Milo De Angelis presenta in Francia la sua opera di poeta

Milo De Angelis e Viviana Nicodemo

RENCONTRE AVEC DE MILO DE ANGELIS

Jeudi 23 février à 18h30

Institut Culturel Italien (Loft) – 18 rue François Dauphin – 69002 LYON

Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice, et par Sylvie Fabre, traductrice.

Vendredi 24 février à 14h00

Lycée Saint Marc – 1000 rue de Vernay, 38300 Nivolas-Vermelle

Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice.

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RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Nota di Milo De Angelis

Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei grandi poemi greci o indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni. La metafora regna sovrana nelle pagine di Ibello e connette creature infinitamente lontane tra di loro – “il cimitero della sete”, “una giostra di tagliole e vento”, “la chiromante delle ustioni”, “il santuario delle nebbie”, “flagelli di margherite” “la nomenclatura delle vene”, “il battesimo incendio”, “l’alba dei rasoi” – creando legami sotterranei e inattesi, gettando il mondo visibile nei baratri del mondo infero.

Platone è il filosofo di quest’opera, soprattutto il Platone dello Ione, quello che sente nel poeta un essere posseduto dalla sua arte, un essere demoniaco che non sa di sapere. Ma sono molti gli autori presenti nell’opera di Ibello – uomo dalle vaste letture – e tuttavia più che maestri di stile sembrano invisibili fratelli di sangue, alleati in una comune avventura e in un comune viaggio nel fiume della natura, nelle sue correnti segrete e animistiche: è una natura vivissima, percorsa da forze impetuose e assassine; una natura popolata di animali e di fiori, antilopi, gru, gatti, cigni, cormorani, pinete, anemoni e aranceti, una natura straripante, assetata, minacciosa, sempre prossima a sprofondare nelle tenebre, sorella del Barocco spagnolo, quello più impregnato di morte.

Dialoghi con Amin è un grande e originale poema notturno ed è un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere, ci viene detto e ripetuto. “Amin, è quasi giorno” e noi sentiamo che questo “quasi” è una soglia magica e questo “giorno” muterà la nostra vita, come nelle aubades della poesia provenzale, quando il giungere dell’alba separava gli amanti e li consegnava alla loro solitudine. Qualcosa di immenso sta dunque per compiersi. Ma non sappiamo ancora di cosa si tratta, non riconosciamo il volto del Mutamento. Sappiamo che non è un semplice amore, una semplice morte o una semplice rinascita. Questo ci viene detto più volte. “Credimi, noi non stiamo per rinascere”. E non si tratta nemmeno di un paradiso o di un inferno. No. L’imminenza continua a nascondere i suoi piani e ci lascia all’oscuro, come in una moderna Apocalisse, per citare un’opera cara a Giovanni Ibello. Rimane quest’estrema vigilia nel cuore della notte, rimane “la lesione tellurica del buio”, come scrive il poeta. “Di quello che sognavi veramente / non resta che un silenzio siderale / una lenta recessione delle stelle”. Rimane qualcosa che non ha tratti umani. “Ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.

“Ogni cosa rivela /quel nulla che siamo già stati”. Qui non si parla solo di noi, non si parla solo della nostra brama di amore e di felicità. C’è in gioco in questi versi un mutamento sterminato, un dialogo amoroso tra le potenze della natura, qualcosa di remoto che non ci ha mai sfiorati e insieme qualcosa di vicinissimo che abita nel nostro seme. Forse è l’universo che si fonde con noi, come dice l’epigrafe di Adonis, o forse è un altrove che ci coinvolge nel suo alfabeto incomprensibile, un “altrove di spine e diademi” che ci conduce a spezzare i vetri dell’esistenza, una bufera che rade al suolo tutte le nostre parole, uno sprofondamento “nel grembo della cancellazione”, qualcosa che ci getta in balia dell’attesa, di una pura attesa senza oggetto. O forse è qualcos’altro ancora, qualcosa di impensabile e violento che supera la nostra intelligenza. Non sappiamo cosa, ma sappiamo che accadrà, scrive Giovanni Ibello, accadrà per intero e tragicamente, dopo aver seminato le sue tracce misteriose in queste pagine.

Tracce misteriose, indubbiamente, perché la parola di Ibello non è mai dispiegata, non si estende mai in orizzontale per chiarire se stessa e aggiungere dettagli. Si guarda bene dal dilungarsi in spiegazioni non richieste, si tiene stretta alla propria unicità e obbedisce al comandamento di Cristina Campo posto in epigrafe: non dobbiamo sprecare le nostre frasi, non dobbiamo offendere il nostro silenzio, perché “di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto”.

Ecco, il silenzio. Il silenzio è uno dei protagonisti di questo libro splendido e irripetibile. Ci impone le sue regole di ascesi e di clausura: le nostre preghiere avvengono nel buio degli hangar e noi le ripetiamo come giaculatorie dinanzi a un dio demente, con la paura di essere inghiottiti dall’afasia o da un mutismo sbigottito, un addio che ci attende e suggella ogni nostro gesto, rendendolo così glorioso e vano, sempre sul punto di precipitare in un tacito burrone di ombre. Come ci ricorda il poeta: se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una.

Vorrei concludere soffermandomi su un’altra epigrafe che Giovanni Ibello colloca in una posizione importante, in apertura di libro: alla poesia, che mi farà solo. E davvero la solitudine regna sovrana in queste pagine. È una solitudine carceraria, uno stato di isolamento rigoroso, una reclusione che non ammette sconti di pena se non qualche istante di libertà vigilata in cui il poeta getta uno sguardo sul mondo prima di tornare in cella. Ed è uno sguardo prodigioso e lancinante, quello di Ibello, uno sguardo che arriva a farci dubitare dell’esistenza stessa – “mai nessuno ci ha chiesto di essere vivi” – e ci proietta in un interregno di fantasmi al di là di ogni presenza terrena, assediati da scene perdute che affiorano all’improvviso o da intuizioni divinatorie sul destino che ci attende. Vita sempre sognata, mai vita. È una vita dove appare impossibile spartire stabilmente qualcosa con un altro e dove entriamo in una metamorfosi perenne, senza pausa e senza appoggio, sospesa tra la Napoli attuale di Diego Armando Maradona e lontane regioni della terra inondate di sole, un’eterna Mesopotamia di dune, deserti e ziqqurat, dove la luna illumina sempre la sabbia e Adonis innalza il suo canto solitario, solitario come il protagonista di questo poema, che può sancire la sua avventura umana solamente con queste parole incolonnate:

Amin
noi
siamo
soli.

_____________

da Dialoghi con Amin, Crocetti Editore 2022

io non torno più

Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”. Continua a leggere

I poeti, i re che amano troppo

[Nota a Margine ]

Alessandra Leone che scrive questo articolo, riprende  il  brano musicale “Il re di chi ama troppo” della cantante italiana Fiorella Mannoia, inciso in duetto con Tiziano Ferro e scritto da quest’ultimo.

La ballata racconta il punto di vista di chi si spende totalmente in amore, rischiando così di rimanere spesso bruciato. Per Alessandra Leone questa figura è quella del poeta.

Commento

di Alessandra Leone

C’è differenza tra i poeti e gli intellettuali del passato e quelli di oggi? Esistono ancora veri intellettuali, e se sì, perché si preferisce dar voce ai vari opinionisti, giornalisti e pseudo studiosi che si ergono a esperti di tutto? Cosa è cambiato, se effettivamente è cambiato qualcosa? Sono domande che possono apparire provocatorie, ma in realtà intendono stimolare una riflessione.

La poesia con i suoi messaggi e i suoi valori, quali libertà e uguaglianza, con quelle domande esistenziali e le sue riflessioni, non cambia né cambierà mai, essendo senza spazio né tempo. I tanti Ulisse del passato, del presente e del futuro non cercano forse quelle risposte già avute secoli fa? La voglia di capire qual è il proprio posto nel mondo e di realizzarsi, quel continuo anelito di esprimersi senza pregiudizi e paure riuscendo ad essere davvero se stessi, quella sete di serenità, pace e felicità sembrano essere sempre i medesimi.

I frammenti in dialetto eolico di Saffo, vissuta oltre 2.500 anni fa, le sue parole su sensazioni, sentimenti e tormenti amorosi verso gli uomini e verso le donne sono ancora attuali. Anche i protagonisti delle tragedie greche hanno la stessa modernità, se pensiamo che nella nostra vita capita di incontrare tanti Edipo accecati da tracotanza e superbia, dal proprio ego e dalle proprie convinzioni. Rimanendo nella famiglia del re di Tebe, l’eterno conflitto tra autorità e potere di Antigone, anticonformista contro i totalitarismi e le convenzioni sociali che consideravano la donna in secondo piano, sembrano scritte da un contemporaneo e non da Sofocle, vissuto nel V secolo a.C., se è vero che ne hanno tratto ispirazione autori come Vittorio Alfieri e Adolfo Lauro De Bosis.

Esiste ancora oggi quell’impegno civile di cui Antigone si è fatta portavoce, così come hanno fatto intellettuali, scrittori, poeti, artisti e giornalisti che hanno rischiato e rischiano anche la vita per difendere gli ideali in cui credono? Penso a personalità capaci di scuotere le coscienze attraverso la propria voce e le proprie idee, come Ungaretti e Pasolini, Yves Bonnefoy e Derek Walcott, Seamus Haeaney e Anna Politkovskaja, solo per citarne alcune. Continua a leggere

Milo De Angelis, da “Biografia sommaria”

Milo De Angelis credits ph Fabrizio Fantoni

Cartina muta

Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere
Franco Fortini

 

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro.
Poi lei getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
né prendere né lasciare.» Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
… vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»

Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamio esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita…» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dir, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io… lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…
ora che stiamo per rinascere.

 

da Biografia sommaria, Mondadori, 1999 Continua a leggere

Eleonora Rimolo, “Prossimo remoto”

Eleonora Rimolo

Da Prossimo remoto, Postfazione Milo De Angelis, peQuod Edizioni, 2022

Come questo albero piccolo
che sta dentro una mano
tu mi sei cresciuto dentro
la gola: quando ingoio saliva
e lacrime tu distendi i rami,
perdi le foglie ed io soffoco
col concime asciutto tra i denti,
eppure impercettibile è questa
deglutizione, sogno automatico
che scuote il sonno e alza
il vento d’estate, muove le tende,
irrigidisce il palato secco
di germogli ma non abbevera
le radici dimenticate nel fondo
acido dello stomaco, solo spezza
di netto il tronco nodoso
delle tue gambe di cerva.

