Qualcuno. Per Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta / Credits ph. Andrea Annessi Mecci


Carmelo Princiotta

 

Biancamaria Frabotta è morta a Roma il 2 maggio 2022. Diceva che i poeti fanno le pulci alle parole, e non temeva di usare il verbo morire. Si è spenta, è scomparsa, se n’è andata, ci ha lasciato… sono espressioni improprie, che, per aggirare un tabù, tradiscono i fatti.

Nessuno di questi verbi corrisponde al suo morire, almeno nella mia esperienza.

Biancamaria Frabotta era nata a Roma l’11 giugno 1946, nello stesso anno della Repubblica, sotto la costellazione dei Gemelli. Roma è la città madre, come ha scritto in tante sue prose, di cui alcune raccolte nel memoir Quartetto per masse e voce sola (2009). Civitavecchia era la città della madre, «Eugenia / nata De Falchi», celebrata nel poemetto La viandanza. Il nome autoriale è Biancamaria, anche se quello anagrafico era Bianca Maria.

Considerava la scrittura una «seconda nascita», come scrisse nel suo primo libro di poesia, Il rumore bianco (1982). Credeva che la cultura potesse e possa rimetterci al mondo.

Nella sua opera si è declinata sia come poetessa che come poeta. Specie all’inizio, rivendicava per sé la parola poetessa. Poi usò anche la parola poeta, sia al maschile che al femminile. Non era per i generi convenzionalmente intesi: lo dimostra fin dal titolo la plaquette con cui esordì, Affeminata (1976).

Per rimettersi al mondo, era andata alla ricerca delle madri e delle sorelle culturali, con l’antologia Donne in poesia (1976), pubblicata pochi mesi prima della plaquette d’esordio. Il sottotitolo, Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi, non la convinceva del tutto: più che di poesia femminile avrebbe voluto parlare di poesia di donne.

«Il nostro uso della definizione “poesia femminile” o meglio “poesia di donne” vorrebbe […] contrapporsi all’uso che convenzionalmente se ne fa», scriveva nell’Introduzione, perché all’epoca si poteva ancora affermare in un dizionario della letteratura contemporanea che Anna Maria Ortese era «sostenuta da un’intelligenza virile e da una sensibilità femminilmente emotiva».

Secondo Dacia Maraini, che accompagnò con una nota critica quell’antologia, la scrittura delle donne si distingueva per un diverso «punto di vista». Secondo Biancamaria Frabotta, questa differenza aveva a che fare anche con l’uso del linguaggio: «Divenni femmina, nel linguaggio, prima che nel corpo» è una delle frasi di Autoritratto al buio, comparso moltissimi anni dopo su questo blog. E bisognerebbe leggere attentamente Letteratura al femminile (1980) per comprendere appieno il senso di un titolo che non pone affatto un’equivalenza fra letteratura femminile e letteratura al femminile. Continua a leggere

Addio a Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta

Lutto nel mondo della poesia. Si è spenta a Roma dov’era nata, all’età di 76 anni, Biancamaria Frabotta poetessa fra le più rilevanti e centrali della Cultura in Italia.

Da giovane era stata leader dei Movimento Femminista. Dedicò il suo primo libro “Affeminata” – nota critica di Antonio Porta – alle donne accompagnandole nella lotta di emancipazione per i diritti femminili. Successivamente le sue energie le spese nell’insegnamento all’Università “La Sapienza” di Roma.

A partire dal 2001 era diventata professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea divenendo un punto di riferimento importante nella divulgazione della poesia più recente.

da Mani mortali (Mondadori, 2012)

 

Quando arrivo
se ne è appena andata
come una persona
imperfettamente amata
che posa a terra a fatica
la valigia discesa, un piede
ancora sul gradino del treno
esitante e nel cuore la luce
del mare feriale
le gallerie di colpo senza
golfi, seni azzurranti, rive
mancate come ragazze viziate.
Quando arrivo
scompare sottoripa, di frodo
fra razze di spalla palpitanti
come fosse imminente il riscatto
e le figure non finite sul selciato
odoroso di calcina e carname
la città che i poeti hanno veduta
pettinata contropelo sul monte
la funicolare che porta
dove comincia la morte
e al porto, fra i pescicani
affioranti la fame dalle vasche
– ma dov’è l’Italsider, il peso
immenso dell’operaia decenza
dove la città eroina avvolta al risveglio
nella carta velina? Oh Giorgio, mio caro Giorgio
quale nuovo disastro è ora nell’alba
fra nuvole dissolte e rifatte poco in là
eguali, come Allah vuole, che il cosmo
ricrea ogni attimo che muore.
Quando arrivo
è passato molto vento fra i moli
fra gli orienti improvvisi
i turisti clandestinamente
importati d’inverno con tenere vesti
d’estate, attillate, solcate negritudini
sui passi sillabati dai tacchi taglienti
quando arrivo, trafitta
capitale delle rovine d’Italia
pupilla che grigiamente sbianca
pur di non somigliare a sé stessa
risanata Genova che mi fai male
e piegata mi colpisci al petto.

