Il pensiero occidentale nella poesia di Kikuo Takano

Kikuo Takano, per gentile concessione

“Il senso del cielo” nella poesia di Kikuo Takano

di Mario Famularo

 

 

“Il mio scopo non è di pensare in linea con qualcosa che si fonda sull’intuizione di un’unità tra soggetto e oggetto, ma di considerare l’agire di tutte le cose esistenti come fossero ombre che riflettono il sé in un sé che ha annullato se stesso, una specie di vedere senza un vedente al fondo di tutte le cose.”

(Nishida Kitarō)

 

Sono molti i punti di contatto tra Kikuo Takano (1927-2006) e la scuola di Kyoto, movimento di pensiero sviluppatosi in Giappone lo scorso secolo: in primo luogo, l’aver vissuto le grandi trasformazioni del paese a cavallo del secondo conflitto mondiale; l’essersi confrontati con la cultura e il pensiero occidentale, e in particolar modo con quello di Heidegger; infine, il tentativo di integrare, superandoli, diversi principi della tradizione spirituale, intellettuale ed estetica nipponica attraverso il filtro di un sapere altro, con una particolare attenzione ai tratti distintivi dei due mondi.

Anche i risultati, pur in ambiti differenti come possono essere quelli della filosofia e della poesia, condividono più di un aspetto, che si originano da una riflessione di matrice “religiosa” (zen, in particolar modo) per diventare esistenziale e sociologica.

Nei testi qui proposti di Kikuo Takano, estratti da “Il senso del cielo (Poesie 1955-2006)”, a cura di Renato Minore, Passigli, 2017, la riflessione sulla relazione tra io e altro, sulla sua crisi, si intreccia a quella sull’impermanenza e sulla necessità di dimenticare il sé per accedere alla comprensione dell’altro-da-sé; il desiderio si mostra nella sua natura di origine del dolore, secondo la disciplina delle quattro nobili verità; l’ineluttabilità prende il peso di un predestino, quasi a riecheggiare il proverbio「人事を尽くして天命を待つ」 “jinji wo tsukushite tenmei wo matsu” (“gli uomini fanno ciò che possono e attendono la decisione del cielo”), cielo che è presente anche nel titolo del libro; infine, l’ultimo breve testo sembra concordare con l’idea del conoscere-diventando di Kitarō, che pure deve molto alla spiritualità buddhista e zen in particolar modo.

Già il titolo del primo testo, Sonetto d’autunno, sembra voler accedere a una cultura altra anche solo per la scelta formale: sono versi intrisi di un’afflizione pungente per lo svanire di ciò che è stato e la nostalgia delle cose perdute (“tutti vorrebbero giungere all’autunno … con maggiori profumi di quelli passati … ma non sempre, ahimè, ogni fiore / fa nascere il frutto con lo stesso profumo”), che si estende poi alla “smisurata lontananza” della persona amata. Eppure l’incontrarsi nuovamente “sotto un altro cielo”, all’apice della maturità, non fa che evidenziare il limite dell’essere concentrati sul sé, incapaci di dimenticarsene davvero, “ognuno chiuso / dentro di sé, e con lacerante ferita”.

Il tema continua ad essere approfondito in Baratro: “quando ti ho abbracciato / una seconda volta / era come stringere un baratro … perché … ogni cosa che abbraccio … si trasforma nel mio baratro?”: la sofferenza per non riuscire ad accogliere davvero ciò che è altro dal sé, vivendolo solo come qualcosa in relazione ad esso, fino a paragonarlo all’abisso dove l’io, inevitabilmente, finisce per precipitare dolorosamente e in solitudine, è qualcosa di estremamente vicino alla sensibilità moderna, e non solo giapponese – anzi.