***

A volte la macchina del mondo si ferma
con un lungo fischio ed io non so
quale passato usare mentre riposi,
se tu mi sia remoto o prossimo. Come un fossile
la parola segnala il resto parziale di un organismo,
di una cosa che c’era e che c’è: la scheggia
di un tuo dente perduto a scuola da bambino,
l’anello che porti sull’orecchio destro
e tutto quanto ti fa vivo e primitivo
dentro quell’orma sul pavimento,
traccia ovale del risveglio, figura di partenza.

 

Nella postfazione a questi versi di Eleonora Rimolo Milo de Angelis scrive: “La poesia di Eleonora Rimolo è percorsa da una forza dirompente che si chiama Alterazione, scritto con la maiuscola per indicare la potenza arcaica di un archetipo”.

 

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Milo De Angelis presenta a Milano la sua traduzione del “De Rerum Natura” di Lucrezio

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 alla  Casa della Poesia di Milano (via Formentini 10) presentazione di LUCREZIO a cura di Milo De Angelis. Con Vincenzo Frungillo, letture di Viviana Nicodemo. 

La traduzione di Milo De Angelis del De rerum natura di Lucrezio – da poco uscita nella collana dello Specchio Mondadori – verrà presentata da Vincenzo Frungillo, poeta da sempre vicino al mondo classico, mentre l’attrice Viviana Nicodemo leggerà un’ampia scelta di brani, che mettono in luce alcuni temi centrali di questo immenso poema: la potenza della natura, il vortice degli atomi, l’indifferenza degli dei, la novità del messaggio epicureo, la condizione umana, le malattie e la peste di Atene, di cui Lucrezio fa un ritratto sconvolgente e attualissimo alla fine dell’opera.

L’incontro si propone di mostrare ancora una volta l’inesauribile presenza di questo poeta solitario e misterioso, di cui non sappiamo quasi nulla, vissuto nel primo secolo A.C. e poi dimenticato con l’avvento del Cristianesimo.

Dopo la scoperta del suo manoscritto, avvenuta nel 1417 a opera dell’umanista toscano Poggio Bracciolini, Lucrezio non ha cessato di lasciare un’impronta duratura nell’arte e nella letteratura dei secoli successivi – da Botticelli a Tiziano, a Tasso a Shakespeare, all’Illuminismo, a Shelley, Foscolo, Leopardi, fino all’esistenzialismo di Sartre e di Camus e alle correnti più vive e appassionate del pensiero contemporaneo.

Milo De Angelis, “De Rerum Natura”

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 Alla Casa della Poesia di Milano presentazione di Lucrezio a cura di Milo De Angelis.

Il De rerum natura, uno dei capolavori della letteratura latina, è opera ricchissima di temi ed episodi, che vengono affrontati con la violenza espressiva tipica di questo autore misterioso, Tito Caro Lucrezio, di cui si è persa ogni notizia biografica. Tutti noi ricordiamo per memoria scolastica le formidabili scene in cui la natura su manifesta in tutta la sua catastrofica potenza: voragini, incendi, uragani, terremoti, forza immense che sovrastano l’uomo e lo schiacciano, povera canna al vento.

Ma il De rerum natura è anche un trattato sulla vita degli animali, delle piante e del cosmo intero ed è un libro in cui l’uomo viene scrutato in ogni suo aspetto: fisiologico, psichico, morale, con affondi mirabili nelle zone più buie e drammatiche della sua vita interiore, come vediamo nelle pagine del quarto libro dedicate all’amore, tra le più crudeli che siano mai state scritte su questo tema grandioso.

Letture di Viviana Nicodemo

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Milo De Angelis, “Ritorno”

Pubblichiamo in esclusiva un estratto da : Ritorno, di Milo De Angelis, pubblicato con Vallecchi (Firenze) nel 2022.

Inconfondibile la voce del poeta che affronta il questo fondamentale volume il tema del ritorno come atto conoscitivo (discesa agli inferi) e di mutamento del sé.

OMERO

IX SECOLO A.C.

 

Partiamo dunque da Omero, leggendo il celebre episodio di Argo, nel diciassettesimo canto, che ho cercato di tradurre e di restituire alla tensione sentimentale che lo percorre, persino elegiaca, insolita in Omero.

Ulisse sta per varcare la soglia della reggia. Nessuno l’ha riconosciuto, finora, E anche più tardi le creature umane faranno fatica a riconoscerlo, chiederanno una prova, una garanzia, un segno, una vecchia cicatrice.

Argo no. Argo lo riconosce immediatamente. Ma non riesce a mostrarlo. È talmente grande la sua emozione da creare una paralisi, un blocco, un’assoluta incapacità di camminare e andargli incontro.

Riesce solo a muovere la coda e resta fermo lì, in quel mucchio di letame, pieno di pulci e dimenticato da tutti. Argo è attraversato da una dolcezza infinita e da un infinito dolore.

Muore così, all’ingresso della reggia, nel momento stesso in cui Ulisse varca la soglia, e la sua morte conduce alla rinascita del padrone.

Sono due nell’Odissea, le sentinelle del ritorno, come ha scritto la grande grecista Maria Grazia Ciani, e nessuna delle due è creatura umana.

Sono due: un povero cane dimenticato da tutti e un arco.

Il cane resta muto e esalando l’ultimo respiro restituisce il respiro a Ulisse.

L’arco, oggetto inanimato, si rianima tra le mani del legittimo proprietario e sembra quasi riconoscerlo, come uno strumento musicale che riconosce la mano antica e tanto amata (“toccò con la mano destra la corda, dice Omero, ed essa emise un suono bellissimo, come la voce di una rondine“).

Ecco dunque che il tema del ritorno si connette qui a un altro grande tema che percorre tutta la letteratura occidentale, ossia il tema del riconoscimento, (anagnòrisis) un tema che troviamo tante volte nella tragedia greca (Oreste e Ifigenia, Elena e Menelao), e poi in Dante e Shakespeare, nel Conte di Montecristo, nel Fu Mattia Pascal.

La bellezza di tale anagnòrisis e la sua forza amorosa sprigionata nel mondo mi spingono a pensare che ci sia un segreto legame tra il riconoscimento e la riconoscenza: dobbiamo essere grati a ciò che ci consente, una volta riconosciuto, di percorrere passo dopo passo i sentieri del nostro destino.

(Milo De Angelis)

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Alessandro Bellasio, presentazione a Milano

A Milano, sabato 4 giugno 2022, alle ore 18, Alessandro Bellasio presenta la silloge Monade (L’Arcolaio) e la raccolta di saggi Disappartenenza. Letteratura e ascesi, i primi due volumi della Trilogia dell’infrangibile, presso la Libreria Popolare di via Tadino.

Intervengono Milo De Angelis, Lorenzo Chiuchiù e Andrea Leone. Continua a leggere

Il “De rerum natura” nella traduzione di Milo De Angelis

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 10 maggio 2022 esce nelle librerie italiane un grande classico del pensiero e della letteratura: il DE RERUM NATURA di LUCREZIO (Mondadori, 2022) interpretato e riscritto da uno dei maggiori poeti del nostro tempo, Milo De Angelis.

Una traduzione attesissima, che ci permette di tornare a Lucrezio con una versione che ricrea fedelmente lo spirito e la tensione interna dell’esametro lucreziano come non era mai accaduto prima, con tanta poetica adesione.

Estratto dalla Prefazione
di
Milo De Angelis

Questa traduzione nasce da un lungo sodalizio con Lucrezio, che ha accompagnato tutta la mia vita: dalla tesina di Maturità al rapporto con il latinista Luciano Perelli, alle pubblicazioni scolastiche, alla rivista “Niebo”- che a Lucrezio ha dedicato un numero nel 1978 – e alle varie traduzioni apparse negli anni: un lungo tragitto fatto insieme, tante strade percorse e tante visioni comuni, quasi delle nozze poetiche, con promesse solenni, contrasti, riprese, abbandoni, ritorni.

D’altronde Lucrezio non ha un carattere facile, come è noto. È un uomo aspro, polemico, intransigente – caso raro tra i latini, che tendono spesso a una humanitas colloquiale – e appartiene invece alla razza dei grandi solitari, come Nietzsche o Campana, uomini che alla poesia hanno chiesto tutto, si sono assunti il rischio di una domanda totale e hanno fatto della poesia una questione di vita o di morte: non quindi un gioco o un esperimento ma una parola decisiva.

Di lui non sappiamo quasi nulla. Non sappiamo dove è nato, dove ha vissuto, cosa ha fatto nella sua vita. Questo può apparire sorprendente nel primo secolo avanti Cristo, il secolo d’oro della letteratura latina, il secolo di Orazio e Cicerone, ampiamente documentato dalla storiografia. Ma in fondo non c’è troppo da stupirsi. Lucrezio è un uomo isolato, un uomo fuori dalle dispute culturali del suo tempo, lontano dai circoli letterari e dall’eleganza dei neoteroi.

Lucrezio non è al passo con i tempi. Non parla con i poeti contemporanei, non entra nei luoghi mondani del “dibattito”. È un uomo fuori tempo, fuori modo, fuori luogo. Non si rivolge ai vicini di casa ma agli antichi, ai grandi sapienti greci che si sono interrogati perì physeos: sulla natura delle cose, appunto.

Parla con Eraclito, Anassagora, Empedocle, Epicuro, parla con coloro che sono stati la sorgente del pensiero e hanno lanciato una staffetta poetica lungo i secoli, hanno fatto viaggiare un testimone, un bastoncino di legno che passa da una mano all’altra, da una mente all’altra.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)

 

Nam saepe ante deum vitulus delubra decora
turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis exspirans calidum de pectore flumen.
At mater viridis saltus orbata peragrans
quaerit humi pedibus vestigia pressa bisulcis,
omnia convisens oculis loca si queat usquam
conspicere amissum fetum, completque querellis
frondiferum nemus adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,
nec tenerae salices atque herbae rore vigentes
fluminaque illa queunt summis labentia ripis
oblectare animum subitamque avertere curam,
nec vitulorum aliae species per pabula laeta
derivare queunt animum curaque levare:
usque adeo quiddam proprium notumque requirit.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)



Sovente, davanti agli splendidi templi degli dei,
ai piedi degli altari dove brucia l’incenso, si accascia un vitello
sacrificato e un fiume caldo di sangue gli esce dal petto.
La madre a cui è stato strappato percorre i verdi pascoli
cerca di trovare per terra l’impronta dei suoi zoccoli,
posa dappertutto il suo sguardo, spera con tutte le forze
di scorgere da qualche il figlio perduto. Resta immobile
alle soglie del bosco, lo riempie dei suoi lamenti disperati,
in preda all’angoscia torna indietro a cercarlo nella stalla.
Né i teneri salici né l’erba ricca di rugiada né i suoi amati
corsi d’acqua che scorrono a filo delle rive possono consolare
il suo cuore o scacciare la sua sofferenza improvvisa
e neppure la vista degli altri vitelli nei pascoli fecondi
riesce a distrarre il suo animo o alleviare la pena: lei cerca
l’unica creatura che conosce davvero, la sua!

