“Olimpia”, un discorso critico a dieci anni dalla prima pubblicazione

Luigia Sorrentino – di Angelo Nitti

La morte e la poesia: Olimpia di Luigia Sorrentino

di Giorgio Galli

Al centro di Olimpia di Luigia Sorrentino (Interlinea, 2013) vi è un après-midi, un oltre. Tutta l’opera è calata nella dimensione di ciò che è già accaduto; persino il tempo è svanito ed è entrato, dopo la terribile lotta tra forze arcaiche e primordiali, in uno spazio assoluto. Il centro di questa poesia è lo svanire, il dissolversi della dimensione umana. E proprio la persistenza di ciò che è irrimediabilmente perduto stabilisce un cardine tra la poesia di Luigia Sorrentino e il mito fondatore della poesia, quello di Orfeo. Perché cos’è la poesia se non quella volontà di riportare in vita Euridice, quella fede in una forza del canto che trascenda il limite delle parole? Milo De Angelis definisce questa poesia “orfica”, una poesia che si muove oltre la vita e al di là di essa, in un continuo richiamare ombre, per cristallizzarle o per sottrarle al tempo: o che trasforma in ombre altre creature ancor piene di vita, per fissarle o per mutare un loro istante in eternità, per poi poterlo cantare.

Se da una parte la poesia di Luigia Sorrentino intrattiene un rapporto privilegiato con la morte, è anche vero che essa stabilisce un rapporto, altrettanto forte, con la vita, con il canto attivo e vitale: ciò che è passato attraverso la morte viene rilanciato in una vita nuova. Riecheggia nell’opera la rivisitazione rilkiana del mito di Orfeo, abitatore “dei due regni” -dei vivi e quello dei morti- il quale dall’unità di queste esperienze matura che il compito del poeta è nel lodare. La poesia di Olimpia, dunque, intona l’epicedio e lo trasforma in inno. Proviamo ad andare alle origini, all’aurora della poesia. Omero cantava. La parola era un suono magico e rituale come la musica, un suono che passa e si sfa: la parola sfuggente, la chiamava con uno dei suoi epiteti formulari. A quel tempo, prima che la parola fosse riproducibile con l’artificio tecnico della scrittura, essa era una merce molto rara e quindi preziosa, sacra. La parola poetica delle origini era misterica. Ma il mistero non ha niente d’astratto. Il mistero, dice Jankélévitch, è diverso dal segreto: perché il segreto è conoscibile, ma è celato dalla volontà di non svelarlo; il mistero, invece, è patente ma inattingibile, e riguarda le cose ultime. La vita e la morte sono i più grandi misteri. Non v’è nulla d’astratto in essi: solo un’inattingibile evidenza.

Gran parte della poesia contemporanea ha allentato il legame col mistero. Anche il rapporto con la morte s’è allentato sino a rendere fatua la vita. Nessuna consapevolezza è possibile se si rimuove il nulla che anticipa e chiude la vita, il mistero tra le cui parentesi sta la vita degli individui e delle civiltà. La capacità di sentire la vita s’è persa quando la società ha abolito il suo rapporto con la morte, quando ha deciso di vivere come una società d’immortali.

Diametralmente opposta è l’operazione di Luigia Sorrentino in Olimpia, un’opera non ancorata all’autrice né al mondo che abita, la cui lingua risale alle origini per imporre tuttavia una riflessione sulla contemporaneità.

Olimpia è un poema a frammenti, che consta di otto sezioni intervallate da sette brevi prose. Il lettore percepisce le sezioni come parti di una cattedrale, che con la loro struttura confluiscono in quella dell’insieme. Queste sezioni scandiscono ritmicamente Olimpia, ne segmentano e rilanciano l’impulso originario, sì che ogni tappa del suo viaggio iniziatico contiene le precedenti e le trascende, in una continua trasmutazione dove nulla va perduto.

Sezione I: L’antro

Fin dai primissimi versi ci troviamo di fronte a due esperienze radicali e complementari: il morire e il mutare. Il morire è reso con tocchi di più immediata comprensione, di un realismo magico e stilizzato: non c’è descrizione, ma elementi descrittivi; non narrazione, ma segnali narrativi. L’altra esperienza, quella del mutare, è meno apparente, agisce come sottotesto, in un bagno rituale dominato dalla penombra e da ambivalenze verbali.
Olimpia s’apre con un gesto assertivo: “lei era lì / non era più la stessa”. Questo gesto, con il deittico lì, ci introduce fulmineo ad un rito. Scopriamo una figura femminile, che sta “attaccata alle pareti”, che sta sorgendo dalle pareti come i Prigioni di Michelangelo. C’è un altro elemento in questo paesaggio d’attesa: nulla lo definisce, sappiamo solo che è un “involo mostruoso in lontananza”. Ma questa lontananza appartiene al dove si va o al da dove si viene? In quale direzione si sta allontanando l’involo?

“Lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno”. Nel momento della metamorfosi, la figura femminile inizia a esser visibile nella sua essenza: si rivela, è un soffio, ma è chiuso: spira verso il mondo, ma si rinserra. Se il moto dell’involo era ambiguo, quello del soffio è bloccato, è un tragitto incompiuto.
Il momento della metamorfosi rivela ciò che siamo, ma anche un altro momento ci rivela: quello della morte, quando la nostra storia è compiuta e non ci appartiene più. Torniamo a chiederci: a quale rito stiamo partecipando? A quello della rinascita (della trasformazione) o della morte? A ben vedere, a entrambi: il morire e il mutare sono i due volti del compiersi, ed è nel compiersi che stiamo andando. Il compiersi non ha direzione: è tutto. Non è lineare: è circolare. La morte stessa è sia il nulla prenatale, sia quello che ci attende al di là. Della figura femminile vien detto che “si rivoltava in un’altra che l’offendeva”. Questo verso è un Giano bifronte. Chi è il soggetto di offendeva? La figura femminile offende l’altra, o viceversa? Nel tempo zero in cui s’inizia il rito, anche soggetto e oggetto sono circolari.

