verso il fuoco tenendo per mano il suo uomo.

Poi cala il buio in sala.

Prima dell’ultima scena, attesa. La musica avvolge lo spazio. È forte, roboante, riempie tutto il teatro.

Poi lo spettatore si trova nella stanza della Callas a Parigi, nel 1977, l’anno in cui la cantante muore.

Ha 53 anni. È distesa sul letto. Il corpo è già troppo pesante. La retina percepisce una luce, un profumo di lavanda. Riesce a malapena a alzarsi dal letto, a compiere qualche movimento. Abbagliata dalla luce attraverserà una porta dalla quale non tornerà mai più.

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Una poesia di Biancamaria Frabotta

Gli eterni lavori

Dalla valletta degli ulivi una neve marina
veste di bianco le bacche della piracanta.
Potessi poggiando la testa sul cuscino
udire il mormorìo dell’anima che dorme
quando sibila la sofferenza delle piante.
Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia
che perde al vento, talvolta, una fogliolina accartocciata
accorrere dove il ramerino implora una sponda
l’ibiscus un tepore che non è qui e un’arancia
s’affaccia fra il plumbago e le spine di Cristo.
Solo al tatto la riconosco quella pace truccata
che al mattino scuote la coperta dei sogni.

Da Mani mortali, Mondadori 2012. Continua a leggere

Frabotta, convitata di pietra a Parrano

Bianca Maria Frabotta
ph©campanini-baracchi

Ricordo di Biancamaria Frabotta
di Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

Cara Luigia,
Ti pensavo appunto per dire che proprio nella magica Parrano [ndr dove si sono radunati alcuni poeti italiani che hanno partecipato alla manifestazione “Lingue mute| Poeti contro la guerra” a cura di Luigia Sorrentino con la collaborazione di Alessandro Anil e Fabrizio Fantoni] abbiamo parlato di Biancamaria Frabotta come di una convitata di pietra.

Io la conoscevo se non attraverso la sua poesia. Di persona la vidi a colazione in un bed and breakfast invitati da Poesia Festival nelle terre modenesi. Alta e ossuta quasi prosciugata di ogni orpello. Scambiai con lei rare parole. Io un poco intimidito.

Questa la poesia che scelgo è tratta da “Mani mortali”, Mondadori 2012

Entrando nel campo cercai
le roselline selvatiche nella rete
gli iris infestanti, i papaveri
i gelsomini bianchi e dopo,
i cavoli, i carciofi fra i narcisi,
sull’arancio ferito i grappoli
profumati della zagara.
in terra giaceva l’edera vizza
screziata di morte lumache
eppure, scriveva Bernardin
non tutto era stato ucciso
dalla terribile severità di quell’inverno.
Ancora, in stile fiorito, il suo giardino
godeva di tardive, ma robuste violette
promesse di fragole e primule, risalenti
filari e tracce di linfa nei peri.
In verità le viti cominciavano
appena ad aprire i germogli.

Ti confesso che forse per me il suo libro migliore è forse il tardo “Mani mortali” per quella natura spietatamente vista nel disincanto della vecchiaia. E anche il verso si fa nudo referto di una malattia. Feroce cartografia dei guasti del tempo sulla natura. Cronaca spietata di un inesorabile corrompersi dell’idillio nel riverbero che la natura produce nell’uomo. Una natura quasi già postuma a se stessa tutta frugata nei suoi interstizi e nelle sue pieghe. Eppure indomita si rigenera da se stessa invincibile. Continua a leggere

Ritratto di giovane poeta

Federico Carrera, 2020 credit ph Mauro Terzi

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Appunti per un ritratto-da-farsi
di Federico Carrera

 

Tratteggiare un ritratto di sé a ventidue anni non è cosa facile: la mano trema e il pennello sembra sempre inspiegabilmente asciutto. Si ripiega allora sulla matita, sempre che la punta non si spezzi, il foglio non si squarci e così via. Ma a me piace usare la matita. Sono in confidenza: prendo appunti a matita, sottolineo libri e manuali a matita.

La penna è troppo definitiva. Riconosco che si tratta di un segno di incertezza, di insicurezza, ma la matita mi mette al riparo, dall’errore e dalla definizione. Ho poco più di vent’anni, dicevo. Forse si pretende da me, adesso, il ritratto di un ventenne, di un giovane studente universitario.

Ma non so bene da dove partire. Mi piacerebbe avere un respiro generazionale. Mi è negato alla radice, non ne ho l’indole. Ma per un ritratto forse è bene partire da lontano – la prospettiva migliore dalla quale tentare di descriversi.

Riconosco (abbozzo) due stagioni nella mia vita: una in cui si piange, una in cui non si riesce a piangere. È stato tutto qui, il mio vivere, tra questi due poli.

Fino ai quattordici anni, ho pianto per ogni cosa – dal dolore al piccolo capriccio.

In particolare, mi commuovevo sinceramente per i film che guardavo – strumenti emotivamente ben calcolati. In effetti, a quell’età (a dire il vero già da qualche tempo prima, forse da sempre), il cinema ha incominciato ad avere un’importanza capitale per me. E continua tutt’ora ad averne. Al punto che, quando mi chiedono cosa io voglia fare ‘da grande’, mi trovo sempre a rispondere con la stessa coppia di parole: “il regista”.

Il cinema ha aperto ai miei occhi da pre-adolescente ancora-bambino le porte di un mondo altro (Altro?), fatto di immagini e colori, di musiche ben studiate e colpi di scena, ordinato in schemi narrativi ora nascosti ora incontrovertibili ora curiosamente liberi. Un mondo del tutto preferibile, insomma, a questo nostro quotidiano, in cui viviamo e che siamo abituati a chiamare reale.

Tuttavia, per me – e in questo non posso mentire – il cinema è sempre stato più reale della realtà, più importante, più degno di attenzioni e di cure. Ma non voglio divagare.

Dicevo: un tempo in cui si piange, un altro in cui non si riesce. Continua a leggere

“Piazzale senza” nome indaga la perdita

Luigia Sorrentino

Nota di lettura
di Alessio Alessandrini

In “Piazzale senza nome” (Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021, Luigia Sorrentino vuole, fortissimamente vuole, indagare “la verità della violenza” e lo fa mettendo in parallelo la morte dei vecchi – ivi rappresentata nella fattispecie dal privato e dolcissimo ricordo paterno – e quella dei giovani che sperperarno la vita spavaldi e ingenui, travolti dal vento che osceno sferza il piazzale senza nome, luogo spoglio e aperto, dove spesso capita di essere sorpresi dal colpo, dall’inatteso grido che preannuncia la “fine di ogni cosa“.

La violenza è nelle pupille dei corpi prima “affamate“, poi “allagate” e, infine “incenerite” come di martiri agonizzanti, i molti che gremiscono questi dolenti versi (si pensi al simbolico riferimento alla capra, al suo essere capro espiatorio e agnello sacrificale, suo malgrado).

È il silenzio armato nelle pupille, lo stupore che si traveste da allarme, a rincorrere lungo questi versi bacchici, apparentabili, per forza evocativa, crudezza e crudeltà anche espressionista, a un canto di sangue, canto che poco concede alla compassione e al lirismo edulcorato per ricamare, fino in fondo, la parola che inchioda e sa rintracciare “tutto il nascosto che travolge“.

Potrebbe apparire un terribile requiem, quello di Luigia, un lento e disperato coro da tragedia, un plastico scenario infernale, se non fosse che la struttura perfetta – prosa e pometto – rimanda più a una purgatoriale ascesa da inferum verso un cielo solo sospetto ma pur sempre pronto a rivelarsi se, come chiosa uno dei versi più belli della raccolta, “la fine era (ndr: ed è) la dove qualcos’altro cominciava.Continua a leggere

Giulia Napoleone per Mantova Poesia

Giulia Napoleone

L’associazione Corte dei Poeti di Mantova presenta Giulia Napoleone per Mantova Poesia. A cura di Stefano Iori. Casa di Rigoletto, Mantova. 7 maggio – 5 giugno 2022. Inaugurazione il 7 Maggio alle ore 18:00. Testo in catalogo di Rosa Pierno. Giulia Napoleone per Mantova Poesia

Mostra curata dall’associazione La Corte dei Poeti nell’ambito dell’ottava edizione del Festival Mantova Poesia.