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Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

De Angelis, “La parola che fa esodo”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Note in margine a Linea intera, Linea spezzata di Milo De Angelis

di Marco Marangoni  

 

Come si dice nella presentazione della quarta di copertina, questo nuovo libro di De Angelis ha per protagonista la memoria, in cui sembrano affiorare, da un tempo remoto e arcano, fantasmi dalla voce straniante. La tessitura lirica appare quella di un colloquio con le ombre, da sottosuolo; e il linguaggio si bilancia tra realtà e stati di drammatico pathos. E comunque in questo lavoro –dall’intenzione narrativa che articola una galleria di incontri emblematici-  De Angelis ha messo in opera, ancora una volta, forse il suo unico e vero tema: lo spazio inaugurale della parola poetica. Infatti, come già altrove, Linea intera, linea spezzata mette in luce proprio il prodigio dell’ispirazione; ed è quanto emerge direttamente attraverso una delle tante voci-demoni che affiorano in questo libro: “Io ho creduto/ nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora/ ti dico

vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo.”

La voce-demone, voce d’oltre confine -confine “sottile”, “tremendo”-  ha la legittimità del numinoso-oracolare e si fa segnale della poetica che è propria dell’autore, sottolineandone la specifica determinazione drammatica, e proprio a partire dal simbolismo inquietante di quell’ ”ultimo volo”.

 

Se l’itinerario poetico procede dallo spezzarsi del tempo lineare e dell’azzeramento di  ogni accumulazione di significati, la scena cui la memoria ritorna -ma non come a qualcosa di semplicemente antecedente- è questa: “sei destinato a scendere/ in un tempo che hai misurato mille volte/ ma non conosci veramente”; oppure: “l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,/ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora/guardi l’orologio”.

 

Il poeta ci dice che la poesia non si allinea col discorso che discorre di questo e di quello; non è una variazione comunicativa; essa, piuttosto, è prima o dopo la comunicazione in quanto tale: “giungono da un’altra mente,/ le parole, una mente lontana”; la poesia insomma comincia dal punto in cui il discorso comunicativo entra in crisi, non tiene.  E’ questo il punto in cui il senso di una totale contingenza viene avvertito come insostenibile, folle corsa: “Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura”. “Nulla ci appartiene” allora, tranne l’evento di questo confronto linguistico-poetico col nulla: “trasalimento di rime contro il nulla”. Il linguaggio poetico si presenta sciolto da ogni funzione ancillare, fino al limite di una identità tra significante e significato, cosa e parola.

 

Di qui la distanza netta che separa la poesia del poeta milanese da ogni altra che non sia radicalmente ispirata, e tanto più da ogni poetica strumentale o ideologica. In quest’ultimo caso è utile ricordare che De Angelis, con altri importanti poeti della sua generazione, si è impegnato, sul finire degli anni ’70, in una militanza poetica per restituire alla parola la sua autonoma dignità espressiva. E tanto quella militanza, diversa da quella dei movimenti ideologici, ha segnato il perimetro della sua poesia, che tra le tante voci-demoni di questo libro ne troviamo una proprio risalente allo “slancio delle assemblee antiche e dei cortei”, mentre chiede al poeta “da che parte stai?”; domanda rispetto alla quale c’è un’unica, categorica risposta: “la poesia non sta dalla nostra parte/ma in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno/resta intatto.”

 

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La trilogia della Gualtieri nella collezione Teatro/Einaudi

Paesaggio con fratello rotto di Mariangela Gualtieri è una trilogia di spettacoli messi in scena dal Teatro Valdoca nel 2005 con la regia di Cesare Ronconi: Fango che diventa luce, Canto di ferro, A chi esita.

La trilogia è uno dei più grandi affreschi del Teatro Valdoca.

In Paesaggio c’è il ritratto, l’istantanea, di qualcosa di attuale e invisibile. C’è un dolore che sembra riguardare soprattutto l’occidente: la spaccatura micidiale fra noi e l’anima del mondo, quell’energia intuita e sempre tradita, che ci tiene vivi.

di Milo De Angelis

“Da tanti anni sono vicino alla Valdoca, da tanti anni sento un’affinità di cammino e passione… ora in questo Paesaggio con fratello rotto ritrovo, magnificamente espressi, i motivi essenziali che ricorrono fin dai primi tentativi del 1983… il senso di una domanda… un incalzare di domande… quella della Valdoca è una poesia interrogativa… piú vicina a Leopardi che a Montale… è una poesia di tremore e di urgenza… e qui nel Paesaggio la Geisha, la Ragazza Uccello, il Macellaio incarnano tutto questo chiedere brancolante. Continua a leggere

A un anno dalla scomparsa, Milano ricorda Majorino

Giancarlo Majorino

Serata “GIANCARLO MAJORINO”
a cura di Amos Mattio

 

Giovedì 2 dicembre 2021, alle 19:30, alla Casa della Poesia di Milano (nuova sede in via Formentini 10) omaggeranno il poeta e l’amico Giancarlo Majorino: Giusi Busceti, Milo De Angelis, Tomaso Kemeny, Angelo Lumelli, Amos Mattio e Mario Santagostini.

Viviana Nicodemo leggerà dalle “Ricerche erotiche”.

Giancarlo Majorino è stato poeta, fondatore e Presidente dalla Casa della Poesia di Milano fino alla sua scomparsa, nel 2021.

– DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE: https://youtu.be/CHK01Zpvf9M

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Omaggio a Franco Loi

Franco Loi

C  O  M  U  N  I  C  A T  O      S  T  A  M  P  A

 

Riapre il 4 novembre 2021 in presenza la Casa della Poesia di Milano con una lettura dedicata a Franco Loi.

Come sempre l’ingresso è libero, ma a causa delle misure di sicurezza anti-covid, i posti sono limitati, per cui per partecipare alla serata, sarà necessaria la prenotazione.

L’evento sarà trasmesso in streaming sul Canale Youtube della Casa della Poesia di Milano.

Giovedì 4 novembre 2021, ore 19:30 – LABORATORIO FORMENTINI – Franco Loi e l’infinita giovinezza

a cura di Milo De Angelis

Omaggio a Franco Loi, con una scelta di poesie dal primo capitolo de “L’angel”.

Letture di Viviana Nicodemo    Continua a leggere

Per Mario Benedetti, presentazione a Pordenonelegge

IL LIBRO

Sono 45 i poeti e i critici che nel libro Per Mario Benedetti portano un ricordo del poeta friulano, un commento o un’ipotesi di interpretazione di una sua opera, ripercorrendo momenti della sua vita, incontri e passaggi dai suoi libri. Una testimonianza d’affetto e allo stesso tempo un orizzonte di risposte a una poesia che ha saputo affascinare e convincere gli appassionati al di là delle appartenenze generazionali e degli orientamenti della poetica personale.

Il libro, Per Mario Benedetti uscito con Mimesis nel 2021, sarà presentato in anteprima al Festival di  Pordenonelegge venerdì  17 settembre alle 21.00 alla Libreria della Poesia di Palazzo Gregoris,

Interverranno Alberto Bertoni, Maria Borio, Milo De Angelis, Stefano Raimondi e Luigia Sorrentino.

Presenta Alberto Garlini.

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Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

Mario Benedetti
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Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

VARI∃AZIONI

IL FESTIVAL

A Rotondi, in provincia di Avellino, dal 27 al 29 agosto si terrà la prima edizione di Vari∃Azioni, iniziativa promossa dall’amministrazione comunale di Rotondi e dal sindaco, Antonio Russo, in collaborazione con la cooperativa Altre Voci e la Samuele Editore e con il patrocinio dell’Accademia Mondiale della Poesia e della Fondazione Greco Morra per l’Arte Contemporanea.

Direzione artistica: Marco Amore
Editore e Direttore della Sezione poesia: Alessandro Canzian

GRAPHEIN

Parola e Immagine hanno una radice comune, non a caso i greci adoperavano il verbo graphein per indicare lo scrivere e il dipingere. Analogia che diviene ancor più evidente quando parliamo del legame tra le arti figurative e la poesia. Come recita una famosa espressione di Orazio: ut pictura poesis (come nella pittura così nella poesia). Frase che potrebbe essere assimilata all’imperativo categorico della narrativa moderna: show, don’t tell  (mostra, non dire).

 

La manifestazione culturale indaga il rapporto tra linguaggio poetico e visivo, con particolare attenzione alle ricerche di stampo interdisciplinare. Un momento di confronto cui hanno aderito alcuni dei maggiori poeti e artisti contemporanei, nato dalla volontà di contaminare il tessuto sociale e urbano del comune di Rotondi attraverso conferenze, reading di poesia, esposizioni, proiezioni di video tematici, interventi performativi e installazioni site-specific.

Alcuni protagonisti del Festival:

Un importante lavoro di squadra che abbraccia l’intero territorio rotondese, la sua storia, gli abitanti e le tradizioni, alla luce di un festival che vede Rotondi farsi protagonista del panorama artistico nazionale e internazionale, grazie all’adesione di nomi di altissimo livello. Tutto parte dalla necessità di rispondere a un bisogno culturale che diviene sempre più pressante all’interno del nostro paese e che riguarda non solo l’arte contemporanea, di cui Rotondi rappresenta una tappa fondamentale per gli operatori di settore, ma anche la poesia e più in generale le arti creative. Proseguiamo nella profonda e radicata convinzione che sia il linguaggio dell’Arte e della Poesia la chiave di volta e di interpretazione del mondo. Di tutti i mondi. Anche di quelli apparentemente lontanissimi tra loro”.