Nel secondo frammento, un altro Giano bifronte: “enormemente udita la soglia”. Siamo dentro la soglia, siamo attaccati alle pareti, immagine metamorfica umana e minerale, viva e morta: ma stiamo uscendo dalle pareti o entrandoci? Stiamo andando a vivere o a morire? Ancora una volta, in tutte le direzioni: non si va verso il compimento, ma nel compimento. Il paesaggio rituale s’arricchisce di nuovi elementi: il “vuoto”, il “ronzio”, le “milioni di notti” che stanno innanzi a noi -o forse alle nostre spalle. La figura di lei è ritratta come una statua: ma una statua “bianca”, con pupille bianche: non colorata com’erano le statue greche in origine, ma col pallore dovuto alla mano del tempo. Dunque il tempo esiste, in quest’antro: ma è tempo dei secoli, così lento, così poco misurabile, da divenire immagine dell’eterno.

Una sola verità ci viene data con certezza: “il cuore era l’offerta”. Il rito è anche rito del donarsi. Il soffio che adesso è chiuso dev’esser liberato.

Il terzo frammento adombra un primo, quasi riottoso distacco dalla parete. Contro quella parete lei “era forma altissima”. “Il volto che l’attendeva era lì / il suo nuovo volto profondo”. Di nuovo il deittico lì. L’avevamo trovato nel verso d’apertura del poema (“lei era lì”). Ma ere geologiche sembrano separare questo nuovo deittico dal primo. L’assertività è scomparsa, è rimasta solo l’ambiguità. Dov’è questo lì? Da quale parte della soglia? Luigia Sorrentino ci getta in un universo semantico dove l’indeterminato è sia ineluttabile che incalzante.
Esso, infatti, non è immobile: un cambio significativo è intervenuto. I versi successivi dicono che “tutto stava su di lei”, e che “lei era finalmente comprensibile”: il rito inizia a snodarsi, il soffio chiuso a liberarsi: il dono può finalmente avere inizio. Ma è un inizio ambiguo: la vita sta su di lei come un peso che la opprime o come un angelo che inizia a librarsi? Non ce lo dobbiamo chiedere, abbiamo imparato che l’ambiguità è lo strumento con cui Olimpia procede nel suo compiersi.

Col quarto frammento siamo in un paesaggio diverso. È iniziato il cammino, il movimento: “quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia”. Finora il rito s’era compiuto nell’antro. Adesso esce, si estende a tutto il paesaggio, anzi crea il paesaggio con i suoi elementi; e lontani, i binari della ferrovia, con un treno che scende verso il mare. Il bosco è luogo di transito, forse di un anelito, di un faticoso ascendere: “Siamo sempre più vicini al cielo”. Ma questo avvicinarsi sembra come rimandato: il cielo non risulta lontano, piuttosto impregnato di segnali ancora indecifrabili: la nostra ascensione è un “avvicinamento carico nel vento”. C’è nel vento una voce prigioniera, che attende di esser liberata. Il vento si fa carico di un intero orizzonte di presagi. Difficile non pensare al “vento pregno di cosmico spazio” della Prima elegia di Rilke. Non siamo noi ad attendere nel vento, è il vento che si carica d’attesa.

Come i rapporti di prima e di poi, di soggetto ed oggetto, quelli di vicinanza e lontananza restano indeterminati: la ferrovia è lontana, ma il cielo è sempre più vicino. L’attesa ha creato il luogo, e il luogo il suo tempo. Anzi: l’attesa s’è incarnata nel luogo, e il luogo è tempo.
Con l’ampliarsi dell’orizzonte, anche il verso si fa più disteso, meno lapidario. Il dilatarsi del paesaggio è reso con un dilatarsi del tempo del verso: un procedimento che, ancora, richiama Rilke.
In questo orizzonte più ampio, nell’avanzare attraverso il luogo mitico, si avanza anche nel rito:

il volto si profila
il volto che siamo stati è istintivo
incarnato nel rito che si consuma qui
nella consolazione siamo venuti
mutarono i suoi occhi quando chiese
la vita eterna
la sua giovinezza si spense
divenne una cicala
poi solo una voce, un soffio
divenne

Questi versi connotano una trasformazione che è anche un’eternizzazione: si diventa ciò che si è. Dall’essere senza sapere di essere (“il volto che siamo stati è istintivo”) si passa all’essere consapevoli. Ancora troviamo un deittico, qui: ma qui dove? Dove si consuma questo rito? L’atmosfera è la stessa della caverna, eppure c’eravamo mossi verso il bosco. L’unica risposta è che il rito si consuma dentro la poesia. Inutile domandarsi dove Olimpia avvenga: essa avviene in Olimpia. Ma qual è l’avvenimento di Olimpia? La parola chiave, isolata in un unico verso, è l’ultima, divenne. E cosa si divenne? Una voce. Ciò che resiste allo spogliarsi di tutto è la voce. È la parola, messaggera fra le epoche, messaggera tra i vivi ed i morti. La parola è l’arché. E la voce può appartenere a chi subisce il rito o a chi lo celebra: non importa. Siamo abituati alla circolarità di soggetto e oggetto in Olimpia.
Piano piano il paesaggio si disincarna, gli elementi si diradano. “Siamo sempre più vicini al cielo”, si ripete. Poi

come grembo che si prepara
a ritornare estraneo ad ogni flutto
nell’uliveto deposto ogni possesso
lei chiese
sul lago conducimi con te

Il mondo da sensibile diviene interiorizzato. Il grembo interiorizza i flutti e diviene loro estraneo. È l’istante della conoscenza. “Deposto ogni possesso” la figura femminile, che nel dono si fa sempre più comprensibile, dice: “Sul lago conducimi con te”. A chi è rivolto quel conducimi? A un’alterità. E non ha l’aspetto di un invito: sembra piuttosto un comando, un Fiat lux. La parola di lei ha creato l’altro col semplice rivolgerglisi: è la parola di Orfeo, che crea Euridice per aver nominato Euridice. La parola poetica. Il bisogno che lei ha di donarsi ha creato l’alterità.

