Vi presento alcune poesie di June Scialpi (Pisa, 1998) tratte dalla sua opera di poesia “Golem, l’interruzione” (Fallone Editore, 2022).
June è l’incarnazione di una nuova generazione di poeti che non si riconoscono nei maestri, perché stanno fondando una nuova comunità di scrittori. Tutto comincia da una domanda: “Chi sono io?” Da una domanda carica di significato e di responsabilità, comincia la ricostruzione del corpo non più individuabile, è un nuovo corpo, d’argilla, da plasmare, un Gigante dalla forza sovrumana, il Golem appunto. E’ un corpo dentro il quale ognuno si può riconoscere, è un’identità che si guarda dentro e scava fino alla radice di se stessa.
Nessuno può sentirsi distante dal Gigante che nasce da un’interruzione, da un’autentica trasformazione, un passaggio del corpo dentro il corpo.
(di Luigia Sorrentino)
ESTRATTO DA “IL GOLEM, L’INTERRUZIONE” di June Scialpi (Fallone Editore, 2022)
per non dare agli altri da capire
sulla soglia ci scambiamo questo gesto:
il mignolo sulla guancia che striscia piano
un saluto fatto a gomiti, le labbra che
boccheggiano e non dicono nulla;
pieghiamo la testa all’indietro: così
ci accogliamo, al riparo da tutto ciò che
è conosciuto, dal simbolo coniato
[nell’aria fissi la polvere
i granelli in ritorno
si posano a terra: compongono
forme, questo è ciò che sembra]
*
ci squamiamo tutta la notte come pelle
amputata; se di scatto si alza lascia lì la
voragine: ascolta:
lo sente risalire piano
e quando esce: sangue marrone
come cosa che non si lava
lui è fatto di fango: noi con lui;
ora che noi siamo loro -mi dici
siamo immortali (i mostri non
muoiono)
Dalla luce, dal tempo
sei qui
tornato
nella fiamma
di chi ti ama e ti amò. Ti amò
la polvere dove sono,
dove s’inseguono e rivivono
la quercia e il vento di un pensiero
stretti nel rettangolo del giardino.
Torni e hai con te il mattino,
il nuovo inizio di una casa, questa
sullo sfondo, e dentro
sei nella pendola ferma che tiene,
ha trattenuto in silenzio il silenzio
delle mani, l’umiltà delle vene.
Tu canti adesso
una canzone di puro mattino.
Il catalogo delle finestre sulla notte
tanto aperto si è chiuso.
Istante della voce, voce del sempre, lettere.
Mandate lettere al loro indirizzo.
Lì chiara l’anima tornò.
La consegna
Nelle tue mani consegno il mio spirito,
endecasillabo
di chi ha sentito
un giorno venirgli al naso un odore
d’ansia, era amore.
Chiuso in un inverno fu il giorno che
la stanza si strinse, pungevano
la mente e il polso: a chi
consegnare la morte?
È in luce che ci giudica la terra,
adesso è chiaro. La consegna è un’altra,
altro il tema: non negare il tuo
corpo sul corpo dell’altro. Il tuo stesso
spirito te lo chiede.
È così che due uomini si tengono.
La consegna.
Il Professore aspetta.
Altitudine
Le avevo detto non andare giù. Nove, diciotto gradini, non andare. Dove sei? Alzo la voce, dove sei? Vieni su. E non torna, non torna. Pensare adesso: non dovevo. Ha sempre fatto tutto, lei. E ora è il tempo delle confessioni, dire non ce l’ha fatta, non è riuscita.
La caffettiera intanto qui va sempre, e il male prosegue. Una macchia di tutti i sangui è sul balcone. Siedo su questa poltrona di velluto dove ho immaginato una grammatica, uno spartito, il posto dove ho immaginato di finire.
È così che ti penso, ancora dentro la casa. Fuori è quasi Natale, c’è la nebbia che stanca gli uomini. In un’ostensione aspetto che venga fortissimo il vento. Anche un giorno soltanto. Chi ha gridato nel vento sa. Faccio un respiro, grande.
Lettera a Helmut
Berlino, 17.08.1962
Caro Helmut,
non dolertene.
A questo corridoio
abbiamo dato corpo. Non dolertene
se il corridoio è stato stretto tanto
per te da chiamarsi vita, e per me
morte. Non piangermi.
Già occhi di cemento hanno risposto.
Dai un bacio a Lotte.
Correre dentro
la sfortuna di un venerdì 17
è stato un salto del sangue.
Ala, finestra, ghiaia.
Una storia, una striscia
di storia. Respiravi insieme a me.
Ti abbraccio,
Peter
Storia
È stato lui, il ragazzo che è entrato. La vita adesso affonda nel cuscino. È entrato nel giardino, una volta. È stato amore anche così. La terra, il suo tenerci in silenzio, quella sacca di male che esiste. Uno poi cerca la cura, non si spiega lo sconcerto. Che poi è stata la brina, il ghiaccio mai più rivisto, il sorridente andato. Non distante c’è il canale della Muzza e qualcuno nel suo andar via.
Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti.
Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.
Da Un altro che ti scrive, libro inedito
Nepal, una foto di passaggio
Lingua di terra inarcata
verso l’altare nella sua luce grande
Himalaya svettante su
una città di polvere, fumo.
Da qui sopra
in foto le cime sono a fuoco,
vaste agitate nel cielo. Non altro
lì si tende, è il filo tra nessuno e niente
in libero cielo.
Sotto ecco gli uomini invece
strozzarsi voce su voce con tutto
l’affanno di tutta la polvere alzata.
Vanno in odori e sputi, e i loro spiriti
evitano le cose che non passano.
Paiono da lontano dirci
che in una cronaca perdono il nome.
Sì, lo dicono
a noi contemplativi
ma a loro così somiglianti
qui in alto nei nostri dissesti.
Vorrei dirvi
oltre il fardello che viviamo
oltre il massacro che vedete
che sempre
da un loro contorno morto ritornano
come restituite le parole.
E ci toccano
insieme al miracolo della voce
i segni immaginati dentro i testi
e i corpi delle montagne.
Passando a Melville, una parafrasi
Dardeggiante lontano il sole e il vento
assente, per la nostra rotta
cammina sulla vita e sulla morte
un velo immenso di nebbia leggera.
Ripeterà qualcuno, scriverà
di nuovo cosa fu il mio viaggio, cosa
questa caccia senza cattura, fu
un argenteo silenzio, non una solitudine.
speciale ‘monografico’ del progetto zona|disforme
dedicato al poeta Stefano Raimondi
girato a Milano tra ottobre 2022 e marzo 2023
regia fotografia suono montaggio post-produzione Carlotta Cicci e Stefano Massari
notizia: Stefano Raimondi (Milano, 1964)
poeta e critico letterario.
Ha pubblicato Invernale (Lietocolle, 1999); Una lettura d’anni, in Poesia Contemporanea. Settimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2001); La città dell’orto (Casagrande, 2002; La vita felice 2021 – Premio Sertoli Salis 2002); Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005); Interni con finestre (La Vita Felice, 2009); Per restare fedeli (Transeuropa, 2013 – Premio Marazza 2013); Soltanto vive. 59 Monologhi (Mimesis, 2016 – Premio Nazionale Franco Enriquez 2017); Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2017- Premio Città di Trento 2018 e Premio “Il Ceppo- Pistoia” 2018), Il sogno di Giuseppe (Amos 2019 – Finalista Premio Città di Como 2019 e Città di Fiumicino 2019); Storie per taccuino piccolo piccolo, (Scalpendi Editore 2022).
Sue poesie in “Almanacco dello Specchio” (Mondadori, 2006) e “Nuovi Argomenti” (2000; 2004).
È inoltre autore di saggi ed è tra i fondatori della rivista di filosofia “Materiali di estetica” (Università degli Studi di Milano),
oltre che fondatore e membro del Comitato scientifico di
“L’ABB Luoghi abbandonati, luoghi ritrovati. Laboratorio Permanente sui territori e le comunità” Università degli Studi di Milano. Continua a leggere→
Eleonora Rimolo vince con “Prossimo e remoto” il Premio Poesia Ceppo “under 35”
ÈLuigia Sorrentino, poeta e giornalista napoletana, con “Piazzale senza nome” (Collana Gialla Oro Samuele Editore/Pordenonelegge, 2021) la vincitrice della 67esima edizione del Premio Ceppo Poesia.
Sorrentino ha esordito nel 2003 con la raccolta “C’è un padre” (Manni) e poi ha pubblicato numerosi altri volumi di poesia, alcuni dei quali tradotti anche all’estero.
Il premio Under 35 a Eleonora Rimolo
Eleonora Rimolo, nata a Nocera Inferiore classe 1991, con “Prossimo e remoto” (Pequod, 2022) è invece la vincitrice del Premio Ceppo Poesia “Under 35”.
Le scrittrici sono state premiate domenica 7 maggio 2023 a Pistoia, alla biblioteca San Giorgio, con la votazione in diretta della giuria dei giovani lettori “under 35” e hanno ricevuto il riconoscimento da Paolo Fabrizio Iacuzzi, poeta, direttore e presidente del Premio Letterario Internazionale Ceppo.
La cerimonia si è svolta alla presenza di Federica Fratoni, Consiglio regionale della Toscana, Gabriele Sgueglia assessore alle politiche giovanili del Comune di Pistoia e la consigliera Isabella Mati, Lorenzo Zogheri presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Gli altri finalisti del “Premio Ceppo Poesia” erano: Gabriel Del Sarto con “Sonetti bianchi” (L’Arcolaio) e Stefano Massari con “Macchine del diluvio” (MC Edizioni).
I finalisti “Under 35” erano Francesco Brancati con “L’assedio della gioia” (Le Lettere) e Riccardo Innocenti con “Lacrime di babirussa” (NEM).
Oltre ai premi offerti dalla Fondazione Caript, tutti i vincitori hanno ricevuto il “Ceppo di Via del Vento”, un cofanetto con dieci libretti selezionati dall’editore Fabrizio Zollo.
Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand
Civitella Ranieri 24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani
Prima parte
Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?
Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.
Si sta bene in vacanza, eh?
Benissimo, sempre.
Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?
Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.
Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?
Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.
Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.
Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.
Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?
Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.
Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark, dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.
Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.
Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.
Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.
Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011
Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?
E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.
Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”. Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?
A essere sincero, non lo so.
So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.
Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?
L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.
Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?
Roba, vestiti.
Scarpe.
Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.
E negli occhi cosa c’era?
Nei miei occhi?
Cosa portavI negli occhi?
Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.
C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.
Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?
La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?
Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?
Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.
Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?
L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.
Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?
Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.
La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.
Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker) poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?
Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.
Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?
Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.
Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.
A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.
Mark, secondo te la morte può essere ingannata?
No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.
A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?
Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.
Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?
Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.
Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?
Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.
Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?
Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.
Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?
Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.
Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?
Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.
Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?
Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.
La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?
Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.
Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?
Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere→
Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero eproprio evento.