Antonio Russo
Sindaco del Comune di Rotondi

Da anni il Comune di Rotondi vede l’arte contemporanea come lo strumento più idoneo a raccontare la storia, le tradizioni, il folklore e le produzioni locali; a costruire un vero e proprio marchio del luogo. Le numerose rassegne dedicate agli artisti di via Varco a partire dal 2014 ne sono una chiara testimonianza. È con questa consapevolezza che intendiamo lavorare sul territorio rotondese dando vita a forme di narrazione visiva in grado di raccontare al mondo la nostra storia e la nostra cultura: un’idea strategica di sviluppo a lungo termine che ambisce a utilizzare l’arte come mediatore tra il paese, i suoi abitanti e i visitatori, seguendo il principio di slow art per investire su esperienze di turismo non stagionale”.

Claudio Vittorio
Consigliere delegato e Assessore alla Comunità Montana Partenio-Baianese-Vallo di Lauro

Sentiamo parlare spesso della funzione sociale dell’arte e del suo farsi forma di comunicazione universale: un compito che non può esaurirsi con l’adulterazione dell’opera in mero strumento di denuncia personale legato a rielaborazioni arbitrarie di contingenze storiche, funzione che l’artista svolge in maniera quasi accidentale, ma che investe la parola poetica della responsabilità di un impegno civile indifferibile contro l’illegalità delle life politics e tutte quelle energie negative che operano contro la bellezza che resiste nel mondo”.

Marco Amore
Poeta e Direttore Artistico del Festival

Un momento importante che mette a confronto alcuni dei protagonisti più importanti della poesia italiana contemporanea. Da sempre la nostra nazione e cultura è stata abitazione e trincea di una letteratura altissima e combattuta, che oggi trova diverse critiche per la deriva più o meno consapevole della critica. Dove tutto appare poesia, dove tutto giustifica il palco di Castelporziano che sempre si ricrea nel suo crollo, noi abbiamo cercato la costruzione di un dialogo attraverso le voci e il dibattito. Non solo letture, ma punto di riflessione. Noi con questo Festival vogliamo mettere un punto a una riflessione di cui sentiamo sempre più il bisogno”.

Alessandro Canzian
Editore e Direttore della Sezione Poesia Continua a leggere

Milo De Angelis al Festival Letterature

Milo De Angelis/ Credits ph. Viviana Nicodemo

Oggi, sabato 24 luglio alle 21:00 il poeta Milo De Angelis aprirà la quarta serata del Festival Internazionale di Roma, Letterature. A seguire i racconti di Mario Desiati, Muriel Barbery, Nathalie Léger e Assaf Gavron.

Completamente rinnovato il Festival a cura di Andrea Cusumano e Lea Iandiorio con la regia di Fabrizio Arcuri, torna per la sua Ventesima edizione nella ambientazione dello Stadio Palatino. La serata conclusiva di domenica 25 luglio inizierà con la riflessione “a braccio” di Erri De Luca, a seguire i racconti di Erri . Concluderà la serata e chiuderà il Festival l’intervento di Stefano Massini.

Qui l’intero programma del Festival.

Il tema di Letterature: “Leggere il mondo” attraverso gli interventi di poeti e scrittori, ma anche di altre voci, non solo della letteratura e della poesia.

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Al via Letterature – Festival Internazionale di Roma 2021

La storica manifestazione culturale della Capitale LETTERATURE – Festival Internazionale di Roma 2021 fa parte del programma dell’Estate Romana 2021, organizzata da Zètema Progetto Cultura, torna per la sua Ventesima edizione nella cornice dello Stadio Palatino, con un format del tutto rinnovato.

Cinque serate, a cura di Andrea Cusumano e Lea Iandiorio, con la regia di Fabrizio Arcuri in cui viene declinato il tema “Leggere il mondo” grazie a poeti e scrittori e tante altre voci, non solo della letteratura e della poesia, che si esprimono su questo argomento, portando la loro esperienza e la loro interpretazione sul tema.

Concepito come uno spettacolo tra le arti, un’esperienza in cui le diverse espressioni artistiche si intrecciano in un dialogo connesso, grazie alla nuova location dello Stadio Palatino che rende lo spazio protagonista, un tutt’uno con la narrazione. In questo nuovo contesto culturale, cuore pulsante sono l’opera dei MASBEDO (duo artistico formato da Nicolò Masazza e Jacopo Bedogni) e lo spazio sonoro di Marino Formenti (indicato dal Los Angeles Times come il “Glenn Gould del XXI secolo”), danno vita ogni sera a un evento esperienziale sempre nuovo.

 L’appuntamento è dal 21 al 25 luglio.

IL PROGETTO

A cura dell’Istituzione Sistema Biblioteche Centri Culturali di Roma Capitale, promosso da Roma Culture, il Festival vedrà la partecipazione di autori italiani e internazionali del calibro di Roberto Saviano, Emanuele Trevi,  vincitore del Premio Strega 2021, Milo De Angelis, Elisa Biagini, Carmen Maria Machado, Aixa de la Cruz e Katharina Volckmer, Gianrico Carofiglio, Roberto Alajmo, Erri De Luca, Patrick McGrath, Roberto Venturini, Muriel Barbery, Cristina Morales e Mario Desiati.

L’accesso è gratuito ma su prenotazione, essendo la capienza massima di 500 posti.

UN’ESPERIENZA LIBERATORIA DOPO IL LOCKDOWN

“Dopo questo lungo periodo passato distanti, con i nostri rapporti sociali, professionali, le nostre relazioni internazionali e familiari ridotte ad una comunicazione davanti allo schermo di un computer, abbiamo voluto sublimare questa esperienza passando da uno schermo pandemico ad uno schermo poetico” ha dichiarato Andrea Cusumano, curatore del Festival insieme a Lea Iandiorio. Che aggiunge: “Letterature è un’esperienza dove la parola si fonde con lo spazio, dove l’arte, intesa come immagine, suono, scrittura, si manifesta in un evento unico ogni sera. Gli scrittori e le scrittrici che incontreremo, in questa ventesima edizione, ci restituiranno la loro idea di come la scrittura e la letteratura possono, in questo momento di cambiamento, aiutarci a reinterpretare il nostro rapporto con gli altri, l’economia, la salute, l’ambiente. Ovvero a leggere il mondo che ci aspetta.”

Il palco è stato eliminato, in modo da dare un peso maggiore alla fisicità degli autori che saranno presenti al Festival. “E poi abbiamo voluto immergere il festival dentro l’installazione artistica, facendo innanzitutto una riflessione sullo spazio e sul luogo in cui incontrarsi finalmente in presenza– ha aggiunto Cusumano- la ‘finestra sul mondo’ proposta dai Masbedo riprende il tema di Letterature per sublimare attraverso la bellezza e la poesia il tempo che abbiamo passato davanti allo schermo. Ma stavolta, anche grazie alla letteratura, sarà un’esperienza liberatoria.”

 

PROGRAMMA COMPLETO

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Milo De Angelis, “Poesia e destino”

NOTA INTRODUTTIVA DI MILO DE ANGELIS

Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro – intatto, quasi intoccabile dal tempo – e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di Poesia e destino sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. E’ come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate, la stessa di Millimetri, per intenderci, che è stato scritto nei medesimi anni. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola. Me ne sono accorto trascrivendo il libro in un file per necessità editoriali. A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni. Dovevo leggere e rileggere, farmi aiutare dall’insieme della pagina.

E tuttavia questa antica furia mi piaceva e mi piace ancora adesso. E forse può colpire chi legge Poesia e destino in questo tempo. Specialmente se ricorda cosa erano quegli anni – il libro è stato scritto di getto nell’estate del 1981 – dove dominavano le scritture sociali alla ricerca di immediato consenso e dove alcune strade notturne erano sentite vicine alla follia e venivano frequentate con circospezione, divieti di transito e di sosta. D’altra parte erano ancora sconosciuti alcuni autori che hanno nutrito queste pagine – da Maurice Blanchot a Paul Celan, da Ion Barbu a Marina Cvetaeva – e con quelli più noti, con Nietzsche o Rimbaud, non era ammessa una simile intimità, un’adesione così gridata da sembrare fratellanza.

Il libro è diviso in tre parti, come vedrete. La prima riguarda i nomi suddetti, con particolare insistenza sullo sfondo greco in cui sono situati. Quella successiva – la mia preferita – è una riflessione ad alto tasso metaforico sul tema dell’impresa, dell’eroismo solitario e del pericolo mortale che ci nomina e ci azzanna. La terza percorre l’immenso universo indiano, cercando un arduo punto di contatto tra i suo Assoluti e l’unicità della singola voce. Ma in tutte e tre circola l’alta tensione di cui dicevo prima, perché la vera poesia naviga in mare aperto e prima o poi dovrà interrogarsi sulle ragioni che l’hanno spinta a veleggiare, sul porto che ha lasciato, su quello che l’attende, sul naufragio che all’improvviso può cancellarla.

ottobre 2018 Continua a leggere

A Milo De Angelis, nel giorno del suo settantesimo compleanno

Milo De Angelis, ph. Giampaolo Lai - Ortona, 1986

Oggi 6 giugno 2021, è un giorno importante. Ricorre il settantesimo compleanno di uno dei maggiori poeti europei del nostro tempo: Milo De Angelis.

Auguri Milo, Buon Compleanno!

Lo rivedo così, ritratto in una foto a me particolarmente cara scattata da Giampaolo Lai che suggella il nostro primo incontro a Ortona, nel 1986. Milo era di fronte a me. Era estate, l’estate di una  notte infinita. L’estate in cui restammo svegli e parlammo di poesia per tutta la notte. Lo ricordo seduto, nello spazio immenso della poesia, nello spazio infinito di ciò che è eterno e che non avrà mai fine.  Il libro che mi regalò era “Somiglianze” (Guanda, 1976). La dedica per me in calce al libro: “A Rò, per più di una vita”. Rò, (Rhò, Rho), è il nome di un comune in provincia di Milano. Rò, un nome notevole per me, perché Rò non è solo uno dei comuni più antichi della Lombardia,  è anche un nome affettivo, che stabilisce un legame profondo e identifica l’unicità del “luogo” in sé, della persona, di ogni persona. E, per Milo De Angelis, – come leggerete nella poesia che segue – l’unicità fondatrice del “luogo” configura l’atto poetico,  il gesto atletico, il rito arcaico, antichissimo, che si ripete come un dovere esistenziale e originario: “per più di una vita”.

