Gino Scartaghiande, “Sonetti d’amore per King-Kong”

Gino Scartaghiande, marzo 2023 (foto di proprietà dell’autore)

di Luigia Sorrentino

Nel 1977 l’uscita dell’opera di Gino Scartaghiande, Sonetti d’amore per King-Kong, nato a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1951, rappresentò uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento. Un poema stilisticamente audace per quei tempi che molti accolsero come un evento. A distanza di oltre quarant’anni Graph Editore ripropone i Sonetti, con l’aggiunta di alcune poesie inedite.

Fonti del Kong
di
Gino Scartaghiande

Sonetti d’amore per King Kong sono un fenomeno non circoscrivibile in una data realtà storica, tantomeno in una decade. A rigore, rifacendomi ad Husserl, il fenomeno non ha niente a che fare con la realtà; esso è, rispetto all’arte, quella “inconcepibile mezza sfera mancante” a cui, come dice Beppe Salvia in Idea cinese, l’arte stessa “deve assoggettare la propria rappresentazione”, altrimenti “diventa genere. oggetto di culto”. Ed infatti è proprio da questa lontananza dalla realtà del fenomeno che la poesia riesce a darci oggetti precisi con cui comprendere e preservare l’intero Lebenswelt umano. E anche io, per quanto mi riguarda, credo che proprio la poesia in quanto fenomeno, dacché mi ha da sempre estraniato dal mondo, mi abbia poi aperto la vera via per poter questo stesso mondo incontrare ed amare fin dal di dentro della sua Storia, o proprio mettendomici sotto, come una talpa.

Il decennio post-sessantottesco è stato senz’altro tragico, per me studente universitario nel quartiere di San Lorenzo a Roma, durante i cosiddetti anni di piombo. Eppure eravamo aggrappati a questo fenomeno-poesia come oggetto reale, non solo io, ma tutta una schiera di poeti prima e dopo Pasolini, da Amelia Rosselli a Beppe Salvia, che hanno saputo superare, con enorme sacrificio di sé stessi, quell’assentificazione del fenomeno operato dalla poesia ermetico-idealista in cui si era venuto a dilatare l’occulto nichilismo liberal-romantico di Manzoni – si veda sull’argomento il libro-pamphflet di Aldo Spranzi L’altro Manzoni, Ares, 2008 – ovvero la mistificazione di una letteratura che, perdendo di vista il proprio oggetto fenomenico, diventa mero esercizio di stile, o di estetica, denotante una sostanziale mancanza proprio di quello stesso fenomeno cui avrebbe dovuto annunciare.

Il caso del romanticismo e dello storicismo di Manzoni è emblematico, e la questione è fondamentale per comprendere la catastrofe che si apre dopo l’altissima cifra classica di Foscolo e di Leopardi, e il conseguente precipitare di tutta l’epoca nell’ideologia positivista. Se ne avvidero Pascoli e Carducci, e corsero ai ripari, ritrovando il fenomeno oggettivo della poesia, e con esso soltanto, una lingua ed uno stile veritieri. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” ci apre all’ “altrove” del fenomeno, e il “Né io sono per anche un manzoniano” sono parole pur troppo vere, dette quasi per celia da uno che aveva in epoca positivista vissuta la tragedia della messa a tacere di una origine fenomenica della lingua, che era invece ancora così naturalmente presente, in quanto tale, nei suoi avi meno remoti, e che il poeta fa d’un tratto balzare ai nostri occhi, nell’incontro di nonna Lucia con lo scaturire celeste dei giovani-cipressi “alti e schietti”. Non anche forse da quel “T’amo, o pio bove” carducciano sarà derivato il “Ma io / t’amo King Kong” dei Sonetti (pag. 28, Graphe.it Edizioni, 2023) e “Da la larga narice umida e nera” quel “Vieni con la narice dilatata” (ibidem). Come se un poeta prima di me mi avesse dato una plausibile zattera di salvataggio su cui salire. Mancando di questo oggetto fenomenico reale, l’arte non conforma nessun atollo di libertà per l’umanità, e anzi la conculca, per sostentare il mito-idolo di sé stessa. La catastrofe manzoniana si allargherà poi in quella del nostrano idealismo ermetico, con tutti i loro inani tuffi pitagorici in non si sa quale eternità se non in quella di una vanagloria mondana. Se ne ritrarranno in tanti, come dall’orlo di un abisso, consapevoli del maltolto… di “quanto ha roso il ferro della notte” Beppe Salvia (Canzone d’estate). Rebora che si ritirerà a Domodossola, Campana che scolpirà un suo sentiero di solitudine fino a La Verna, Antonia Pozzi che nell’antivedere di una nebbia, realizzerà il suo concreto oggetto fenomenico di poesia.

Il fenomeno della poesia è unico ed eterno in tutti i tempi e luoghi, e costituisce esso da solo tutta la tradizione. In questo fenomeno, o zona, se vogliamo dirlo con Apollinaire, si entra e ci si incontra all’istante con tutti i poeti di sempre in quanto persone vive, pur non avendoli mai prima conosciuti, e neppure mai letti. Sono essi stessi che ci vengono incontro e che ci prendono per mano. Essi ci donano le parole con il più alto grado di perfezione, ed è già un’altissima degnità per noi farne memoria. Così, in un percorso di conoscenza, mi è venuto incontro con il suo “Como smarrito sì vo per la via” Jacopone da Todi (Laude 89, v 127) mentre scrivevo “Come smarrito su di una strada” (ivi, pag. 36), e, dalla stessa laude, v 143, “scendemmo, saglio, tegno e so’ tenuto”, ed io “salgo, scendo gradini. Dappertutto” (ivi, pag. 45); o anche da Le aureole di Corazzini “Sei triste, mi dai pena / questa sera […] Che hai?” (Spleen, v 14-16) per il mio “sei triste stasera, sai cosa significa?” (ivi, pag. 27). Ma a volte basta anche un solo accento, una sola parola, come in questo “Te Campo” (Catullo, 55, 3) che mi si fa presente in un “Tu campo di / viaggi, campo di stasi” (ivi, 57).