A distanza di ben oltre quarant’anniviene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti diGino Scartaghiande. E non si tratta di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità.
Appunti sui “Sonetti” per Luigia Sorrentino di Gino Scartaghiande
King-Kong è come suono onomatopeico, è un rullo di tamburo, l’incontro con il fenomeno stesso dell’ispirazione in tutta la sua complessità che ti piomba addosso come qualcosa di feroce e al contempo dolcissimo ma con cui devi comunque combattere, un po’ come la lotta diTobia con l’angelo. E l’arma con cui condurre la battaglia non è altro che il verso e la sua specifica forma.
Nel mio caso “sonetto” è inteso proprio come “piccolo suono”, sia quale consapevole minus rispetto alle sue più alte forme espresse nelle civiltà del passato, sia quale aspirazione, nonostante tutto, ad esse. Ma realisticamente, abitando noi la catastrofe del moderno, non ho potuto che riformularne l’essenziale sua prima origine proprio nel contrasto con il monstrum del disforme, così come aveva già fatto Giacomo da Lentini nei confronti del mostro polifemico e dell’epicureismo di Federico II, ma nel contesto di uno straordinario momento di civiltà letteraria siciliana.
La forma nasce sempre da un simile contrasto, così come ogni virtù si entifica sempre a fronte di un male che si è riuscito a vincere. Una tale dinamica presuppone l’aver occupato di già zone sotterranee ed infere dell’essere, in un ingrato lavoro a tentoni, dove si è ciechi come una talpa. Senza questo lavoro dalle sue fondamenta, ogni forma è solo di superficie, ovvero mistificante. Modigliani per erigere i suoi immortali “pilastrini di bellezza”, sprofondava nel sottosuolo della metropolitana di Parigi, da cui traeva i suoi massi, la materia su cui lavorare, e che egli riportava all’essenzialità di un koùros cicladico, non senza la riverberante presenza del dio extra-olimpico Apollo già proveniente dal deo Marduk di Babilonia.
Tra le fondamenta dei “Sonetti” da cui ripartire c’è in primis il luogo della Storia e della violenza perpetrata in suo nome; e io, nel primo poemetto del libro, riparto proprio dall’assassinio di una donna, Rosa Luxemburg, la cui morte rivivo sul mio stesso corpo. Ma è tutta la storia fantasmatica delle immagini in cui siamo immersi nella nostra modernità – lèggi film, romanzi, canzonette, telefilm, spettacoli d’intrattenimento – a costituirsi quale luogo che uccide la donna.
E questo perché un’immagine ineffettuale, dove non si attua cioè l’effettualità della poiesis, è mitica, e il mito, per sostentarsi, esige sine qua non il sangue delle vittime. Quando Rossellini gira Roma città aperta uccide davvero Anna Magnani, l’ha già tradita alle spalle. E questo perché Rossellini non paga, effettualmante, con un proprio personale sacrificio, il prezzo del mezzo che usa, o per dirla con l’antichissimo poeta latino Lucilio, non sa più cosa significhi praetium persolvere quis in versamur, ovvero saldare il debito per le cose che si usano. E questo vale tanto più per l’arte, come con il loro sacrificio intenzionale ci hanno poi di nuovo rivelato
Pasolini e Troisi. E tutto ciò perché, come viene a dirci Pietro Tripodo in un suo saggio del 1995 pubblicato nel collettaneo La parola ritrovata, “Già il mondo delle immagini, con maggiore nostra passività, seleziona il luogo e il momento della più grande atrocità, del più grande oltraggio”.
Gino Scartaghiande, foto di Dino Ignani
CITTADINI DI UN REGNO CHE VA SCOMPARENDO
La prima ispirazione per quella che sarà poi la Gerusalemme liberata, un Tasso fanciullo l’ha avuta proprio durante le visite all’abbazia benedettina della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, dove aveva soggiornato Urbano II, il papa che indirà poi la prima crociata.
Dacché il nostro bellissimo Regno delle Due Sicilie è stato annesso in un sistema non eudemonico, ovvero infernale, e con tanto di mafia al seguito, quale è l’odierno Stato liberale – ma tale annessione vale per tutta l’Italia, dalla foscoliana Venezia alla Napoli di Vanvitelli e Ferdinando Fuga; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla allo Stato Pontificio – noi siamo ormai cittadini della diaspora, di un regno che continuamente va scomparendo.
Questa scomparsa però non è una perdita, ma il giusto avanzamento verso quello che è il vero fine di ogni civiltà: la sua definitiva uscita dal mito, lasciando al suo posto una traccia di splendore.
Questo è quanto ci hanno trasmesso gli antichi regni scomparsi, e soprattutto la Grecia, allorché il suo primo re storico, Teseo, libera quei giovani dal Minotauro, alias dal labirinto del mito, vuoi anche dal mito del successo, portandoli a nuova vita. In questa opera di liberazione, è tutta la tradizione e il nostro vero rapportarci ad essa.
La 67a edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo,diretto e presieduto dal poeta Paolo Fabrizio Iacuzzi,presidente onorario Giuliano Livi, prosegue a Pistoia con un ricco programma di eventi dal 20 aprile al 13 maggio, dopo le tre importanti anteprime che si sono svolte dal 25 gennaio al 10 marzo: Il Ceppo per le Giornate della Memoria, Il Ceppo per la Poesia e la Pace in Ucraina, Il Ceppo per Gadda.
“Un grande sforzo organizzativo, sostenuto dalla Fondazione Caript – dichiara Iacuzzi – che ha coinvolto finora oltre mille partecipanti tra Pistoia e Firenze. Il premio Ceppo e il suo Progetto educativo, è sostenuto da oltre cinquanta insegnanti che credono nella sua azione educativa per sviluppare le competenze di vita dei ragazzi. Quest’anno, grazie all’impegno dei giurati Filiberto Segatto(Ceppo Ragazzi Goldkorn e Ceppo Giovani Bolognini), Ilaria Tagliaferri (Ceppo Ragazzi Sarfatti), Matteo Moca (Ceppo Giovani Piccioni) che insieme a me col premio Ceppo Giovani Poesia in collaborazione anche con Annamaria Iacuzzi e Alessio Bertini di Pistoia Musei ha dato vita a laboratori di lettura fra letteratura per ragazzi e adulti, rivisitazione di grandi classici come Gadda e Svevo, incroci fra poesia, narrativa, arti figurative e cinematografiche, sviluppando negli studenti delle scuole primarie e secondarie di I e di II grado di Pistoia e di Firenze le capacità di analisi critica e di efficace sintesi dei contenuti, molto spesso mettendo in gioco le loro esperienze vissute”.
LE DUE TERNE FINALISTE PER LA POESIA
La Giuria della 67a edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo, dopo aver conferito a febbraio il Premio Ceppo Internazionale Poesia Piero Bigongiaria Ljudmyla Djadcenko – Premio Ceppo per la Pace e la Poesia –ha definito a aprile 2023 le terzine.
I finalisti del Premio Ceppo Poesia: Gabriel Del Sarto Sonetti bianchi(L’Arcolaio); Stefano Massari Macchine del diluvio (MC Edizioni); Luigia Sorrentino Piazzale senza nome (Samuele Editore).
I finalisti del Premio Ceppo Poesia Under 35: Francesco Brancati L’assedio della gioia (Le Lettere), Riccardo Innocenti Lacrime di babirussa (NEM); Eleonora Rimolo Prossimo e remoto (Pequod).
La selezione delle due terzine è avvenuta su una scelta di oltre 100 libri partecipanti, pubblicati da consolidate e giovani case editrici. Tutti i finalisti hanno scritto delle breviLecturesulle tre parole chiave della loro poesia, che verranno pubblicate sulla rivista on line SuccedeOggi media partner del Premio Ceppo.
La Giuria dei Giovani Lettori, che voterà in diretta le due terne, è composta da 23 membri, di cui la maggior parte è stata selezionata su cinquanta candidati degli Istituti secondari di II grado che hanno partecipato al Premio Ceppo Giovani Poesia Pistoia Musei per il miglior commento a una poesia dei sei vincitori. Tra i giurati degli enti sostenitori, in rappresentanza del Comune, ci sono Gabriele Sgueglia (assessore alle Politiche Giovanili) e Irene Bottacci (presidente Commissione Cultura).
PREMIO ALLA CARRIERA A VALERIO MAGRELLI
La Giuria Letteraria, presieduta da Iacuzzi, composta da Alberto Bertoni, Michele Bordoni,Martha Canfield, Giuliano Livi,Andrea Sirotti, Filiberto Segatto, Ilaria Tagliaferri e Gabrio Vitali ha inoltre deciso di assegnare il Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia a Valerio Magrelli per l’intera sua carriera letteraria, che vince un premio offerto da Berni Store. Continua a leggere→
Rossella Or, attrice e poetessa, è stata protagonista dell’avanguardia teatrale romana degli anni ’70. Ha lavorato con Memè Perlini, Simone Carella, Giuliano Vasilicò, Giorgio Barberi Corsetti, Leo De Berardinis, Mario Prosperi, ottenendo un immediato e notevole successo, e ha successivamente iniziato una serie di lavori in proprio di rara intensità (con recupero della parola) di cui ha curato, anche, testo e regia.
Di lei scrisse il critico teatrale Nico Garrone: “Rossella, se venisse a patti con il galateo della rappresentazione, sarebbe una straordinaria Figliastra, o la delirante Contessa dei Giganti della Montagna. Ma ieri sera ci ha fatto pensare, o sognare, a qualcosa di più: ad un immaginario incontro nell’aldilà tra i fantasmi di Eleonora Duse e di Antonin Artaud.”
Nel 2000 è stata protagonista del film “Estate Romana” di Matteo Garrone (molto intensa una sua scena con Victor Cavallo), e ha recitato in “Regina Coeli”, diretta da Nico D’Alessandria. Si è sempre dedicata alla letteratura e alla poesia, ed ha pubblicato suoi testi sulle riviste Nuovi argomenti, Le voci della luna, Italian poetry, Inchiostri, Le reti di Dedalus.
Nel 2019 ha pubblicato il suo primo libro di poesie: “L’ACQUA TENDE ALLE RIVE – POESIE 2011-2017” per Editrice ZONA – Collana Rossocorpolingua a cura di Cetta Petrollo, con postafazione di Carlo Bordini, suo grande amico.
RECITAL DI VERSI IN CHIAVE DI SOL – Testi poetici editi e inediti, uno spettacolo di voce e corpo all’insegna della parola scritta e detta, nella forma in cui Rossella deciderà di rappresentarla sul palco. Erede di una tradizione teatrale storica, la sua poesia è tuttavia pura e per certi versi inesplorata. Chi può venga a sentirla e vederla. È un’esperienza! Continua a leggere→
Sfamalo pure come vuoi, il lupo volgerà sempre gli occhi al bosco.
M. Cvetaeva
I.
La poesia è lo spazio in cui la massima potenza analogica e visionaria diventa ritmo e senso.