La sezione si conclude con una prosa intitolata La città. Qui compare finalmente un “io”. Finora c’erano stati il “lei” e il “noi”: il “noi” indispensabile a stabilire l’orizzonte del rito (perché il rito è sempre collettivo), e il “lei” soggetto e oggetto del rito. Ora si oscilla fra un “io” e un “noi”. Ma chi li dice? “Io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante… comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per essersi così improvvisamente aperta.” L’altro, appena creato, è unito a lei da un destino. L’alterità è tutti, è la città. Come in una Genesi allo specchio, lui e la città nascono da una costola di lei, dal suo bisogno di donarsi.
La parola di Olimpia è spoglia e oscura come la parola liturgica. Niente artifici retorici, nulla d’estetizzante. C’è però un ritmo. Il ritmo è indispensabile al compiersi del rito. L’apparizione della città è contrassegnata da un improvviso distendersi del ritmo: dal verso si passa alla prosa. Siamo ad una stazione del rito, e a segnalarla interviene un cambio nell’ordine musicale del poema.

Sezione II: L’atrio

Se la prima sezione era un continuo, germinante movimento di radici, un mutamento incessante e faticoso, la seconda ha atmosfere più drammatiche, più evidenti chiaroscuri:

il sole alle spalle cancella
i nostri volti
veniamo da troppa lontananza
lungo questa discesa
nel porticato
altre colonne ci avvolsero
con le loro braccia

L’ingresso all’atrio è un atto decisivo, ma non una cesura. Il sole è alle spalle, ma è. Nell’orizzonte di Olimpia, il passato non passa: è una forza che continua ad agire. “Veniamo da troppa lontananza”: veniamo, infatti, da tutta la storia della poesia. Se l’arché è la voce, la voce che dice e che crea, quello che stiamo attraversando è un paesaggio culturale, un deposito di memoria che salda le diverse epoche storiche. Come le rose del bosco erano tutte le rose cresciute dall’inizio della terra, ora le colonne sono tutte le colonne di tutte le città. Il morire, il mutare non sono più dimensioni individuali: sono collettive, storiche e mitiche. L’orizzonte della lirica si salda a quello dell’epica.

Nei frammenti successivi è celebrata la lotta dell’operare umano contro la forza caducizzante del Tempo. “Enorme il tempo appoggiato / ai muri”. La trasformazione da cui siamo venuti non s’è fermata, la storia va avanti. Ma a noi interessano i depositi di storia, ciò che rimane dopo il passaggio -anche calamitoso- del tempo. La pietra trasformata dalla fatica umana presenta i segni del tempo, ma è solida, è pietra. Pietra tombale, ma anche manufatto che resiste al tempo, e perciò è imperituro. In quest’immagine l’essere umano non c’è: parla per lui il frutto del suo lavoro, che gli sopravvive. Il paesaggio che attraversiamo è un paesaggio da cui la vita è estinta. La natura è fossile, anche i manufatti umani appaiono come fossili: se si muovono, sembrano mossi da forze non più nostre. Ciò che sembra vivo è il “suono” della roccia. Ancora, ciò che rimane è una voce: voce liturgica prima, della natura adesso. L’opera del poeta sta tra la natura e il divino, è oltreumana, non più solo umana. Un monte nel paesaggio adombra la presenza del divino.

restammo vicino a quelle case
apparivano come in un disegno infantile
dai muri risalivano
statue di divinità femminili

L’elemento del paesaggio (le case) si precisa in un segno: un segno stilizzato, quasi un disegno infantile. La figura femminile si moltiplica: prima era apparsa in un pallore di statua, ora si precisa in una serie di statue. Queste statue non hanno perso il contatto col muro che le aveva originate, ma lo “risalgono”. All’inizo del cammino avevamo trovato un sentiero in ascesa (“Siamo sempre più vicini al cielo”) e un treno che sprofondava. Anche le statue partecipano di questi moti verticali. Come quella nella caverna, anch’esse sono bianche: sono le statue antiche quali sono arrivate fino a noi, e non com’erano in origine, sfolgoranti di colori. Per quanto perenni siano i prodotti della Bellezza, il Tempo vi ha steso la mano.

“Fummo dotati di forza sovrumana”, recita un altro frammento, ed elenca una serie di lotte, di prove che l’uomo ha dovuto attraversare – per cosa? “Siamo tornati per scomparire / intorbidare il fondo”. Come i resti fossili, come le colonne e le statue di cui resta la traccia possente, noi “intorbidiamo il fondo”, cioè lasciamo un segno che incrina la superficie culturale dello spazio-tempo: il nostro destino è sparire e scolpirci nell’eterno. Non siamo noi a godere della nostra opera: essa si adempie negli altri e in altri tempi, nel tempo oltreumano della storia degli stili.