Giulia Napoleone per Roberto Rossi Precerutti

 Casa di Rigoletto, Mantova
7 maggio – 5 giugno 2022

Inaugurazione sabato 7 maggio alle ore 18

Una testimonianza a favore della poesia, oltre che dell’arte, è la mostra che Giulia  Napoleone ha voluto realizzare a Mantova.

Il progetto diviene realtà nell’ambito dell’ottava edizione del Festival Mantova Poesia organizzato dall’Associazione La Corte dei Poeti.

Con la realizzazione di sedici disegni a inchiostro di china su carta a mano (courtesy Galleria Il Ponte di Andrea Alibrandi, Firenze), Giulia Napoleone, da sempre appassionata di poesia, ha inteso rendere omaggio ai versi di alcuni dei suoi poeti preferiti, traendone linfa per l’ideazione delle sue opere. La mostra sarà allestita nelle sale della Casa di Rigoletto nel cuore di Mantova. L’inaugurazione avrà luogo sabato 7 maggio alle ore 18.

La mostra è curata dallo scrittore Stefano Iori e gode dei patrocini di Regione Lombardia, Comune e Provincia di Mantova. Possibilità di visita fino al 5 giugno prossimo, tutti i giorni dalle 9 alle 18 (ingresso libero). Testo in catalogo di Rosa Pierno.

Giulia Napoleone per Leonardo Sinisgalli

Le opere di Giulia Napoleone aprono a una considerazione sul rapporto trasversale che l’artista ha inteso instaurare con la parola poetica.

Le immagini non sono mai un naturale prolungamento delle parole, né la loro traduzione, e non possono essere sostituite da un testo.

È possibile tuttavia mettere a coltura la relazione tra la poesia e l’arte per ottenere campi semantici condivisi. In ogni caso, un loro fondo comune può trovarsi solo a monte, nel desiderio, nell’ideazione e nell’emozione; non a valle, luogo delle realizzate specificità delle forme espressive. Ed è quanto la mostra intende offrire all’attenzione dei visitatori.

I poeti, ai quali Giulia ha dedicato i suoi disegni sono: Annelisa Alleva, Maria Clelia Cardona, Milo De Angelis, Roberto Deidier, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Alberto Nessi, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Leonardo Sinisgalli, Luigia Sorrentino, Marco Vitale.

Giulia Napoleone Per Annelisa Alleva

All’interno delle sale espositive della Casa di Rigoletto sarà presente anche il libro, firmato da Elio Pecora e Giulia Napoleone, Nell’aria del mattino (frammenti di un prologo), i cui testi sono stampati sui torchi della Stamperia d’arte il Bulino in Roma (2020).

Il libro è tirato in trentacinque esemplari, tutti dotati di pastelli originali di Giulia Napoleone.

Sia nelle copertine sia nei disegni, tutti diversi in ciascun libro, i pastelli, di tonalità generalmente blu e viola, si integrano attraverso una sfumatura magistrale. Le poesie di Pecora, giocate su opposizioni lessicali e sulle loro illusive coincidenze, in una trama in cui esse si illuminano o si oscurano ritmicamente, affiancano i disegni interni al volume, registranti il passaggio tra densità e rarefazione.

La consistenza serrata del colore trasmette la gradualità dell’intensificazione, mentre i passaggi da una cromìa all’altra procurano la sensazione di tridimensionalità. L’immagine, in questi meravigliosi libri, sembra raggiungere un sidereo silenzio, l’effetto di uno svolgimento eterno.

Giulia Napoleone per Luigia Sorrentino, “Piazzale senza nome”

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Appello alla pace

Lingue mute| Poeti contro la guerra
a cura di Luigia Sorrentino
con la collaborazione di
Alessandro Anil e Fabrizio Fantoni

 

L’evento, fortemente voluto da Valentino Filippetti, Sindaco del Comune di Parrano, si terrà nei giorni 26 e il 27 aprile 2022 a Parrano, in provincia di Terni, a partire dalle ore 16:00 nella Chiesa di Santa Maria Assunta, in Piazzetta Gaio Fratini.

Il progetto

Lingue mute | Poeti contro la guerra, è l’appello alla pace rivolto ai potenti del mondo.

Raccoglie le voci di 15 poeti italiani, e, sullo sfondo, le voci di poeti ucraini e russi contemporanei, ma anche quelle dei loro padri che hanno scritto poesie memorabili dall’esilio o dalla loro patria in guerra.

Per Osip Mandel’štam “la poesia è il luogo ove ciò che può essere percepito e raggiunto mediante la lingua si raccoglie attorno al quel centro da cui ricava forma e verità: attorno a quella individuale esistenza che pone interrogativi all’ora presente, sia la propria che quella del mondo, al battito del cuore e al secolo.”

La parola del poeta interpreta il significato profondo della catastrofe causata dall’insensatezza degli uomini e racconta l’orrore della guerra quando questa coincide con la sua presenza nella Storia. Continua a leggere

Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Angelo Saso, “Scolpiti nell’aria”

Angelo Saso, per gentile concessione

La terra è in tempesta

 

La terra è in tempesta
È tempo di ripiegare le vele
Di cercare riparo
Sotto una coltre di muschio
Una coperta di neve.

La terra è in tempesta
Mare di rami
Nudi come falangi
Le radici scoperte
Ondeggiano
Si tendono
Stridono.

Il cielo vuoto rimbomba
Di preghiere non dette
La terra è in tempesta.

 

Fuochi lontani

 

Non ho nulla
Da offrirti
Se non il mio sguardo
E la nostalgia
Del respiro delle stelle.

Ascoltalo
Quando la notte sorge
Alta nel tuo cielo.

Riempiti gli occhi
Con il battito Dell’universo.

Fuochi lontani
Nello specchio dell’orizzonte
Segnali di luce
Per navi fantasma.

Sulla pelle la rugiada
Che profuma
Di terra.

 

La strada

 

La strada chiama all’alba
Offre rugiada e silenzio
Fango e raggi radenti
Portaci i sogni notturni
Non aver paura di sporcarli di terra
Di impastarli di nuvole e polvere.
La strada
È la via dell’essenza.
Sei tu senza il vuoto
Che ti riempie la vita.

 

Finis Terrae

 

Ho visto
La mia anima in viaggio
E l’ho seguita.

Tra guglie di bellezza
Ho visto
La terra colore del pane.

Ho respirato
Distese di grano
Verde nel vento
Della primavera.

Ho visto
Il dio dei tulipani
E ciuffi di capperi
Tra le pietre sbrecciate
Di quel che resta
Di gloriose mura.

Ho visto
La polvere delle carovane
E la schiuma del Bosforo
Nell’aria impregnata
Di suoni e di spezie
Dai colori lontani.

Ho parlato
Le lingue dei marinai
Bruciati dal sole.

Sono stato mercante
E gran sultano
E schiavo sanguinante.
Nel solco bianco delle chiglie
Tra il battito delle triremi

Ho visto
L’inizio del mare
E la fine del mondo. Continua a leggere

Tra dolore e ricordo, la morte di chi resta

Luigia Sorrentino credits ph. di Gerardo Sorrentino

Su “Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino
di Federico Carrera

 

Il senso autentico e profondo dell’ultima raccolta di poesie di Luigia Sorrentino – Piazzale senza nome, edito da Pordenonelegge-Samuele Editore nel settembre del 2021 – è tutto racchiuso, non richiesto ma non celato, nelle prime pagine della silloge, in quello spazio in cui l’intento autoriale da astratto si fa narrabile.

Proprio in questo delicato luogo di soglia Sorrentino pone una citazione plutarchea in cui la morte dei vecchi è assomigliata a un giungere a destinazione e quella dei giovani a un naufragio (Fr. 205 Sandbach). Questa citazione trova il suo primo controcampo poche pagine dopo, in una breve prosa poetica sapientemente intitolata Morti parallele (il titolo plutarcheo delle Vite parallele viene così rovesciato).

Ed è proprio con questo testo che Sorrentino apre la pista alla lunga schiera di naufragi e di incontri con la morte di personaggi giovani, che sono insieme astratti, come simboli di una generazione, e concreti, come ricordi di persone davvero vissute e davvero smarritesi.