La poesia ha sempre a che fare con una rivelazione – può essere un caos che per un istante si cristallizza in ordine, oppure il crollo netto, verticale e assoluto di un cosmo, può essere una morte che compie un destino o la disperazione della parola impossibile.
La rivelazione può passare per l’udito– si percepisce un ritmo che esige delle parole. Il poeta cerca versi capaci di restituire il ritmo essenziale che scandisce il battito cardiaco, il rumore delle onde o la musica delle sfere.
La rivelazione può passare per l’immagine che irrompe nella neutralità o dall’insignificanza di una miriade di altre. L’immagine cardinale di una poesia è una specie di sole che attrae altre immagini, facendole orbitare.
La versificazione è il tentativo di restituire un ritmo essenziale attraverso le parole che si scelgono per incarnarlo; è il tentativo di trovare corrispondenze e gerarchie tra un’immagine sovrana ed altre che si riconoscono consanguinee.
II.
La poesia è un’esposizione alla dismisura, al daimon, all’angoscia, all’entheos. Esposizione che implica una temperatura.
O il pathos greco, l’ardore vedico: la “mente accesa” vede disunito ciò che è in apparenza comune e riconosce il simile nell’estrema inimicizia. Queste sono le potenze che definiscono i poeti del fuoco.
Ma esistono anche poeti glaciali, guidati da una sublime e spesso disperata lucidità. Mallarmé chiedeva alla poesia la spiegazione orfica della terra: una spiegazione – uno sguardo definitivo e raggelato – sulla discesa nella morte, sul riconoscersi, sul destino.
III.
Mi sembra che la grande poesia infranga un interdetto percettivo.
Spinoza diceva che gli uomini possono solo concepire l’extensio (qualsiasi ente fisico) e la cogitatio (qualsiasi pensiero, immaginazione, sentimento). Le due realtà sono attributi dell’infinito: gli uomini non possono abitare che queste. Ma, continua Spinoza, ne esistono infinite altre. Infinite altre realtà che eccedono le possibilità percettive degli uomini.
Impossibile, per Spinoza, fare esperienza di qualcosa che oltrepassi lo spazio fisico e quello proiettivo della sfera psichico-mentale.
Ma la poesia è forse un terzo modo della percezione: il daimon, l’enteheos, la divina mania, l’archetipo, il nulla dell’angoscia sono realtà che eccedono sia la fisica della res extensa che le proiezioni della res cogitans.
Ne La teoria dei colori di Goethe c’è un’intuizione che mi ha sempre colpito: la luce crea l’occhio per vedere se stessa. Con la poesia accade qualcosa di simile: la poesia vede se stessa, si riconosce, solo attraverso singole opere. È come se alcune opere – e parlo dei capolavori della tradizione poetica – non fossero che l’estensione dei modi della percezione dell’infinito.
TESTI
Tradurre, innalzare
Porterò questo bicchiere di cenere
e un dizionario di pagine bianche
annegate nella luce fino a scomparire
e sarà la notte siberiana, la pietra grigia
della muta che caccia, il vento.
Mi dici che alla salvezza hai opposto
l’arteria di luce
e che non importa altro.
Hai aperto il dizionario e
le stelle grezze hanno spezzato
la dinastia del giorno,
da allora sei sangue nero e sempre.
***
Nella luce a strapiombo
il muscolo lacerato –
e io sono oltre
le onde cardiache del fuoco,
ben oltre la sinistra che ha
scritto nome e iride,
e indica il punto, nella pagina,
dove i diari impazziscono.
E la porta mi guarda:
la pupilla è la mia, mia
la notte salvata:
sta immobile e chiede tutto.
Questo falò, alla fine, sarà stato
e ne ricorderai ogni lingua,
perché non hai che questa.
***
I templi che furono abbandonati
ritornano innocenti
ritornano nelle rose
e per la mente, ma tu non dici:
scrivi sui petali, disperdi i nomi
e la creta: ora chiudi gli occhi, cuci le vene,
chiama l’addio;
chiama i coltelli e la luce
finché non saprai che questa è l’ora,
è solo questa,
e nessun grido per battesimo,
nessun battesimo nella vertigine:
benvenuto nella febbre del patto,
la caccia è iniziata.
***
Non abbiamo incontrato
che l’altra vita,
quella che ha scavalcato
la grandine che ferisce la rondine,
le sillabe e l’arca.
E ora è qui
nella resistenza della lampadina,
nel suo lampo raggelato
e miniato.
Gli elenchi sono bruciati,
non trattengo il respiro –
ho in mano un inizio.
***
Il risveglio e le tenebre furono
prodigi e asfodeli –
rue du Calvaire è cosparsa di sale
ora una puttana e il Sacro Cuore
invocano le tre di notte,
la primizia e l’azzurro slogato:
ho inventato le rughe e chiuso gli occhi,
ho reciso un nervo e evocato il nord,
ho gettato la sorte:
i magneti ronzano nell’oro del mosaico.
***
La stanza febbraio è ancora
la nuda correzione del fulmine –
possediamo il foglio che separa
il bianco dentro il bianco
ed è nostro anche se niente è nostro.
Abbiamo colpa e fuoco cardiaco –
e correremo. Abbiamo trattenuto il fiato:
una due dieci volte, una unica e solitaria
la notte– e respireremo:
sua è la stella ascetica.
***
Forse il latte o i simboli
forse in disparte la comune
notturna parola intesa
che infuria sotto la mente:
ti sei svegliato e hai sognato
e hai portato la notte fin dentro
le creature: chiedono una
pagina nell’invisibile
un sigillo spezzato di netto:
nessun prima, unico il dopo
e ora segmenti, gli occhi bene aperti,
le rivoluzioni, le figlie, le varianti.
***
È sempre il febbraio delle carte decifrate –
anche per un sasso che affonda nella neve
mentre tu ritorni dal lavoro e dal presente:
ma tutte le menti amate sono sconfitte e gloriose
perché, guardami, i cieli sono tutti scritti,
feriti a morte e ancora sacrificati, come soldati.
E dall’altra parte piove –
dovremo dividere pane e terra,
finché non saremo pane e terra.
***
Il diaspro che troverai
ha facce trafitte, tutte le direzioni
convergono ipnotiche
e in potenza: e ti chiedono –
ma tu hai una benda da strabico
e mentre l’irrazionale brucia il campo,
le sterpaglie, già vedi la terra atra,
lo specchio dell’eclisse che resta –
eppure la storia è la sezione
e noi, cuore siderale, la verticale. Continua a leggere→
Un’anticipazione dalla raccolta inedita Aspettiamo la mezzanotte
Alessandro Moscè foto di proprietà dell’autore
Qui c’è aria di aldilà,
di più non so dire.
Qui sembra tutto finito
e se mi dicessero
che il vento è il mio fiato
ci crederei stringendomi a me
per l’ultima volta.
Invece domani mi sveglierò
alla solita ora
da questa morte provvisoria
che viene a parlarmi
di notte, quando si annoia.
E’ discreta, non mi chiede
di seguirla nel crepuscolo cinereo,
sa bene che si nasce e si muore
più volte senza scongiuri,
fino all’alba.
La morte entra ed esce da me,
mi acquieta, non ne ho paura
***
L’insegna del benzinaio spenta,
l’aria che si profilava sopra le pompe automatiche
per noi familiari in processione, quasi addormentati
tra i palazzi ocra del rione,
camminatori da vivi e da morti,
riconosciuti nelle aperture dell’orizzonte
appena coperte dai cortili con le panche,
dalle luci basse e palpitanti
di un’ora stanca,
in una via traversa di Fabriano o di Ancona,
trascinati in un aldilà di arazzi,
come fossimo nelle strade marchigiane
tra chi cambia l’olio e i filtri alle utilitarie
nelle stazioni di servizio fuori dal mondo
***
L’acqua guizza nella bottiglia,
nei bicchieri da viaggio rovesciati
sotto questo manto di cielo sporco
che assembla i vagoni del treno,
le poltroncine dove rimangono
le borse con la chiusura a zip
per le unghie laccate delle signore.
Il riflusso di istantanee
scandisce minuti e ore,
un conto lento nella tratta,
esiliato dai finestrini.
Ogni coscienza è un destino,
una distrazione e un dolore
di vite senza fuoco:
è questa la stagione rapida sui valichi
che sovrasta ogni uliveto umbro
e un grumo di ossessioni risucchiate.
Ma se lei si alza non smette di salvare gli occhi
nei fianchi arrotondati
all’altezza del taglio della camicia,
nel movimento che oscura il sacerdote.
Non rispondere mai, amore,
e non smettere di pregare per te
***
Un bracciale di pelle corre lungo la schiena,
in un tonfo di parole
per chi agita i passi tra i corridoi lucidi
e indossa il camice nel battere fiacco delle ore,
nel dramma della notte di un reparto
quando le corsie vacillano di voci tronche,
di volti rimossi dal male,
abitatori di un soffitto e niente più.
Ma i tuoi capelli si annidano nella catenina,
risalgono dai riflessi violacei dei vetri
e sconfinano nel collo ombrato.
Sotto quel camice c’è sempre una stella invisibile,
un sorriso castano e un viaggio lontano,
l’uscita serale quando cade la pioggia
che bacia il freddo,
alleato invincibile prima del sonno e dopo l’amore,
quando non ci si parla per cinque minuti
e i cellulari rimangono spenti
dentro la borsa e nella tasca,
nella mezzanotte della domenica degli stadi Continua a leggere→
Vi propongo una scelta di testi inediti di Gioconda Fappiano che vive a Cusano Mutri in provincia di Benevento.
1.
Sono le sere silenziose
passate sui gradini dei ricordi.
Mi attardo nei vicoli stanchi
che stanno come labbra sigillate
e cerco ancora giorni familiari.
Si aprono le piazze, la musica, le danze.
Scende un santo
e un’anima in preghiera.
Qualcuno guarda lontano
chiedendosi se esiste il paradiso
una macchia di colore
in una vita in bianco e nero.
Si affacciano voci
ed echi dall’oblio.
Tra le pietre e i morti
spargo l’incenso dei passi
e dei miei versi.
2.
Mandami le rose da Kiev
e dimmi che c’è ancora bellezza
che non china il capo.
Qui è il caldo che incendia l’estate
e i pomi nell’orto fiammeggiano
nel sole che picchia le crepe
tra zolle ferite di vita.
Un giorno ti verrò a trovare
nel giardino scampato alla guerra
tra le macerie di un mondo impazzito.
A piccoli sorsi berremo del tè
e quello che resta, di te e di me.
3.
Le mie mani
sono quelle di mio padre e di mia madre
hanno un callo per il dolore
e l’anello della promessa.
Le mie mani
sono dolci e severe
hanno rughe di sogni e dita sanguinanti
nelle spine della mancanza.
Le mie mani
vibrano melodie di lontananza
e rintocchi di silenzio
mentre spargono olio sulla pelle bruciata.
