Gino Scartaghiande. Il luogo della Storia

Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero e proprio evento.

A distanza di ben oltre quarant’anni viene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti di Gino Scartaghiande. E non si tratta di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità.

Appunti sui “Sonetti” per Luigia Sorrentino
di
Gino Scartaghiande

King-Kong è come suono onomatopeico, è un rullo di tamburo,  l’incontro con il fenomeno stesso dell’ispirazione in tutta la sua complessità che ti piomba addosso come qualcosa di feroce e al contempo dolcissimo ma con cui devi comunque combattere, un po’ come la lotta di Tobia con l’angelo. E l’arma con cui condurre la battaglia non è altro che il verso e la sua specifica forma.

Nel mio caso “sonetto” è inteso proprio come “piccolo suono”, sia quale consapevole minus rispetto alle sue più alte forme espresse nelle civiltà del passato, sia quale aspirazione, nonostante tutto, ad esse. Ma realisticamente, abitando noi la catastrofe del moderno, non ho potuto che riformularne l’essenziale sua prima origine proprio nel contrasto con il monstrum del disforme, così come aveva già fatto Giacomo da Lentini nei confronti del mostro polifemico e dell’epicureismo di Federico II, ma nel contesto di uno straordinario momento di civiltà letteraria siciliana.

La forma nasce sempre da un simile contrasto, così come ogni virtù si entifica sempre a fronte di un male che si è riuscito a vincere. Una tale dinamica presuppone l’aver occupato di già zone sotterranee ed infere dell’essere, in un ingrato lavoro a tentoni, dove si è ciechi come una talpa. Senza questo lavoro dalle sue fondamenta, ogni forma è solo di superficie, ovvero mistificante. Modigliani per erigere i suoi immortali “pilastrini di bellezza”, sprofondava nel sottosuolo della metropolitana di Parigi, da cui traeva i suoi massi, la materia su cui lavorare, e che egli riportava all’essenzialità di un koùros cicladico, non senza la riverberante presenza del dio extra-olimpico Apollo già proveniente dal deo Marduk di Babilonia.

Tra le fondamenta dei “Sonetti” da cui ripartire c’è in primis il luogo della Storia e della violenza perpetrata in suo nome; e io, nel primo poemetto del libro, riparto proprio dall’assassinio di una donna, Rosa Luxemburg, la cui morte rivivo sul mio stesso corpo. Ma è tutta la storia fantasmatica delle immagini in cui siamo immersi nella nostra modernità – lèggi film, romanzi, canzonette, telefilm, spettacoli d’intrattenimento – a costituirsi quale luogo che uccide la donna.

E questo perché un’immagine ineffettuale, dove non si attua cioè l’effettualità della poiesis, è mitica, e il mito, per sostentarsi, esige sine qua non il sangue delle vittime. Quando Rossellini gira Roma città aperta uccide davvero Anna Magnani, l’ha già tradita alle spalle. E questo perché Rossellini non paga, effettualmante, con un proprio personale sacrificio, il prezzo del mezzo che usa, o per dirla con l’antichissimo poeta   latino Lucilio, non sa più cosa significhi praetium persolvere quis in versamur, ovvero saldare il debito per le cose che si usano. E questo vale tanto più per l’arte, come con il loro sacrificio intenzionale ci hanno poi di nuovo rivelato

Pasolini e Troisi. E tutto ciò perché, come viene a dirci Pietro Tripodo in un suo saggio del 1995 pubblicato nel collettaneo La parola ritrovata, “Già il mondo delle immagini, con maggiore nostra passività, seleziona il luogo e il momento della più grande atrocità, del più grande oltraggio”.

Gino Scartaghiande, foto di Dino Ignani

CITTADINI DI UN REGNO CHE VA SCOMPARENDO

La prima ispirazione per quella che sarà poi la Gerusalemme liberata, un Tasso fanciullo l’ha avuta proprio durante le visite all’abbazia benedettina della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, dove aveva soggiornato Urbano II, il papa che indirà poi la prima crociata.

Dacché il nostro bellissimo Regno delle Due Sicilie è stato annesso in un sistema non eudemonico, ovvero infernale, e con tanto di mafia al seguito, quale è l’odierno Stato liberale – ma tale annessione vale per tutta l’Italia, dalla foscoliana Venezia alla Napoli di Vanvitelli e Ferdinando Fuga; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla allo Stato Pontificio – noi siamo ormai cittadini della diaspora, di un regno che continuamente va scomparendo.

Questa scomparsa però non è una perdita, ma il giusto avanzamento verso quello che è il vero fine di ogni civiltà: la sua definitiva uscita dal mito, lasciando al suo posto una traccia di splendore.