Sotto questo aspetto, Piazzale senza nome è senza dubbio un libro fortemente generazionale, un piccolo poema epico-narrativo sulle sventure di una generazione – gli adolescenti degli anni Ottanta – che si è trovata coinvolta in un insieme di circostanze disperate: droga, incidenti, omicidi, violenza. E i versi di Luigia Sorrentino, nella loro metrica piana e narrativa, assestata intorno all’endecasillabo, evocano con grande potenza una curiosa sensazione di malinconia, che richiama vagamente quel contorcersi di membra proprio dello spleen di baudelairiana memoria.

Le descrizioni lucide e dolenti di Sorrentino si susseguono dunque senza una rigida struttura che le inquadri, in modo che il discorso – così vivo e autentico – non si riduca a banale racconto letterario, ma mantenga la sua potenza espressiva.

Così unitario, eppure così spezzato e frammentario, il racconto di Sorrentino sembra voler raccogliere i cocci di ciò che rimane oggi di questi giovani, dopo il trascorrere di tanta memoria, in un susseguirsi di liriche brevi, ma pungenti ed esatte nell’espressione e nella lingua.

Ciò che colpisce è il fiume di parole che investe il lettore: parole esatte, cariche di ricordo, e che la stessa Sorrentino sembra aver scritto quasi senza controllo, lasciandosi trascinare dall’urgenza del dettato – tanto che i testi sono datati come composti in un biennio, tra il 2017 e il 2018.

Quando sentii per la prima volta Luigia Sorrentino parlare di questo libro, nel contesto del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, una sua frase mi ha colpito molto: «la poesia ci parla sempre di una condizione umana precaria». Continua a leggere

Gian Mario Villalta, “Una fantasia vocazionale”

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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di Gian Mario Villalta

Un autoritratto presume la presenza di uno specchio. Non sono uno storico della pittura, ma è sensato immaginare che ci sia una relazione cronologica tra l’arte di fabbricare specchi sempre più perfetti e l’autofigurazione via via più complessa del soggetto che ritrae se stesso sulla tela. Fino alla deformazione e alla moltiplicazione che la fotografia e il cinema, questi nuovi specchi capaci di catturare l’istante, suggeriscono e forse impongono alla presenza di sé e del mondo figurata in una visione bidimensionale.

La parola, d’altra parte, se pure nell’opera di poesia vorrebbe irraggiare e insieme accentrare una dimensione più stratificata e molteplice del tempo, quando viene al servizio di una narrazione che ha obblighi di relazione più stretti con i fatti, le date, le testimonianze, deve decidere per una quota di fiction, che diventa – a proposito di se stessi – inevitabile auto-fiction. E anche in questo caso, quale specchio si decida di scegliere e dove lo si voglia collocare rimane decisivo.

Una via percorribile è quella della cosiddetta “carriera poetica”, che annovera sodalizi, detta la scansione delle pubblicazioni, menziona eventuali riconoscimenti. Però, per quanto mi riguarda, l’espressione “carriera poetica”, la si voglia ridurre a mera concatenazione di eventi o esaltare in termini di biografia leggendaria, appare inadeguata. Mi pare di non aver fatto altro che la stessa cosa, per decenni, pur cambiando nella vita, aggiungendo studi e relazioni umane: aver voluto scrivere una poesia, averci provato, obbedendo a necessità di espressione e di confronto rispetto alla realtà più ampia del mio stare al mondo e a quella intima del quotidiano esistere. Se poi per “carriera” si volesse intendere un progresso ufficiale di risultati raggiunti, non si può certo usare questo nome per la considerazione che pochi hanno avuto in tutto questo tempo per quello che ho scritto. La situazione della poesia nella cultura attuale permette inoltre a pochissimi, credo, e non certo a me, di considerare la sequenza dei propri lavori poetici nei termini di un pubblico riscontro che abbia una qualche importanza.

Resta il fatto che la poesia e la mia vita sono legate sia nei fatti che nella dimensione interiore così strettamente da segnare ogni successiva sequenza temporale, dall’infanzia, all’adolescenza, dalla maturità all’oggi, quando “maturità” è già una parola da usare con indulgenza.

Potrei raccontare di un ragazzo di diciassette anni che già da tempo legge poesie e subisce il fascino della musica allora definita progressive: vorrebbe diventare come quel Peter Sinfield che figura parte creativa dei King Crimson (non solo un “paroliere”) e scrive i testi di In the Court of the Crimson King e di Islands. Quel ragazzo ha letto Montale, sa che ci sono Sereni, Zanzotto, Sanguineti e altri poeti (molti sono stranieri) menzionati nel paginone centrale del poco più che neonato quotidiano «La Repubblica», che acquista ogni giorno. Cerca in biblioteca, legge, compra qualche “Oscar”. Un giorno, in una cartolibreria, è colpito dai versi che compaiono sulla copertina di un piccolo libro. Costa poco. Lo compra. Pochi minuti a piedi e si siede sulla panchina di un parco per leggere. È La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, nella “bianca” Einaudi. Legge tutta la sequenza. Rilegge. Quando si alza da quella panchina non lo sa ancora, ma è accaduto: diventerà un poeta.

Oppure potrei raccontare come quel ragazzo, sei anni dopo, arriva alla prima pubblicazione avvenuta “alla macchia”, come si diceva una volta, grazie all’amicizia maturata all’università con Roberto Cresti e Claudio Pasi, autore della precedente, prima pubblicazione, in quella nostra “casa editrice” alla quale avevamo dato un nome: Niemandswort, e collocato la sede presso la Galleria Fabjbasaglia di Bologna (Fabj il cognome di Luciana, la madre di Roberto, che ricordo con affetto).

  Niemandswort era il segno di un’affiliazione: gemmava da Die Niemandsrose, il libro del 1963 che rappresentava allora per noi la riva raggiungibile dell’opera di Paul Celan. Raggiungibile anche praticamente, perché l’opera era disponibile intera in versione francese, quando in italiano circolava solo l’antologia mondadoriana  del 1976. Un numero di «Études Germaniques» a lui dedicato dopo la morte ci aveva permesso di vedere il suo viso in una fotografia.

Avevamo da poco passato la soglia dei vent’anni e a quell’età, quando la vita si rivela nella sete di presente, non è raro che le passioni abbiano bisogno di attraversare enigmi per incamminarsi in un deserto di lontananze. La poesia era per noi quel deserto, o almeno la sua parte più misteriosa, e Paul Celan aveva scritto le parole che ne disegnavano l’enigmatico paesaggio. Perché proprio lui – leggevamo “tutti” i poeti, e molti erano quelli che ci appassionavano – perché proprio Celan allora? Me lo sono chiesto spesso.

So che della memoria ci si può fidare solo fino a un certo punto. E quindi provo a dare la risposta di oggi a quello che posso ricordare (o indovinare?) di allora.

La voce di Celan era quella dell’ultima profanazione possibile, ovvero l’ultima possibilità di scagliarsi contro il sacro, non perché c’era, ma perché non c’era più, dileguato prima che potessimo fare altro che indovinare la sua assenza. Era un modo per chiamare qualcosa o qualcuno che non c’era più e non sarebbe tornato. Per questo “il sonno di nessuno”, che dall’epitaffio sulla tomba di Rilke (Rosa, pura contraddizione. Brama d’essere il sonno di nessuno sotto infinite palpebre), sortiva come “rosa di nessuno” nel titolo di Celan, diventava per noi la parola di nessuno,Niemandswort, ovvero non di un “io” che padroneggiava la lingua per comunicare un contenuto, quanto  l’abitare la lingua stessa con una voce senza nome.

Forse erano soltanto i nostri astratti furori. Ma se guardiamo alle date, un’onda s’era già levata a cancellare il mondo della nostra infanzia e della nostra prima formazione. Quel mondo era gravato per me da due silenzi. Uno pesava sul tempo prima di me, prima che io nascessi, sugli anni della guerra e delle sue conseguenze. La biologia, prima di tutto, e poi i meccanismi della memoria, vogliono che si guardi avanti e non più ritornare sulla paura e sul dolore. Però il taciuto, in famiglia e nell’ambiente del paese dove vivevo, le frasi interrotte al mio arrivo, l’evasività alle domande, erano un velo oscuro su eventi trascorsi ma ancora presenti, che percepivo e, non comprendendo, creava in me un senso di inadeguatezza e di precarietà. L’altro grande silenzio era quello della campagna: trasformati in una fabbrica a cielo aperto, sconvolti dalle ruspe e dai diserbanti, i campi sui quali avevo vissuto l’infanzia e l’adolescenza non risuonavano più dello stormire degli alberi e del canto degli uccelli. Al loro posto i rumori dei motori, dei silos, delle sirene delle fabbriche.