Nessuna critica dunque di fronte al fenomeno, nessuna ermeneutica, se non il nostro confessarcene debitori. Il cosiddetto Anonimo del Sublime di fronte al fainetai trinitario di Saffo, “A me sembra pari agli dei colui che accanto a te siede”, viene rapito in estasi anch’egli, e tace, e ci rimanda solo il testo-fenomeno. Come tra i più splendidi oggetti reali di poesia. Se ne fa diacono, e anche doulos, ovvero servitore.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il nome

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza. Continua a leggere

Rebora, sulle orme di Dante

Clemente Rebora e Dante

Roberto Cicala con questo libro ci presenta una serie di sorprendenti inediti danteschi di Clemente Rebora, grande studioso del Sommo Poeta.

Nel volume Cicala come un archeologo, riprende e riporta in luce tutta una serie di appunti, riflessioni e postille di Rebora alla Commedia (segnate in matita rossa per indicare la grazia e blu per evidenziate il peccato) e un intero ciclo di lezioni tenute da Rebora a Milano nel 1929, l’anno della sua conversione.

Un libro unico che ci fa comprendere quanto Dante abbia influenzato Rebora e con lui, intere generazioni di poeti, fino a oggi, e, a quanto pare, l’anniversario dantesco non ha mai prima d’oggi messo in luce le lezioni inedite di Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento, “maestro in ombra” di poeti quali Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.

Gli inediti sono notevoli, per esempio sul passaggio – per Rebora autobiografico – dal «folle volo» di Ulisse all’«alto volo» della malattia mistica che l’ha portato alla morte a Stresa, il 1° novembre del 1957.

E proprio il primo novembre di quest’anno alle 16:00, nell’anniversario della morte di Rebora a Stresa, sulla sua tomba ci sarà un reading musicale per onorare la sua memoria, a  partire dal libro di Roberto Cicala Da eterna poesia (il Mulino, 2021) con musica di Roberto Bassa letture di Roberto Sbaratto introduzione di padre Ludovico Gadaleta Interviene l’autore

Il volume esce in libreria a fine ottobre 2021.

(Luigia Sorrentino)

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ROBERTO CICALA
Da eterna poesia
Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (Il Mulino, 2021)
Presentazione di Alberto Casadei

 

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Pasolini e Zanzotto, due grandi figure della letteratura del secondo Novecento

ANTEPRIMA EDITORIALE 

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.  

 

PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE

di Alberto Russo Previtali

 

«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.

Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:

Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.

[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]

 

Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:

La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6]. Continua a leggere

E’ Jean-Charles Vegliante il vincitore del Premio Ceppo internazionale poesia Piero Bigongiari

Jean-Charles Vegliante

La consegna del riconoscimento alla Carriera avverrà giovedì 7 ottobre 2021 alla Biglioteca San Giorgio di Pistoia (Auditorium Terzani) alle ore 16.30.

Il poeta vive in Francia, a Parigi, ed è uno dei maggiori poeti fra i contemporanei

L’autore leggerà la “Ceppo Piero Bigongiari Lecture 2021” appositamente scritta per l’occasione e pubblicata all’interno del volume Rauco in noi un linguaggio appena edito da Interno Poesia.

L’antologia contiene le ultime poesie di Vegliante, con alcuni importanti inediti, ha la cura e le traduzioni di Mia Lecomte, poeta e traduttrice dal francese, collaboratrice della rivista di poesia comparata “Semicerchio”.

Vegliante e Lecomte leggeranno le poesie e le traduzioni contenute nell’antologia.

Fra gli interventi, quello del professor Stefano Carrai (professore della Scuola Normale Superiore di Pisa) sul rapporto fra Dante e Vegliante.

Alla manifestazione saranno presenti gli studenti del Liceo Linguistico “Filippo Pacini” guidati da Cecilia Ballotti che interverranno con domande e commenti: le migliori saranno premiate con buoni libri offerti dalla Fondazione Caript da spendere alla Libreria Lo Spazio di Pistoia per il Premio Ceppo Giovani.

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Una poesia di Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

PICCOLA ODE A ROMA

a P. P. Pasolini

Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.
Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all’opera assegnata,
nell’odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall’altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.
Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

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Le poesie giovanili di Paolo Volponi

Paolo Volponi

NOTA DI LETTURA DI ELEONORA RIMOLO

I versi inediti recentemente ritrovati del giovane Volponi, recentemente pubblicato da Einaudi (Poesie giovanili, 2020), risalgono alla seconda metà degli anni Quaranta, alle soglie del Ramarro e arrivano fino ai primi anni Cinquanta, epoca della pubblicazione dell’Antica moneta.

Questi testi colgono il poeta in un atteggiamento molto lirico e poco ermetico, a metà tra simbolismo e naturalismo: prevalgono stilisticamente parlando la frantumazione sintattica, antieroica e antidannunziana e la tensione poetica si concentra sul tentativo di costruire un dialogo sincero con la realtà circostante e con un mondo ancora troppo misterioso per un giovane seppur talentuoso poeta.

Volponi è divorato dall’angoscia della fuga da Urbino, così agognata e così temuta allo stesso tempo e da un immobilismo interiore che arde e infiamma il verso, in bilico tra eros e repulsione.

Protagonista assoluta e cornice di questi versi è la natura: alberi, colline, animali, campi, diventano parte del paesaggio intimo del poeta che canta il suo tumulto attraverso immagini di rara potenza espressiva.