 

Pubblichiamo l’AUTORITRATTO scritto da Biancamaria Frabotta e pubblicato su questo blog il 6 marzo 2016.

Autoritratto al buio
di Biancamaria Frabotta

L’11 giugno del 2004 è nato mio nipote Luca, cui auguro di non assomigliarmi troppo, dato che lo stesso giorno del 1946 sono nata anch’io. Non so se possa vantare coincidenze più illustri di questa. Il mio compleanno ora è il suo, in cui mi annido, come una quieta seguace della sua infanzia non finita. Alla “vera vecchiaia”, diceva Caproni, ci si arriva solo dopo la “vecchiaia” pura e semplice. Nella prima forse me ne starò rintanata, attonita, magari mi capiterà di scrivere poesie atonali, senza troppe storie e rigurgiti dell’amore e dell’ira che non distinguono vita da poesia, ritmi da carattere, sonni da risvegli.

Continua a leggere

Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Lo sguardo ripensato di Mario Benedetti

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

di Carmelo Princiotta

 

Rileggo Umana gloria. Le poesie di Benedetti sono spesso scritte come un ripensamento dello sguardo. I suoi verbi fondamentali sono guardare (anche vedere) pensare, dire, andare e venire. L’io è uno sguardo: «Io che sono delle cose negli occhi / ma non so dire come sono quando le guardo». E le cose? «Le cose che si vedono / sono storie di gente morta». Oppure: «Le cose arrivano dalla pubblicità / o da dentro i suoi occhi / dove nessuno vede perché ci sono solo i morti». Friulano estremo, come annunciato da Slavia italiana e Slovenija, Benedetti ha poi vissuto altrove, pur continuando a scrivere di quella frontiera, e da una frontiera non più geografica ma diciamo pure metafisica, quella fra vivi e morti.

L’andare è quasi sempre un andare via. Benedetti è un poeta del mancamento: il suo tempo prediletto è l’imperfetto. Ha una percezione elegiaca del tempo, un sentimento della vita come perdita. E si direbbe che a volte gli manchino le parole così come gli mancano i morti o come gli è mancata la terra sotto i piedi, durante il terremoto del ’76. In fondo alla poesia di Benedetti c’è In fondo al tempo, con la sua scena tellurica primaria: «Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna». «Scrivo per fratture» ha detto in un’intervista. E davvero a volte i suoi passaggi strofici, i suoi vuoti sintattici, sono delle crepe che rischiano di inghiottirci, come le gole del pavimento o come «la bocca dei defunti». Così è per il vuoto, ma anche per il pieno, gli elenchi nominali in cui le cose si accatastano come in un crollo, alla rinfusa, pezzi di vita, vite fatte a pezzi. Niente è al suo posto, tutto è dislocato, incongruo: «Sono venuti giù i sassi, / il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo. / Siamo scappati via dagli occhi, il vento nella testa». È la surrealtà dei terremoti, in cui tutto si dispone come in una fiaba del terribile. Molte poesie di Benedetti sono fiabe del terribile. L’inanimato si anima, tutto si muove. Si avvicina e si allontana, distorcendo la percezione del quotidiano: «Vengono vicini enormi i ceppi, le scale / i cerchi delle botti, come per andarsene». La realtà si ferma solo nei quadri. Chissà se è da qui che viene l’ossessione pittorica di Benedetti. Ferma vita è una poesia di augurio, uno dei pochi testi che si aprono al futuro, verbo che in poesia s’impara a coniugare da Fortini. È tutto un saliscendi in questa poesia, tutto un andirivieni. Per fermare le cose bisogna ripensare lo sguardo che le ha viste, amate, perdute. Il verbo più toccante di Mario Benedetti è il verbo stare, seguito a ruota dal verbo tenere, tenere insieme, come in Quadri. Tutto va via, anche gli occhi, di cui è disseminata questa poesia: «I tuoi occhi con i nomi delle mele e delle pesche».