Questo è quanto ci hanno trasmesso gli antichi regni scomparsi, e soprattutto la Grecia, allorché il suo primo re storico, Teseo, libera quei giovani dal Minotauro, alias dal labirinto del mito, vuoi anche dal mito del successo, portandoli a nuova vita. In questa opera di liberazione, è tutta la tradizione e il nostro vero rapportarci ad essa.

Continua a leggere

Gino Scartaghiande, “Sonetti d’amore per King-Kong”

Gino Scartaghiande, marzo 2023 (foto di proprietà dell’autore)

di Luigia Sorrentino

Nel 1977 l’uscita dell’opera di Gino Scartaghiande, Sonetti d’amore per King-Kong, nato a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1951, rappresentò uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento. Un poema stilisticamente audace per quei tempi che molti accolsero come un evento. A distanza di oltre quarant’anni Graph Editore ripropone i Sonetti, con l’aggiunta di alcune poesie inedite.

Fonti del Kong
di
Gino Scartaghiande

Sonetti d’amore per King Kong sono un fenomeno non circoscrivibile in una data realtà storica, tantomeno in una decade. A rigore, rifacendomi ad Husserl, il fenomeno non ha niente a che fare con la realtà; esso è, rispetto all’arte, quella “inconcepibile mezza sfera mancante” a cui, come dice Beppe Salvia in Idea cinese, l’arte stessa “deve assoggettare la propria rappresentazione”, altrimenti “diventa genere. oggetto di culto”. Ed infatti è proprio da questa lontananza dalla realtà del fenomeno che la poesia riesce a darci oggetti precisi con cui comprendere e preservare l’intero Lebenswelt umano. E anche io, per quanto mi riguarda, credo che proprio la poesia in quanto fenomeno, dacché mi ha da sempre estraniato dal mondo, mi abbia poi aperto la vera via per poter questo stesso mondo incontrare ed amare fin dal di dentro della sua Storia, o proprio mettendomici sotto, come una talpa.

Il decennio post-sessantottesco è stato senz’altro tragico, per me studente universitario nel quartiere di San Lorenzo a Roma, durante i cosiddetti anni di piombo. Eppure eravamo aggrappati a questo fenomeno-poesia come oggetto reale, non solo io, ma tutta una schiera di poeti prima e dopo Pasolini, da Amelia Rosselli a Beppe Salvia, che hanno saputo superare, con enorme sacrificio di sé stessi, quell’assentificazione del fenomeno operato dalla poesia ermetico-idealista in cui si era venuto a dilatare l’occulto nichilismo liberal-romantico di Manzoni – si veda sull’argomento il libro-pamphflet di Aldo Spranzi L’altro Manzoni, Ares, 2008 – ovvero la mistificazione di una letteratura che, perdendo di vista il proprio oggetto fenomenico, diventa mero esercizio di stile, o di estetica, denotante una sostanziale mancanza proprio di quello stesso fenomeno cui avrebbe dovuto annunciare.

Il caso del romanticismo e dello storicismo di Manzoni è emblematico, e la questione è fondamentale per comprendere la catastrofe che si apre dopo l’altissima cifra classica di Foscolo e di Leopardi, e il conseguente precipitare di tutta l’epoca nell’ideologia positivista. Se ne avvidero Pascoli e Carducci, e corsero ai ripari, ritrovando il fenomeno oggettivo della poesia, e con esso soltanto, una lingua ed uno stile veritieri. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” ci apre all’ “altrove” del fenomeno, e il “Né io sono per anche un manzoniano” sono parole pur troppo vere, dette quasi per celia da uno che aveva in epoca positivista vissuta la tragedia della messa a tacere di una origine fenomenica della lingua, che era invece ancora così naturalmente presente, in quanto tale, nei suoi avi meno remoti, e che il poeta fa d’un tratto balzare ai nostri occhi, nell’incontro di nonna Lucia con lo scaturire celeste dei giovani-cipressi “alti e schietti”. Non anche forse da quel “T’amo, o pio bove” carducciano sarà derivato il “Ma io / t’amo King Kong” dei Sonetti (pag. 28, Graphe.it Edizioni, 2023) e “Da la larga narice umida e nera” quel “Vieni con la narice dilatata” (ibidem). Come se un poeta prima di me mi avesse dato una plausibile zattera di salvataggio su cui salire. Mancando di questo oggetto fenomenico reale, l’arte non conforma nessun atollo di libertà per l’umanità, e anzi la conculca, per sostentare il mito-idolo di sé stessa. La catastrofe manzoniana si allargherà poi in quella del nostrano idealismo ermetico, con tutti i loro inani tuffi pitagorici in non si sa quale eternità se non in quella di una vanagloria mondana. Se ne ritrarranno in tanti, come dall’orlo di un abisso, consapevoli del maltolto… di “quanto ha roso il ferro della notte” Beppe Salvia (Canzone d’estate). Rebora che si ritirerà a Domodossola, Campana che scolpirà un suo sentiero di solitudine fino a La Verna, Antonia Pozzi che nell’antivedere di una nebbia, realizzerà il suo concreto oggetto fenomenico di poesia.