Allora “in nessun luogo si chiede di te” non era solo un verso di quel poeta, ma una voce che diceva prima di tutto l’intima lacerazione del suo stesso significare: si chiede di te, la chiamata non tace, ma i luoghi non hanno più nome né destino.

Perché Celan: perché non pensavamo di fare letteratura – avevamo vent’anni – ma credevamo di doverci giocare sulla parola la posta più alta al tavolo della vita. E scrivevamo quello che confusamente ci pareva potesse corrispondervi, il libro di Claudio meno confusamente del mio, più maturo e compiuto del mio.

Non disponevamo neppure di una vera tragedia, della quale non si parlava, e che soltanto intuivamo: eravamo soltanto nati sulle sue ceneri, che si erano mostrate fertilissime, come sempre le ceneri sono, e cresceva rigogliosa la società dei consumi e del tradimento di ogni ideale (chiedo scusa per quest’ultima parola, imbarazzante, ma allora la si usava, per le ultime volte, ancora).

Potrei raccontare, ancora, la prima uscita “ufficiale”, su «Alfabeta», una pubblicazione allora molto letta e prestigiosa, per interessamento di Antonio Porta. Poi ancora il primo volumetto di poesie (tra i giovanissimi “editori” c’è Davide Rondoni). Più tardi, ancora una volta decisivo, l’incontro con i poeti dei Quaderni italiani di Poesia di Franco Buffoni. Tra questi, Stefano Dal Bianco e Antonio Riccardi sono ancora oggi i miei primi lettori.

Potrei raccontare gli anni “a bottega” da Andrea Zanzotto, i primi libri che hanno avuto un po’ di riconoscimento, l’amicizia con Mario Benedetti.

Sarebbe sempre troppo e troppo poco. Sarebbe sempre amplificare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Già nel fare questi nomi mi  pento per aver taciuto molti altri con i quali la vita e la poesia si sono legati in tanti anni, nei quali a un certo punto è diventato importante per me il lavoro svolto nella poesia e con i poeti all’interno delle attività del festival pordenonelegge da più di vent’anni.

Alla temuta laconicità di una sequenza di pubblicazioni, c’è il rischio di contrapporre un romanzo autofinzionale che comporterebbe un numero esorbitante di pagine.

Allora propongo al lettore, già stanco per avermi seguito fin qui, un esperimento: cercare nella memoria e con l’immaginazione di ritrovare il momento più lontano nel tempo, dove collocare la “scoperta” della poesia e del poter essere poeta. Risalire, insomma, alle cause della felice patologia – che fa parte della “fisiologia” di ogni essere umano – e che in me si è così fortemente cronicizzata.

Le premesse: sono stato per sei anni un parlante il solo dialetto. Una lingua più che minore, veneta fuori da Veneto, al confine con la parlata friulana, che ha una forte caratterizzazione locale. Avevo coscienza delle principali differenze tra la lingua che parlavo quotidianamente e l’italiano delle occasioni ufficiali e della radio, ma le opportunità di usare quella lingua si presentavano raramente, e credo che le mie performance – se ci sono state – fossero davvero incerte. Continua a leggere

Il dolore esistenziale nell’Onégin di Puskin

Premessa
di Luigia Sorrentino

Con questa recensione di Alberto Fraccacreta, rilanciamo una delle opere principali studiate a scuola in Russia: il romanzo in versi di Aleksander Puskin: Evgenij Onégin. E’ considerato il massimo della produzione letteraria di Puškin, “un’enciclopedia della vita russa e un’opera veramente popolare” che molte generazioni di scrittori e di poeti leggono.

Il romanzo, recentemente ristampato in Italia da Mondadori negli Oscar nella traduzione dello slavista Giuseppe Ghini, ci mette di fronte a un capolavoro assoluto perché come conferma il traduttore con “l’Onégin Puškin ha pronunciato una parola universale, capace di superare e fondere i particolarismi nazionali”. Avvicinarsi alla poesia dell’Onégin vuol dire avvicinarsi al dolore esistenziale e profondo del protagonista, avvertire lo spaesamento di un’epoca, l’insanabile male di vivere (più che mai attuale) che porterà Onégin a rifiutare l’Armonia che Amore e Amicizia potrebbero dargli.

“Amicizia” e “Amore” sono le parole che ricorrono anche in questa bellissima lirica molto conosciuta in Russia di Puškin scritta dal poeta proprio nel periodo dell’Onégin, tra la fine del 1826 e l’inizio del 1827, a sostegno dei decabristi, esiliati in Siberia tra i quali c’erano vari amici e conoscenti del poeta.

La lirica non poté esser pubblicata durante la vita di Puškin, per il contenuto del testo, ma ebbe larga diffusione in Russia circolando di mano in mano.

Ve la proponiamo nello “schizzo di traduzione” di Paolo Galvagni. A seguire la recensione di Alberto Fraccacreta.

1] Во глубине сибирских руд
Храните гордое терпенье,
Не пропадет ваш скорбный труд
И дум высокое стремленье.
Несчастью верная сестра,
Надежда в мрачном подземелье
Разбудит бодрость и веселье,
Придет желанная пора:
Любовь и дружество до вас
Дойдут сквозь мрачные затворы,
Как в ваши каторжные норы
Доходит мой свободный глас.
Оковы тяжкие падут,
Темницы рухнут — и свобода
Вас примет радостно у входа,

И братья меч вам отдадут.

1] Riferimento alla insurrezione, svoltasi a San Pietroburgo nel dicembre 1825 (decabristi – dicembristi).

(Schizzo di traduzione)
di Paolo Galvagni

Nelle profondità dei minerali siberiani
Mantenete la fiera pazienza,
Non svanirà il vostro mesto lavoro
E l’alta aspirazione dei pensieri.

Sorella fedele alla sventura,
La speranza nel tetro sotterraneo
Desterà il vigore e l’allegria,
Giungerà il tempo desiderato:

Amore e amicizia a voi
Arriveranno per le porte tenebrose,
Quando nei vostri covi di lavori forzati
Giunge la mia voce libera.

Pesanti cadranno le catene,
Le prigioni crolleranno — e la libertà
Vi accoglierà gioiosa all’ingresso,
E i fratelli vi daranno la spada.

 

Aleksàndr S. Puškin, Evgenij Onégin, a cura di Giuseppe Ghini  (Mondadori, 2021)

Recensione di Alberto Fraccacreta

 

Il romanzo fondativo della letteratura russa è in versi: l’Evgenij Onegin di Aleksàndr Puškin, composto tra il 1823 e il 1831, in due momenti distinti della vita del poeta. Suddivise in otto capitoli con i Frammenti di viaggio di Onegin, le 389 strofe sono formate ognuna da quattordici tetrametri giambici che hanno recato non pochi grattacapi ai traduttori italiani.

Nel 1923 Ettore Lo Gatto propose una versione in endecasillabi; celebre fu la scelta di Giovanni Giudici di mantenere intatta la serie rimica delle stanze orientando il metro in direzione di un novenario aperto e fluttuante. Continua a leggere

Addio a Ugo Piscopo

Ugo Piscopo

Oggi 1° aprile è lutto nel mondo della Cultura.
E’ morto il poeta e critico Ugo Piscopo volto storico di Napoli.

Ugo Piscopo era nato a Pratola Serra, in provincia di Avellino, nel 1934.
Ugo è stato poeta, scrittore di letture moderne comparate, traduttore e da più giovane ha avuto dei trascorsi nel mondo del teatro.

Il ricordo dell’amico Giorgio Moio:

“L’ho sentito una settimana fa e la sua voce non lasciava intendere niente di buono. Tra le poche cose che riuscì a dirmi fu una cosa penosa: era molto dispiaciuto di sentirsi solo, della mancanza di una telefonata di qualche amico. Forse la mia è stata l’ultima o una delle ultime telefonate ricevute da un amico. Proprio ieri ne parlavo con Marisa Papa Ruggiero delle pessime condizioni di salute di Ugo. Che ti accolga un luogo dove poter trascorrere una vita migliore, carissimo amico mio. Riposa in pace. I funerali avverranno domani 2 aprile alle 13, nella chiesa Santa Maria della Libera, in via Belvedere a Napoli.”