La «visione intera» si scompone. Si ha una percezione metonimica del mondo. Tutto perde consistenza, tanto che c’è poi bisogno di ridire che cosa è l’io, che cosa sono le cose. Tutto è sempre qualcos’altro. La prima incongruità di questa poesia è il verbo essere, a meno che non venga modulato dallo stupore infantile della favola, del sogno: «C’era…». Oltre alla scomposizione, c’è una sovrapposizione, come in dissolvenza: «Era perché non poteva restare niente di tutto questo / che gli occhi facevano i matti». Si ha una percezione analogica del mondo, che certo Benedetti mutua da Milo De Angelis, ma poi riconverte nelle sue particolari dissolvenze, o, con termine zanzottiano, sovrimpressioni, come nella splendida Log, Ambleteuse, dal titolo che giustappone Slovenia e Francia all’indimenticabile finale: «E un albero di fiori / sale sullo slargo della marea / perché la mano è così, amore, / lei va alta fra i tuoi capelli», con quell’insensato e strepitoso connettivo, che fa un sorgere da un gesto il paesaggio fino a confondere gli amanti e ciò che guardano, o pensano a occhi chiusi: la mano con l’albero di fiori, i capelli con lo slargo della marea. Perché nelle poesie friulane di Umana gloria, quasi sempre le più belle dell’intero libro, le persone portano con sé i paesaggi: «Davanti il cielo che è venuto insieme a lui / gli alberi che sono venuti insieme a lui». Tutto è però ferito dalla natura, e dalla cosiddetta civiltà, dalle sue fabbriche, fibre sintetiche, pubblicità. Non per niente, dietro la «povera umana gloria» di Benedetti ci sono le «povere forme eterne» di Pasolini. Continua a leggere

La poesia di Biancamaria Frabotta

 

POMERIGGIO DI STUDIO SULLA POESIA DI BIANCAMARIA FRABOTTA

di Carmelo Princiotta

Quella di Biancamaria Frabotta è una poesia dall’impronta dinamica, in continua viandanza. All’età turbolenta del rumore bianco, che dà forma a una nuova soggettività, si avvicenda il tempo del contrappunto fra la struggente ricerca dell’origine e gli impervi itinerari nell’altrove, al fine di oltrepassare le secche del postmodernismo e una banalizzante idea di contemporaneità. Succede quindi la stagione di un inquieto, asimmetrico pendolarismo fra città e campagna, in cui più fitta si fa l’interrogazione della condizione mortale e più acuta la nostalgia della classicità. Continua a leggere

Come si può leggere una poesia

Biancamaria Frabotta, Credits photo Dino Ignani

di Carmelo Princiotta

Notte della memoria

Messi a tacere i testimoni scomodi
spente le gesta e le genti scampate
agli argini smossi, disseminati
monti d’abiti smessi, denti d’oro, pennini
e sciarpe e scarpe e più di cento spille
come quando s’empie il cielo di stelle…

Notte della memoria è una breve poesia apparsa ne La pianta del pane (Mondadori, 2003) e poi compresa in Tutte le poesie 1971-2017 (Mondadori, 2018) di Biancamaria Frabotta. Non tutte le poesie del libro sono titolate, quindi il titolo, se presente, ha un valore semantico importante e non una semplice funzione identificativa. Notte della memoria è il contrario di Giorno della Memoria. Perché questo titolo? Forse perché, mentre celebriamo il Giorno della memoria, in realtà viviamo la Notte della memoria. Notte della memoria è una poesia di preoccupazione testimoniale: nasce dal silenzio forzato dei testimoni (un silenzio dovuto a cause biologiche – i testimoni dei campi di annientamento non vivranno per sempre – o a responsabilità politiche e civili, come il negazionismo o la crisi di coscienza storica in cui versa l’Occidente). Questo non è detto. Vediamo come si comporta la poesia. Notte della memoria riprende uno dei pochi punti d’intensità di Auschwitz di Salvatore Quasimodo («e ombre infinite di piccole scarpe / e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie») e lo trasforma in una sigla autoriale (la paronomasia è un po’ la “firma” di Frabotta): la paronomasia scarpe/sciarpe è preceduta dalla paronomasia smossi/smessi e seguita dalla paronomasia spille/stelle, per di più esposta in chiusa come una para-rima (con un rilievo certo maggiore rispetto alla rima imperfetta scampate : disseminati). Non è un vezzo manieristico, come il gesto del pittore che si ritrae nei propri quadri, prestando il volto a un personaggio magari secondario, la creazione di un campo di tensione semantica. La metafora del titolo veicola un contenuto etico. Continua a leggere

Nuovi Argomenti n. 79 propone una monografia su Sandro Penna

Sandro Penna

Vi proponiamo le preziose traduzioni di alcune poesie di Sandro Penna realizzate da Patrizio Ceccagnoli e Susan Stewart contenute nella monografia su Sandro a Penna a cura di Maria Borio. Un volume da acquistare, per restare nel cuore di un poeta dallo sguardo violento e sublime.