L’atrio si chiude con l’evocazione di una soglia (anche qui, come non pensare alla soglia delle Elegie rilkiane, consumata dal passaggio degli amanti?). Quella soglia che ne L’antro era “enormemente udita”, qui nel vestibolo prende una fisionomia sconcertante: è la soglia oltre la quale ognuno diventa tutti. Ne L’antro non conoscevamo il contenuto di questo enorme udire; ora l’apprendiamo:

poi qualcosa chiamò
precipitata e muta
lasciò che altri sapessero

-siamo colui che se ne va
abbiamo le sue gambe
le spalle, l’incedere veloce
la traccia del saluto
siamo colui che sprofonda
a un passo da noi-

Superare la soglia significa identificarsi con tutti, con tutte le morti, le partenze e gli addii, con tutto il morire il mutare e il decadere -in una parola, con tutto il dolore dell’umano. Si diventa tutti, si partecipa al dolore di tutti.

Bella e drammatica questa seconda parte, con opposizioni grandiose ed esplicite, e con quel germe di riscatto umano che sgorga da un paesaggio desolato. Bella per il “noi” che sorge e s’afferma nel discorso, poi nelle immagini, poi in un abbraccio universale che nasce dalla stessa storia umana. È una testimonianza anche civile quella offerta da Olimpia: dalla consapevolezza dell’enorme storia umana non può che nascere l’abbraccio fraterno di tutti gli uomini. Capiamo perché Luigia Sorrentino abbia scelto Olimpia, e la civiltà greca, per il suo viaggio alle radici della poesia. Non solo per andare alle origini. È che la grecità sentiva la funzione collettiva, corale della poesia, cui dava un posto nella vita della polis. Era un operare per la polis la poesia, un agire. Il “noi” di Olimpia è un “noi” da coro di tragedia. La poesia non avviene fuori dal tempo: avviene in tutti i tempi. Avviene in una civiltà estetica, ed è chiaro che l’autrice avverte una responsabilità verso la storia della bellezza, ch’è anche storia della civiltà. Una parola esatta o sbagliata aggiunge o toglie qualcosa alla storia della bellezza che è la storia umana. Olimpia non ha nostalgia della civiltà estetica. La cerca, la fiuta. Non ne cerca il ritorno perché essa è in tutte le epoche. Ne cerca i segni. Continua a leggere

Emanuele Canzaniello, poesie

Emanuele Canzaniello, Foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo la lettura di alcune poesie di Emanuele Canzaniello tratte da “In principio era la paura” (PeQuod, 2023)

Anche dove il piacere non sa nulla del divieto che infrange,ha pur sempre origine dalla civiltà, dall’ordine stabile, onde aspira a ritornare alla natura da cui quell’ordine lo protegge.
Solo là dove un sogno li riporta (…) alla preistoria senza autorità e disciplina,
gli uomini provano l’incantesimo del piacere.
T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo

Con te nel passato
Nelle buie viscere
Senza ostacolo né premura
Nelle cavità della terra
Tra le prime ossa sepolte
E le divorate,
Lungo il Paleolitico inferiore,
Buio di due milioni di anni
E giorni e soli che non tornano
E terrori della notte.
Il primate omicida è nato
E biologia e colpa si erigono
Nei templi di pietra,
Arma e cerchio del fuoco.
La civiltà è questo doppio,
Il simulacro dei tori e dei cavalli
E l’animale ucciso,
La necessaria vista del sangue
Per il primate accresciuto
Dalla conoscenza estesa.
Con te nel passato
Nelle buie viscere,
Prima che ogni muscolo ogni spasmo
Ogni piacere conoscesse l’ordine
Che ci separa e protegge.
Le mani sulla roccia sono il grido. Continua a leggere

Daniel Calabrese. “Un cielo per le cose”

Daniel Calabrese foto di Elia Leblanc

ALLÁ EN LO ALTO

Miren hacia arriba.
La razón es una cuerda inútil
que nos ciñe la respiración.
La razón es una piedra colgando de las nubes.

Pasa un cóndor con su vuelo
lento y desgarbado.
Debe ser un viejo.
Le quedarán algunos círculos
antes de morir secretamente.
Arrastra una sombra pesada
por el fondo del valle
cientos de metros más abajo
y todavía hace temblar a muchas criaturas.
Nos observa desde lo alto:
somos un rebaño violento.

Ninguna Tebas que salvar.
No hay ahora en esta tierra una sola
muralla digna para dar la vida.
Y el cóndor, me pregunto
cómo un comedor de carroña
puede llegar tan alto.

LÁ IN ALTO

Guardate in alto.
La ragione è una corda inutile
che ci stringe il respiro.
La ragione è una pietra che pende dalle nuvole.

Passa un condor col suo volo
lento e goffo.
Deve essere vecchio.
Gli resterà qualche cerchio
prima di morire segretamente.
Trascina un’ombra pesante
lungo il fondo della valle
centinaia di metri più giù
e fa tremare ancora molte creature.
Ci osserva dall’alto:
siamo un gregge violento.

Nessuna Tebe da salvare.
Non c’è adesso su questa terra una sola
muraglia per cui valga la pena dare la vita.
E il condor, mi chiedo
come un mangiatore di carogne
può arrivare così in alto.

***

Una voz antigua me responde
como si viniera de un canto del Inferno:
tal vez no imaginaste un diablo pensador.

Hace tiempo que no veo sangre,
siglos que no mato una mosca.
Debería volver a la sed,
a los golpes imperfectos del hacha.
Pero no me agrada la especie:
nuestro rebaño ilustrado.

Que vean los oxidados
todas aquellas cosas que hay que ver,
lo que aprendimos en los barcos,
lo que pensamos con el rostro metido
en la niebla de esta sopa.
Aprendí a ensamblar un mortero de combate,
lo recuerdo muy bien: placa base,
bípode y cañón,
en menos de un minuto queda listo
para escupir al cielo.
Aprendí que el enemigo
no debería respirar dos veces.

Nadé al sol, pensé en ella.
Me hundí y me dejé llevar
por las amapolas del agua.