(Luigia Sorrentino)

Ricordando Ugo Piscopo
di Giorgio Moio

A Napoli ci sono scrittori e poeti che hanno ricevuto dalla città molto meno di quanto abbiano dato alla crescita della cultura partenopea e non solo partenopea. Uno di questi è stato Ugo Piscopo, saggista, narratore, poeta, nato a Pratola Serra (AV) nel 1934 e deceduto a Napoli (dove viveva sin da giovane) il 1° di aprile 2022, nel giorno del proverbiale “pesce d’aprile”, cioè un giorno di scherzi. Dopo il percorso scolastico, con una laurea in Lettere classiche conseguita alla “Federico II”, discutendo la tesi col prof. Francesco Arnaldi (1957), inizia ad insegnare materie letterarie in scuole secondarie, “vagabondando” tra Napoli, Lacedonia, Ariano Irpino e Tripoli (Libia) dove viene addirittura imprigionato per quattro giorni.

Nel 1967, dopo quattro anni in Libia dove insegna Lingua e Cultura italiana per stranieri c/o Istituto Italiano di Cultura, tenendo anche un corso di conferenze sulla poesia italiana contemporanea, presso il medesimo Istituto, alle dipendenze del Ministero degli affari esteri, fa ritorno in Italia e si stabilisce con la famiglia a Napoli. Continua a leggere

Osip Mandel’štam, “Epigramma a Stalin”

Osip Mandel’štam

Osip Mandel’štam
di Luigia Sorrentino

La poesia di Osip Mandel’štamViviamo senza sentire il paese sotto di noi” è stata spesso definita l'”Epigramma a Stalin“.  E’ una poesia scritta da Mandel’štam nel novembre 1933 – poi inclusa nelle poesie di Mosca – e subito dopo l’ aver assistito alla terribile carestia della Crimea. La poesia servì come principale materiale d’accusa del “caso” Mandel’štam dopo il suo arresto nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1934. Il poeta non nascose la paternità del testo e dopo essere stato arrestato si preparò a essere fucilato.

La difesa di Bukharin però ammorbidì la sentenza: Osip Mandel’štam fu deportato a Cherdyn nella Russia Nord orientale e poi a Voronezh. Dopo la fine del suo esilio, gli fu proibito di vivere a Mosca. Nella notte tra l’1 e il 2 maggio 1938, Mandel’štam fu arrestato una seconda volta e mandato in un campo nell’Estremo Oriente. Osip Mandel’štam morì il 27 dicembre 1938 di tifo nel campo di transito di Vladperpunkt (Vladivostok). Il corpo di Mandelstam rimase insepolto fino alla primavera, insieme agli altri morti. Poi fu sepolto in una fossa comune.

L’epigramma dedicato al “montanaro del Cremlino” Stalin nell’originale e una traduzione in italiano. L’attualità di questa poesia è indiscutibile e ci insegna molto, ancora oggi.

Мы живем, под собою не чуя страны

Мы живем, под собою не чуя страны,
Наши речи за десять шагов не слышны,
А где хватит на полразговорца,
Там припомнят кремлевского горца.
Его толстые пальцы, как черви, жирны,
И слова, как пудовые гири, верны,
Тараканьи смеются глазища
И сияют его голенища.

А вокруг него сброд тонкошеих вождей,
Он играет услугами полулюдей.
Кто свистит, кто мяучит, кто хнычет,
Он один лишь бабачит и тычет.
Как подкову, дарит за указом указ –
Кому в пах, кому в лоб, кому в бровь, кому в глаз.
Что ни казнь у него – то малина
И широкая грудь осетина.

Ноябрь 1933
Осип Мандельштам (1891-1938)

Viviamo senza sentire sotto di noi il paese

Viviamo senza sentire sotto di noi il paese
a dieci passi le nostre voci sono già belle e sperse
e dovunque ci sia spazio per quattro chiacchiere
si dà una mezza conversazioncina
là ti ricordano il montanaro del Cremlino
le sue tozze dita come vermi grassi
come pesi di ghisa le sue parole esatte
se la ridono gli occhioni di blatta
e rilucono i gambali dei suoi stivali.

Attorno una masnada di gerarchi dal collo fino
i favori di mezzi uomini sono il suo trastullo
chi fischia, chi miagola, chi frigna
lui solo spauracchio e picchia
un decreto dopo l’altro elargisce come ferro di cavallo
a chi nell’inguine, a chi in fronte, a chi nell’occhio
o al sopracciglio
è una pacchia ogni esitazione che decreta
e un largo petto di osseta.

(novembre 1933) Continua a leggere

Taras Ševčenko, “amata Ucraina”

Taras Ševčenko, Autoritratto

Заповіт

Як умру, то поховайте
Мене на могилі
Серед степу широкого
На Вкраїні милій,
Щоб лани широкополі,
І Дніпро, і кручі Було видно,
було чути, Як реве ревучий.

Як понесе з України
У синєє море
Кров ворожу… отойді я
І лани і гори —
Все покину, і полину
До самого Бога
Молитися… а до того
Я не знаю Бога.

Поховайте та вставайте,
Кайдани порвіте
І вражою злою кров’ю
Волю окропіте.
І мене в сем’ї великій,
В сем’ї вольній, новій,
Не забудьте пом’янути
Незлим тихим словом.

Taras Ševčenko

TESTAMENTO

Quando sarò morto, seppellitemi
In mezzo a un’ampia steppa
Nella mia amata Ucraina,

La scogliera sprofondata nel Dnepr,
Che i miei occhi potevano vedere,
Le mie orecchie sentivano
Il possente fiume ruggire.

Quando l’Ucraina trasporterà
nel mare blu
il sangue del nemico
allora me ne andrò
lascerò queste colline
e questi campi fertili —
li lascerò e salirò a Dio
per pregare… Ma fino a quel giorno
non so nulla di Dio.

Oh seppellitemi, poi alzatevi
Spezzate le pesanti catene
E spargete il sangue dei tiranni
Sulla libertà che avete conquistato.
Nella nuova grande famiglia,
La famiglia dei liberi,
Con parole gentili e tranquille
Ricordatevi anche di me.

(Traduzione dall’inglese di Luigia Sorrentino)

Taras Ševčenko, 25 December 1845, Pereiaslav Continua a leggere

La guerra su di noi

Man Ray

I poeti contro il conflitto in Ucraina

di Luigia Sorrentino


Poesie contro la guerra
è l’appello alla pace rivolto ai potenti del mondo. Raccoglie le voci di poeti ucraini e russi contemporanei, ma anche le voci dei loro padri, tra i quali gli ucraini Taras Ševčenko, Jakovyč Franko, Olena Ivanivna Teliha, Paul Celan, e i russi Osip Mandel’štam, Anna Achmatova, Marina Ivanova Cvetaeva, e molti altri, che hanno scritto poesie memorabili dall’esilio o dalla loro patria in guerra.

Man Ray

Il poeta è l’interlocutore più efficace per interpretare il significato più profondo della catastrofe causata dall’insensatezza degli uomini. Nessuno più del poeta può raccontare l’orrore della guerra quando questa coincide con la sua presenza nella Storia.

Lia Rumma, la vestale dell’arte contemporanea

Lia e Alberto Rumma

Lia e Marcello Rumma, 1968

Intervista a Lia Rumma
di Luigia Sorrentino
Napoli, Palazzo Donn’Anna
9 marzo 2022

Lia Rumma è tra le più importanti galleriste del mondo dell’arte italiana e non solo. Con il marito Marcello Rumma ha promosso il movimento dell’Arte Povera. Oggi, nella sua scuderia, lavorano i maggiori protagonisti internazionali del contemporaneo.

Lia Rumma vive a Palazzo Donn’Anna, in uno dei più celebri palazzi di Napoli, luogo simbolo della città. Il palazzo fu costruito nella metà del mille e seicento, per volontà di Donn’Anna Caràfa e realizzato dal più importante architetto della città, Cosimo Fanzago. Fu costruito secondo i canoni del barocco napoletano. E proprio qui Lia Rumma ha realizzato la sua casa-museo.

