Compie quarant’anni “Somiglianze”, di Milo De Angelis

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Milo De Angelis

 

Giovedì 10 novembre 2016, ore 20, Quarant’anni di Somiglianze con Milo De Angelis. Casa della Poesia, Laboratorio Formentini, via Formentini 10, Milano.

La somiglianza

Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?

Prese la rincorsa, tese il braccio.

T.S.

I

Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II

E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

LA POESIA DI MILO DE ANGELIS

Tratto dal dialogo di Milo De Angelis con Claudia Crocco (Le Parole e le Cose, 28 maggio 2015)

M.D.A. Cosa hanno rappresentato per me Mario Luzi, Cesare Pavese e Jacques Lacan? Iniziamo da Mario Luzi, che insieme a Campana, Montale, Caproni e Sereni è stato il poeta a cui ho subito guardato, fin dagli anni del liceo. Di lui ho ammirato l’arte del dialogo. Prima di Luzi (e di quel libro eccellente che è stato Nel magma), il dialogo non esisteva nella poesia italiana. Non esisteva quel chiaroscuro, quel precipitare nel profondo, quel formarsi di un carattere e di una zona silenziosa, la parte celata della parola, il suo cono d’ombra. Detto questo, devo però aggiungere che essenzialmente Luzi mi è lontano e non l’ho mai considerato un vero maestro. Era un uomo troppo equilibrato, troppo giudizioso e incolume, capace di resistere alle intemperie e di temporeggiare, troppo lontano dalla possessione tragica, un uomo che nella vita ha allontanato da sé l’abnorme, lo scalpitante, l’invasato. Cesare Pavese invece alla tragedia si è avvicinato seriamente e mi ha insegnato sul piano umano verità indelebili. È stato un padre severo, con gli altri e con se stesso, non addolciva il giudizio, non usava palliativi, sapeva mostrare l’emergenza. Ed è stato un uomo che dava al libro un’importanza capitale, come di fronte a una corte d’appello. Eppure Pavese non è stato per me un maestro nella poesia. Ho amato più Feria d’agosto, Dialoghi con Leucò e Il mestiere di vivere che non i suoi versi. Mi chiedi poi di Jacques Lacan e del peso che ha avuto nella mia formazione. Lacan è stato un affetto (non un amore) piuttosto tardivo, incontrato negli anni parigini. Sentivo in lui la passione scrutatrice per la singola parola e per le sue più remote incrinature. Era un uomo magistrale e tagliente – architettura tedesca e finezza francese – ed era anche un ammiratore di Rimbaud, Bataille e Blanchot, un uomo pertanto capace di inoltrarsi nelle zone buie dell’altro. Proprio da Lacan ho appreso qualcosa di cruciale sull’alterità, una nozione (ma direi anche un demone) che è entrato in Somiglianze. L’alterità (altération) non è il passaggio da uno stato all’altro, non è un cammino metamorfico o un percorso trascolorante tra le parvenze (Ovidio) bensì una crepa subitanea e letale che si spalanca nel dialogo, qualcosa che impedisce di chiudere l’accordo e getta l’altro in un luogo indecidibile, a portata di sguardo e a perdita d’occhio, dove ciascuno è appunto «ce dont autrui détient le secret». Altri uomini o scrittori per me importanti? Certamente. Giorgio Colli (vale a dire il ponte con Nietzsche), Elémire Zolla (ponte con Nisargadatta e certe zone dell’induismo advaita), Sergio Quinzio incontrato più volte a Roma nel 1990-91 e convinto che il Cristianesimo dovesse morire nella storia, come il suo fondatore. Giovanni Raboni, rabdomante della parola, capace di cogliere le increspature più invisibili. Angelo Maria Ripellino, che per primo mi parlò con trasporto di Marina Cvetaeva, quando sembrava vietato persino nominarla. Franco Fortini, gran lettore e gran censore di versi facili. Ma questi, più che maestri, sono stati degli insegnanti: a volte di raro talento, ma pur sempre insegnanti. Per essere maestro, occorre avere un’anima ben più grande e innocente, in senso letterale. Posso fare due nomi di maestri? Piero Bigongiari e Franco Loi, creature davvero nobili e disarmate in cui ho riconosciuto l’eredità russa di Miškin e di Alioscia, che hanno saputo donare in pura perdita.
E qui mi fermo con la biografia e ritorno alle tue domande. L’attimo? Sì, una vera e incrollabile ossessione. Anche la mia attenzione alla fotografia (non a caso vivo con Viviana Nicodemo) è legata all’attimo, che non è mai statico, quando è davvero un attimo destinale. Raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in se stesso il tempo che precede e quello che segue. E il grande fotografo, come il grande poeta, fissando quell’istante fecondo, crea l’alone di un’altra storia sfiorata, di qualcosa che può essere. È un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il kairòs. Evoca una stagione mentre annuncia la prossima. Ecco, il kairòs è questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo. copertina-milo-de-angelis-somiglianze1Ricordo e profezia, memoria e promessa, atomo gremito di tempi. Il fatto è che una sola immagine può contenere un tale vigore, una tale attesa, un tale spaesamento da irradiarsi fuori di sé e diventare un mondo. Questo intreccio di singolare e di cosmico è tipico della lirica, dagli antichi a oggi, da Alcmane a Bonnefoy. E infatti la fotografia è sorella della lirica. Potremmo dire così: la fotografia sta alla lirica come il video sta al racconto e come il film sta al romanzo. Al pari della lirica, la fotografia narra ciò che avviene una sola volta. E proprio perché avviene una sola volta, porta con sé l’ombra delle esistenze escluse, che circondano come una moltitudine l’unicità del momento, lo caricano di dinamismo e di forza cinetica. In questo senso fotografia e lirica sono esperienze iniziatiche, ossia esperienze che, mostrandoci un tempo intero nel tempo microscopico dello scatto, tendono all’epifania. Tendono allo svelamento del significato recondito dietro a quello immediato. L’attimo non è fermo, se ci pensi. Tutte le parole che lo esprimono nella nostra lingua sono parole di moto permanente: momento (movimentum), istante (partici- pio presente), e attimo, a-tomo, qualcosa che giunge nudo ed essenziale dopo infinite divisioni, nucleo carico di imminenza da cui scaturisce la vita, come insegna Lucrezio: «Guarda i raggi del sole quando rischiarano l’oscurità della stanza e vedrai un esercito di atomi vorticare nel fascio di luce, ingaggiare una lotta infinita, vedrai scoppiare battaglie, schierarsi truppe e squadroni, succedersi senza tregua scontri e ferite. Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto (De rerum natura II, 117-122)».

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La Casa della Poesia di Milano festeggia Giovedì 10 novembre 2016, alle ore 20,
il quarantennale di Somiglianze, il libro con cui Milo De Angelis ha esordito, nel 1976.

Ne parleranno alcuni importanti studiosi, ma anche diversi amici e poeti, compagni di viaggio, giovani autori che hanno sentito l’importanza di un’opera tra le più vive e presenti nella poesia del nostro tempo.

Presenteranno Somiglianze: Alberto Bertoni, Angelo Lumelli, Roberto Mussapi, Giancarlo Pontiggia, Luigi Tassoni.

Altri leggeranno e commenteranno una poesia del libro.
Ci sarà un piccolo omaggio per tutti i partecipanti.

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