***

Una voce antica mi risponde
come se venisse da un canto dell’Inferno:
forse non hai immaginato un diavolo pensatore.

È da tempo che non vedo sangue,
da secoli che non uccido una mosca.
Dovrei tornare alla sete,
ai colpi imperfetti dell’ascia.
Ma non mi piace la specie:
il nostro gregge illuminato.

Vedano quelli arrugginiti
tutte le cose che bisogna vedere,
quello che abbiamo imparato sulle navi,
quello che abbiamo pensato con il volto messo
nella nebbia di questa minestra.
Ho imparato ad assemblare un mortaio
[da combattimento,
lo ricordo molto bene: piastra base,
bipiede e canna,
in meno di un minuto è pronto
per sputare verso il cielo.
Ho imparato che il nemico
non dovrebbe respirare per due volte.

Ho nuotato al sole, ho pensato a lei.
Sono affondato e mi sono lasciato portare
dai papaveri dell’acqua.

***

Debería volver a la sed.
Llevo un sonido secreto y no puedo evitar
que retumbe en mi cabeza:
es el perro tomando agua.
Ando al sol, oigo al perro de la casa.
Sueño debajo de la vieja noche
con el ruido del agua lamida por el perro.
El chapoteo se interrumpe con el paso de un tren
y luego continúa:
slap, slap,
el perro, la sed,
un reloj aplaudiendo en el silencio.

Te vi llegar, eras tan turbia.
Te vi llegar.

Ahora pasa la sombra del cóndor,
el peso de la razón que todavía lo mantiene
atado a este mundo.

Silencio, bebedor.
Silencio.

***

Dovrei tornare alla sete.
Porto in me un suono segreto e non posso evitare
che mi rimbombi nella testa:
è il cane che beve l’acqua.
Vado al sole, sento il cane della casa.
Sogno sotto la vecchia notte
col rumore dell’acqua leccata dal cane.
Lo sciacquio s’interrompe col passaggio di un treno
e poi continua:
slap, slap,
il cane, la sete,
un orologio che applaude nel silenzio.

Ti ho vista arrivare, eri così torbida.
Ti ho vista arrivare.

Adesso passa l’ombra del condor,
il peso della ragione che lo mantiene ancora
legato a questo mondo.

Silenzio, bevitore.
Silenzio. Continua a leggere

Lorenzo Chiuchiù. Il ritmo essenziale della poesia

Lorenzo Chiuchiù, foto di proprietà dell’autore

Appunti per una poetica
di Lorenzo Chiuchiù

Sfamalo pure come vuoi,
il lupo volgerà sempre gli occhi al bosco.

M. Cvetaeva

I.

La poesia è lo spazio in cui la massima potenza analogica e visionaria diventa ritmo e senso.
La poesia ha sempre a che fare con una rivelazione – può essere un caos che per un istante si cristallizza in ordine, oppure il crollo netto, verticale e assoluto di un cosmo, può essere una morte che compie un destino o la disperazione della parola impossibile.
La rivelazione può passare per l’udito– si percepisce un ritmo che esige delle parole. Il poeta cerca versi capaci di restituire il ritmo essenziale che scandisce il battito cardiaco, il rumore delle onde o la musica delle sfere.
La rivelazione può passare per l’immagine che irrompe nella neutralità o dall’insignificanza di una miriade di altre. L’immagine cardinale di una poesia è una specie di sole che attrae altre immagini, facendole orbitare.

La versificazione è il tentativo di restituire un ritmo essenziale attraverso le parole che si scelgono per incarnarlo; è il tentativo di trovare corrispondenze e gerarchie tra un’immagine sovrana ed altre che si riconoscono consanguinee.

II.

La poesia è un’esposizione alla dismisura, al daimon, all’angoscia, all’entheos. Esposizione che implica una temperatura.
O il pathos greco, l’ardore vedico: la “mente accesa” vede disunito ciò che è in apparenza comune e riconosce il simile nell’estrema inimicizia. Queste sono le potenze che definiscono i poeti del fuoco.
Ma esistono anche poeti glaciali, guidati da una sublime e spesso disperata lucidità. Mallarmé chiedeva alla poesia la spiegazione orfica della terra: una spiegazione – uno sguardo definitivo e raggelato – sulla discesa nella morte, sul riconoscersi, sul destino.

III.

Mi sembra che la grande poesia infranga un interdetto percettivo.
Spinoza diceva che gli uomini possono solo concepire l’extensio (qualsiasi ente fisico) e la cogitatio (qualsiasi pensiero, immaginazione, sentimento). Le due realtà sono attributi dell’infinito: gli uomini non possono abitare che queste. Ma, continua Spinoza, ne esistono infinite altre. Infinite altre realtà che eccedono le possibilità percettive degli uomini.
Impossibile, per Spinoza, fare esperienza di qualcosa che oltrepassi lo spazio fisico e quello proiettivo della sfera psichico-mentale.
Ma la poesia è forse un terzo modo della percezione: il daimon, l’enteheos, la divina mania, l’archetipo, il nulla dell’angoscia sono realtà che eccedono sia la fisica della res extensa che le proiezioni della res cogitans.

Ne La teoria dei colori di Goethe c’è un’intuizione che mi ha sempre colpito: la luce crea l’occhio per vedere se stessa. Con la poesia accade qualcosa di simile: la poesia vede se stessa, si riconosce, solo attraverso singole opere. È come se alcune opere – e parlo dei capolavori della tradizione poetica – non fossero che l’estensione dei modi della percezione dell’infinito.