Palazzo Donn'Anna, Napoli

Palazzo Donn’Anna, Napoli

Che relazione c’è tra questo luogo antico proiettato nel passato e l’opera d’arte contemporanea che guarda verso il futuro?

Penso che l’arte corra su un filo infinito nella relazione tra passato e presente. Non c’è interruzione, ma c’è un dialogo. Io sono affascinata dall’architettura barocca, dalla grande architettura del passato. Questi ambienti ampi, questi volumi straordinari, dialogano benissimo con opere contemporanee. A me piace molto riferirmi alla storia e alla nostra contemporaneità. Ho cercato di avvicinare questi due momenti. Mi piace molto vedere vivere queste opere in questi ambienti meravigliosi dell’architettura di Palazzo Donn’Anna. Non dimentichiamo poi che palazzo Donn’Anna è circondato dal mare. Quindi il mare entra in questa stanze, la luce fa un gioco di ombra e di luce, di spazio, di aria. Queste opere possono vivere in maniera totalmente autonoma laddove l’architettura non viene uccisa dall’invasione di grandi opere contemporanee e nello stesso momento lascia spazio all’opera.

Lia e Marcello Rumma – Mostra ai Cantieri di Amalfi 1968

La storia di Lia e Marcello Rumma si afferma nel 1968. Quando, con Germano Celant prende vita la grande mostra ai cantieri di Amalfi.

La mostra del maggio del Sessantotto conferma un momento importante, storico. Ma la nostra curiosità di giovanissimi collezionisti interessanti all’arte, alla cultura, perché non solo ci siamo occupati di arte, perché mio marito fondava poi una casa editrice molto importante di arte, estetica e filosofia, inizia molto prima, già dai primi anni Sessanta. Eravamo ancora due ragazzini ed eravamo incuriositi da quello che stava accadendo nel nostro tempo. E quindi incontrare gli artisti, i galleristi, quelli che poi sarebbero stati i protagonisti del grande momento dell’arte contemporanea era per noi una curiosità immensa. Per quanto giovani, ci muovevamo, viaggiavamo, contattavamo storici dell’arte, critici, galleristi, artisti… era un viaggio verso la conoscenza. C’era anche una passione fortissima … eravamo proprio appassionati, innamorati di ciò che stava accadendo nel nostro mondo. Volevamo conoscerlo, volevamo starci, volevamo viverlo con gli artisti e vivere in questo mondo dell’arte così affascinante. Continua a leggere

Alberto Bertoni, “Quasi un’autofiction”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

°°°°

di Alberto Bertoni

 Volevo fare una narrazione storica, sì, ma che cogliesse soprattutto il passaggio dalla vita senza storia di tutte le infanzie al momento in cui il ragazzo comincia a diventare sociale, a capire se stesso. […] Ho cercato proprio di cogliere il primo palpitare dell’embrione sociale: per questo, forse, si potrebbe dire che il mio racconto è ancor più “viscerale” che storico. […] È una legge ferma, questa: che anche le viscere sono un mondo, che anche l’infinitamente piccolo ha tutte le caratteristiche del mondo più vasto che lo contiene.

(Giorgio Bassani)

Infanzia modenese   

 

Da un po’ di tempo, vado a letto presto. Tuttavia non ricordo i miei sogni e continuerò a non ricordarmeli. So che è un segno di insensibilità: ma, a contrappeso, ben fissati nella memoria volontaria, conservo tre ricordi vivi, che forse equivalgono a sogni, lontanissimi nel tempo.

Il primo è una scena a luci basse, nel tinello della mia casa di via Salvioli 21, prima periferia sud di Modena, dirimpetto alla linea dell’Appennino, io sul seggiolone, mia nonna che mi prepara una minestra succulenta, con un formaggino dentro, una pappa da bambino, che avevo molta voglia di mangiare, essendo stato da subito (ed essendo tuttora) un gran goloso. A un certo punto mia nonna si avvicina a questa minestrina, proprio quando mi appresto a divorarla, con una lattina verde scuro e un cucchiaio nell’altra mano, pieno di un liquido gialloverdognolo (era l’olio Sasso) con il quale vorrebbe rendere ancora più gustoso e nutriente il mio piatto. Io mi ricordo nitidamente – questo dipende senz’altro dal montaggio in tempi successivi di narrazioni diverse del ricordo – che di testa do un colpo al cucchiaio e lo faccio volare. Negli anni ho anche fatto riecheggiare nel mio udito interiore la frase che mia nonna – una dialettofona spontanea – deve aver pronunciato nella circostanza: “Al ragazȏl a-n gh’ piès menga l’òli”, cioè “Al bambino non piace l’olio”. Da allora, infatti, ho mangiato solo burro e strutto perché l’olio d’oliva, in tutte le sue forme ma soprattutto quando soffrigge con la cipolla, mi trasmette istintivamente e immediatamente l’impeto del vomito. A restare indelebile, di questo possibile sogno o lontanissimo flash, è la percezione tuttora molto nitida di quanto erano fioche e basse le luci nel tinello piccolissimo borghese che abitavamo, mentre sempre impagabile – a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell’anno – ho trovato e trovo la luce di quello specifico paesaggio emiliano, fra pianura e prima collina: pareggiata solo dai raggi obliqui di un’unica ora vespertina, in Provenza o California. Quella del mio protoricordo doveva essere una sera del 1957, al massimo del 1958, anni di pieno boom economico, a sentire i sociologi. Ricordo questo semibuio, che tuttora mi dà fastidio, come del resto il fioco e il catacombale, a meno che non si tratti di candele in una chiesa romanica: e preferisco le luci potenti delle partite di calcio o delle corse di cavalli in notturna, magari alogene nonostante la crisi energetica, perché le luci basse mi costringono a intrecciare infanzia e cimitero.

Il secondo ricordo, o sogno (in senso cronologico è forse il primo ricordo della mia vita, ma è molto più sfocato dell’altro), consiste nella linea blu del mare a Marina di Carrara, l’emozione della spiaggia, della sabbia che brucia sotto i piedi, è l’estate del ’56, ho quindici o sedici mesi. Un po’ cammino già (a muovermi e a biascicare sillabe sono un soggetto precoce) e mi ricordo lo slancio emotivo di quella visione primaria, il mio staccarmi dalle mani dei miei genitori (mio padre a destra, mia madre a sinistra) e lo scatto verso questa linea blu per tuffarmici dentro. Naturalmente mi acchiappano prima che io riesca a toccare l’acqua, ma dopo ho rivissuto altre volte lo stesso “convulso” – un sentimento radicato in mia madre – di quella spinta istintiva verso la riga scurissima del mare, contro la luce abbacinante dello spazio attorno. Sarà per questo che mi piacciono molto i quadri che sanno rappresentare in modo incisivo gli orizzonti: ma alla fin fine, non mi piace affatto tuffarmi nel mare senza che nessuno mi prenda al volo un attimo prima dell’impatto, di quel brivido di gelo che dentro di me equiparo da sempre alla morte.

Il terzo ricordo è sul balcone di casa ed è legato a un senso travolgente e spaventoso di vertigini: ne soffro tuttora, al punto che, modenese purosangue, non sono mai salito sulla Ghirlandina per paura di dovere, potere o volere sporgermi da un’altezza tanto estrema: che poi sono solo 86 metri, cioè nulla, a paragone dei grattacieli che poi avrei contemplato dal basso, attanagliato da un senso di vertigine non inferiore a quello che avrei provato raggiungendone la cima, di Manhattan, di Chicago o di Tokyo… A ogni modo, mi rivedo su questo balcone al terzo piano, attratto e respinto dal vuoto, mentre calcio un pallone rosso, poi lo prendo in mano, lo calcio ancora contro la ringhiera, quasi in un caleidoscopio spaventoso, nel rutilare di questo rosso accoppiato alla sensazione e alla tentazione suicida della profondità e dell’abisso che sono in agguato lì, come i puma sui rami, appena oltre la rete contro la quale scaglio il mio prezioso pallone. Queste sono, di fatto, le tre scene primarie che stanno tuttora alla base del mio immaginario.