Il tema della terra natale, quella adriatica, tra monti e mare, venata da un senso di nostalgia e di corruzione dell’esistenza è dunque al centro della riflessione volponiana in questo particolare periodo della sua vita, precedente all’incontro con Pasolini e con i sodales di «Officina» che modificherà radicalmente stili e contenuti del suo fare poetico e ancora lontano dalla sensibilità verso il mondo operaio e la meccanizzazione dell’umano.

da “Poesie giovanili” di Paolo Volponi, a cura di Salvatore Ritrovano e Sara Serenelli

Dieci spighe
intorno a un melo.
Le mele cadendo
scrollerebbero le spighe.
Avrei di che mangiare.
Un verme
tra i denti
mi servirebbe
per non esser solo. Continua a leggere

Mauro Germani, “La parola e l’abbandono”

Mauro Germani

Mallarmé scrisse che il mondo esiste per giustificare un libro. Ma quale libro potrà mai giustificare il mondo?

*
Non usciremo mai dal nostro oblio. Incapaci di sapere chi siamo veramente, vaghiamo come sonnambuli nella notte del mondo.

*

Quando scende la sera e si accendono i lumi dell’orizzonte, è possibile provare nostalgia di un’unità perduta ed irraggiungibile.

*

Non c’è che un’unica notte che ritorna.

*

Quando si è malati si è più veri. La malattia sorprende la nostra clandestinità.

*

L’esilio è il destino dell’uomo.

*

Il poeta è un abitatore di rovine.

*

La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.

*

La parola è sempre sola davanti al dolore e alla morte.

*
Il mare conserva una forza primordiale che attrae e spaventa, un altro mondo buio e profondo sempre pronto a inghiottirci.

*

Il poeta non è solo quando scrive. E’ tremendamente solo dopo.

*

Kafka sapeva bene che l’unica sua aspirazione e vocazione era la scrittura, tuttavia dovette sperimentare che il potere di quest’ultima non era suo e che non aveva affatto la prova di scrivere veramente. I suoi testi lo ponevano in una condizione di esilio abissale ed egli era spesso costretto ad interrompere la scrittura, che così ritornava a quella misteriosa notte in cui era nata, il destino della frammentarietà e dell’incompiutezza lo perseguitava, avvertiva allora in sé il senso di un doppio fallimento: quello di uomo, estraneo agli altri uomini, e quello di scrittore, preso da una forza oscura e da una vertigine più grande di lui. Continua a leggere

Gandolfo Cascio, “Le ore del meriggio”

Gandolfo Cascio, credits ph. Dino Ignani

Estratto da Gandolfo Cascio, Le ore del meriggio: Saggi critici, Il Convivio, 2019.
Volume vincitore del Premio G.A. Borgese per la saggistica letteraria.

 

 

La libellula di Amelia Rosselli

 

Ricordo che lessi una prima volta La libellula[i] nell’elegante edizione SE. Era l’estate della maturità ed è grazie alla coincidenza con quell’evento che rammento con tanta fiducia l’incontro. Il libriccino riporta in copertina un ritratto molto bello di Amelia Rosselli. Allora non conoscevo Simone Weil, ma ora in quella foto ritrovo dei tratti comuni nel viso delle due ragazze: un volto giudeo, smilzo e stupendamente sdegnoso.

Il poemetto non m’impressionò granché, anzi, mi parse aspro come l’acido. Io, che in quegli anni ero incantato dalla poesia onesta, lo schifai con un orgoglio e l’insolenza giustificabili solo dall’età. Questa noia, ora lo so, mi veniva da un paragone con quelle divinità che avevo innalzato a trinità privata: per l’appunto Saba, Penna e Morante.

Qualche anno dopo venni però a sapere della simpatia di Amelia per Penna[ii], e fu così che mi rimisi a studiare quel testo. L’ostinazione mi fece indovinare che una lingua tanto agra poteva rivelarsi sincera e mirabile quanto quella dei miei patroni e intesi che tanta pesanteur voleva rendermi la vita difficile non per tediarmi ma per ‘scoraggiarmi’. Come i dossi artificiali hanno l’obiettivo di dissuadere gli automobilisti più scapestrati, così le difficoltà della Libellula, ma credo che questo valga anche per gli altri libri rosselliani, vogliono affermare che la poesia non è materia da prendersi di petto, ma che va assecondata con un andamento non dissimile dalla flânerie.

Questo appello alla lentezza e alla concentrazione è stato – tra le altre cose – il contributo di Amelia Rosselli al dibattito attorno alla lettura, che deve estraniarsi dai meccanismi mercantilistici della parola. La Poesia, vale a dire, non è roba di consumo e non deve seguire le norme middle-class di efficienza, fruibilità, smercio: «Il borghese non sono io» dirà in Impromptu[iii]. Al contrario il suo compito – se la poesia ne ha – è quello d’imporre la riflessione, d’incitare alla critica. In questo senso si potrebbe perfino affermare che l’atto poetico di Amelia Rosselli è sempre un gesto d’insubordinazione civica, di anarchica e pacifica resistenza, soprattutto quando si accorda al ritmo salmodiante della declamazione. Tutto ciò non vuol dire che Rosselli diserti volontariamente la comunicazione con il lettore ma, semmai, invera una sfarzosa elegia alla subìta incomunicabilità, una situazione che  richiama alla mente il Deserto rosso di Antonioni (1964).

Tale ineffabilità s’esalta nella ripetizione lamentosa dei vocativi: «O albero teso. O particella immensa. O lunario | da quattro soldi»[iv], o di lemmi identici sistemati a brevissima distanza, per esempio: «e ti chiamo e ti chiamo chimera. E io ti chiamo e ti chiamo | e ti chiamo sirena»[v]. Il tono del lamento si conferma nell’uso di rime anomale (derivative, omografe, a inizio di parola) poste magari nello stesso verso (fiore : sfiorisce, amare [verbo] : amare [aggettivo], addolorata : addolcisci[vi]). Le rime, in pratica, più sono bizzarre, cioè fuori dalla norma metrica, e più saranno «denunciatorie»[vii] dello straniamento.