TESTI

Tradurre, innalzare

Porterò questo bicchiere di cenere
e un dizionario di pagine bianche
annegate nella luce fino a scomparire
e sarà la notte siberiana, la pietra grigia
della muta che caccia, il vento.
Mi dici che alla salvezza hai opposto
l’arteria di luce
e che non importa altro.
Hai aperto il dizionario e
le stelle grezze hanno spezzato
la dinastia del giorno,
da allora sei sangue nero e sempre.

***

Nella luce a strapiombo
il muscolo lacerato –
e io sono oltre
le onde cardiache del fuoco,
ben oltre la sinistra che ha
scritto nome e iride,
e indica il punto, nella pagina,
dove i diari impazziscono.
E la porta mi guarda:
la pupilla è la mia, mia
la notte salvata:
sta immobile e chiede tutto.
Questo falò, alla fine, sarà stato
e ne ricorderai ogni lingua,
perché non hai che questa.

***

I templi che furono abbandonati
ritornano innocenti
ritornano nelle rose
e per la mente, ma tu non dici:
scrivi sui petali, disperdi i nomi
e la creta: ora chiudi gli occhi, cuci le vene,
chiama l’addio;
chiama i coltelli e la luce
finché non saprai che questa è l’ora,
è solo questa,
e nessun grido per battesimo,
nessun battesimo nella vertigine:
benvenuto nella febbre del patto,
la caccia è iniziata.

***

Non abbiamo incontrato
che l’altra vita,
quella che ha scavalcato
la grandine che ferisce la rondine,
le sillabe e l’arca.
E ora è qui
nella resistenza della lampadina,
nel suo lampo raggelato
e miniato.
Gli elenchi sono bruciati,
non trattengo il respiro –
ho in mano un inizio.

***

Il risveglio e le tenebre furono
prodigi e asfodeli –
rue du Calvaire è cosparsa di sale
ora una puttana e il Sacro Cuore
invocano le tre di notte,
la primizia e l’azzurro slogato:
ho inventato le rughe e chiuso gli occhi,
ho reciso un nervo e evocato il nord,
ho gettato la sorte:

i magneti ronzano nell’oro del mosaico.

***

La stanza febbraio è ancora
la nuda correzione del fulmine –

possediamo il foglio che separa
il bianco dentro il bianco
ed è nostro anche se niente è nostro.
Abbiamo colpa e fuoco cardiaco –
e correremo. Abbiamo trattenuto il fiato:
una due dieci volte, una unica e solitaria
la notte– e respireremo:
sua è la stella ascetica.

***

Forse il latte o i simboli
forse in disparte la comune
notturna parola intesa
che infuria sotto la mente:

ti sei svegliato e hai sognato
e hai portato la notte fin dentro
le creature: chiedono una
pagina nell’invisibile
un sigillo spezzato di netto:
nessun prima, unico il dopo

e ora segmenti, gli occhi bene aperti,
le rivoluzioni, le figlie, le varianti.

***

È sempre il febbraio delle carte decifrate –
anche per un sasso che affonda nella neve
mentre tu ritorni dal lavoro e dal presente:
ma tutte le menti amate sono sconfitte e gloriose
perché, guardami, i cieli sono tutti scritti,
feriti a morte e ancora sacrificati, come soldati.

E dall’altra parte piove –
dovremo dividere pane e terra,
finché non saremo pane e terra.

***

Il diaspro che troverai
ha facce trafitte, tutte le direzioni
convergono ipnotiche
e in potenza: e ti chiedono –

ma tu hai una benda da strabico
e mentre l’irrazionale brucia il campo,
le sterpaglie, già vedi la terra atra,
lo specchio dell’eclisse che resta –
eppure la storia è la sezione
e noi, cuore siderale, la verticale. Continua a leggere

De Angelis, “La parola che fa esodo”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Note in margine a Linea intera, Linea spezzata di Milo De Angelis

di Marco Marangoni  

 

Come si dice nella presentazione della quarta di copertina, questo nuovo libro di De Angelis ha per protagonista la memoria, in cui sembrano affiorare, da un tempo remoto e arcano, fantasmi dalla voce straniante. La tessitura lirica appare quella di un colloquio con le ombre, da sottosuolo; e il linguaggio si bilancia tra realtà e stati di drammatico pathos. E comunque in questo lavoro –dall’intenzione narrativa che articola una galleria di incontri emblematici-  De Angelis ha messo in opera, ancora una volta, forse il suo unico e vero tema: lo spazio inaugurale della parola poetica. Infatti, come già altrove, Linea intera, linea spezzata mette in luce proprio il prodigio dell’ispirazione; ed è quanto emerge direttamente attraverso una delle tante voci-demoni che affiorano in questo libro: “Io ho creduto/ nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora/ ti dico

vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo.”

La voce-demone, voce d’oltre confine -confine “sottile”, “tremendo”-  ha la legittimità del numinoso-oracolare e si fa segnale della poetica che è propria dell’autore, sottolineandone la specifica determinazione drammatica, e proprio a partire dal simbolismo inquietante di quell’ ”ultimo volo”.

 

Se l’itinerario poetico procede dallo spezzarsi del tempo lineare e dell’azzeramento di  ogni accumulazione di significati, la scena cui la memoria ritorna -ma non come a qualcosa di semplicemente antecedente- è questa: “sei destinato a scendere/ in un tempo che hai misurato mille volte/ ma non conosci veramente”; oppure: “l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,/ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora/guardi l’orologio”.

 

Il poeta ci dice che la poesia non si allinea col discorso che discorre di questo e di quello; non è una variazione comunicativa; essa, piuttosto, è prima o dopo la comunicazione in quanto tale: “giungono da un’altra mente,/ le parole, una mente lontana”; la poesia insomma comincia dal punto in cui il discorso comunicativo entra in crisi, non tiene.  E’ questo il punto in cui il senso di una totale contingenza viene avvertito come insostenibile, folle corsa: “Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura”. “Nulla ci appartiene” allora, tranne l’evento di questo confronto linguistico-poetico col nulla: “trasalimento di rime contro il nulla”. Il linguaggio poetico si presenta sciolto da ogni funzione ancillare, fino al limite di una identità tra significante e significato, cosa e parola.