 

Gioie, dolori, perplessità

 

A loro si affiancano le prime gioie: certi doni di Natale, innanzi tutto. Ci sto ancora sfrecciando sopra, adesso e qui, sulla prima bicicletta con le ruotine quando, lungo l’ampio corridoio di casa mia, scorrazzo su e giù per l’appartamento; o quando calcio il mio primo pallone di cuoio regolare contro l’armadio a muro che fa da porta, con l’atto definitivo e l’esito devastante che ovviamente m’impedisce di ripetere il gesto oltre la prima e la seconda volta: e così di diventare un calciatore anche solo decente. Poi mi ricordo un paio di guantoni da boxe che mi procurano una gioia pura, benché adesso la boxe mi risulti fastidiosa. E quindi la mia gioia pura coincide con l’attesa (che, come tutte le vere attese, mi sembra infinita) dei doni di Natale verso il tardo, tardissimo pomeriggio della vigilia, quando i nonni mi portano in giro con qualche scusa, così che mio padre e mia madre possano preparare i pacchi sotto l’albero. Questa è la gioia pura, intanto: altre ne seguiranno, però appena più contaminate dalla consapevolezza intellettuale e dalla capacità di fare architettura dell’attimo presente.

Ed eccola qui, qualcuna di queste altre. In una fase molto precoce, i primi dischi dei Beatles. Parlo ancora della scuola elementare (con l’Università l’unica bella e davvero formativa della mia vita), dove ho la fortuna di avere un compagno di classe, Massimo Mati, il cui padre vende dischi e quindi compro da lui – scontati – i 45 giri dei Beatles in tempo reale, cominciando con Please please me e Twist and shout verso la fine del ’63, a 8 anni: canzoni ma soprattutto ritmi (le parole ancora incomprensibili: e insomma la mia prima lezione di vera poesia!) che ascolto maniacalmente in giro per tutta la casa grazie al “mangiadischi” Philips, che intanto mi son fatto regalare in uno dei miei Natali bambini. Di quel vagabondare mi ricordo l’esperienza di choc, di spiazzamento che infliggo a nonni e genitori, in rapporto alla musica leggera – il melodramma è un’altra storia – che apprezzano loro, fra Claudio Villa e Gianni Morandi, con qualche tiepida tolleranza per Domenico Modugno. Continua a leggere

Paul Celan, video di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA ARRIVA A RIVA 

“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.

Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.

In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.

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Naufragio con spettatore

Luigia Sorrentino /credits ph. Fabrizio Fantoni

Naufragio con spettatore: Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021.

di Giuseppe Martella

 

Piazzale senza nome segna una svolta nella poesia di Luigia Sorrentino, offrendoci al contempo una spassionata testimonianza della condizione umana e una riflessione in sottotraccia sulla parola poetica, nella sua duplice funzione, inaugurale e testimoniale, nell’attuale tempo del disamore e del disincanto del mondo, del narcisismo e della solitudine di massa ormai giunti a un punto di non ritorno. Il dettato secco, febbrile, verticale procede per affondi e frammenti, scoprendo i vari livelli di lettura possibili e mimando l’esplosione della forma (d’arte e di vita) nell’attuale spazio dei flussi di informazioni, capitali e merci, in questa nostra tarda modernità liquida. Il testo possiede dunque una implicita valenza politica ed ecologica, mettendo in scena in modo solidale il declino dell’autorità e della fiducia, insieme alla sofferenza della madre terra sulla soglia del disastro ambientale.

Questo tema della sofferenza tellurica, è stato peraltro una costante della poesia di Sorrentino da La Nascita, solo la nascita (2009) a Olimpia (2013), richiamandosi al mito cosmogonico di Rea cui lo sposo, Crono, ingoiava i figli lasciandola in uno stato di lutto permanente. Tale mito ci riporta dunque anche alla situazione di tempo fermo, passato che non passa, chiusura d’orizzonte che caratterizza il presente allargato dell’attuale globalizzazione e il “tempo reale” degli scambi su internet, che appare così come la odierna incarnazione della rete di Ananke. Perché la poesia di Sorrentino si è da sempre mossa in uno spazio intermedio fra la cronaca e il mito, solo che ora qui avviene una sorta di ribaltamento gestaltico, sicché il mito recede sullo sfondo mentre la cronaca balza in primo piano. Si tratta di una cronaca scheletrica, a forti tinte e contrasti, in bianco e nero, come fosse una radiografia impietosa delle malattie del nostro tempo.

La dedica al padre e l’epigrafe da Plutarco (“La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”) ci offrono dall’inizio le coordinate di lettura del testo, introducendo il suo topos fondante: quello del “naufragio con spettatore”, tratto dalla ben nota immagine lucreziana dell’uomo che da sopra una roccia guarda con distacco e quasi con compiacimento una nave che sta per affondare al largo nei flutti, fungendo da metafora dell’atarassia del saggio epicureo a fronte delle tempeste della vita. La storia di questa metafora ha segnato le varie epoche della letteratura occidentale, assumendo sempre nuove connotazioni, fino al ribaltamento secco che subisce ad opera di Pascal, il quale afferma che ci troviamo tutti sulla stessa nave e che perciò nessuno può chiamarsi fuori dal suo possibile naufragio, sicché occorre accettare l’infinita scommessa della fede e della compassione. Questa storia è stata esplorata egregiamente nel secondo Novecento da Hans Blumenberg, dove però a quanto mi consta non figura la tappa precoce ivi segnata da Plutarco, che assegna, tra i morenti, ai vecchi il ruolo di spettatori e ai giovani quello di naufraghi. Non più dunque il saggio epicureo ma il vecchio navigato riassume la prospettiva teoretica, il ruolo di spettatore (theoros) a fronte dei giovani naufraghi, attori della tragedia dell’esistenza. Si tratta perciò di una declinazione importante di questa figura epocale, che nel nostro testo viene evocata e messa a frutto come seme generativo, a fondamento dell’intera fenomenologia della violenza che ne innerva forme e contenuti.

Un altro topos letterario avito qui richiamato con profitto è quello del “giardino”, hortus conclusus, spazio chiuso e ordinato, contrapposto ai luoghi aperti e anonimi che verranno visitati in seguito. E il padre, in punto di essere seppellito, apparirà infatti alla fine del poema in guisa di Giardiniere, custode dello spazio familiare (Oikos), dell’ordine e della bellezza che fanno scudo all’anomia generale. Il padre morente, figura dell’autorità in dissolvenza, viene però già dall’inizio connotato come “capra sgozzata” (13), evocando così la terza grande figura che presiede all’ordinamento poetico del testo, quella del capro espiatorio su cui si scaricano la violenza e il conflitto delle comunità umane. Questo ruolo di capro espiatorio tocca indifferentemente a vecchi e giovani, così come appare subito nella prima parte in prosa del nostro testo, nell’alternanza di campo e controcampo che caratterizza le loro morti parallele.

Questo testo è infatti un prosimetro dove le sezioni in prosa fungono da vere e proprie sceneggiature preparatorie della drammaturgia in versi che seguirà, ossia da scenari per gli atti di questa tragedia degli anonimi e dei perdenti. Come ci avverte il titolo infatti, quello dell’anonimato è il tema centrale della silloge ed è connesso alla remota possibilità della donazione dei nomi. Funzione squisitamente poetica che si profila man mano nel corso del testo, specialmente a partire dalla lirica intitolata “Nunzia”, “la ragazza dal volto antico” (52) vittima di uno stupro, che reca nel nome la speranza di un annuncio salvifico che andrà di qui in avanti concretizzandosi in figure successive come quella dell’Eroina (martire della droga) dai capelli biondi che ha “ceduto la vita alla gioia”. (61) Sono figure che si possono tutte ricondurre a quella mitica della fanciulla divina (Kore), la cui prima incarnazione è quella di Persefone rapita da Ade e fatta regina degli inferi, mentre la seconda è quella di Euridice che ivi sprofonda nel ben noto mito di Orfeo. Entrambe sono state figure centrali di Olimpia, a conferma della continuità dell’opera di Sorrentino, pure nella svolta netta che assume in Piazzale senza nome. Continua a leggere

Presentazione “Piazzale senza nome”

Quando ho scritto “Piazzale senza nome” – le poesie fra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 – pensavo a un luogo che nella mia memoria era qualcosa di inerte, immobile, come le periferie che circondano le grandi città. Pensavo a un luogo preciso, che per me è esistito, è esistito veramente, una volta e per sempre. Un luogo che ho voluto salvare forse, come la promessa di una rinascita, salvarlo dal delirio, e al tempo stesso, salvarlo dalla sua indicibile quiete. Le parole sono nate da questo luogo, tra un respiro e l’altro, dal soffio di una creatura morente, come rivelazione di tutto ciò che è nascosto, che non vogliamo vedere. La parola si è sovrapposta, si è mischiata ai solchi lasciati sulla strada dai ragazzi invisibili della mia generazione, gli esclusi, quelli rimasti fuori dalla Storia.