Dove possiamo posizionare questo volumetto nel discorso letterario di quegli anni?

Pasolini nella Confusione degli stili (1957) segnò nettamente il Novecento in un main-stream, ovviamente capitanato dall’Ermetismo, che s’avvale d’un:

 

gergo aristocratico anti-nazionale-popolare»; e dall’altra parte posiziona una letteratura ‘antinovecentesca’ che vi si oppose in nome e in virtù della ‘chiarezza’ e della ‘semplicità’[viii].

 

La data di pubblicazione di questo saggio è di grave importanza per comprendere appieno la sua portata.

L’anno dopo, difatti, lo stesso Pasolini insieme a Penna e Morante lasceranno che Nico Naldini stampi in una nuova collana longanesiana tre volumi – rispettivamente: L’usignuolo della Chiesa Cattolica, Croce e de­lizia e Alibi – che possono considerarsi campioni di quel movimento, affatto disorganizzato e eterogeneo, che senz’altro trova il proprio fondamento nell’esempio di Saba.

Insieme alle due correnti antagoniste dobbiamo noi conteggiare anche l’avanguardia, e in modo più specifico quella agguerrita del Gruppo 63: insofferente verso l’establishment e in fermento: tanto che da lì a poco avrebbe portato la poesia italiana a una scelta emancipatoria rispetto a entrambe le due opzioni di cui parlava Pasolini.

Noi oggi, come si dice in questi casi, con il senno di poi, sappiamo che questa controcorrente, per quanto utile a smuovere le acque, si è rivelata innocua; tuttavia, bisogna tenerne conto anche per rimediare alla svista di certa critica che ha provato a includere Amelia Rosselli in codesto côté goliardico. L’indicazione si giustifica in parte per motivi biografici: la frequentazione di qualche membro, e a causa della sede e data della prima pubblicazione di alcuni frammenti della Libellula, proprio nel 1963 nel «Verri».

Tuttavia una seconda pubblicazione, e questa volta per intera, si ebbe in «Nuovi Argomenti» nel 1966 e questo dato, con altrettanta superficialità, potrebbe riportarla nell’area antinovecentesca? Non credo.

Il fatto è che La libellula, né Amelia Rosselli, si possono assimilare a questo o ad altro clan; casomai, si può parlare di compagni di viaggio come, del resto, lo furono anche Scotellaro, Carlo Levi, lo stesso Pasolini e perfino Penna che s’ode in qualche verso come questo:

 

Bellissimo cameriere tu sei il re d’Italia tu che pazientisci e

corri per le camomille[ix].

 

O anche:

 

Raptus seduto, al bar dei Piccoli Angioli, presso la

Fontana della Vergine, che per oggi sono io[x].

 

Altrove, ritrovo perfino una eco morantiana, per quanto con l’abuso di una sintassi colpevolmente ambigua:

 

I bambini sono i padroni del paese

ladrocinii non vi sono solo incanti trasformati[xi].

Ripeto: tutti questi sono amici di baldorie. I suoi padri sono da ricercare altrove, in luoghi e stagioni ormai lontani: Campana e Rimbaud per la chiaroveggenza sentenziosa e, conseguentemente, per la scelta obbligata d’una lingua sibillina; D’Annunzio, per certa  ipersensualità libresca: «Egli premeva un nuovo rapporto di piacere, | egli correva al petto della donna amata»[xii]; o, addirittura, lontanissimi, come nel caso dei barocchismi di John Donne (o, perfino, caravaggieschi) per l’erotico misticismo: Continua a leggere

Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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La luce incerta di Sandro Penna

Sandro Penna, fotografato a Roma nella sua casa in Via della Mola de’ fiorentini, sul lungotevere

 La vita… è ricordarsi di un risveglio
 triste in un treno all’alba: aver veduto
 fuori la luce incerta: aver sentito
 nel corpo rotto la malinconia
 vergine e aspra dell’aria pungente.

 Ma ricordarsi la liberazione
 improvvisa è più dolce: a me vicino
 un marinaio giovane: l’azzurro
 e il bianco della sua divisa e fuori
 un mare tutto fresco di colore.

 ***

 Mi nasconda la notte e il dolce vento.
 Da casa mia cacciato e a te venuto
 mio romantico amico fiume lento.

 Guardo il cielo e le nuvole e le luci
 degli uomini laggiù così lontani
 sempre da me. Ed io non so chi voglio
 amare ormai se non il mio dolore.

 La luna si nasconde e poi riappare
 — lenta vicenda inutilmente mossa
 sovra il mio capo stanco di guardare.

 ***

 Felice chi è diverso
 essendo egli diverso.
 Ma guai a chi è diverso
 essendo egli comune.

 ***

 Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
 Ma più belli di te ragazzi ancora
 dormiranno nel sole in riva al mare.
 Ma non saremo che noi stessi ancora.

 ***

 Talvolta, camminando per la via
 non t’è venuto accanto a una finestra
 illuminata dire un nome, o notte?
 Rispondeva soltanto il tuo giudizio.
 Ma le stelle brillavano ugualmente.
 E il mio cuore batteva per me solo.