Il fenomeno della poesia è unico ed eterno in tutti i tempi e luoghi, e costituisce esso da solo tutta la tradizione. In questo fenomeno, o zona, se vogliamo dirlo con Apollinaire, si entra e ci si incontra all’istante con tutti i poeti di sempre in quanto persone vive, pur non avendoli mai prima conosciuti, e neppure mai letti. Sono essi stessi che ci vengono incontro e che ci prendono per mano. Essi ci donano le parole con il più alto grado di perfezione, ed è già un’altissima degnità per noi farne memoria. Così, in un percorso di conoscenza, mi è venuto incontro con il suo “Como smarrito sì vo per la via” Jacopone da Todi (Laude 89, v 127) mentre scrivevo “Come smarrito su di una strada” (ivi, pag. 36), e, dalla stessa laude, v 143, “scendemmo, saglio, tegno e so’ tenuto”, ed io “salgo, scendo gradini. Dappertutto” (ivi, pag. 45); o anche da Le aureole di Corazzini “Sei triste, mi dai pena / questa sera […] Che hai?” (Spleen, v 14-16) per il mio “sei triste stasera, sai cosa significa?” (ivi, pag. 27). Ma a volte basta anche un solo accento, una sola parola, come in questo “Te Campo” (Catullo, 55, 3) che mi si fa presente in un “Tu campo di / viaggi, campo di stasi” (ivi, 57).

Nessuna critica dunque di fronte al fenomeno, nessuna ermeneutica, se non il nostro confessarcene debitori. Il cosiddetto Anonimo del Sublime di fronte al fainetai trinitario di Saffo, “A me sembra pari agli dei colui che accanto a te siede”, viene rapito in estasi anch’egli, e tace, e ci rimanda solo il testo-fenomeno. Come tra i più splendidi oggetti reali di poesia. Se ne fa diacono, e anche doulos, ovvero servitore.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il nome

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza. Continua a leggere

RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

Continua a leggere

Il ritorno di Beppe Salvia

lettere musive io desto, ignote
cifre che compongono un fregio, tesse
una trama questo disegno, rete
di tessere in questo quadro crette
magia figura di regale soglia
oltre cui accedo ospite senza
credo ai sopiti luoghi della veglia,
voglio saper la meta e chiedo lenza
per il diniego trarre dal mare, le
fughe d’inospiti sirene l’ale
m’apprendono, volo ove è chiave chiara
di questi nodi di noci d’ardesia,
sale una savia siepe a dimorare
dove chiudon la corte due scalee.

*

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

*

viva le lunghe ore della scuola
il banco celeste come il cielo
serviva a non guardare la lavagna
viva le povere ore di malinconia
viva quel tuo mugugno
viva la veste bianca e le bugie
viva la via deserta tutta
fiocchi bioccoli Continua a leggere

L’ultima lettura di Carlo Bordini

Carlo Bordini, credits ph. Dino Ignani,  Orto botanico, Roma, 2018

 

di Luigia Sorrentino

Questa breve lettura è l’ultima compiuta in video da Carlo Bordini. Carlo presenta la rivista “Diacratica”, da lui co-diretta e legge una poesia tratta da “Sonetti per King-Kong“, (1977) un libro ormai introvabile, mai più ristampato, del poeta Gino Scartaghiande. Un commovente saluto all’amico poeta.

NOTA DI CLAUDIO ORLANDI
(Radio Pomona)

Ero a casa sua agli inizi di ottobre 2020 e gli chiesi se avesse voluto fare una video lettura per Radio Pomona, lui decise per questa presentazione.

Carlo parla del progetto «Arianna – I libri ritrovati», una collana di poesia ospitata dalla rivista online “Diacritica” e diretta da lui, Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi. (continua dopo il video)

Continua a leggere

Gino Scartaghiande, da “Oggetto e circostanza”

Gino Scartaghiande / Credits ph. Dino Ignani

 

Non ho mai conosciuto la collocazione

Ricordo la sera esattamente
Da collocare, temporalmente parlando,
in un anno compreso tra
Dei muri, delle strade.
Che non (si) potevano (chiamare) più
(essere chiamati) muri, strade.