 

Di qui la distanza netta che separa la poesia del poeta milanese da ogni altra che non sia radicalmente ispirata, e tanto più da ogni poetica strumentale o ideologica. In quest’ultimo caso è utile ricordare che De Angelis, con altri importanti poeti della sua generazione, si è impegnato, sul finire degli anni ’70, in una militanza poetica per restituire alla parola la sua autonoma dignità espressiva. E tanto quella militanza, diversa da quella dei movimenti ideologici, ha segnato il perimetro della sua poesia, che tra le tante voci-demoni di questo libro ne troviamo una proprio risalente allo “slancio delle assemblee antiche e dei cortei”, mentre chiede al poeta “da che parte stai?”; domanda rispetto alla quale c’è un’unica, categorica risposta: “la poesia non sta dalla nostra parte/ma in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno/resta intatto.”

 

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Rileggere Testori

La Casa della Cultura di Milano rilancia Nella città contemporanea a partire dal 12 novembre, un nuovo ciclo di letture e incontri.

Il primo è dedicato a Giovanni Testori, lo scrittore, poeta, drammaturgo e attore di Novate Milanese.

Per Testori la Cultura è un continuo avvenimento che si contrappone all’astrazione e  all’omologazione: è un continuo ‘rinascere’.

Questo spirito di rinnovamento portò Testori, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, a dare vita a un nuovo senso del teatro sotto la spinta dell’incontro con l’esperienza cristiana.

La svolta prese avvio dopo la morte della madre che lo portò alla stesura di Conversazione con la morte nel 1978. Continua a leggere

Pasolini e Zanzotto, due grandi figure della letteratura del secondo Novecento

ANTEPRIMA EDITORIALE 

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.  

 

PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE

di Alberto Russo Previtali

 

«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.

Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:

Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.

[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]

 

Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:

La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6]. Continua a leggere

Una poesia di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

Vita meravigliosa (Einaudi, 2020)

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Laura Di Corcia, da “Diorama”

Laura Di Corcia

La borragine porta coraggio
l’ha scritto Jarman
io gli credo.

Il Medioevo è tutto nel Nord:
dalle campagne germogliano
le città, i borghesi stringono patti
e mani, si formano piani
i contadini stringono le cinture
e ammassano in un angolo buio
la speranza, la fede, i figli
continuano a credere nella terra
ascoltano solo la polvere.

Le città germogliano
bucano il tempo
dimenticano le chimere
ammassano nelle campagne
le paure.

I contadini rimangono a lato
la storia continua e li sfiora
loro pregano in ginocchio
sul ruvido
di fronte alla passiflora.

*

Il romanico aveva ragione:
si piegava sul vento
lo proteggeva

rifiutava il guizzo
metteva in esilio Dioniso
le screziature con cui irretiva il tempo.

Il romanico calava nella notte
la accarezzava con mano calda
ma ora non è più tempo:

la storia si nutre di memoria
l’ora il qui scappano
la corsa ha preso il sopravvento.

Non è più tempo di cose tonde.

*

All’incrocio fra il Tigri e l’Eufrate
una donna di argilla
mescolava il tempo.

Accanto a lei cadevano
foglie accatastate
pere, mele, milioni di libri.

Tutto si depositava
in silenzio, nel vuoto
si decomponeva subito dopo.

In mezzo alle gambe
appassivano le ultime stelle
fiorivano i predatori.

Laura Di Corcia, Diorama, prefazione di Filippo Tuena, Tlon, 2021 Continua a leggere

Una poesia di Charles Simic

Charles Simic

 

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

____________

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan Continua a leggere

VARI∃AZIONI

IL FESTIVAL

A Rotondi, in provincia di Avellino, dal 27 al 29 agosto si terrà la prima edizione di Vari∃Azioni, iniziativa promossa dall’amministrazione comunale di Rotondi e dal sindaco, Antonio Russo, in collaborazione con la cooperativa Altre Voci e la Samuele Editore e con il patrocinio dell’Accademia Mondiale della Poesia e della Fondazione Greco Morra per l’Arte Contemporanea.

Direzione artistica: Marco Amore
Editore e Direttore della Sezione poesia: Alessandro Canzian

GRAPHEIN

Parola e Immagine hanno una radice comune, non a caso i greci adoperavano il verbo graphein per indicare lo scrivere e il dipingere. Analogia che diviene ancor più evidente quando parliamo del legame tra le arti figurative e la poesia. Come recita una famosa espressione di Orazio: ut pictura poesis (come nella pittura così nella poesia). Frase che potrebbe essere assimilata all’imperativo categorico della narrativa moderna: show, don’t tell  (mostra, non dire).

 

La manifestazione culturale indaga il rapporto tra linguaggio poetico e visivo, con particolare attenzione alle ricerche di stampo interdisciplinare. Un momento di confronto cui hanno aderito alcuni dei maggiori poeti e artisti contemporanei, nato dalla volontà di contaminare il tessuto sociale e urbano del comune di Rotondi attraverso conferenze, reading di poesia, esposizioni, proiezioni di video tematici, interventi performativi e installazioni site-specific.