 ***

 Io vivere vorrei addormentato
 entro il dolce rumore della vita.

 da: Sandro Penna, Poesie, Milano Garzanti, 2000

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Amelia Rosselli (1930 – 1996)

Amelia Rosselli /credits ph Dino Ignani

Da “Variazioni belliche”

Se per il caso che mi guidava io facevo capriole: se per
la perdita che continuava la sua girandola io sapevo: se
per l’agonia che mi prendeva io perdevo: se per l’incanto
che non seguivo io non cadevo: se nelle stelle dell’universo
io cascavo a terra con un tonfo come nell’acqua: se per
l’improvvisa pena io salvavo i miei ma rimanevo a terra
ad aspettare il battello se per la pena tu sentivi per
me (forse) ed io per te non cadevamo sempre incerti nell’avvenire
se tutto questo non era che fandonia allora dove rimaneva
la terra? Allora chi chiamava – e chi rinnegava?
Sempre docile e scontenta la ragazza appellava al buio.
Sempre infelice ma sorridente mostrava i denti. Se non
v’era aiuto nel mondo era impossibile morire. Ma la morte
è la più dolce delle compagnie. La più dolce sorella era
la sorellastra. Il dolce fratello il campione delle follie.

*

da “Serie Ospedaliera”

Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche
un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova
con la candeggina che spruzza il cimitero.

Di sollievo in sollievo on la giacca bianca che sporge marroncino
sull’abisso, credenza tatuaggi e telefoni in fila, mentre
aspettando l’onorevole Rivulini mi sbottonavo. Di casa in casa

telegrafo, una bicicletta in più per favore se potete in qualche
modo spingere. Di sollievo in sollievo spingete la mia bicicletta
gialla, il mio fumare transitivi. Di sollievo in sollievo tutte

le carte sparse per terra o sul tavolo, lisce per credere
che il futuro m’aspetta.

Che m’aspetti il futuro! Che m’aspetti che m’aspetti il futuro
biblico nella sua grandezza, una sorte contorta non l’ho trovata
facendo il giro delle macellerie.

_______

BIOGRAFIA

Un episodio marchiò la vita e l’opera di Amelia Rosselli, un episodio a far capire che scrivere e vivere sono una cosa seria, e molto spesso sono la stessa cosa, soprattutto quando segnati da una tragedia: l’assassinio nel 1937 del padre, Carlo Rosselli, e del fratello di questi, Nello, durante la Resistenza antitifascista. Continua a leggere

Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere

Lo sguardo ripensato di Mario Benedetti

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

di Carmelo Princiotta

 

Rileggo Umana gloria. Le poesie di Benedetti sono spesso scritte come un ripensamento dello sguardo. I suoi verbi fondamentali sono guardare (anche vedere) pensare, dire, andare e venire. L’io è uno sguardo: «Io che sono delle cose negli occhi / ma non so dire come sono quando le guardo». E le cose? «Le cose che si vedono / sono storie di gente morta». Oppure: «Le cose arrivano dalla pubblicità / o da dentro i suoi occhi / dove nessuno vede perché ci sono solo i morti». Friulano estremo, come annunciato da Slavia italiana e Slovenija, Benedetti ha poi vissuto altrove, pur continuando a scrivere di quella frontiera, e da una frontiera non più geografica ma diciamo pure metafisica, quella fra vivi e morti.

L’andare è quasi sempre un andare via. Benedetti è un poeta del mancamento: il suo tempo prediletto è l’imperfetto. Ha una percezione elegiaca del tempo, un sentimento della vita come perdita. E si direbbe che a volte gli manchino le parole così come gli mancano i morti o come gli è mancata la terra sotto i piedi, durante il terremoto del ’76. In fondo alla poesia di Benedetti c’è In fondo al tempo, con la sua scena tellurica primaria: «Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna». «Scrivo per fratture» ha detto in un’intervista. E davvero a volte i suoi passaggi strofici, i suoi vuoti sintattici, sono delle crepe che rischiano di inghiottirci, come le gole del pavimento o come «la bocca dei defunti». Così è per il vuoto, ma anche per il pieno, gli elenchi nominali in cui le cose si accatastano come in un crollo, alla rinfusa, pezzi di vita, vite fatte a pezzi. Niente è al suo posto, tutto è dislocato, incongruo: «Sono venuti giù i sassi, / il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo. / Siamo scappati via dagli occhi, il vento nella testa». È la surrealtà dei terremoti, in cui tutto si dispone come in una fiaba del terribile. Molte poesie di Benedetti sono fiabe del terribile. L’inanimato si anima, tutto si muove. Si avvicina e si allontana, distorcendo la percezione del quotidiano: «Vengono vicini enormi i ceppi, le scale / i cerchi delle botti, come per andarsene». La realtà si ferma solo nei quadri. Chissà se è da qui che viene l’ossessione pittorica di Benedetti. Ferma vita è una poesia di augurio, uno dei pochi testi che si aprono al futuro, verbo che in poesia s’impara a coniugare da Fortini. È tutto un saliscendi in questa poesia, tutto un andirivieni. Per fermare le cose bisogna ripensare lo sguardo che le ha viste, amate, perdute. Il verbo più toccante di Mario Benedetti è il verbo stare, seguito a ruota dal verbo tenere, tenere insieme, come in Quadri. Tutto va via, anche gli occhi, di cui è disseminata questa poesia: «I tuoi occhi con i nomi delle mele e delle pesche».

La «visione intera» si scompone. Si ha una percezione metonimica del mondo. Tutto perde consistenza, tanto che c’è poi bisogno di ridire che cosa è l’io, che cosa sono le cose. Tutto è sempre qualcos’altro. La prima incongruità di questa poesia è il verbo essere, a meno che non venga modulato dallo stupore infantile della favola, del sogno: «C’era…». Oltre alla scomposizione, c’è una sovrapposizione, come in dissolvenza: «Era perché non poteva restare niente di tutto questo / che gli occhi facevano i matti». Si ha una percezione analogica del mondo, che certo Benedetti mutua da Milo De Angelis, ma poi riconverte nelle sue particolari dissolvenze, o, con termine zanzottiano, sovrimpressioni, come nella splendida Log, Ambleteuse, dal titolo che giustappone Slovenia e Francia all’indimenticabile finale: «E un albero di fiori / sale sullo slargo della marea / perché la mano è così, amore, / lei va alta fra i tuoi capelli», con quell’insensato e strepitoso connettivo, che fa un sorgere da un gesto il paesaggio fino a confondere gli amanti e ciò che guardano, o pensano a occhi chiusi: la mano con l’albero di fiori, i capelli con lo slargo della marea. Perché nelle poesie friulane di Umana gloria, quasi sempre le più belle dell’intero libro, le persone portano con sé i paesaggi: «Davanti il cielo che è venuto insieme a lui / gli alberi che sono venuti insieme a lui». Tutto è però ferito dalla natura, e dalla cosiddetta civiltà, dalle sue fabbriche, fibre sintetiche, pubblicità. Non per niente, dietro la «povera umana gloria» di Benedetti ci sono le «povere forme eterne» di Pasolini. Continua a leggere