(Luigia Sorrentino)

 

La somiglianza

Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?

Prese la rincorsa, tese il braccio…

Da: Somiglianze, Milo De Angelis, (Guanda, 1976)

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Alla Casa della Poesia di Milano con Milo De Angelis e Viviana Nicodemo per rivivere gli ultimi giorni di vita di Sylvia Plath

Milo De Angelis e Viviana Nicodemo

Evento a cura di Milo De Angelis, organizzato dalla Casa della Poesia di Milano, 10 giugno 2021, 19:30 –  voce recitante Viviana Nicodemo.

La serata sarà trasmessa sul canale Youtube della Casa della Poesia di Milano.

INTRODUZIONE DI MILO DE ANGELIS

Proponiamo questa sera alcune testimonianze che riguardano l’ultimo periodo della vita di Sylvia Plath. Sono poesie, soprattutto, ma anche brani dell’epistolario – in particolare le lettere alla madre – e un testo di Ted Hughes a lei dedicato e intitolato Lo sparo, tratto dal suo libro Lettere di compleanno. Qui siamo nel 1962 e all’inizio del 1963. Qui siamo vicini alla morte, se pensiamo che Sylvia Plath si uccide con il gas lunedì 11 febbraio del 1963.

Qui tutto parla di morte. Ma anche di poesia, Ma anche di perfezione. Morte, poesia, perfezione. Un trittico potente e antico, un trittico che viene dal mondo classico. Si direbbe che proprio sulle soglie del disastro, sull’orlo del baratro la poesia della Plath raggiunge il suo culmine. L’alto e il basso si congiungono. La vetta e il precipizio coincidono. Il sublime e la caduta tra le rocce si stringono in un patto inviolabile, in un’alleanza finalmente raggiunta. Mai la poesia di Sylvia Plath era stata così perfetta. Mai era stata così perentoria, così definitiva, capace di congiungere la vita e la morte, le immagini di un’infinita, trepidante bellezza con le forze oscure e spettrali della fine, la potenza di un fiore con il cadavere dei bambini acciambellati, l’alba dei fiordalisi e i papaveri di ottobre con il sapore aspro del Talidomide.

Sylvia Plath appare qui come una guardiana dell’Ade, una sacerdotessa della Morte, una figura sacrificale che rinuncia alla sua esistenza personale per avere in cambio la perfezione di un verso, che si distrugge come essere umano per rinascere come poeta, per giungere a noi soltanto come poeta, come parola compiuta e impeccabile. E questi versi hanno la forza allucinata di un congedo che da una parte è netto, secco, ultimativo – non c’è mai nulla di patetico nei congedi della Plath – ma dall’altra porta con sé tutte le presenze palpitanti della vita intravista e perduta.

Dopo il naufragio, Sylvia non ha voluto raggiungere a nuoto la riva ancora una volta, non ha voluto sfuggire ancora una volta alla morte che la spiava fin da quando era bambina. Il mosaico si è frantumato, la persona chiamata all’anagrafe Sylvia Plath, trent’anni, nata a Boston sotto il segno dello Scorpione, la persona Sylvia Plath si è spaccata in mille frammenti, la sua anima non ha retto gli urti violentissimi della sorte.

Viviana Nicodemo in un frame della sua lettura, drammatica e indimenticabile di Sylvia Plath, 10 giugno 2021

 

Il colpo di scure si è abbattuto sul vetro fragile di una giornata. Ma le tessere di questo mosaico, ciascuna di queste tessere è diventata una parola, un’immagine saettante capace di restituirci un’altra verità che non è più soltanto quella di una vita dolorosa ma che, passando attraverso questo dolore, è diventata la bellezza rivelatrice della sua poesia.

Poesia che ora ascolterete nella traduzione di Anna Ravano.

La voce è quella di Viviana Nicodemo. Continua a leggere

L’ “Odissea” di Kazantzakis, evento on-line

Giovedì 20 maggio 2021 – 19:30

L’ “Odissea” di Kazantzakis – memory lane + anteprima (80′)

LINK PER DIRETTA VIDEO: https://youtu.be/MS3L729RQW0

La serata di oggi, 20 maggio 2021, organizzata dalla Casa della Poesia di Milano è a cura di Milo De Angelis.
Voce recitante: Viviana Nicodemo.
Sarà presente Nicola Crocetti.

In occasione della sua uscita in volume (Crocetti, 2020), riproponiamo la serata del 15 maggio del 2019, in cui Milo De Angelis presentava l’”Odissea” di Nikos Kazantzakis nella traduzione di Nicola Crocetti, che ha lavorato per molti anni a questo magnifico poema dello scrittore greco (autore tra l’altro di “Zorba il greco”) e ora finalmente è giunto al termine di questa impresa titanica.

L’”Odissea” di Kazantzakis, pubblicata per la prima volta nel 1938 e composta di 24 canti – come le lettere dell’alfabeto greco e come i poemi omerici – è ricchissima di invenzioni linguistiche e neologismi che hanno fatto disperare tutti i traduttori del mondo. Ma in compenso ci immerge in una scena epica grandiosa, rinnovando fin dalla radice il suo protagonista, Ulisse: tornato a Itaca e annoiato dalla monotona atmosfera del luogo, egli riprende il suo infinito viaggio e cerca un nuovo significato per la sua vita e per la nostra.
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Giulia Napoleone, “Il segno e la poesia”

Giulia Napoleone. Galleria IL PONTE, anteprima mostra “nero di china”, Firenze, 18 gennaio 2020. Credits photo, Fabrizio Fantoni

COMUNICATO STAMPA
Biblioteca cantonale di Lugano
Giovedì 27 maggio 2021
Ore 18.00
Inaugurazione della mostra:
Il segno e la poesia.
25 libri d’artista di Giulia Napoleone
___________

Da tempo un legame di amicizia lega la Biblioteca cantonale di Lugano a Giulia Napoleone. L’artista è già stata infatti ospitata in passato in questi spazi con alcune opere. Del resto, col suo lavoro di meditazione sulla pagina scritta e sulla parola, si pone in linea perfetta con le scelte espositive dell’istituto che, negli ultimi anni, mirano a indagare questo particolare aspetto della creatività.

Da queste considerazioni è nato il desiderio di collaborare in vista della realizzazione di una mostra.

Giulia Napoleone ha così appositamente creato per la Biblioteca
cantonale di Lugano 25 libri d’artista.

Giulia ha scelto una serie di poeti, inserendo in queste nuove meditazioni molti dei suoi consueti compagni di viaggio e numerosi altri amici, tra cui diversi ticinesi: Adonis, Annelisa Alleva, Antonella Anedda, Marco Caporali, Maria Clelia Cardona, Massimo Daviddi, Roberto Deidier, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Pietro Montorfani, Alberto Nessi, Elio Pecora, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Rocco Scotellaro, Luigia Sorrentino, Brunello Tirozzi, Maria Rosaria Valentini, Marco Vitale, Simone Zafferani.

Sono nati così gli splendidi libri d’artista esposti a Lugano per la prima volta, una collezione di opere che si distinguono per varietà di formato e soggetti, la cui unicità risiede principalmente nel fatto che Giulia Napoleone non ha soltanto realizzato le immagini, ma ha anche composto le pagine, individuato e trascritto i versi, scelto con cura gli elementi fisici – carta, matite, inchiostri… – che dovevano accompagnarla in questo lavoro. Continua a leggere

Milo De Angelis e Mario Benedetti

 

 

PERCHÉ POETI IN TEMPO DI POVERTÀ?

PPoeti, 12. Milo De Angelis e Mario Benedetti. A cura di Stefano Giovannuzzi. Un percorso di avvicinamento alla poesia moderna e contemporanea, XIII edizione, 2020-21.

L’appuntamento è per oggi, martedì 4 maggio, alle ore18. Poesia italiana contemporanea Milo De Angelis e Mario Benedetti. A cura di Stefano Giovannuzzi.

Su piattaforma Zoom e sulla pagina YouTube “Voci lontane, voci sorelle”.

EXODOS

Arrestiamo, per un attimo, la corsa
ritmata di questa maratona
guardiamo il foglietto del calendario
con i gatti, in cucina.. Erano tanti
i ragazzi giunti in casa con le loro mani
desiderose di festa, le tartine, gli amaretti.
Tu guardavi smarrito i ritratti alle pareti
che ti sussurrano non è difficile, non è
difficile non è difficile, basta uscire
sul balcone e fissare una macchina ferma,
fissarla a lungo, tracciare una linea
verticale tra te e lei, chiudere gli occhi.

Milo De Angelis, da Linea intera, Linea spezzata, (Mondadori, 2021)

 

______

 

E’ STATO UN GRANDE SOGNO VIVERE

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.

Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.

Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,

il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

Mario Benedetti, da Umana gloria, Tutte le poesie, Garzanti, 2017

Piero Bigongiari, “La lama della verità”

Piero Bigongiari

Vale la pena di rileggere oggi le poesie di Piero Bigongiari poeta fra i maggiori del Novecento, pubblicate da Vallecchi nel 2021 con il titolo “L’enigma innamorato” (Antologia, 1933-1997) a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, con l’introduzione di Milo De Angelis.

Intenso e profondo il ricordo di De Angelis dell’amico e maestro Bigongiari che scrive: “I versi di Piero Bigongiari avevano il potere di imprimersi subito nella mia mente. Erano – e rimangono – sapienti, fulminei, perentori, capivi di entrare nelle zone più profonde, di rovesciare ogni luogo comune e trasformarlo in sentenza. Hanno dentro di sé la luce del paradosso e la lama della verità.”

 

A LABBRA SERRATE

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un disco pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?,
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne
come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divaria dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

15 aprile 1944

 

INNO PRIMO

Se è durare o insistere, non oso,
le miche ancora splendono, o s’oscurano,
i paesi ritornano visioni,
il falco che ha predato a lungo i cieli
su un abbaglio di messi, di deserti,
di vetri dietro cui spiano fanciulli,
è morto sulla strada impolverata.

Nella memoria quello che d’eterno
s’intorbida o si schiara, non tentarlo:
segui le tracce lievi, le più rare,
il fil di fumo, l’allegria di un merlo;
non puoi tenerlo, e pure ti sostiene,
l’abisso disperato per cui speri,
e se è un vuoto lo ieri, un vuoto quello
che al tuo occhio s’illumina, ma, vedi,
fiorisce, si diffonde, cretta i massi
più densi, si dirama, esplode, è quello
che diroccia il futuro e ti fa strada:
le valli si riempiono del suono
delle valanghe, si ripete il tuono
di giogo in giogo, è il fulmine che lapida.