Le mie mani
hanno il palmo aperto dell’accoglienza
e il pugno chiuso della resistenza.
4.
Adàgiati sul mio respiro.
È una dispensa di piccole felicità
questa luce che schiara la notte
su un campo di erba tagliata,
la rosa dal profumo agrumato,
la tazza che accosto alle labbra
per una semplice gioia liquefatta.
Sarà forse l’abitudine che muore
e rinasce ogni giorno
quella che chiamano Vita.
5.
Dalla tavola sparecchiata della festa
raccolgo briciole di pane
e qualche chicco di melagrana.
Pulisco il piatto del mio passato
svuoto il fondo della bottiglia nel bicchiere
e attendo nel poco che rimane
accostandomi al presente
e al torcersi dei giorni
la voce dell’anima a me destinata
nel tempo vergine di un foglio bianco.
6.
Accettare
l’illusione di un bacio
la primavera che non sboccia
il volo d’addio
la pioggia che sporca
il canto stonato
il silenzio che urla
la benda sugli occhi
le briciole della sorte
lo strappo nel cuore
e tremare
e vivere ogni giorno
come il primo giorno
della creazione. Continua a leggere→
Dopo l’appassionata ricostruzione della vita di Ovidio, Nicola Gardini sceglie gli episodi più rappresentativi delle Metamorfosioffrendoci un’introduzione che fa luce sui principali temi del poema: la mutevolezza e l’eterno divenire, la fusione di umano e divino, e (in maniera più inattesa) il potere.
Sei episodi delle metamorfosi di Ovidio tradotti e introdotti da Nicola Gardini, Ponte alle Grazie, 2023
Nicola Gardini
Nicola Gardini è poeta, romanziere, saggista, traduttore e pittore. Tra i suoi molti libri: i saggi Viva il latino (Garzanti, 2016), Con Ovidio (Garzanti, 2017), Le dieci parole latine che raccontano il nostro mondo (Garzanti, 2018), Rinascere (Garzanti, 2019), Il libro è quella cosa (Garzanti, 2020), Viva il greco (Garzanti, 2021), i romanzi Le parole perdute di Amelia Lynd (Feltrinelli, 2012, Premio Viareggio 2012), La vita non vissuta (Feltrinelli, 2015), Nicolas (Garzanti, 2022), Silvia e l’enigma della Sibilla (Salani, 2022) e le traduzioni di 1984 di George Orwell (Mondadori, 2020) e Non crescere mai di Roald Dahl (Salani, 2022). Collabora regolarmente con il Domenicale del Sole 24 Ore. Continua a leggere→
Gino Scartaghiande, marzo 2023 (foto di proprietà dell’autore)
di Luigia Sorrentino
Nel 1977 l’uscita dell’opera di Gino Scartaghiande, Sonetti d’amore per King-Kong, nato a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1951, rappresentò uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento. Un poema stilisticamente audace per quei tempi che molti accolsero come un evento. A distanza di oltre quarant’anni Graph Editore ripropone i Sonetti, con l’aggiunta di alcune poesie inedite.
Fonti del Kong
di Gino Scartaghiande
Sonetti d’amore per King Kong sono un fenomeno non circoscrivibile in una data realtà storica, tantomeno in una decade. A rigore, rifacendomi ad Husserl, il fenomeno non ha niente a che fare con la realtà; esso è, rispetto all’arte, quella “inconcepibile mezza sfera mancante” a cui, come dice Beppe Salvia in Idea cinese, l’arte stessa “deve assoggettare la propria rappresentazione”, altrimenti “diventa genere. oggetto di culto”. Ed infatti è proprio da questa lontananza dalla realtà del fenomeno che la poesia riesce a darci oggetti precisi con cui comprendere e preservare l’intero Lebenswelt umano. E anche io, per quanto mi riguarda, credo che proprio la poesia in quanto fenomeno, dacché mi ha da sempre estraniato dal mondo, mi abbia poi aperto la vera via per poter questo stesso mondo incontrare ed amare fin dal di dentro della sua Storia, o proprio mettendomici sotto, come una talpa.
Il decennio post-sessantottesco è stato senz’altro tragico, per me studente universitario nel quartiere di San Lorenzo a Roma, durante i cosiddetti anni di piombo. Eppure eravamo aggrappati a questo fenomeno-poesia come oggetto reale, non solo io, ma tutta una schiera di poeti prima e dopo Pasolini, da Amelia Rosselli a Beppe Salvia, che hanno saputo superare, con enorme sacrificio di sé stessi, quell’assentificazione del fenomeno operato dalla poesia ermetico-idealista in cui si era venuto a dilatare l’occulto nichilismo liberal-romantico di Manzoni – si veda sull’argomento il libro-pamphflet di Aldo Spranzi L’altro Manzoni, Ares, 2008 – ovvero la mistificazione di una letteratura che, perdendo di vista il proprio oggetto fenomenico, diventa mero esercizio di stile, o di estetica, denotante una sostanziale mancanza proprio di quello stesso fenomeno cui avrebbe dovuto annunciare.
Il caso del romanticismo e dello storicismo di Manzoni è emblematico, e la questione è fondamentale per comprendere la catastrofe che si apre dopo l’altissima cifra classica di Foscolo e di Leopardi, e il conseguente precipitare di tutta l’epoca nell’ideologia positivista. Se ne avvidero Pascoli e Carducci, e corsero ai ripari, ritrovando il fenomeno oggettivo della poesia, e con esso soltanto, una lingua ed uno stile veritieri. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” ci apre all’ “altrove” del fenomeno, e il “Né io sono per anche un manzoniano” sono parole pur troppo vere, dette quasi per celia da uno che aveva in epoca positivista vissuta la tragedia della messa a tacere di una origine fenomenica della lingua, che era invece ancora così naturalmente presente, in quanto tale, nei suoi avi meno remoti, e che il poeta fa d’un tratto balzare ai nostri occhi, nell’incontro di nonna Lucia con lo scaturire celeste dei giovani-cipressi “alti e schietti”. Non anche forse da quel “T’amo, o pio bove” carducciano sarà derivato il “Ma io / t’amo King Kong” dei Sonetti (pag. 28, Graphe.it Edizioni, 2023) e “Da la larga narice umida e nera” quel “Vieni con la narice dilatata” (ibidem). Come se un poeta prima di me mi avesse dato una plausibile zattera di salvataggio su cui salire. Mancando di questo oggetto fenomenico reale, l’arte non conforma nessun atollo di libertà per l’umanità, e anzi la conculca, per sostentare il mito-idolo di sé stessa. La catastrofe manzoniana si allargherà poi in quella del nostrano idealismo ermetico, con tutti i loro inani tuffi pitagorici in non si sa quale eternità se non in quella di una vanagloria mondana. Se ne ritrarranno in tanti, come dall’orlo di un abisso, consapevoli del maltolto… di “quanto ha roso il ferro della notte” Beppe Salvia (Canzone d’estate). Rebora che si ritirerà a Domodossola, Campana che scolpirà un suo sentiero di solitudine fino a La Verna, Antonia Pozzi che nell’antivedere di una nebbia, realizzerà il suo concreto oggetto fenomenico di poesia.
Il fenomeno della poesia è unico ed eterno in tutti i tempi e luoghi, e costituisce esso da solo tutta la tradizione. In questo fenomeno, o zona, se vogliamo dirlo con Apollinaire, si entra e ci si incontra all’istante con tutti i poeti di sempre in quanto persone vive, pur non avendoli mai prima conosciuti, e neppure mai letti. Sono essi stessi che ci vengono incontro e che ci prendono per mano. Essi ci donano le parole con il più alto grado di perfezione, ed è già un’altissima degnità per noi farne memoria. Così, in un percorso di conoscenza, mi è venuto incontro con il suo “Como smarrito sì vo per la via” Jacopone da Todi (Laude 89, v 127) mentre scrivevo “Come smarrito su di una strada” (ivi, pag. 36), e, dalla stessa laude, v 143, “scendemmo, saglio, tegno e so’ tenuto”, ed io “salgo, scendo gradini. Dappertutto” (ivi, pag. 45); o anche da Le aureole di Corazzini “Sei triste, mi dai pena / questa sera […] Che hai?” (Spleen, v 14-16) per il mio “sei triste stasera, sai cosa significa?” (ivi, pag. 27). Ma a volte basta anche un solo accento, una sola parola, come in questo “Te Campo” (Catullo, 55, 3) che mi si fa presente in un “Tu campo di / viaggi, campo di stasi” (ivi, 57).
Nessuna critica dunque di fronte al fenomeno, nessuna ermeneutica, se non il nostro confessarcene debitori. Il cosiddetto Anonimo del Sublime di fronte al fainetai trinitario di Saffo, “A me sembra pari agli dei colui che accanto a te siede”, viene rapito in estasi anch’egli, e tace, e ci rimanda solo il testo-fenomeno. Come tra i più splendidi oggetti reali di poesia. Se ne fa diacono, e anche doulos, ovvero servitore.
UN ESTRATTO DAL LIBRO
Il nome
I
Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.
Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.
L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.
Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza. Continua a leggere→
Inizia con una citazione plutarchea il nuovo libro di Luigia Sorrentino: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio». E «naufragio» è forse la parole-chiave per interpretare questo libro doloroso e tragico, che parla di giovani vite perdute in spirali di violenza e di degrado. Lo sfondo è una Campania infera, riconoscibile da qualche minimo tratto, ma che sembra precipitare ad ogni verso in un tempo arcaico, scuro, sacrificale. E «antico» è epiteto che si ripete spesso, nel libro, quasi a indicare un fatale avvicendarsi di storie e di destini: antico è il silenzio (p. 22), antico l’adolescente (p. 27) che si avvia alla sua fine; e antichi sono anche «amore» (p. 38) e «cuore» (p. 93).
Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele editore, Pordenone, 2021, pp. 102.
Si sarebbe tentati, leggendo, di assegnare alle zone in prosa, che si alternano ai versi, gli aspetti più realistici e crudi della rappresentazione: ma si capisce subito fin dalla prima di queste prose, come la morte dei due ragazzi venga descritta sullo sfondo di un rituale cosmico (presenze costanti della raccolta sono i nomi della «notte», del «cielo» e dell’«oceano») dai motivi dionisiaci (lo sgozzamento della capra, il ritmo frastornante della musica, lo smembramento, l’ebbrezza), motivi destinati a propagarsi per l’intera raccolta: «– È nel dolore totale –. Non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo. L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata. Porta automaticamente le mani sui genitali per difendersi da gesti che offendono. Nelle sorsate d’alba il midazolam somministrato con l’ago esala nella vena. Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza alcun ricordo. La morte dei giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (p. 13).