Franco Buffoni, una poesia da “La linea del cielo”

Franco Buffoni

Erano bianche rosse allineate
Le macchinette nel cortile,
Ci giocavo d’estate all’ombra
Col pensiero, le spostavo di nascosto
Ogni giorno anche in vetrina.
Finalmente a Natale ne ebbi sei
Tre rosse tre bianche tutte in fila
Da spostare a mia voglia
Sul balcone, ma le dimenticai
Abbastanza presto, e l’anno dopo
Le regalai a un bambino vero.
Ora qui sopra Linate nel sole
In fase di attesa di atterraggio
Mi sembra di toccarle e di giocarci
Bianche e rosse tra i tetti
Piatti e pochi platani
Due pini, una vetrina dall’alto
Terzo giro e subito riprende quota
Le regalo anche queste
Sono grande non gioco.
Da: La linea del cielo, (Garzanti, 2018) Continua a leggere

Paolo Lagazzi, “Come ascoltassi il battito d’un cuore”

Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi

Per quanto amato da molti lettori di poesia, per quanto profondamente stimato da alcuni tra più grandi poeti del Novecento non solo italiano (da Montale a Luzi, da Sereni a Caproni, da Pasolini a Charles Tomlinson a Kikuo Takano), Attilio Bertolucci resta un autore ancora, in parte, misconosciuto e incompreso. Solo una lunga frequentazione del suo mondo poetico può permettere di cogliere la complessità e la ricchezza che si annidano nell’apparente semplicità del suo linguaggio. Paolo Lagazzi, riconosciuto dallo stesso Bertolucci (in un’intervista apparsa nella rivista “Gli immediati dintorni”, n.2, 1989) come colui «che forse più di ogni altro mi ha letto in estensione e in profondità», ripercorre negli scritti raccolti nel presente volume alcuni tra i capitoli decisivi della storia del poeta: l’inesausto amore per la pittura; la passione per le opere di Proust e di Eliot; l’affinità elettiva con un originalissimo, fantastico e umano storyteller quale Silvio D’Arzo; il lavoro svolto con leggerezza e lungimiranza nei campi del giornalismo e dell’editoria; il dialogo tra la sua poesia e il cinema del figlio Bernardo.

Soprattutto, questo libro ci porta di nuovo a osservare i “nodi” più segreti e cruciali del mondo bertolucciano: la religiosità sui generis, il sentimento del sacro, l’incontro fra un bisogno primario di verità e un’acuta coscienza della vita come mistero.

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Siriana Sgravicchia, “Il romanzo di lei”


Nella narrazione di romanzo, che Virginia Woolf ha definito simile a una tela di ragno, vi sono incontri degli autori e delle autrici con i libri del passato e del presente, i quali definiscono tutti insieme uno spazio discontinuo in cui ogni scrittura si prolunga oltre la soglia del singolo testo e oltre le cronologie creando talvolta fratture o anche abissi, altre volte territori di condivisione. Il volume propone un percorso critico attraverso romanzi di autrici italiane rappresentative dal secondo Novecento a oggi (Banti, Ceresa, Ortese, Morante, Ramondino, Sapienza, Ferrante). Il discorso nel suo complesso non intende presentare un canone ma disegnare un ritratto, uno dei possibili, dell’identità autoriale femminile nella scrittura di romanzo. L’indagine sullo stile, sui personaggi, sulle dinamiche intertestuali, e in particolare sulle strategie di autofinzione che le diverse scrittrici adottano evidenzia come tratto distintivo uno scarto fra il diritto all’espressione acquisito dalle donne e la permanenza di un segno di denuncia di volta in volta più o meno dissimulato. In questa prospettiva, i romanzi sui quali ci si sofferma testimoniano l’adozione di soluzioni che risultano attuali per i contenuti etici, civili, culturali e innovative rispetto ai codici espressivi della tradizione.

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“Nuovi argomenti” su Amelia Rosselli

foto di DINO IGNANI

Lunedì dalle ore 17:00 alla  Casa delle Letterature di Roma (Piazza dell’Orologio, 3) presentazione dell’ultimo numero di “Nuovi Argomenti” su Amelia Rosselli con Dacia Maraini, Biancamaria Frabotta, Roberto Deidier e Maria Borio. Continua a leggere

Alessandro Moscè , “Galleria del millennio”

galleria_del_Millenniodi Giulia Massini

Appena edito da Raffaelli Editore, Galleria del millennio raccoglie le riflessioni letterarie e le interviste che Alessandro Moscè (Ancona 1969) ha riservato alle opere di critici, poeti e narratori concentrate nel decennio 2004-2014, inedite o pubblicate su quotidiani come “Il Corriere Adriatico” e “Il Tempo” e su periodici come “L’Azione”, “Atelier”, “Poesia” e “Prospettiva”.