Dove passasti ritornare è come
non più pensare d’essere, ma esistere:
ritrovare la strada, il vento torbido
della mattina che ritorna luce,
la rada gioia che infittisce se altra
gioia vi mesci, fine lieve gioia
d’un amore deciso, raccapriccio
d’un amore reciso: tutto, vedi,
ti abitua a distaccarti un po’ per volta
dal crudo magma che t’involge e soffoca.

Nella memoria è un che d’eterno, cedilo
cedilo alla memoria se rivedi
l’orto tornato al sole, se le labbra
ancora tormentarle riodi amore,
abbandónati a questo inconsistente
pulviscolo di cose e di pensieri,
abítuati all’inferno dell’effimero:
ieri è già eterno se altro tempo cade
dal suo cielo e vi porta visi, cose
fuggiasche nella loro lenta traccia;
questa la loro libertà: seguire
lievi il declino, dirizzarsi dentro
la loro gravità che le raccoglie
e le figge quaggiù dentro la ghiaccia
senza un grido; ma è un cielo che si semina
e si rapprende qua dove la brina
non regge, dove migrano le nuvole,
sui campi in cui la neve già s’incrina.
E già il tempo scolpisce fitto e lieve
il suo passato, l’impeto suo incupa
le forre, arrossa le orbite stellari,
strappa dai casolari qualche squilla,
e le erme se hanno un volto, è un volto ambiguo:
non volgerti di qua, la strada è quella
dove io non sono, dove tu non sei,
dove parla più arguto il vento esiguo.

13 – 22 febbraio 1953
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Vittorino Curci, Poesie (2020-1997)

Vittorino Curci

DALLA PREFAZIONE DI MILO DE ANGELIS

L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene antiche e il suo eterno «primo ottobre nel cortile della scuola», il suo giocare «a morra con le ore della notte». Ma non è l’infanzia crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta. È un inizio incessante in cui siamo immersi, quello che ha ispirato un momento esemplare di quest’opera («Se penso al mattino del creato/ quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta/ io sono contento di tornare sui miei/ passi…») e sollecita nel profondo la sua ispirazione, ponendosi come continuo esordio o come rinascita dopo la caduta e accendendo una corrente impetuosa che scorre tra le righe nei momenti dello sconforto, della sconfitta, dell’essere vulnerabili alle potenze del cosmo: quando «il tuo mandala sarà disfatto/ al primo sogno di vento», ecco che un altro vento misterioso scuote il disfacimento e lo consegna alla metamorfosi. Così il fascino di questa poesia è un soffio polifonico che raccoglie in sé diverse tonalità – dall’elegia alla riflessione sapiente, dall’invettiva alla supplica – per ricrearsi continuamente dalle sue ceneri, che sono le ceneri personali ma anche quelle della Storia: è una prospettiva vasta e generale, un’inquadratura in campo lungo, uno sguardo nitido e insieme visionario.

viaggio nel mezzogiorno

sono reperti del futuro – spugne e cavi d’acciaio
piante infestanti in decomposizione, marmi
policromi, scampoli di pelle conciata.
sono, per certi versi, pensieri sbriciolati
dopo quattro inverni passati al buio – aria
che qualcuno potrà respirare
giungendo qui da lontano.
la scatola di vetro è un display di materiali poveri
e merci di valore
al primo sparo gli uccelli scappano dal cielo
il loro sbattere di ali è così umano, così vero

l’anno è il millenovecentocinquanta
il presidente de gasperi è in visita a matera.
in una trance che dura mesi, come se il verbo
scrollare sanguinasse fino all’alba, sorvoli
la tua prigione cavalcando una corda
di tramontana.
«io non so cosa accadde prima»

sei all’ultima stesura. solo negli oggetti hai fede.
nelle scarpe spalmate di grasso.
nella luce dei neon sotto il ponte.
nella kodak a soffietto di tuo padre.
per non morire come un lombrico,
da un grumo di sillabe, da un parcheggio interrato
gattoni fino a casa

quando esce da una di quelle abitazioni malsane
il presidente è sul punto di svenire.
il verdetto, quindi, collide con la falsa riga
con le stimmate di chi soffre in silenzio
con gli affanni di una vita.
nella cripta dei tuoi segreti
chi legge dal futuro ha la sua porzione di luce

***

salvatore sciarrino: “canzona di ringraziamento” per flauto (1985)

potremmo tracciare le linee del collo
e sarebbe lo stesso imbarazzo che provo
con chi altro da me si aspetta.
nella traversata la barba e i capelli
crescono due centimetri al giorno.
gli oggetti fuori posto e la cascaggine
mi impediscono il ritorno.
pure questa luce caravaggesca…

non riconosco i luoghi, è tutto così diverso.
guardate l’aratura irregolare dei fogli
le stazioni e i fiori di gelsomino
che collidono col mondo.
non vince mai nessuno, e sei costretto
a ricominciare daccapo guardando, come
sempre hai fatto, a chi non ha nient’altro
che il suo respiro

ma rovesciamo il ragionamento
e dotiamoci di coraggio.
la realtà non corrisponde a niente

***

brancola ogni forma di obbedienza
in questa sera bituminosa di febbraio.
tutto sarà fatto con calma,
dalla veglia in poi, dalle istruzioni
al ventottesimo giorno.
il nostro sabotaggio del reale
procede senza intralci.
abbiamo lune tatuate sul petto
e la capacità di intuire
il significato di parole sconosciute.
stiamo facendo il possibile
per adattarci ma non è facile.
ieri, domenica, mentre
traslocavamo per la terza volta,
abbiamo ricostruito a memoria
la nostra casa

***

albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie

sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno

la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie

***

un bambino dietro una porta a vetri
guarda la strada coperta di neve.
lì dove torniamo
il senso raggruma nel bianco

volevamo che fosse così
il mondo, un luogo immaginato e vivo
come l’arte che pulsava alle tempie.
ma a furia di togliere ci è rimasta
la fortuna… e promesse come brividi…
scene mute che ci consumano…
cani che abbaiano in lontananza
arruolati nel sogno

***

prossimità del bene

ciò che si presta alla discussione è niente
i morti sono stati dimenticati
e i vivi si accontentano di essere vivi.
oh quanto questo oscuro brusio
intorno a noi che fummo
ci restituisce il bene
di chi credette in noi, le donne e gli uomini
che ci tenevano in braccio
sul treno in corsa dell’avvenire

c’è, ci deve essere, un modo per piangere
e non lasciarsi andare alle cose
inventate, qui dove non c’è anima viva

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Sanda Voïca su “Olympia”

Luigia Sorrentino, Credits ph Angelo Nitti

NOTA DI LETTURA DI SANDA VOICA

La poesia di Luigia Sorrentino scaturisce dalla linea di una soglia senza fine: da un presente allargato, senza limiti, ma che non è solo vita quotidiana, e che abbraccia sia il passato ( l’antico) sia il futuro (l’avvenire). Quanto al quotidiano, è il nostro mondo visibile, ma anche un altro, invisibile, che la poeta ci fa vedere.

Attraverso immagini oniriche, allucinatorie, irreali, inaspettate, insolite, ammalianti, abbaglianti e coinvolgenti, a volte leggere, a volte pesanti, che non sono esenti da dettagli realistici, concreti e attuali, seguiamo il percorso della poeta. Porta verso… la fonte della vita, ma anche della morte, e ognuna di esse coincide con la fonte della scrittura, della poesia: « quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia, / rapida discese verso il mare / l’avvicinamento carico nel vento / lì dove il rosa antico delle rose / e le ginestre trascinate vanno /nel bosco sempre più/siamo sempre più vicini al cielo / la muratura porosa ogni cosa / salda al giallo, strato su strato » (p. 18).

Questa città, Olimpia, è solo il luogo di origine e… fine di tutto e di niente. Ma anche di tutto e di niente. La sua stessa vita, la vita della poeta, il suo corpo, la sua scrittura sono già lì. Ma anche quella dei suoi cari, di coloro che le sono più vicini, che sono scomparsi – e anche degli sconosciuti.

Attraversiamo questa raccolta come un’insolita bolgia – sempre dall’aspetto dantesco, ma dove inferno, purgatorio e paradiso sono uno solo. Le diverse parti del libro, che possono essere lette separatamente, riescono a formare un insieme specifico. La poeta trova i mezzi per portarci nella sua poetica “città”; non restiamo a lungo alle sue porte.

Se l’antichità è convocata, se Hölderlin è presente anche lì, attraverso Iperione, la caduta, è perché la nuova città, simboleggiata da Olimpia, è solo la nuova poesia di Luigia Sorrentino. Il suo libro non è un’allegoria, l’autrice riesce a creare il suo universo poetico molto particolare. Immagini e idee sono strettamente legate: non è una dimostrazione, ma un’installazione, o una costruzione sui generis, man mano che la scrittura procede si crea un mondo. Senza un piano preparatorio, ma la città rimane perfettamente immobile.

Per molti versi, questo libro ci ricorda l’altro libro di Dante, Vita nuova, soprattutto attraverso la rinascita – attraverso i volti, le forme, i capelli, soprattutto – la memoria.

Le poesie sono apparentemente di difficile accesso, non facili da afferrare, ci giriamo intorno, a volte sconcertati. Ma una volta entrati, siamo sedotti: rimaniamo, insieme alla poeta, in uno splendido vagabondare, in una città sconosciuta. Grazie a questa lettura, condividiamo l’esperienza della scrittura poetica stessa, un’esperienza in cui alcuni degli elementi che vi entrano sono già lì, ma ce ne sono altri che dobbiamo andare a cercare noi stessi. C’è un orientamento bidirezionale permanente – ad ogni passo possiamo andare a destra o a sinistra. E prendiamo miracolosamente entrambe le direzioni allo stesso tempo – ed è questo che ci fa andare avanti. Prendere una sola direzione ci porterebbe a un vicolo cieco. Per non parlare dell’esperienza sconcertante che questa poesia offre: quella di includere il corpo della poetessa – mentre scrive, non… comodamente, a casa propria, ma in quest’altro mondo, al tempo stesso pericoloso, suggestivo, e misterioso, evanescente. Stare fuori e dentro, allo stesso tempo, e trovare il proprio equilibrio in questa oscillazione: questo è ciò che ogni scrittore o poeta cerca di fare attraverso i suoi libri.