È nello sviluppare questo tema che si avverte la distanza e l’incredibile prossimità del sentire di Takano: all’amica “minacciosa” che chiede “cosa mi daresti?” l’io del testo risponde “ormai da tempo non possiedo / neppure le parole che dico, / l’azione che scelgo. / Cosa potrò darti / di un ‘me’ / così trasformato?”. Qui il  tema dell’anātman, l’illusorietà del sé che non fa che impedire l’accesso alla comprensione del mondo e dei fenomeni, inizia ad insidiarsi con naturalezza, e la conclusione del testo sembra quasi richiamare un mondō zen, un dialogo tra maestro ed allievo, quando l’azione si fa più significativa di qualsiasi risposta verbale, in quel “gesto / con cui indico la falena / che sbatte contro il vetro”. Anche l’immagine della falena, attratta da una luce fatale e costretta ad affannarsi faticosamente e senza alcuna utilità, sembra alludere alle dinamiche relazionali fallimentari dei primi testi, a quella molteplicità di “sé” che, spinti dal desiderio e da una visione accentrata ed egoriferita dell’esistere, si trovano intrappolati in un’afflizione logorante. Continua a leggere

Kikuo Takano (1927-2006)

Kikuo Takano

WALTER SITI SULLA POESIA DI KIKUO TAKANO

La prima cosa da fare, credo, ragionando intorno alle poesie di Kikuo Takano, è difenderle contro una lettura banalmente “poetica”: il vuoto, lo smarrimento dell’anima, il miracolo della natura (“rabbrividiscono i fiori di mimosa”),l’amore per la vita – genericità che potrebbero richiamare, e soddisfacendo le nostre basse voglie di sublime, certo ermetismo attardato di provincia. La sua poesia è invece per eccellenza grammatica e antisentimentale, violenta asimmetrica esigente; una poesia che non ha paura di riconoscersi contraddittoria, di tacere quando è il caso, e che non cerca il facile plauso. Non per niente nasce, storicamente, dal disastro del Giappone post bellico; Takano ricorda, lui diciottenne, l’incontro in treno con una sopravvissuta di Hiroshima. La poesia si riconosce spezzata come in quel momento il paese, la sintassi è squassata, il metro ( per quanto si può capire dalle traduzioni, e posto che il paradigma di linearità che vige laggiù sia confrontabile al nostro) si disarticola in membri brevissimi e lunghissimi, il verso libero e contundente si impone come esigenza psicologica; “Arechi”, Il nome della rivista che ospita le sue prime prove e mature, in giapponese significa letteralmente “deserto”, “terra desolata”. Aridità, desolazione, frammentazione sono prima di tutto di bei dati fisici, creaturali – per salvarsene esprimendoli l’unica via è quella della cultura, che per Takano è fin dall’inizio, una cultura razionale, lucida, di matrice filosofica e scientifica (mai dimenticare che è stato un buon matematico, autore di importanti ricerche sulla formula del pi greco). Continua a leggere

Paolo Lagazzi, “Come ascoltassi il battito d’un cuore”

Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi

Per quanto amato da molti lettori di poesia, per quanto profondamente stimato da alcuni tra più grandi poeti del Novecento non solo italiano (da Montale a Luzi, da Sereni a Caproni, da Pasolini a Charles Tomlinson a Kikuo Takano), Attilio Bertolucci resta un autore ancora, in parte, misconosciuto e incompreso. Solo una lunga frequentazione del suo mondo poetico può permettere di cogliere la complessità e la ricchezza che si annidano nell’apparente semplicità del suo linguaggio. Paolo Lagazzi, riconosciuto dallo stesso Bertolucci (in un’intervista apparsa nella rivista “Gli immediati dintorni”, n.2, 1989) come colui «che forse più di ogni altro mi ha letto in estensione e in profondità», ripercorre negli scritti raccolti nel presente volume alcuni tra i capitoli decisivi della storia del poeta: l’inesausto amore per la pittura; la passione per le opere di Proust e di Eliot; l’affinità elettiva con un originalissimo, fantastico e umano storyteller quale Silvio D’Arzo; il lavoro svolto con leggerezza e lungimiranza nei campi del giornalismo e dell’editoria; il dialogo tra la sua poesia e il cinema del figlio Bernardo.

Soprattutto, questo libro ci porta di nuovo a osservare i “nodi” più segreti e cruciali del mondo bertolucciano: la religiosità sui generis, il sentimento del sacro, l’incontro fra un bisogno primario di verità e un’acuta coscienza della vita come mistero.

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