Il nome

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza.

So di certo chi sei, chi sono. L’asfalto
grigio della strada. Il tuo sangue sull’
asfalto penetratomi sin d’allora. E so
che altre strade dovrò ancora assorbire,
altro vetro frantumare, prima di poter
pronunciare il tuo nome, che sarà anche mio
e infine nostro. Ti chiamerò Rosa Luxemburg.
Mi darai il nome. (lasciare 2 spazi)
Ti chiamerò mentre ti uccideranno. Sarà
come ricevere una tua lettera d’amore.
Dovrò meritarla. Ora ancora no.

I gradini scorrono lontano, fuggono come
tastiere di pianoforte, fuggono in tutte le
direzioni. Non so se muovermi coi piedi o se
affidarmi all’ascolto. Ma devo assolutamente
trovare il punto ove tutti i gradini e
tutte le voci confluiscono. Un foglio
trasportato dal vento, un grido d’aiuto
basterà?

Ora. Sono pronto a barattare ogni cosa
per questo incontro. E vedo talmente bene
il nero che cola sui gradini. Anche dagli
occhi, anche gli occhi che vedono colano
nero, come assassini che complottano,
che attentano.

Sono pronto. Ma non ancora in stato di
grazia. Cara Rosa, oggi è stata una
giornata piovosa, ma stasera il cielo

era sgombro e c’erano le stelle.
Sento di svegliarmi, non so ancora
dove. Con ostinata certezza percorro
tutte le ferrovie della terra.

Morire è un lusso che non possiamo permettere
né alla fantasia né alla pratica quotidiana.
E soprattutto a quest’ora di notte, nella strada
così nera e deserta, col silenzio gravido
che vorrebbe scoppiare in fragorosa giornata
d’estate, con bagnanti al mare e bambini
che giocano, mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini neri
coinvolti nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza:
il mare d’acqua azzurra non esiste.

Il ritardo assunse toni fatali. Erano
esattamente 5 giorni d’assoluto silenzio.
Muti io e lei. Neri e muti. Da 5 giorni
seduti al tavolino del bar, bevendo un caffè
che non finiva mai. 5 giorni oscuri come 10
notti. Vestiti di una pesante e appiccicosa
calzamaglia nera, sentimmo il turbamento
di una rondine su di un umido filo di
telegrafo, prima di partire, in autunno,
giornata piovosa, quasi sera. E un’altra
rondine sul filo opposto. Continua a leggere

Gino Scartaghiande, poesie scelte

Gino Scartaghiande credits ph. Dino Ignani

Poemi naturali

Quando s’apre non si
ripercorre nel sogno suo
insabbiandosi come un folto
di luci già entrato e pronto
alle voci raccolte intorno.
Poi qualcuno certo si spaventa
a vederlo ma lancia una striscia
solida di conservazione
e attende gli uccelli ad ogni
bordo forcaiolo che li dissangua.
Uscire ora sarebbe entrare.
Ho concesso senza perdermi,
parlando piano lungo una parete
che subito mi riassorbiva.

*

Ho letto i miei anni
nell’insinuarsi lento
delle strade. Come un mutante
dagli occhi marini
nel bianco scomporsi
della sacralità. S’è svuotato
di nuovo. Chiunque vorrà
il mistero, e per due notti
intere, è un corpo gettato
alla fame densa dei colori.

*

Mentre passanti tra i vetri
colmi della degradazione,
anch’io più volte in
essi, l’intero discorsivo
giorno nelle relitte a riva
o in largo. Vedete ora
il distacco è
tale vicinanza. Non saprei
essere. Ma se vola
un uccello da una torre
all’altra e in mille. Saprà solo
lo spontaneo meno dell’azzurro.
Continua a leggere

Gino Scartaghiande, da “Oggetto e circostanza”

Gino Scartaghiande, credits Photo Dino Ignani

I raggi stanno tessendo
quest’addio. Non sono più
la fantasia. Non ho memoria
che sotto di me, furono
splendidi, freddi, quei
concavi cieli. A chi do
perdutamente
i miei baci,
se nella strada, in un attimo
ti fermi dietro di me?
Sto consumando lentamente
questa terra. Non per le strade
che seguo. Io se non te. Non
per conservare, ma essere
che tu sia. Dove si fa chiaro
io sto diminuendo dentro.
Che tu avvenga. Che tu possa
sopra un’urna chiara d’erba,
vedere quest’oasi di noi. Continua a leggere