Ma ciò che colpisce ancora di più è che la sua stessa esperienza, della vita e della scrittura, così come quella del proprio corpo e delle sue relazioni con gli altri (con gli esseri viventi e morti) e con il mondo – non sono solo quelle di un poeta! Se la poesia di Luigia Sorrentino è così forte, così convincente, è perché ognuno di noi, anche senza essere un poeta, potrebbe vivere questa esperienza, questa inquietudine di un altro mondo, e non necessariamente un mondo parallelo al nostro, anzi: un mondo, per quanto insolito, che è strettamente legato a ciascuno dei nostri gesti quotidiani. Realtà e sogno coincidono, ma questo non rende questa poesia surrealista. Se il sogno e la sensazione di sognare dominano, è solo perché la realtà degli stati (amorosa, affettiva, di mancanza…) e quella dell’esistenza concreta si trasformano al punto di avere solo la stessa consistenza: quella della scrittura stessa. Ciò che è scritto è vero. E soprattutto: se non fosse vero, non ci verrebbe detto.

L’intreccio permanente dei due “mondi”, che non è altro che tutta la vita, non cessa di essere velato e mostrato, in successione e molto rapidamente. E questo colpisce molto anche nella poesia di Luigia Sorrentino: attraverso questo gioco di nascondere/velare ciò che è vita, riesce a mettere i due gesti sui platani di un’immensa bilancia invisibile, che sarebbe la scrittura della poesia, e a dar loro lo stesso peso. Bilancia in perfetto equilibrio.

E, con nostro grande stupore e piacere, ci troviamo a casa nostra in questo passaggio in un universo “altro”. Il percorso di Luigia Sorrentino ha scopi precisi e consapevoli: riscoprire i propri cari attraverso la loro evocazione. Ma questo la porta, senza che lei lo sappia, a trovare l’essere che scrive: se stessa, ma che non è un essere… più conosciuto: rimane anche un’apparenza, una chimera, lontana e estranea come le altre – che ci sono o non ci sono più.

Il lontano e il vicino sono poi difficili da distinguere. Ma la poeta ci fa conoscere l’inaspettato.

Questa poesia è molto vicina a ciò che Jacques Sojcher afferma nel suo libro La démarche poétique, il capitolo “Dans la distance, mais si proche…”: […] “il poeta rifiuta di abdicare di fronte all’oblio (e all’oblio stesso dell’oblio), oppone, non una conoscenza, una dottrina, un’ideologia, semplicemente a un impulso, all’eco talvolta trattenuto di un canto precario e sempre minacciato, all’intermezzo di una certezza (che non si può nominare) e di un’incertezza che non è disperazione ma apertura, alleggerimento degli ostacoli, possibilità di presenza. ». Ed è proprio questo impulso, questa apertura, questa presenza evocata dal filosofo che abbiamo sentito pienamente quando abbiamo letto Olympia.

Philippe Jaccottet

Questo libro è anche molto vicino alla scrittura di Philippe Jaccottet, non è affatto come un pastiche, ma nel suo spirito più profondo, o almeno quello di Paysages con figure assenti: “E si finisce per pensare che tutte le cose essenziali possono essere affrontate solo con deviazioni, o obliquamente, quasi in segreto. ».

E non più lontano, da quei versi di Octavio Paz, che potrebbero anche caratterizzare l’impressione, molto forte, nella lettura di Luigia Sorrentino: “Le cose sono e non sono / Tutto viene disfatto in silenzio / Sulla pagina. “(Versant Ouest).

Ma lei ha saputo creare i propri strumenti per dire “l’essenziale”. Continua a leggere

Le fragili esistenze di Milo De Angelis

NOTA DI LETTURA DI MASSIMILIANO MANDORLO

Lì, sulla linea di confine “tra la gioia e il grumo più buio”, si muovono le creature notturne del nuovo libro di Milo De Angelis. Qualcosa di oscuro e segreto preme dietro l’apparente ritmo più disteso di questi testi, irrompe sulla scena congiungendo la biografia terrestre a un respiro cosmico, universale: “Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie”.

Tornano i luoghi familiari alla poesia di De Angelis: la Milano notturna dei tram e dell’Idroscalo, dei bar e della periferia con “l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina” e poi gasometri abbandonati, parcheggi e piscine, aule liceali dove si consumano “gloriose avventure terrestri”.

C’è nel gesto atletico, pindarico, dell’atleta sui blocchi di partenza o del tuffatore pronto per il salto una forza che illumina quel segmento di tempo e lo proietta nelle profondità di un altro tempo: “dovevo tornare / per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo / rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri […] per il tuffo /che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento”.

Così, come in una sequenza cinematografica, in Sala Venezia l’occhio del poeta inquadra i passi al rallentatore di un uomo appena entrato in una sala da biliardo, si sofferma sui movimenti e sulle parole pronunciate, sul tavolo da gioco su cui va in scena l’attimo decisivo di una vita intera: “sorridi e ti acquieta il panno verde / come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi / di legno che ora contengono il tuo evento / e la forza centripeta conduce l’universo / in un solo punto illuminato”. Il poeta se ne sta lì, come un mendicante o un eremita, a raccogliere “gli emblemi dell’inizio e della fine” come frammenti dispersi, linee intere o spezzate delle fragili esistenze che abitano il mondo.

Sono le linee di forza, continue o interrotte, che compongono il Libro dei mutamenti cinese, qui immagine e simbolo delle numerose vite che si agitano sospese “nel brivido del tempo”, ai bordi della vertigine.

È in questa spaccatura che abita la poesia di De Angelis, tra le ripetizioni e i continui andare a capo che frantumano il respiro del verso e lo tendono fino a un punto finale, assoluto: “e ora io mi fermo in un luogo / qualsiasi e lo riempio di purissima benzina, / la benzina che amavo da bambino ai distributori / della A7, e chiudo in ventidue metri quadrati / il mio episodio”.

Aurora con rasoio è il titolo dell’ultima, intensa sezione del libro in cui il poeta, navigando controcorrente, affronta un tema così controverso e innominabile come quello del suicidio.

Lontana da ogni passione o interesse sociale, la poesia di De Angelis compie uno scavo nelle profondità abissali dell’esistenza, anche a costo di compiere un’ulteriore tappa di questo viaggio al termine della notte.

Quando “la luna non concorda” più con il “battito terrestre” non c’è più nessun commento o parola possibile, ma un grande silenzio scende sulle vicende terrestri di chi ha già visto troppo “della vita e dei suoi sotterranei”. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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Milo De Angelis, “Questo mio sempre”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Avevamo pubblicato in Anteprima Editoriale, il 10 giugno 2020 all’interno del progetto Catena Umana/ Human Chain la poesia inedita di Milo De Angelis, Nemini, che apre la sua nuova raccolta di versi, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021) uscita oggi, 26 gennaio in tutte le librerie italiane.

Ci sembra giusto proporre adesso la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, un canto a una sola voce, una monodia, sul senso della vita e sulla decisione di abbandonarla.
(Luigia Sorrentino)

 

IL PENULTIMO DISCORSO DI DANIELE ZANIN







Le antenne si muovono nel vento
 il corpo ondeggia ma è deciso a pronunciare
 ad alta voce le sue accuse. E tutto il quartiere,
 con il fiato sospeso, scruta quel ragazzo alto e magro
 in piedi sul tetto, con il golf bianco e le dita
 coperte di farina. Ognuno attende la sentenza.
 Ognuno affonda nel mistero
 di se stesso e guarda in alto, non sa
 dove si trova esattamente
 ma sa che quelle parole sono per lui
 e lui, mentre ascolta, le sta pronunciando.

“Mi chiamo Daniele e ho pensato seriamente alla vita.
 La vita ed io siamo state due creature
 che si accusavano a vicenda, finché un’energia furiosa
 ci ha spinti l’una contro l’altro e ho cominciato
 a vedere l’altra faccia di ogni foglio, ho cominciato
 a nuotare nei laghi del tramonto e ora sono qui
 con gli occhi forati e le lacrime di piombo
 e vi ho chiamati ogni mattina, vi ho chiamati
 uno per uno per nome e per cognome
 finché non vi ho più visti e cominciò
 questo mio sempre
 di ore deserte e istanti morti.”

“State attenti, tutti voi, perché non parlerò due volte.
 Sono nato alla fine di una festa, al Gallaratese,
 quando la bocciofila restò senza luce e tutti
 se ne andarono.
 Gridai che era tardi, ed era tardi.
 La musica delle sfere precipitò in una zattera,
 il mio pianto ammutolì e allagò tutta la vita,
 mi divisi per sempre da me stesso, persi la mano
 della fata e a tutti voi scagliai in faccia
 il mio sacchetto di canditi.”

“Nella vasca dove entrai un pomeriggio
 vidi la fine separata dal suo inizio, vidi
 le prime crepe del sorriso e divenni un istante ossidato,
 una mezza notizia che nessuno raccoglie, vidi
 la follia disegnata sulle mie unghie, vidi
 per la prima volta i miei amati cavalli
 fermi in una giostra di pietra,

mi aggiravo tra spigoli di buio, avevo un piede
 immerso nella calce, studiavo i libri
 degli antichi e dei moderni, riempivo la cucina
 di appunti e foglietti. Poi l’artiglio di un gattino grigio
 lacerò tutto il pensiero di Hegel.”

“Cominciai a vedere nelle lampadine spente
 il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia
 a succhiare veleno, mi immersi
 nell’acqua passata
 e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione
 nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla
 dei pazzi in una culla di catrame
 finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi
 che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino
 dormiva la morte.”


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Giovanna Sicari, eternamente nel cerchio

Giovanna Sicari, Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI LETTURA DI MONICA ACITO

Non tutte le donne amate dai poeti si nascondono tra le righe.
Alcune di loro sono fatte solo di inchiostro, altre tremano insieme alla carta.
Altre ancora riposano, dolcemente, tra un verso e l’altro, in attesa che una mano le sfiori per richiamarle alla vita.

Giovanna Sicari non è stata semplicemente la donna di Milo De Angelis, uno dei poeti viventi più importanti della nostra tradizione letteraria: questa veste non le si addice e sta stretta al suo ricordo, che è vivo e selvaggio, come certi frutti di mare che si trovano solo nella sua Puglia.