Proprio perché non programmatico, ma agito nel tempo, frutto di un lavoro quotidiano e corollario di una più ampia attività produttiva che ha visto Moscè attivo nel campo della narrativa e della poesia, oltre che su un lavoro critico orientato anche al progetto monografico e antologico, questo libro, aprendo una finestra sul mondo contemporaneo, ci svela anche un ritratto del suo autore, dei suoi temi privilegiati e di una poetica che orienta le varie forme del suo impegno. Continua a leggere

Addio al grande fotografo Mario Dondero

mario_dondero

La leggenda del fotogiornalismo mondiale, Mario Dondero, era nato a Milano il 6 maggio 1928 ma aveva deciso di vivere a Fermo. Dondero è stata una delle più originali figure del fotogiornalismo contemporaneo. Tra le sue foto più celebri, quella del gruppo degli scrittori del Nouveau roman scattata a Parigi nell’ottobre del 1959 davanti alla sede delle Editions de Minuit (Nathalie Sarraute, Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jérôme Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier).

Il suo interesse per l’Africa si è manifestato attraverso la collaborazione alle riviste Jeune Afrique, Afrique-Asie, Demain l’Afrique, Roland Topor, Claude Mauriac, Daniel Pennac, Jeshar Kemal.

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Lezioni magistrali di Letteratura Italiana Contemporanea

Eraldo-Affinati-scrittore
Le lezioni, dirette agli studenti delle classi V, in vista dell’Esame di Stato, cominciano venerdì 11 dicembre 2015 a Cicciano, alle 9.45, presso il centro Nadur e saranno aperte al pubblico.

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Presso il Centro Nadur di Cicciano ha inizio il ciclo, a cadenza annuale, di “Lezioni di Letteratura Italiana Contemporanea”, organizzato dal Liceo Scientifico-Linguistico-Artistico “E. Medi” di Cicciano, curato dal Dirigente Scolastico prof. Pasquale Amato, dal poeta e critico Carlangelo Mauro e dalla docente Rosanna Napolitano.

Il Liceo “Medi” da anni propone incontri e confronti degli studenti con autori contemporanei viventi, ultimo lo scrittore romano Eraldo Affinati, (nella foto) presente in diverse antologie scolastiche. Le attività didattiche mirate, in un percorso diverso ma parallelo, alla riflessione critica su autori canonici e ormai classici della contemporaneità, riservate alle classi V, ma aperte anche al pubblico esterno, cominceranno con la lezione di Alberto Granese (Univ. di Salerno) sul tema “Natura e cultura: i riflessi fisici, etici e psichici della guerra nella narrativa di Alberto Moravia”. Durante la lezione saranno richiamate a video alcune immagini tratte dal film “La ciociara”, di V. De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Moravia.

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1975-2015: QUARANT’ANNI DI POESIA ITALIANA

centro_poesia_milanoGiovedì 3 dicembre 2015 ore 18.30
Milano, Palazzo del Lavoro piazza IV novembre, 5
1975-2015: QUARANT’ANNI DI POESIA ITALIANA. IL PUNTO
Ciclo di poesia “Colpi da maestro” Continua a leggere

Al MAXXI, omaggio a Pier Paolo Pasolini


del_bonoPier Paolo Pasolini. Urlare la verità
reading di e con Pippo Delbono
MAXXI, Domenica 1 Novembre, ore 21, unica rappresentazione

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A quarant’anni dalla sua scomparsa, il MAXXI celebra Pier Paolo Pasolini, regista, scrittore poeta. E lo fa con le parole e la fisicità  di un artista altrettanto intenso, profondo, controcorrente: Pippo Delbono.

In anteprima assoluta, domenica 1 Novembre alle ore 21 (Auditorium del MAXXI, biglietto €10 validio anche per ingresso al museo fino a domenica 29 novembre), Delbono – autore, attore e regista –  sarà in scena con il reading  Pier Paolo Pasolini. Urlare la verità, pensato appositamente per il museo. Continua a leggere

Giorgio Orelli, “Tutte le poesie”

orelli

Giorgio Orelli, “Tutte le poesie” , Oscar Mondadori, Milano, Mondadori, 2015

A cura di Pietro De Marchi
Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo
Bibliografia di Pietro Montorfani Continua a leggere

Un poeta legge un poeta

pasolini.pgCari amici di Poesia,

Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento.

Il video deve avere questa struttura

1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia;
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere

Un poeta legge un poeta

cesare-paveseCari amici di Poesia,

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Un poeta legge un poeta

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Un poeta legge un poeta

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Un poeta legge un poeta

 
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Giacomo Manzù, tra gli appuntamenti del MIG

 
Manzu' -  Porta della Morte (Vaticano, 1952-64)[1]Un’estate tra arte (Manzù, Steinberg, Bernard e Raphael), letteratura (Giulia Mafai), musica d’autore (Dalla) e grande cinema (Pasolini).
Anche quest’anno, nell’ambito delle manifestazioni estive, per iniziativa del MIG Museo Internazionale della Grafica – Biblioteca Comunale “Alessandro Appella”, in collaborazione con la Pro Loco e il Forum dei Giovani, le piazze di Castronuovo Sant’Andrea saranno animate da una serie di iniziative culturali interessanti e assolutamente da non perdere.
Il primo appuntamento giovedì 14 agosto 2014, alle ore 21.30, vedrà Piazza G. Marconi, lo spazio antistante il MIG e l’Atelier “Guido Strazza”, trasformarsi in un cinema all’aperto per accogliere la proiezione della pellicola originale e recentemente restaurata del film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, in occasione del suo cinquantesimo anniversario e della grande mostra attualmente in corso a Matera, nelle sale di Palazzo Lanfranchi e del MUSMA. Continua a leggere

Alberto Arbasino, "Ritratti italiani"

 
alberto_arbasinoDal Risvolto di copertina
«Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi – da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio –, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D’An­nun­zio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria».
Alberto Arbasino
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Alberto Arbasino “Ritratti italiani”, Adelphi 2014
 