Quando ho scritto il libro e ho scelto il titolo, che talaltro ha anche una sezione eponima, non sapevo che proprio a Torre del Greco, città dove ho vissuto fino a 24 anni, c’è davvero un “Piazzale senza nome”, un luogo invisibile, una penombra, in cui si sono realmente incrociati i destini di molti giovani divorati dal sogno della vita. Eppure io conoscevo ante rem questo luogo,  questo spazio nascosto, senza nome, nel quale sono ritornata per preservare e proteggere le solitudini di questi ragazzi, per rivivere le loro stesse  privazioni, asfissiata dal ricordo di quelle brevi esistenze naufragate.

(Luigia Sorrentino) Continua a leggere

Ad Acerra, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, messa a dimora dell’albero della Cultura

Castello dei Conti di Acerra

C O M U N I C A T O     S T A M P A

Nell’ambito delle iniziative della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ricorre Giovedì 25 novembre 2021, a Acerra (Napoli) a partire dalle ore 10.30 si terrà un evento in collaborazione con l’Accademia Mondiale della Poesia e l’Amministrazione Comunale – Assessorato alle pari Opportunità e alle Politiche di Genere.
Il progetto, nato da un’idea del pianista e compositore Christian Deliso, si svolgerà nella Sala Consiliare del Castello dei Conti di Acerra,  nel centro storico della città, con il patrocinio del WWF, ANCI, CONFASSOCIAZIONI.

Sala Consiliare Castello dei Conti (Acerra)

PROGRAMMA

  • Saluti istituzionali Assessore Pari Opportunità Milena Tanzillo
  • Moderatrice: Pina Stendardo, giornalista
  • Introduzione della Giornata e Cerimonia di messa a dimora dell’Albero Della Cultura.
  • Intervento del magistrato procura di Nola Sarah Calazzo
  • Interviste a cura di Radio Siani
  • Narrazione poetica dell’albero della Cultura di Paolo Ruffilli
  • Video presentazione di Max Laudadio e dai ragazzi di Acerra. Continua a leggere

Il ritmo feroce di “Piazzale senza nome”

Luigia Sorrentino credits ph. Angelo Nitti

L’esperienza del dolore in Piazzale senza nome 
di Fabrizio Fantoni

Con Piazzale senza nome (Collana Gialla Oro Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021) Luigia Sorrentino ci consegna una potente ricognizione dell’esperienza del dolore, vissuta attraverso il parallelismo tra la morte del vecchio e quella del giovane espresso dall’esergo tratto dai Fragmenta di Plutarco: “La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”

In questa citazione ritroviamo il nucleo tematico attorno al quale ruota l’opera poetica dell’autrice che si articola nella correlazione tra due antitesi – approdo-naufragio – in una continua alternanza di avvicinamenti e allontanamenti, sotto la spinta di una lingua che non lascia tregua al lettore, che si colora di scarti improvvisi e repentine accelerazioni, per poi attenuarsi in un andamento orizzontale, ampio, quasi a simulare il respiro universale di una grande fine.

Il morire della persona amata impone il voltarsi indietro, tornare alla terra del padre per evocare la vita segnata dalla sofferenza dei giovani conosciuti nell’adolescenza: la morte del vecchio decreta la fine di un tempo – “la beata, sfiorata giovinezza”– e comanda di dare voce al sangue versato, comprenderne la ragione, dare un nome al dolore.

 

Con Piazzale senza nome Luigia Sorrentino compie un viaggio di ritorno all’origine che si concretizza attraverso il ricordo di una generazione ferita dalla dipendenza e dal convincimento di avere la forza di potersene liberare: Posso smettere quando voglio. In tale certezza risiede l’inganno della giovinezza che porta al naufragio. Continua a leggere

Presentazione a Roma del libro “Per Mario Benedetti”

Martedì 23 novembre 2021 a Roma si terranno due momenti legati a Mario Benedetti. Il primo incontro si terrà alle 17:00 alla Biblioteca Hub Culturale – Moby Dick – Via Edgardo Ferrati, 3, alla Garbatella, presentazione del volume Per Mario Benedetti, a cura di Alberto Garlini, Luigia Sorrentino, Gian Mario Villlata (Mimesis, 2021). Il secondo si terrà al termine del primo, a partire dalle 19:00, alla  Zeugma– Casa della Poesia di Roma – Via Giulio Rocco, 22.

Alla Biblioteca Hub Culturale interverranno:

Andrea Cortellessa
Tommaso Di Dio
Luigia Sorrentino
Gian Mario Villalta

Coordina l’evento
Alessandro Anil

Letture di
Giovanni Serratore

SINOSSI

Nel libro Per Mario Benedetti, nato dall’incontro fra Pordenonelegge e il blog di poesia della Rai diretto da Luigia Sorrentino, diversi poeti testimoniano cosa ha significato per loro l’opera e l’uomo Mario Benedetti, la cui presenza ha lasciato un segno indelebile nelle forme e negli spunti tematici, soprattutto fra le nuove generazioni.

 

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

Da Tersa morte in: Tutte le poesie di Mario Benedetti, Garzanti, 2017

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Le risorse del silenzio, nascono a Book City due riviste letterarie

Matteo Bianchi, Foto di Alessandro Canzian

Nasce “Laboratori critici”, una nuova rivista cartacea dedicata ai percorsi letterari più attuali

Sono due le riviste rigorosamente cartacee che inaugurano la loro prima uscita e la loro attività editoriale nell’ambito di BookCity Milano2021.

Se Feltrinelli, sotto la direzione sapiente di Marino Sinibaldi, è appena uscita coraggiosamente con un nuovo trimestrale, “Sotto il Vulcano”, di cui prevede la pubblicazione di dieci numeri monografici, anche Samuele Editore di Pordenone ha deciso di affidarsi alla fisicità dell’oggetto libro, alla sua presenza e al gesto che comporta sceglierne uno in particolare, impugnarlo in mezzo a tanti altri.

Marino Sinibaldi

Venerdì 19 novembre, alle 12.30, nella Sala Cubetto dell’ADI Design Museum, “Laboratori critici. Rivista semestrale di poesia e percorsi letterari” sarà presentata al festival milanese tra l’editore Alessandro Canzian e Matteo Bianchi, che l’ha ideata e la dirige. Continua a leggere

Rebora, sulle orme di Dante

Clemente Rebora e Dante

Roberto Cicala con questo libro ci presenta una serie di sorprendenti inediti danteschi di Clemente Rebora, grande studioso del Sommo Poeta.

Nel volume Cicala come un archeologo, riprende e riporta in luce tutta una serie di appunti, riflessioni e postille di Rebora alla Commedia (segnate in matita rossa per indicare la grazia e blu per evidenziate il peccato) e un intero ciclo di lezioni tenute da Rebora a Milano nel 1929, l’anno della sua conversione.

Un libro unico che ci fa comprendere quanto Dante abbia influenzato Rebora e con lui, intere generazioni di poeti, fino a oggi, e, a quanto pare, l’anniversario dantesco non ha mai prima d’oggi messo in luce le lezioni inedite di Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento, “maestro in ombra” di poeti quali Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.

Gli inediti sono notevoli, per esempio sul passaggio – per Rebora autobiografico – dal «folle volo» di Ulisse all’«alto volo» della malattia mistica che l’ha portato alla morte a Stresa, il 1° novembre del 1957.

E proprio il primo novembre di quest’anno alle 16:00, nell’anniversario della morte di Rebora a Stresa, sulla sua tomba ci sarà un reading musicale per onorare la sua memoria, a  partire dal libro di Roberto Cicala Da eterna poesia (il Mulino, 2021) con musica di Roberto Bassa letture di Roberto Sbaratto introduzione di padre Ludovico Gadaleta Interviene l’autore

Il volume esce in libreria a fine ottobre 2021.

(Luigia Sorrentino)

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ROBERTO CICALA
Da eterna poesia
Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (Il Mulino, 2021)
Presentazione di Alberto Casadei

 

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