Giovanna Sicari non è stata mai un attributo o un complemento d’arredo; non è mai stata solo una semplice musa, ma è stata Calliope in persona.

Nata a Taranto nel 1954, in un sud arcaico che profumava del sale dello Ionio, Giovanna Sicari si trasferisce a Roma da piccola, nel quartiere Monteverde.
Il fondale marino della Puglia, prematuramente abbandonato, scorrerà continuamente sotto la pelle della poetessa, pronto a sgorgare, rompere argini e creare crepe nella parola.

Il litorale ionico, salutato a otto anni, rimarrà rannicchiato per sempre in uno stadio prenatale della sua memoria, dove si annidano soltanto i ricordi rimossi e l’acqua del battesimo.

Il mare e l’abisso del sud ritornano nei versi di Sicari con una prepotenza quasi rabbiosa, che ricorda la fusione pànica di alcune liriche di “Alcyone” (1903) di D’Annunzio, in particolare “Meriggio”.

D’Annunzio compie una metamorfosi con il paesaggio marino, dissolvendosi nel suo “mare etrusco” e disperdendo nell’acqua, i suoi connotati

E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;

(Gabriele D’Annunzio, Meriggio, Alcyone, 1903)

Allo stesso, modo, Sicari, lascia che il mare e il mito della sua infanzia le modellino i fianchi; compie un vero e proprio matrimonio con i luoghi che hanno segnato la sua storia.

Sicari è poetessa e sposa:

Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

(Giovanna Sicari, “Poesie 1984-2003”, a cura di R. Deidier, Roma, Empirìa, 2006)

Sicari, però, compie un passaggio in più: riesce a trasportare i luoghi marini della sua prima infanzia nel quartiere di Monteverde a Roma, che diventa l’altare ufficiale della sua storia personale, il cerchio da cui partire, per poi girare in tondo e morire.

Monteverde, Monteverde, Monteverde: Sicari ripeteva il nome del suo quartiere come se fosse stata una formula sciamanica o un rito apotropaico.
Mugolava, si passava Monteverde tra la lingua e il palato, nello stesso modo in cui Cesare Pavese sussurrava, tra i denti, le poesie dedicate alle sue campagne delle Langhe piemontesi.

Proprio così lei pronunciava il nome del suo quartiere, come un “talismano contro infelicità e timore”.

A Roma si iscrive a Lettere, vive l’epoca della contestazione giovanile militante e impara la natura “politica” della parola poetica. Continua a leggere

Milo De Angelis e il De Rerum Natura di Lucrezio

Dopo tanti rinvii è finalmente arrivato l’appuntamento con Lucrezio e con Milo De Angelis, il prossimo giovedì, IN STREAMING sul CANALE YOUTUBE della Casa della poesia di Milano.

giovedì 26 novembre, dalle ore 19:30 alle 20:15 – DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE”: https://youtu.be/UDjy-nYUflM

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio

a cura di Milo De Angelis

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio e presenta alcune sue nuove traduzioni.

Letture di Viviana Nicodemo.

LINK PER DIRETTA VIDEO

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Nella poesia di Milo De Angelis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

La poesia di Milo De Angelis è una delle poche consolidate nello scenario lirico attuale del nostro paese. A essa è dedicato un intenso libro collettaneo, L’avventura della permanenza, che tenta di vivificare lungo l’asse critico italo-francese un articolato e aperto discorso sulle fondamentali costanti dell’autore lombardo e sulla piena certificazione della sua permanenza nel tempo.

Come scrive nella Prefazione uno dei curatori, Alberto Russo Previtali, «la consapevolezza di questa temporalità ha certamente sollecitato il desiderio critico che è all’origine del presente volume, seguendo il quale diversi studiosi hanno risposto positivamente al progetto di una monografia collettiva in cui fossero presentati e indagati alcuni aspetti centrali e decisivi della poesia di De Angelis». Si tratta, dunque, di un progetto ad ampio raggio che nasce da «una Giornata di studi organizzata dall’équipe di ricerca “Il laboratorio” dell’Università di Tolosa “Jean Jaurès”». L’aventure de la permanence. Temps, langage et désir dans la poésie de Milo De Angelis, seminario svoltosi nel novembre 2018 e arricchito dalla presenza dello stesso De Angelis, «ha avuto l’obiettivo — prosegue Russo Previtali — di riunire alcuni studiosi attivi in Francia attorno a diversi aspetti fondamentali della sua opera. Il secondo tempo del progetto è stato ovviamente quello, denso e lento, della scrittura dei saggi a partire dagli interventi e dagli scambi, dalle idee, dalle sensazioni della Giornata. Per i curatori si è aperto quindi il tempo del traghettamento della circolazione orale e affettiva delle idee alla loro sedimentazione e sistemazione scritta: nella forma del libro».

Come si è già anticipato, il volume è ricchissimo di spunti: si parte da un’introduzione di Luigi Tassoni sul concetto di «tragico» e da cinque bellissimi inediti di De Angelis che confermano il suo legame con il mondo infero classico. La prima parte — nettamente teoretica e dedicata al tempo, al linguaggio e allo spazio — è attraversata da interventi sulle «vertigini del senso» (Jean Nimis), sulla «dinamica dell’istante urbano» (Giorgia Bongiorno), sul laboratorio di Voci (Luigi Tassoni) e sull’alterità (Alberto Russo Previtali). La seconda parte, invece, più tecnico-pratica, è rivolta alla traduzione e agli intertesti: Jacques Demarcq, Sylvie Fabre, Laura Toppan e Paolo Bellomo si confrontano con l’«enigma» del tradurre e l’opera di De Angelis, emblema stesso di un trans-ducere (“trasportare”) tra dialogicità, interrogazione e allegoria. Infine, un’appendice, extravagante rispetto al convegno, raccoglie tre saggi — di Jean-Baptiste Para, Tommaso Di Dio e Maria Vittoria Lodovichi — su Incontri e agguati, la silloge più recente edita nel 2015.

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Nella Collana Gialla della Memoria, Giovanna Sicari

La notte romana getta nell’acqua della madre dopo le madri
ma la cosa è ugualmente fragile e orfana:
i fiori, le statue di giugno, i giorni
caldi gravi di via Merulana
dove solo qui si è poveri in pace
e la ragazza con sandali ferma il tempo
sull’agenda stracciata, non è signora
né puttana né fiore all’occhiello
della serata ufficiale, mostra versi
al parlatoio dove il pianto del neonato
è quello di sempre
dove il pianto cresce e muore e poi ancora rinasce in un‟altra
rondine sul glicine al tempo balordo
con accento stonato. Lì il bambino cinese, Ahmed
o Mustafà raccolgono fiori e fortuna di derelitti
senza ritorno come abbandonati pellegrini
a cui nessuno chiede veramente se importa morire
rapiti e rapinati immersi in un sonno lieve straniero.

Torna in libreria dopo vent’anni nella Collana Gialla della Memoria Roma della vigilia, di Giovanna Sicari pubblicato in prima edizione con Il labirinto, nel 1999, uno dei testi “più perfetti e ispirati” dichiara Milo De Angelis nel Post-scriptum. In uno scritto che compare nel libro Giancarlo Pontiggia scrive: : “Riletto a vent’anni esatti dalla sua apparizione (Il Labirinto, 1999), Roma della vigilia ci appare, quasi fatalmente, come il libro in cui si devono fare i conti con la vita, una volta per tutte, e con l’urgenza di chi sa che i giorni sono davvero contati, che il tempo non è più nostro, se mai un giorno lo è stato”.

Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) è stata poetessa e scrittrice. Dal 1962, con la famiglia, si trasferisce a Roma, nel quartiere Monteverde. Le sue prime poesie escono a partire dal 1982 sulla rivista Le Porte, quindi su Alfabeta, Linea d’Ombra, Nuovi Argomenti.

Dal 1985 al 1989 è redattrice della rivista Arsenale. A partire dagli anni Ottanta, inizia inoltre a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, incarico che mantiene fino al 1997, quando si ammala gravemente. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano – dove nel frattempo si era trasferita col marito Milo De Angelis e il figlio Daniele – torna a Roma nell’estate del 2003, dove muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre. La raccolta di poesie di Milo De Angelis Tema dell’addio è a lei dedicata.

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Bellezza e Destino

Su Olimpia di Luigia Sorrentino

di Alessandro Bellasio

 

«Tutto sta nel sentire o non sentire miticamente». Questa fulminante intuizione nietzscheana potrebbe essere posta in epigrafe al «libro di una vita» (come scrive Milo De Angelis in prefazione) di Luigia Sorrentino. Perché Olimpia si colloca in effetti nel novero di quelle opere che fanno i conti con le grandi questioni del destino e dell’origine, della morte e del sacro, senza però cedere alla facile tentazione dell’elegia e di un sublime di maniera, di una retorica magniloquenza del verso. Tutt’altro. La sintassi fluida, la lingua priva di asperità, il tono fermo, lontanissimo da effusioni nostalgiche contraddistinguono questa lirica. Imbastita, come i lettori del libro già ben sanno, su uno scenario di memoria dichiaratamente hölderliniana (ma cruciale ci è sempre parsa anche la presenza di Rilke, specialmente quello dei Neue Gedichte), e che diventerà scena vera e propria il prossimo 16 luglio, quando al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli vedremo sfilare su un palcoscenico reale Iperione, Olimpia, Empedocle: le figure decisive di una Grecia arcaica, sfuggente e sibillina, ancora in bilico tra partecipazione cosmica e aggregazione politica, tra sentimento panico e stabilizzazione nel logos, una Grecia ancora immersa nella luce stellare dell’epica, e dove si combatte la guerra tremenda per l’assegnazione del limite, per la sanzione del confine tra umano e divino e il solo, imperdonabile peccato è quello della hybris. Di cui è figura emblematica non solo il titano Iperione, ma lo stesso Empedocle, figura leggendaria con la quale si cimentò, in un’opera celebre e incompiuta, il nume tutelare Hölderlin, ma che non mancò di attirare l’attenzione, in tempi più recenti, di un grande studioso come Giorgio Colli. Continua a leggere

Una poesia di Milo De Angelis

NEMINI

Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere
in un tempo che hai misurato mille volte
ma non conosci veramente,
osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,
l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,
ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora
guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre
ma non è di questa terra e con il palmo della mano
pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono
sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto
che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto
che sembrava un saluto ma è un addio.

(da Linea intera, linea spezzata di prossima pubblicazione da Mondadori) Continua a leggere