SANDRO PENNA, SELECTED POEMS

Mi avevano lasciato solo
nella campagna, sotto
la pioggia fina, solo.
Mi guardavano muti
meravigliati
i nudi pioppi: soffrivano
della mia pena: pena
di non saper chiaramente…

E la terra bagnata
e i neri altissimi monti
tacevano vinti. Sembrava
che un dio cattivo
avesse con un sol gesto
tutto pietrificato.

E la pioggia lavava quelle pietre. Continua a leggere

Il libro degli allievi di Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta

Il libro degli allievi di Biancamaria Frabotta, funziona come un piccolo archivio storico meteoclimatico; un atlante di eventi e temperature registrati, nel corso di decenni, lì dove continuano a incontrarsi le stesse coordinate. Le flessioni e i climi qui rubricati si sono verificati su un’identica, tenace, geografia: tutti, sulla stessa mappa, abbiamo raccontato la medesima stagione: quasi quarant’anni di innamoramenti lirici, passioni civili, piani di studio, versi, lettere, chiacchiere e tesi di laurea.
Continua a leggere

Per un profilo provvisorio di Jolanda Insana (1937-2016)

 jolanda-insana

di Carmelo Princiotta

Con Jolanda Insana se ne va l’ultima fattucchiera della lingua poetica novecentesca, la poetessa dell’alterco espressionista, il rovescio di Quasimodo e l’altra faccia di una terra, come la Sicilia, feconda di grandi narratori ma avara di veri poeti. È pur vero che Insana, nata nel 1937 a Messina, dove si sarebbe poi laureata in filologia classica, era originaria di Monforte San Giorgio, dunque di quel lembo tirrenico del messinese segnato dalle presenze di Lucio Piccolo e Bartolo Cattafi, al cui cospetto i versi di Insana stanno come la prosa di D’Arrigo a quella di Vittorini (e non è, sia chiaro, un giudizio di valore). La lingua poetica di Insana non nasce soltanto da un’applicazione della funzione Gadda o dalla mislettura del magistero di Amelia Rosselli, ma anche dalla riduzione a filologia inventiva, se mi si passa l’ossimoro, dell’indole espressiva dei siciliani, sempre oscillante fra incantesimo e crudezza, fra gelsomini e coliche renali. Il fondo paremiologico di Sciarra amara, la silloge con cui Giovanni Raboni scoprì Insana nel 1977, e dei libri successivi ne è la dimostrazione. Quel titolo d’esordio, come spesso accade ai poeti, è davvero emblematico, riassuntivo e insieme premonitore, in quanto condensa il tema fondamentale di Insana, cioè l’alterco, la struttura dominante della scrittura, cioè il dibattito in forma di bisticcio che introverte e polemizza un genere originario della poesia siciliana e, più in generale italiana, come il contrasto e insieme lo trasforma in un teatro tutto mentale, e la sigla stilistica di quest’autrice, un espressionismo amaro e sciarrero. La corporeità, anzi la vera e propria carnalità, della poesia di Insana passa attraverso la prevalente sollecitazione del gusto, a fini non esclusivamente metaletterari (benché, si sia parlato, a ragione, di parola agra, aspra e, per l’appunto, amara). La Sicilia, che Insana ha lasciato nel 1968 per trasferirsi a Roma, in quella via dei Greci ch’era tutta sua (come ha ricordato l’amico Elio Pecora in un’indimenticabile poesia di dedica) e dove ieri è morta, rivive nella sua poesia perché si è impressa una volta per sempre non già nelle pupille ma nelle papille: gli unici momenti di struggimento di questa poesia sono legati al gusto, che per un siciliano veicola irrimediabilmente la nostalgia della madre, figura cui del resto pertiene il probabile capolavoro di Insana, Più non riconcilierà Abele e Caino ne La tagliola del disamore (2005). È questo un libro del materno fra i più toccanti e tremendi nel nuovo millennio, a partire dall’insostenibile poemetto d’apertura, La pietanza votiva, chiuso da una delle rarissime comparse del dialetto nella poesia di Insana, ovvero dalla straziata invocazione «matri bedda / matri ranni». Continua a leggere

“Contro dello emisfero morto”

amelia_rosselli_dino_ignani

Foto di Amelia Rosselli di Dino Ignani

Nel 2016 ricorre il ventennale della morte di Amelia Rosselli. Per l’occasione, il Liceo “T. Mamiani” di Roma ha organizzato un incontro con l’opera dell’autrice: «Io rimo per un altro secolo». La poesia di Amelia Rosselli, a cura del professor Carmelo Princiotta e degli studenti delle classi II G e II I. Ormai riconosciuta come la più grande poetessa italiana del Novecento, Amelia Rosselli finalmente comincia a entrare nel mondo della scuola e nelle letture di un pubblico più vasto. Quando succede, si tratta di un ingresso dirompente, come dimostra la lettura di questa studentessa di quattordici anni.

Continua a leggere