La tensione realistica dei quadri e il ritmo franto della descrizione sono soggetti a una forma di drammatizzazione scenica, segnata dalle pennellate espressionistiche delle scelte lessicali. La notte, qui come in numerosi altri passi del libro, sembra allearsi con le presenze scure e ctonie della vita, con il sangue che nutre la terra e l’asfalto. Realistico è il dato iniziale, che viene però subito investito di un simbolismo acceso e traumatico, spesso esaltato dai contrasti cromatici («neve»-«sangue»), come già nella poesia d’esordio: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero // l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé // nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (p. 11). Il tema della solitudine, su cui si chiudono tutte queste vite, si scontra nondimeno con una dimensione di coralità diffusa, spesso sottintesa.
La ripetizione a distanza di tratti e termini, spesso legati al corpo e in particolare al volto (pupille, narici, occhi, cranio, bocca, capelli, nuca, denti, orecchio, gola, labbra, voce, orbite, iride), risponde a un’esigenza di ritualità, più che di formularità: siamo nel territorio del tragico, non dell’epos, cioè nel territorio in cui tutto si è ormai consumato. Un tempo assoluto che può richiamare per analogia quello del mito, entro il quale la dimensione del quotidiano e del reale acquista un suo significato nuovo. Il dramma si ripete, perché solo in questo ripetersi – in questo poter essere rappresentato – trova una sua verità e una sua cadenza espressiva. Anche per questo la raccolta si distende in un unico movimento, privo di divisioni e di sezioni interne: non c’è, in queste storie, un prima e un dopo, ma un unico, circolare fluire in cui la cronaca sprofonda subito in evento, in qualcosa che era già accaduto.
Lo stile costeggia – anche per l’espansione orizzontale del verso – la nudità del referto, ma un referto che si dà in una lingua di alta densità metaforica, e che sembra ogni volta precipitare, nella concitazione delle immagini, verso una chiusa necessariamente sentenziosa: «poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole» (p. 53); «morivano gli occhi / nel soffio della vita» (p. 58); «nella decomposizione / tutto il nostro destino» (p. 60); «deborda, cola sul pavimento / la tenebra» (p. 67); «sei entrata dal fondo, sei tornata / in un paese morto» (p. 69).
“Piazzale senza nome”, disegno di Giulia Napoleone, maggio 2022
Libro ossessivo, martellante nel ritmo delle immagini e dei pensieri, dominato dalla presenza della morte e del male, Piazzale senza nome è un libro senza ristoro e senza conforto («una storia cruda senza atti di grazia», p. 47), ma anche un libro fondato sulla pietà dello sguardo e dei gesti, come nella poesia intitolata Quando hai smesso di respirare: «l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde / dita sorreggono la testa / da dietro, la tengono dritta // ti chiudono gli occhi / la bocca estrema / ha bevuto l’oceano» (p. 88). Continua a leggere→
New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera
«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.
Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).
Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere→
Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, consegue la laurea magistrale in lettere moderne presso l’Università di Parma; vincitrice dell’edizione 2005-2006 del Premio Tondelli per la sezione inediti con il lungo racconto L’odore del fieno, nel 2007 pubblica il primo romanzo, Nel nome del padre, con la casa editrice Fernandel. Nel 2008 pubblica un racconto inserito nell’antologia Quello che c’è tra di noi, a cura di Sergio Rotino (Manni Editore), nel 2009 partecipa al Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta (Fandango Libri), nel 2011 pubblica un racconto inserito nell’antologia Orbite vuote (Intermezzi Editore). Nel 2019 partecipa all’edizione aggiornata del Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango Libri) e nello stesso anno partecipa al volume L’unica via è il pensiero (Intermedia Edizioni) a cura del professore Hervé A. Cavallera. Continua a leggere→
Institut Culturel Italien (Loft) – 18 rue François Dauphin – 69002 LYON
Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice, et par Sylvie Fabre, traductrice.
Vendredi 24 février à 14h00
Lycée Saint Marc – 1000 rue de Vernay, 38300 Nivolas-Vermelle
Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice.
Corpo a corpo con il corpo,
sino a quando, a corpo morto,
rovinò sopra la madre,
di quel corpo la cagione,
per poterla annichilire
e rinascere in un corpo
incorporeo e scorporato
dal materno originale,
rispecchiandosi nel quale
tempo fa aveva dato
corpo a un corpo rigettato,
combattuto corpo a corpo,
sino a farne, a corpo morto,
la cagione d’ogni torto.
OCCASIONI PERDUTE
Imbarcarsi per Citera!
danno gli ultimi biglietti!
se si spera di sfangare
non ci resta che partire,
e tu resti a cincischiare,
ti rimiri nella spera,
col desio di ritrovare
quel bel tomo da balera,
ma la spera è affumicata,
non si vede un accidente,
ed intanto quel traghetto
sta lasciando ratto il molo,
e tu resti tutto solo,
col rimpianto e con la spera.
CONCLUSIONE
Sullo stato dello Stato
ogni lemma è stato usato,
e di crude e di cotte
v’è un elenco dettagliato.
Giunti siamo a quel momento,
il momento del commiato:
rinunciare a plausi e botte
e augurarsi buona notte.
DESTINI
I cani e i fanciulli
assieme al giardino.
La vita del gioco,
diletto con poco.
Restiamo a guardare,
ancora per poco.
Felice chi il gioco
amò pure poscia
che vita fanciulla
morì dando vita
dando vita
all’ansia per tutto,
piacere per nulla.
DECLINO
La Bellezza a primavera
marca visita di nuovo,
ha rimesso la panciera
e alla sera solo un uovo.
Teme i mostri culturali,
le richieste sindacali,
è insicura sui valori,
la carriera con il Bene
non l’attira come ieri.
Si ritira, pare chiaro,
darà presto dimissioni,
per le comunicazioni
indirizzo fermo posta.
PAROLA AL VENTO
Nella vita mortale
della morte parlare,
senza nulla imparare
circa il bene morire,
ritenendo che basti,
nella vita mortale,
nominare la cosa,
ed in dosi copiose,
per passare di là,
senza dazio pagare,
senza colpo ferire.
Mauro Imbimbo, da “Valori Bollati” (La Bussola, 2021)
bisognerà capire cosa ci porta a credere nei grani a farne
sabbia di clessidra tra le mani
a non rompere i cristalli dorati
a tornare là dove siamo nati
nella casa con le pareti bianche
dove ogni cosa ha un nome
che chiamiamo ogni confine
è un richiamo che rapido svalica
si espande nel mondo
in un sussulto di folate tra
bacche d’acacia e lino chiaro
nella luce obliqua delle persiane
nel sacramento giurato sul
simulacro trasparente del mare
bisognerà capire cosa ci resta
della pazzia della festa del
calore di fiamma che ancora
difende la giovinezza
dei nostri corpi abbracciati
nell’alba tra i vapori, mentre
sprofonda l’ombra delle sagome
che ci furono accanto e d’un
tratto la memoria è un male
stordente l’umanità affonda
nella ragione oscura
i papaveri stentano a fiorire
e un tempo immobile non
spiega non glorifica ma non
rinnega la causa dei giorni
*
Dalla sezione: Nel nome del mare
aspetti sempre che qualcosa succeda mentre alzi gli occhi
agli alberi che temono l’autunno
la strada si è fatta più lunga e
quel cartellone ieri non c’era
è una milizia certa quella del tempo
da assoldare nell’esercito mercenario
per le guerre sull’altare di pietra
nella chiesetta – frontiera del Golfo[1]
contro il pallore del mare d’ottobre
pagarlo e lasciarlo libero di fermarsi
un poco a riposare senza fretta
provare a bagnarsi le mani
dove scorre la sabbia di ematite
raccogliere una scheggia di bucchero
e costruirci un bicchiere
bere un sorso di maestrale
da quella breccia che ingrossa
l’aria di sale antico e tamerici
magari è così che si cresce
dopo il pane con zucchero e vino
dopo le vendemmie e le rose
quando tutte le cose sfumano
in un sentire lontano e dici
è così che si cresce per le croci
da cui siamo fuggiti
per quell’aria soffocante di casa
dove l’orizzonte era solo una linea
magari è così che s’incontrano teatri
con le quinte a colori vivaci
rammendate che non importa quanto
è così che si consumano chilometri
si stringono corpi si gettano paramenti
argenti s’indossano senza più valore
senza l’ardore che ci fece scuola
e aspettando ancora si torna all’inizio
si alzano gli occhi
agli alberi che sono già primavera
la strada è più corta ora
e di quel cartellone lo scritto è sbiadito
*
Dalla sezione: Materiale non riciclabile
noi per la vita noi per la morte
noi per l’eterno sentire
noi per non capire
noi che fummo e che siamo
l’umanità dolente
di quel dolore forte
che acceca la mente
l’umanità perduta
fottuta dall’ottusa gente
noi che credevamo
noi che non crediamo
noi che speravamo
noi che non speriamo
noi che amavamo
noi che non amiamo
noi che non ci siamo più
senza famiglia senza virtù
con un sogno che muore
ogni momento
ogni singolo momento
un sogno fermato
in un pugno in un lamento
nell’acqua che avanza
nel vento che squarcia
nel sole che brucia ancora di più
*
Dalla sezione: Quel segno che manca (febbraio 2020 – gennaio 2021)
guardo l’orchidea sul tavolo della cucina ogni tanto lascia andare un fiore
si secca e scende dal ramo
che perde la sua freschezza
si spoglia del suo colore
è ancora bella però penso
trafitta da quell’ultimo raggio
di luce tradito dalle pieghe arancio
della tenda se avesse una sua voce
mi direbbe di questo tempo
mi direbbe che perdo i contorni
dei volti di chi amo i colori degli
occhi la linea disegnata dei profili
i gesti delle mani che le parole sono
fioche e vuote anche ai cellulari
mi direbbe che è sfumata la veste
del mare e l’orizzonte non è più
una linea dove poggiare lo sguardo
che la neve non è scesa quest’anno
e l’erba aspetta paziente il ritorno
mi direbbe che i sogni sono incubi
che il pianto che sento è lontano
ma vero che la notte ha sepolto
i migliori di noi nella via crucis
dei camion delle loro luci in cordata
mi direbbe che la vita non l’ho mai capita
che non può accadere soltanto che il
bicchiere si riempie quando l’acqua scorre
che la tunica non si gioca ai dadi
ma si taglia e si cuce con le mani
e mi direbbe l’orchidea di questa Pasqua
puntuale affacciata alle nostre finestre
come quella macchia di ginestre di cui
rivedo nel bosco fitto l’ambizione del bagliore
il chiarore infestante della Resurrezione Continua a leggere→
Charles Simić, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Roma all’Auditorium della Saint Stephen’s School, il 27 ottobre del 2015.
Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023.
La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.
Charles Simićè stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.
Something Evil Is Out There
That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.
Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe
Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,
With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.
C’è qualcosa di malefico là fuori
Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.
Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere
ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,
con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.
da: Charles Simic Avvicinati e ascolta Edizioni Tlon, 2020 Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan
Else Lasker-Schüler nell’ultima foto che la ritrae d’inverno nel 1944, tutta intabarrata mentre esce da un negozio, è sfocata. Cammina per le vie di Gerusalemme un’anziana signora, un po’ trasandata, non sempre lucida. Eppure Else era una donna forte: si batteva come una fiera, per difendere la sua arte, promuovere il dialogo interculturale, esigere aiuti per sé e per le persone a lei care o per chi era in difficoltà, perseguitato e sradicato, negli anni bui della seconda guerra mondiale.
“Il mio pianoforte blu” è l’ultimo libro pubblicato in vita nel 1943.
Nel 2022 il libro è stato pubblicato in Italia dalle Edizioni FinisTerrae, con la traduzione di Michele Gialdroni nella collana Le Meteore, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat.
An mein Kind
Immer wieder wirst du mir
Im scheidenden Jahre sterben, mein Kind,
Wenn das Laub zerfließt
Und die Zweige schmal werden.
Mit den roten Rosen
Hast du den Tod bitter gekostet,
Nicht ein einziges welkendes Pochen
Blieb dir erspart.
Darum weine ich sehr, ewiglich…
In der Nacht meines Herzens.
Noch seufzen aus mir die Schlummerlieder,
Die dich in den Todesschlaf schluchzten,
Und meine Augen wenden sich nicht mehr
Der Welt zu;
Das Grün des Laubes tut ihnen weh.
– Aber der Ewige wohnt in mir.
Die Liebe zu dir ist das Bildnis,
Das man sich von Gott machen darf.
Ich sah auch die Engel im Weinen,
Im Wind und im Schneeregen.
Sie schwebten…
In einer himmlischen Luft.
Wenn der Mond in Blüte steht
Gleicht er deinem Leben, mein Kind.
Und ich mag nicht hinsehen
Wie der lichtspendende Falter sorglos dahinschwebt.
Nie ahnte ich den Tod
– Spüren um dich, mein Kind –
Und ich liebe des Zimmers Wände,
Die ich bemale mit deinem Knabenantlitz.
Die Sterne, die in diesem Monat
So viele sprühend ins Leben fallen,
Tropfen schwer auf mein Herz.
Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che prevedano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra! […]
E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti
– quasi arrivati, e neppure mai partiti.
*
Tranche de vie. In versi
e scorre per un verso e per l’altro ritorna
tirata via a forza ma con arte
una fetta di carne viva
al ricordo – il sangue che ancora
cola – come in un macello
appeso al gancio dondola il vitello
appena macellato e ancora caldo –
lo sento se soltanto mi avvicino
a un metro e chiudo gli occhi,
e trattengo il respiro, mi tappo il naso
ma mi manca il fiato
sfioro la carne viva, prima che la ferita si
rimargini
prima che la spuma della vita
biancastra
ritorni secca e muta nei suoi argini.
*
Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.
*
Canone inverso
E breve breve mi ritorna in mente
il ritornello
però tutto a rovescio che non so
neppure se sia quello di prima
oppure un altro – o della foglia
il dolore nel ramo che si incrina
– sulla soglia dove il rumore
si trasforma in suono e poi parola
e poi vola fra me e te –
rimane fra di noi – come se
fosse un arcobaleno, sole
un effetto di luce nella pioggia
una lama nel cuore
un boomerang di ritorno
un osso di rapace
scagliato d’improvviso a ciel sereno.
Da Porto franco, Arcipelago Itaca, 2022
______
Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).
Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi let- terari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.
Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contempo- ranea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online.
Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sono già apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Raipoesia” di Luigia Sorrentino. Porto franco è la sua opera prima in versi.
Fra le sue altre pubblicazioni a stampa:
– Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB 1997;
– Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB 2006;
– G. Martella, E. Ilardi, History. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori 2009 (in duplice versione, inglese e italiana);
– Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori 2013;
– Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne 2014.
A Siracusa Freud vede piccole statue
di madri e fanciulle, alcune con neonati,
colte nell’atto di sorridere o camminare.
Qui ho visto il femminile, scrive a Jung,
ma non entra nei dettagli e non condivide
la scoperta nemmeno con Ferenczi,
che in viaggio si rivela esigente e molesto.
Tiene per sé la visione, scovata o no per caso,
vale un intero viaggio, ma non trova le parole,
forse l’ha desiderata troppo a lungo,
ed è inutile addobbare la verità di dettagli.
Scrive alla moglie, impossibile l’anno prossimo,
troppo costoso venirci in tre, in cinque, in undici,
dovrei mettermi a fabbricare fibbie e fiammiferi,
tengo la Sicilia per me, nessuno me ne voglia.
*
Arrivato a Siracusa, Jünger torna dov’era stato,
alla fonte dei papiri, che lui ricorda in libertà,
mentre facevano compagnia alle ninfe. Una o due ninfe?
Forse due, ma ugualmente soggette a metamorfosi,
morte per amore e subito trasformate in fiumi.
Non si rassegna al cambio di geografia interiore:
qui ogni cosa e il suo contrario, annota,
sono possibili allo stesso modo, e la storia fa presto
a degradarsi, a restituire gli oggetti alla natura.
Se uno ha visto una ninfa sciogliersi nell’acqua,
fa presto a credersi una divinità, ma dimentica
le visioni successive, la rovina del corpo,
la storia che continua dopo la cristallizzazione.
Il sole splende ancora, noi ostinati nell’infanzia.
*
Non può nemmeno dirsi mare, il tratto di Stagnone
che collega Mozia alla terra. Più di ogni altra isola
questa appartiene ai morti, e i morti raccomandano prudenza.
La barca che lo attraversa deve procedere con cautela
su cinquanta centimetri di fondale, a ogni istante
può incagliarsi, ricordi che non riuscivamo a proteggere
Bianca dal sole, e tuttavia non avevamo paura,
sotto la pelle del mare potevamo vedere la strada
costruita per i carri, con la bassa marea si può attraversare,
e anche se il mare tenta di confondere le tracce
puoi sapere com’è, portare da mangiare ai morti.
*
Per iniziare a scrivere il suo poema,
Eliot aveva deciso di aspettare la primavera,
o almeno una stagione di quiete,
qualcosa di simile a una tregua.
Non sapeva che avrebbe avuto bisogno
di una guerra, o almeno di una siccità,
una condizione che dall’esterno avremmo potuto
associare a una moglie pazza, ma mai, mai
a un impiegato della Lloyds Bank.
Avrebbe avuto bisogno di tempo, anche,
e del dottor Vittoz che, premendogli
la mano sulla fronte, gli indicava dove
distogliere gli occhi, la calma che serve
quando niente è da perdere ormai.
Fuori dalla finestra, sul lago Lemano,
insisteva il battito d’ali del disastro. Continua a leggere→
Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.
Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.
Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.
Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.
Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.
Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.
(Luigia Sorrentino)
Postilla
Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.
SIGLA RAIPOESIA2022
ideazione e progetto di Luigia Sorrentino si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione
Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei grandi poemi greci o indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni. La metafora regna sovrana nelle pagine di Ibello e connette creature infinitamente lontane tra di loro – “il cimitero della sete”, “una giostra di tagliole e vento”, “la chiromante delle ustioni”, “il santuario delle nebbie”, “flagelli di margherite” “la nomenclatura delle vene”, “il battesimo incendio”, “l’alba dei rasoi” – creando legami sotterranei e inattesi, gettando il mondo visibile nei baratri del mondo infero.
Platone è il filosofo di quest’opera, soprattutto il Platone dello Ione, quello che sente nel poeta un essere posseduto dalla sua arte, un essere demoniaco che non sa di sapere. Ma sono molti gli autori presenti nell’opera di Ibello – uomo dalle vaste letture – e tuttavia più che maestri di stile sembrano invisibili fratelli di sangue, alleati in una comune avventura e in un comune viaggio nel fiume della natura, nelle sue correnti segrete e animistiche: è una natura vivissima, percorsa da forze impetuose e assassine; una natura popolata di animali e di fiori, antilopi, gru, gatti, cigni, cormorani, pinete, anemoni e aranceti, una natura straripante, assetata, minacciosa, sempre prossima a sprofondare nelle tenebre, sorella del Barocco spagnolo, quello più impregnato di morte.
Dialoghi con Amin è un grande e originale poema notturno ed è un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere, ci viene detto e ripetuto. “Amin, è quasi giorno” e noi sentiamo che questo “quasi” è una soglia magica e questo “giorno” muterà la nostra vita, come nelle aubades della poesia provenzale, quando il giungere dell’alba separava gli amanti e li consegnava alla loro solitudine. Qualcosa di immenso sta dunque per compiersi. Ma non sappiamo ancora di cosa si tratta, non riconosciamo il volto del Mutamento. Sappiamo che non è un semplice amore, una semplice morte o una semplice rinascita. Questo ci viene detto più volte. “Credimi, noi non stiamo per rinascere”. E non si tratta nemmeno di un paradiso o di un inferno. No. L’imminenza continua a nascondere i suoi piani e ci lascia all’oscuro, come in una moderna Apocalisse, per citare un’opera cara a Giovanni Ibello. Rimane quest’estrema vigilia nel cuore della notte, rimane “la lesione tellurica del buio”, come scrive il poeta. “Di quello che sognavi veramente / non resta che un silenzio siderale / una lenta recessione delle stelle”. Rimane qualcosa che non ha tratti umani. “Ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.
“Ogni cosa rivela /quel nulla che siamo già stati”. Qui non si parla solo di noi, non si parla solo della nostra brama di amore e di felicità. C’è in gioco in questi versi un mutamento sterminato, un dialogo amoroso tra le potenze della natura, qualcosa di remoto che non ci ha mai sfiorati e insieme qualcosa di vicinissimo che abita nel nostro seme. Forse è l’universo che si fonde con noi, come dice l’epigrafe di Adonis, o forse è un altrove che ci coinvolge nel suo alfabeto incomprensibile, un “altrove di spine e diademi” che ci conduce a spezzare i vetri dell’esistenza, una bufera che rade al suolo tutte le nostre parole, uno sprofondamento “nel grembo della cancellazione”, qualcosa che ci getta in balia dell’attesa, di una pura attesa senza oggetto. O forse è qualcos’altro ancora, qualcosa di impensabile e violento che supera la nostra intelligenza. Non sappiamo cosa, ma sappiamo che accadrà, scrive Giovanni Ibello, accadrà per intero e tragicamente, dopo aver seminato le sue tracce misteriose in queste pagine.
Tracce misteriose, indubbiamente, perché la parola di Ibello non è mai dispiegata, non si estende mai in orizzontale per chiarire se stessa e aggiungere dettagli. Si guarda bene dal dilungarsi in spiegazioni non richieste, si tiene stretta alla propria unicità e obbedisce al comandamento di Cristina Campo posto in epigrafe: non dobbiamo sprecare le nostre frasi, non dobbiamo offendere il nostro silenzio, perché “di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto”.