"Poeti da riscoprire", Elsa Morante

Elsa Morante 2Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni con la collaborazione di Luigia Sorrentino
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L’alibi della musica nella poesia di Elsa Morante
di Siriana Sgavicchia
Elsa Morante è autrice su cui non si discute in quanto a rilevanza nel panorama del romanzo italiano del novecento. Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La Storia (1974), Aracoeli (1982) sono, in modo diverso, opere di straordinaria potenza espressiva. Il romanzo d’esordio inventa a partire da una clausura un intreccio articolato di immaginarie avventure, proprio come Cervantes nel capolavoro del Don Chisciotte; L’isola di Arturo inscena il mito festoso e insieme tragico dell’eden; la vicenda di Ida e Useppe riscrive la Storia all’insegna dell’utopia a partire dal microcosmo di una madre e di un figlio; Aracoeli pone in primo piano il dramma della scoperta di una accecante verità senza possibilità di catarsi. In tutti i casi la forza della scrittura di Morante è soprattutto nell’invenzione dei personaggi, i suoi sono inconfondibili e indimenticabili: Elisa, Arturo, Ida, Manuel, le loro storie, sono miti moderni. Per questo Elsa Morante è più vicina ai lettori di altri autori italiani suoi contemporanei, per i suoi personaggi. Continua a leggere

Golan Haji, “L’autunno, qui, è magico e immenso”

golan_hajiLetture

Golan Haji: una rihla tra le ombre

Golan Haji, poeta, traduttore in inglese, medico patologo. La sua lingua madre è il curdo, ma compone le sue poesie in arabo, e talvolta le traduce in inglese. Ha abbandonato Damasco nel 2011. Nella sua poesia si trova l’epica, l’eco dell’antica versificazione araba, la mistica, il mito, insieme alla poesia contemporanea di tutti i paesi, di cui si nutre. Tutte queste componenti riescono a mantenere il carattere corale in una visione individuale in cui tuttavia è bandita la prevalenza dell’ego e dell’individualismo da contemplazione ombelicale. Continua a leggere

Manfred Trojahn esegue “Le Ceneri di Gramsci”

Manfred-TrojahnAppuntamento

Prima Assoluta al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma

‘Le ceneri di Gramsci’ di Pier Paolo Pasolini diventa un ciclo di lieder per baritono ed ensamble, musicato dal compositore tedesco Manfred Trojahn. La prima esecuzione assoluta dell’opera e’ prevista per il 12 sera alle 21.00 alla Sala Accademica del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma. Il baritono sarà Dietrich Henschel e il direttore Peter Rundel salirà sul podio dell’Ensemble musikFabrik di Colonia. Il concerto, ad ingresso libero, sarà preceduto alle ore 19.00 da un incontro con il compositore. Continua a leggere

Su “Le Baccanti” di Euripide a Siracusa

Arte e poesia
a cura di Luigia Sorrentino

MUSICHE E CORO NELLE BACCANTI DI EURIPIDE
di Alessandra Leone

Correva l’anno 1968 quando Pier Paolo Pasolini presentò a Venezia il film “Teorema”, prodotto da Franco Rossellini e Mauro Bolognini e tratto dall’omonimo romanzo pasoliniano. Protagonista dell’opera è una famiglia borghese milanese, che sarà scossa dall’arrivo di un giovane inquietante e misterioso. Tutti i membri della famiglia saranno stregati dalla presenza incantatrice del loro ospite senza nome, che riuscirà a sedurre ciascuno; tutti perderanno il senso della propria dignità sociale e persino della propria identità sessuale. Continua a leggere

I poeti leggono i poeti, “Come musica la poesia”

Appuntamento

Dal 23 aprile al 20 maggio il Teatro Argentina di Roma apre le sue porte alla grande poesia del Novecento, raccontata attraverso cinque incontri che compongono la rassegna COME MUSICA, LA POESIA, un progetto a cura di Franco Marcoaldi, che rinnova la tradizione e l’impegno del Teatro di Roma di far incontrare poesia e teatro, due mondi in dialogo profondo tra di loro. Un itinerario poetico lungo un mese per rintracciare sul palcoscenico i volti e le voci, e riscoprire le personalita’, che hanno attraversato la stagione poetica del secolo scorso, da Attilio Bertolucci a Sandro Penna, da Giorgio Caproni a Elsa Morante, ed ancora tanti altri come Zanzotto, Montale, Saba, Ungaretti, Eliot, Szymborska, Pasolini, Pound, Bishop, Walcott.

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Ternipoesia, Poesia e Testimonianza

Appuntamento

L’Associazione Gutenberg, nell’ambito della propria programmazione per il 2013, realizzerà
TerniPoesia, un Festival dedicato alla Poesia, che si terrà nella città di Terni e sarà promosso a livello nazionale. Il Festival si terrà nel mese di marzo 2013, nei giorni di venerdì 22, sabato 23 e domenica 24. Continua a leggere

Pasolini e Moravia, l’amicizia di una vita

Appuntamento

Mercoledì 28 novembre, a Palazzo Incontro (Via dei Prefetti, 22 – Roma), ore 18:00 Gianni Borgna, Furio Colombo, Dacia Maraini, Lorenzo Pavolini ricordano Pier Paolo Pasolini. Modera: Flavio Alivernini.

Nell’ambito della mostra d’arte contemporanea PPP. Una polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini (allestita nei piani superiori di Palazzo Incontro fino al 9 dicembre 2012, ingresso libero), in collaborazione con il Fondo Alberto Moravia, avverrà l’incontro sul tema dell’amicizia tra Pasolini e Moravia. Amici per la vita vita per almeno due validissime ragioni: la prima è che il 28 novembre ricorre il 105° anniversario dalla nascita di Moravia, la seconda attiene al lungo Continua a leggere