Alcuni protagonisti del Festival:

Un importante lavoro di squadra che abbraccia l’intero territorio rotondese, la sua storia, gli abitanti e le tradizioni, alla luce di un festival che vede Rotondi farsi protagonista del panorama artistico nazionale e internazionale, grazie all’adesione di nomi di altissimo livello. Tutto parte dalla necessità di rispondere a un bisogno culturale che diviene sempre più pressante all’interno del nostro paese e che riguarda non solo l’arte contemporanea, di cui Rotondi rappresenta una tappa fondamentale per gli operatori di settore, ma anche la poesia e più in generale le arti creative. Proseguiamo nella profonda e radicata convinzione che sia il linguaggio dell’Arte e della Poesia la chiave di volta e di interpretazione del mondo. Di tutti i mondi. Anche di quelli apparentemente lontanissimi tra loro”.

Antonio Russo
Sindaco del Comune di Rotondi

Da anni il Comune di Rotondi vede l’arte contemporanea come lo strumento più idoneo a raccontare la storia, le tradizioni, il folklore e le produzioni locali; a costruire un vero e proprio marchio del luogo. Le numerose rassegne dedicate agli artisti di via Varco a partire dal 2014 ne sono una chiara testimonianza. È con questa consapevolezza che intendiamo lavorare sul territorio rotondese dando vita a forme di narrazione visiva in grado di raccontare al mondo la nostra storia e la nostra cultura: un’idea strategica di sviluppo a lungo termine che ambisce a utilizzare l’arte come mediatore tra il paese, i suoi abitanti e i visitatori, seguendo il principio di slow art per investire su esperienze di turismo non stagionale”.

Claudio Vittorio
Consigliere delegato e Assessore alla Comunità Montana Partenio-Baianese-Vallo di Lauro

Sentiamo parlare spesso della funzione sociale dell’arte e del suo farsi forma di comunicazione universale: un compito che non può esaurirsi con l’adulterazione dell’opera in mero strumento di denuncia personale legato a rielaborazioni arbitrarie di contingenze storiche, funzione che l’artista svolge in maniera quasi accidentale, ma che investe la parola poetica della responsabilità di un impegno civile indifferibile contro l’illegalità delle life politics e tutte quelle energie negative che operano contro la bellezza che resiste nel mondo”.

Marco Amore
Poeta e Direttore Artistico del Festival

Un momento importante che mette a confronto alcuni dei protagonisti più importanti della poesia italiana contemporanea. Da sempre la nostra nazione e cultura è stata abitazione e trincea di una letteratura altissima e combattuta, che oggi trova diverse critiche per la deriva più o meno consapevole della critica. Dove tutto appare poesia, dove tutto giustifica il palco di Castelporziano che sempre si ricrea nel suo crollo, noi abbiamo cercato la costruzione di un dialogo attraverso le voci e il dibattito. Non solo letture, ma punto di riflessione. Noi con questo Festival vogliamo mettere un punto a una riflessione di cui sentiamo sempre più il bisogno”.

Alessandro Canzian
Editore e Direttore della Sezione Poesia Continua a leggere

Fabrizio Bajec, “Sogni e risvegli”

Fabrizio Bajec

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Vi proponiamo da Sogni e risvegli, di Fabrizio Bajec (Amos Edizioni, 2021) il Poema della fame, quinta sezione del libro. Le poesie sono nate dalla rivolta dei gilet gialli in Francia. E’ l’unico a essere stato scritto in italiano. Le poesie delle altre sezioni sono testi composti in francese e tradotti dall’autore. L’azione-poesia di Bajec si configura in questo lavoro “come in un viaggio di andata e ritorno dall’abisso-corpo all’intelletto più luminoso.” Raccolta meno impegnata della precedente, La collaborazione, ma non meno impegnativa nella lettura. Fabrizio Bajec sta lavorando in prosa e in versi sulle lotte sociali in Francia di questi ultimi anni.

«(…) Se si toglie a un essere umano il potere
di agire e, ancor più, quello di creare,
cosa gli rimane oltre alla contemplazione?»
Aristotele

 

POEMA DELLA FAME

I.

solerti restarono in piedi
nella loro miseria belavano
contro la nebbia avvelenata
che il governo faceva piovere
sulle teste calde e canute
dei suoi sudditi ora insorti
dalle campagne e periferie
lungo le autostrade e rotatorie
riuniti intorno a un fuoco la notte
e il giorno sotto la neve
raccolti dentro una baracca
le capanne del loro Natale
ma che le ruspe dei gendarmi
spazzano insieme ai lunghi sforzi
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati

nuova rabbia e braccia disponibili
ora trascinano ferraglia
nei viali delle città legna
macchine a qualsiasi prezzo
con ogni mezzo le barricate
si ergono tra la vita e la morte
la santissima morte cantata
da altri cittadini in rivolta
un tiro squarcia la mascella
polverizza l’occhio di un ragazzo
fora il seno di un’infermiera
che non ha mai perso un corteo
né un treno della dignità
per sputare sulla capitale
i suoi straordinari week-end
quanti storpi sfigurati orbi
sfileranno il sabato seguente
senza dire una parola
saranno visti con bende
e fasce sanguinanti eloquenti
volete decimarci o cosa?
noi che mangiamo una volta al giorno
piangiamo tra i debiti dormiamo
anche in macchina per lavoro
se non rende abbastanza per stare

dalla parte di chi grida al caos
chi recrimina i danni pubblici
e si chiede perché distruggiamo
perché domanda una principessa
con le scarpe da ginnastica
all star converse o adidas
perché mai prendersela col lusso
che non vi ha fatto nulla e brilla
in quartieri che non sono i vostri
come potete punire così
il commercio che in fondo è la vita
ne converrete sfama i piccoli
imprenditori come può darsi
tra voi si nascondano e sfasciano
tutto quello che non possiedono
al che risposero irati
venite dalle nostre parti
venga principessa e apra
il suo indispensabile negozio
poiché è dotata non chiuderà
e risero svergognandola
come fosse l’ultima cagna
di un villaggio fantasma accorsa
per un pasto che non s’è mai visto

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