Ecco, il silenzio. Il silenzio è uno dei protagonisti di questo libro splendido e irripetibile. Ci impone le sue regole di ascesi e di clausura: le nostre preghiere avvengono nel buio degli hangar e noi le ripetiamo come giaculatorie dinanzi a un dio demente, con la paura di essere inghiottiti dall’afasia o da un mutismo sbigottito, un addio che ci attende e suggella ogni nostro gesto, rendendolo così glorioso e vano, sempre sul punto di precipitare in un tacito burrone di ombre. Come ci ricorda il poeta: se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una.
Vorrei concludere soffermandomi su un’altra epigrafe che Giovanni Ibello colloca in una posizione importante, in apertura di libro: alla poesia, che mi farà solo. E davvero la solitudine regna sovrana in queste pagine. È una solitudine carceraria, uno stato di isolamento rigoroso, una reclusione che non ammette sconti di pena se non qualche istante di libertà vigilata in cui il poeta getta uno sguardo sul mondo prima di tornare in cella. Ed è uno sguardo prodigioso e lancinante, quello di Ibello, uno sguardo che arriva a farci dubitare dell’esistenza stessa – “mai nessuno ci ha chiesto di essere vivi” – e ci proietta in un interregno di fantasmi al di là di ogni presenza terrena, assediati da scene perdute che affiorano all’improvviso o da intuizioni divinatorie sul destino che ci attende. Vita sempre sognata, mai vita. È una vita dove appare impossibile spartire stabilmente qualcosa con un altro e dove entriamo in una metamorfosi perenne, senza pausa e senza appoggio, sospesa tra la Napoli attuale di Diego Armando Maradona e lontane regioni della terra inondate di sole, un’eterna Mesopotamia di dune, deserti e ziqqurat, dove la luna illumina sempre la sabbia e Adonis innalza il suo canto solitario, solitario come il protagonista di questo poema, che può sancire la sua avventura umana solamente con queste parole incolonnate:
Amin
noi
siamo
soli.
_____________
da Dialoghi con Amin, Crocetti Editore 2022
io non torno più
Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”. Continua a leggere→
Dalla volta dello studio è un bisbiglio d’ali e piume:
sono volatili che salutano l’aurora.
Anche nell’era della burocratizzazione del sapere
un’antica luce si dimena dei recessi e ci innamora.
Meglio fare i conti con la vita o la carriera?
Non saprò mai quanto buia la strada diventerà e stretta
ma ho bisogno di tirare dalla tasca un libro
di versi e metterlo in mano alla collega come un pegno
per il prossimo incontro, e farne un ponte
nello spazio di questo esilio che ci attraversa
trovare nei suoi occhi per un attimo la stessa esitazione.
“Non lasciamoci senza un segno…”: ogni parola
lontana veleggia in mare aperto, c’è tanto vento.
Invece mi interessa che questa poesia resti
come un dono, un ricordo, o un progetto
nella mano di un’amica che l’accarezza.
“Sai quanto ti voglio bene… “
L’errore e credersi capaci di donare e donarsi
ritenersi degni di amare ed essere amati.
Cazzate. Da anni inseguo ideali stampati
sui libri come ombre sui muri: alla sera svaniscono.
Quando ti svegli hai paura dell’amore
che non esiste, pensi di aver sognato.
Di aver creduto vero ogni abbraccio, ogni bacio.
Fu un non-esistere lieve, forse un azzardo.
Invece di viverla, ci inventammo la vita.
Esiste invece, la mattina, quel senso dell’onore.
Il coso duro anche dopo gli anta, ancora parla: ”
basta una, sulla strada…”
Mezz’ora ed è finita, e alla fine non ti dice:
“Sai quanto ti voglio bene ma preferirei non vederti”.
No: “Per te non sento niente, mi piacerebbe rivederti”.
I piatti sporchi
I piatti sono ancora l’uno sull’altro sporchi nel lavello
e così li lascerò stasera, perché è come sto dentro.
Domani ci metterò le mani per pulire tutto con un gesto
di gratitudine immenso per il tempo che ho perso
e penserò: basta, devo finire, presto…
Lavare ogni sera i piatti in cui ho debellato la fame
e lasciarli asciugare per poi ricominciare il giorno dopo –
ma che senso ha, perché non me ne vado?
o aspetto che venga la Signora e metta a posto?
Farà pulizia in mia assenza, luciderà l’acciaio
come uno specchio in cui posso guardare quanto sono bello.
Senza unto, senza calcare, bello come un ladro.
Da La circonferenza della vita, Marcos Y Marcos, 2022, Collana: Le Ali, curatore Fabio Pusterla
Salvatore Ritrovato è poeta e critico. Dopo l’ultima raccolta (L’angolo ospitale, La Vita Felice 2013), ha pubblicato diverse plaquette (l’ultima L’anima o niente, Il Vicolo 2020), e saggi sulla poesia (La differenza della poesia, Puntoacapo 2017; La poesia e la Via. Saggi sulla letteratura e la salvezza, Fara Editore 2020). Continua a leggere→
Devo dirti grazie
per le bende che hai avvolto
della tua pietas crocerossina
sulle ferite in-tagliate
piagate ustionate
Lasciami però aperti gli occhi
perchè vedano albe e tramonti
questo buio mi ferisce ancora
mi tormenta come un coltello
(da TRENTA POESIE PER RABARAMA,2014)
OMBRE
Ti vedo non ti vedo
forse ti intra-vedo
no
era soltanto ombra lunare
un grigio riflesso argento siderale
niente nessuno
nulla di fatto
il nulla fatto persona
(da POESIE DELLE CENTO LUNE,2017)
PAPAVERI
Ebbene sì sono fiero
di essere cresciuto come un fiore
che immediatamente muore
nella temeraria mano di chi
lo strappa al campo
pur di sottrarsi a una vita senza scampo
e non marcire lentamente in un bel vaso
effimero ornamento
in un appartamento
(da POESIE PSICHEDELICHE,2019)
FLOP
Sono come l’acqua
corro scorro
dilago
di lago in lago
non mi volto mai indietro
non mi tiro mai indietro
Sono goccia d’acqua
dentro doccia d’acqua
plop plop
plop plop
plop flop
fino al prossimo flop
(da I CERCHI/ Poesie col flash,2019)
NON CONOSCO L’ATTIMO
Non conosco l’attimo
in cui un sasso
mi frantumerà il vetro perciò
lascio sempre aperte le finestre
così da spalancare
il mio libero spirito
alle correnti dell’amore
(da UN ALTRO GIORNO SU NEL CIELO/
Poesie in viaggio con l’anima, 2021)
Dopo l’ esordio poetico con L’ARPA DEL CONNEMARA che risale al 1993,e un lungo periodo come autore di saggi su tematiche storico-artistiche (I cento chiostri di Napoli, Le cupole di Napoli.Le strade di Salerno) e mitologiche (Partenope la sirena, La leggenda di Palinuro,La luna dal mito alla conquista) Dario Nicolella (Napoli,1956) ha da qualche anno riscoperto una nuova e inattesa vocazione poetica che ormai si affianca stabilmente alla sua professione medica.
Sempre ti manca quello che hai: vivere.
Qualcosa di più necessario, seguiti a chiedere,
qualcosa che ti convinca, ti vincoli a.
«Perché continuo a scrivere?»
Forse perché puoi finire
lo fai, come uno cammina di sera
prima di cena, o un altro vanga l’aiuola,
o mette a posto il garage, perché tu potresti
– come lui – non varcare più l’ombra
dei lampioni, l’altro smettere di sperare
che germini il seme o più non sapere se le sue cose
sono ancora lì – potresti così tu non essere
più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu
che diventi tu che lo scrivi.
*
Anni fa, adesso, lo stesso pensiero di non tornare più
quel momento che la mente ristampa e pare uguale
mentre accampa la strada, è novembre, e sono le foglie
la quiete che manca, i rami neri nel cielo che c’è.
Adesso, allora. Soltanto più tenue è il respiro del tempo
che sfiora gli anni e le ore dove provi i risvegli e gli insonni
globuli rossi, i globuli bianchi, le cellule si avvicendano,
qualcuno che diventa qualcuno, a tua insaputa, tu.
Scrivere non è ricevere lettere.
È ciò verso cui lancio un destino.
I VOLTI LA SCRITTURA
Quello che chiamo Dio
è la non ignoranza di me.
L’orfano va per cardi.
Le capsule di cianuro in bocca ai bambini nel sonno.
Quello che chiamo Dio
è uomo che scende
dove rimane
tra l’inciampo e l’indulto, dove
nullo è il soffio e l’involarsi
dei primi fischioni.
Scrivi: fuoco e fune sul tetto.
Scrivi: inevaso.
LUCO
Alle bandiere fredde
di febbraio il tempo si ferma e trincano
tutti. le brocche e i bicchieri si svuotano.
I doni sono tracce di occhi.
Altri doni sgombrano il tavolo e noi abbiamo una
visione calcinata, un biancore scheggiato di fossili.
Torna, imperante, l’ombra,
la parola incavata a sera. Forse
verranno tardi i bevitori gagliardi, una posa
tra falconieri e giullari. Eppure resta una statuaria
sotto il vuoto di una fuga noiosa. E, nel gelo,
dietro le porte inchiavardate, si masturbano, folli
di una notte vorticosa e stellata
che si aggira per Via Muro Barbieri,
le mani in tasca, il vino nella grotta.
TEMA BRODSKIJ
Povera morte sola
rispondi quando vuoi, ti prendi tempo.
Aria di pioggia, nostalgia del primo
passo vuoto. Non le aste
d’acciaio o il mostro in cattività.
Buio di occhi, buio che vedi
l’estate con la zappa sui formicai.
Nell’acqua la corona di papavero.
Nella controra tu vieni intorno al vento e lasci
la pietra di ubbidienza e la preghiera
che fa mansueto chi sale e scalfisce.
Povera morte sola
squassando la tenebra tu riluci
con le voci addosso e la madre asciutta
nei moniti e filiale nell’incanto.
Fin dentro i crepacci io ricordo te che
segui un riflesso e un passato di allievi.
La stanza illuminata entra di notte
nei bouquet e nei fuscelli tremando
contro una lingua offesa
contro un linguaggio che fende attraverso
la fragranza di frutta e le labbra gonfe
che tornano qui,
Torniamo anche noi, più alti
di ogni immagine, tra la sabbia che si ostina a tenere
le tracce ed è una spiaggia che latra da vent’anni
come il padrone di Itaca
come il padrone festoso e selvaggio
che dorme accanto al suo cane in un lenzuolo madido.
Povera morte sola
chi ti ama aspetta una lunga carestia.
Più cupa stasera l’aria della terra.
Piccola fiamma di un’attesa amorosa, avanza. Continua a leggere→
Mimmo Paladino a partire dal 3 dicembre 2022 torna a esporre alla Galleria Mazzoli di Modena dopo la mostra EN DE RE del 1980, la personale del 1992, Dieci arazzi con Alighiero Boetti del 1993, Vasi Ermetici del 1994 e le mostre personali del 2012 e del 2014, proponendo Il tema dei fiori, un ciclo di opere inedite in cui sono protagonisti i fiori, soggetto ricorrente in tutta la storia dell’arte, dall’antichità fino ai nostri giorni.
Paladino realizza per questa mostra sia opere di grandi dimensioni che piccoli dipinti in cui convivono pittura, scultura, incisione e disegno e in cui campeggiano le sue teste, la figura umana e le sue classiche figure geometriche delineate con segni primordiali, opere in cui si percepisce il dialogo tra l’uomo e la natura attraverso le stratificazioni materiche e gli elementi floreali immersi nell’immaginario poetico dell’artista.
Nel testo del catalogo della mostra Lorenzo Madaro ci parla di “Fiori che germogliano, fiori che si amalgamano a corpi antropomorfi arcani, fiori che persistono e fiori che si dissolvono; fiori che lievitano verticalmente e altri che compiono viaggi imperscrutabili e che svelano in maniera ancor più precisa che per Paladino questo del fiore non è un tema fine a sé stesso, perché d’altronde nella sua ricerca non esistono tematiche, quanto piuttosto un presupposto che gli consente una maggiore disinvoltura e una libertà di segno, anche al di là del segno stesso.[…] La forma di questi fiori è totemica, arcaica, appartiene a un lessico visuale che nella ricerca del maestro è parte integrante di un alfabeto ermetico ma al contempo ormai famigliare. A guardarle queste tele sono singole sezioni di un discorso più ampio e aperto, sono elementi di un grande giardino, che è un tema che appartiene da tempo a Paladino.” Continua a leggere→
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Luigia Sorrentino 25 novembre 2022
Nel lago della sera
Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia, scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada che costeggiava la fabbrica di ghiaccio. Brandelli di morte erano caduti nel pietroso mondo invernale. in un ritmo feroce, il ghigno dell’animale stringe, sempre più. Uno sciamare esaltato imbriglia la preda. Respira nella morte la danza armata, ingoia il grido nel grembo.
Sale la musica, sempre più in alto. – Cara compagna dei miei anni sopravvissuti –. Una corona cade sulla sua testa.
Nunzia
essere portata in un’urna
diranno – reca le ceneri –
con il corpo privo di resistenza
la ragazza dal volto antico
si sottomette
rende cadavere la cosa
una forza la preda
non uccide ancora, è sospesa
su di lei
l’imperativo potente
l’ha resa schiava
di notte quando è sola
lava via dal corpo
segni vaghi e confusi
*
qualcosa incrina la sua forza
il posto si svuota
– tu sei inutile, non vali niente –
la violenza ha la lingua del fuoco
lo scudo sul quale rimbalza
le protegge il volto, chiaro
la testa fra l’incudine e il martello
montava rabbia incandescente
poi scendeva la tenebra
il silenzio di tutte le parole
*
si rivestiva in un angolo
senza più dire niente
restava lì, nella penombra
separata da sé
era accaduto di nuovo
era già accaduto prima
sulla strada
la testa ciondolava nel niente
precipitata l’innocenza della rosa
coagulato l’umido degli occhi
dal profondo l’assicuravi
del nulla, del tuo trionfo
– nessuno ti vorrà più –
*
l’arteria della gola tesa
porgeva il collo alla lama
il promontorio dagli occhi languidi
tornava a deporla
sulla città distesa davanti ai loro occhi
quell’odore di labbra poteva già essere
c’era sempre stato
non sospettava di essere
coraggiosa e giovane
dà l’imbeccata al falco
l’isola ferita
il palmo della mano avvicina
il basso graticcio delle rose
*
la nuvola sembrava una montagna
non era niente
la carnagione bianchissima
aveva il carattere provvisorio
dei morti
la tenebra le parlava
ossessivamente
occupando il suo destino
il canto degli uccelli notturni
annunciava in un grido
la fine di ogni cosa
*
il dio dei morti autorizza l’amore
soltanto presso i morti
lo dissotterra,
amore disperato e sterile
dal naufragio lo difende, in seno
cara luce
tiene il lembo
lascia cadere
una speranza debolissima
si propaga all’umanità intera
deperita vittima espiatoria
adorazione terrorizzata
verità della violenza Continua a leggere→
All’estremità della notte le occhiaie
ci confortano, piccole chiazze di lune
piene sul volto. La redenzione del tunnel,
con i suoi boati corvini e le falene-bussole,
è una strada d’alluminio che accoglie
i nostri fantasmi, a 150 km orari.
Il roseto di abbagli ed errori resta fuori
da questa griglia di Hermann: le fucilate
degli antinebbia e i rimpianti sono espunti
da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.
Manca profondità a questo andare,
uno sguardo d’insieme, il talento
di sopravvivere alle lesioni del buio
*
È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.
Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?
*
È un lampione questa luce che piomba sul tavolo,
allaga il conto delle notti a venire, un rebus scritto
con avanzi di briciole. La strada posa la sua coda
sonora per terra – dentro o fuori non fa più differenza –
Una volta c’era una casa fra ottantatré geroglifici urbani
e tre colate di cemento in tiro, puntati negli occhi:
una sagoma abita la sera, dietro una lamina di dubbi,
nell’odore cinereo, come sfugge – ma dove –
domani le voci si stendono ad asciugare tutti gli incubi Continua a leggere→
Tramuta nel corpo del padre di mio padre
la filosofia che il tempo lascia come
lo screpolare sui muri sgravi delle labbra.
Riconosco nelle parole le cose dove
sono ancora i tratti che parlano per noi.
Qui lei, la sorte, ritarda a partire
anzi si ferma del tutto.
Amare sarà adagiare le difese
carpire insieme lo spazio
lacrimare ogni bacio in un addio.
Non c’è divario che colmi il tempo
allora gli stendo un abbraccio nel letto.
Aspetto che consumi più lieve il suo dolore.
*
Raramente mi riduco a esitare la carezza tra generazioni
mio padre in dolore a quarant’anni
che perde l’amore di suo padre mantiene
infernale la ferita.
Noi vivi e lui nel taglio dove
tutto è interno a tutto
a cominciare dal sorriso
che portava sempre inciso anche
nelle ultime foto di famiglia.
Di notte mi fermo a prendere la carezza tra generazioni
rivedo un uomo stanco consumare
i lineamenti dell’amore
scambiare per me il dolore
in felicità.
*
Adesso è soltanto pianto che rimane sui vetri
e nella lacrima che appoggia quasi una pioggia da ascoltare.
Avrà una lunga battitura il grano.
Da dentro dove gli armadi si innalzano
ai nugoli bianchi del cielo
tutto l’intonaco crepa alla vita:
un pretesto nel resto che rimane per la sera
un riflesso nel piatto dove scarto le croste
un ricordo dove sono immerse
le nostre ultime fotografie.
Non accenna nemmeno una fiamma la candela.
Non vedrò così le ombre degli assenti
gli odori degli aromi del frutteto
nessun dolore se non dolore cieco
è notte tra gli occhi il mio sollievo.
*
Traccia tra i morti che ritornano in inverno
tra la neve e le navate, un ponte
verso il corpo. Incurvalo
nel momento in cui i ricordi si fermano
dove le strade sono piene di fila.
Rincorrili sui vetri fino ai vetri di casa
seguili ora dentro il suono dei clacson
ora nel caos delle campane.
È così cara la celebrazione che speriamo duri
e che invece stabilisce una fine
tra l’amore e il vento a venire
su dalla pianura.
*
Quanto pesa il grano del giorno
quando vedo il tuo corpo a riposo
riflesso nelle ultime luci della sera.
La notte è solo un luogo in cui fare a modo
io so per certo il tuo abitarlo
è comprensione del buio. L’oscuro
si irradia nelle vene fino
a creare un confine sul volto.
Nelle conche c’è ancora ammiccato
il residuo di un sorriso mentre
intorno è l’attacco infinito della notte.
Questo stare proibito nei corpi
questo intimare alla vita che porti
è come un presagio.
Qua l’ombra muta
si fa febbre sulla fronte e mi appartiene.
Il dolore è freddo in transizione, a distanza
si accosta sul respiro dell’alba.
La sua nella mia voce è un ricordo
che sale ogni giorno col sole. Continua a leggere→
Dottoressa, come le ho già più volte
detto, pur con le molte
divagazioni del caso
io sono preoccupata per il mio naso.
Ho paura che la sua sporgenza
sia uno sfoggio di esistenza
e che al vederlo chi è di fronte
pensi a lui come ad un ponte
nella mia direzione,
fatto di binari olfattivi,
alla portata dei suoi incisivi.
Dottoressa, è un delirio
o solo fervida immaginazione?
Mi rassicuri, mi comprenda,
alle prese con l’ammenda
mi sprofondo nelle suole.
Allora, andiamo con ordine:
tu mi vuoi dire che il tuo naso
è una proiezione del fallo reciso
che tua madre conserva in un vaso?
Esatto dottoressa, quanto ha ragione!
Conosce Lisabetta da Messina,
sventurata figlia del Decamerone,
i cui fratelli assassinarono l’amante in sordina?
Del suo amato la testa riposa
in un vaso sul quale ella piange
la condizione di mancata sposa.
La castrazione decapitata del suo amato
l’ha indotta ad una partenogenesi di basilico
per cui le lacrime hanno irrorato
una verdura che sul suo capo
ha attecchito da più di un lato.
Dottoressa, io sono convinta
che al suo naso la radice s’è avvinta
e questo pensiero mi ossessiona talmente
che immagino il naso come una gobba
vulnerabile ed esposta alla gente.
Il naso, ci pensi, è una bandiera
svetta sul muso con la punta altera
e con le narici ci apre la strada,
perlustrando, come una spada.
C’è chi dice “non vedervi oltre”
a significare che l’escrescenza facciale
sia dell’uomo il limite oppure una coltre.
Ma la mia espressione preferita
è sempre stata “naso di velluto”,
mi fa pensare a una stoffa brunita
sulla ferita che ingombra il ritratto
altrimenti piatto della nostra partita.
*
Il verso
Andare verso dove,
senza direzione, nel cammino
del flâneur che non si oppone
a nessuna deviazione,
anzi la propone.
Il mio passeggiare per vie storte,
in cui la salita è sempre l’unica nemica,
è molto differente
dal percorso che conduce ai nostri incontri.
È un verso in cui ha senso anche il rovescio,
ritrovo le ferite che hanno reso
tanto arduo il mio scompenso
in questa folle sfida
che è la vita,
in cui evitare la salita
compromette anche una riuscita.
Andare verso dove,
verso ogni prima volta mai risolta,
verso ogni scelta
che guardandola a ritroso
sembrava solo offerta e non recava
la ferita ancora aperta.
Andare verso dove,
verso un amore
che a ogni sorso
la sete mi pospone.