Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile.

Nella controstoria, nell’assenza di storia, credi che non ci sia posto per Wallas e per Dora. Nello spazio che avrebbero dovuto occupare ci sarà l’assenza, un vuoto. Ti rendi conto che dietro tutto questo sta il senso di un fallimento possibile e al contempo l’idea che questo stesso fallimento sia una conquista, vale a dire la possibilità di dar forma all’inesprimibile, di rendere in qualche modo figurabile il vuoto. Oppure, per riprendere quello che hai già sostenuto, questo fallimento potrebbe essere il modo in cui ti sottrai al potere, all’idea di poter organizzare i pensieri, le immagini, le cose, il mondo nella fitta rete di una storia. Comunque, la via che stai percorrendo ha bordi sfrangiati, e ai suoi margini si apre un’infinità di vie traverse, e tu conosci l’attrattiva irresistibile che i sentieri laterali esercitano su di te. Potresti decidere di percorrerne uno, o da uno di questi potrebbero irrompere nuovamente Wallas e Dora, che avevi messo fuori gioco, ma che potrebbero essersi dotati lungo la strada di caratteristiche che tu non avevi saputo o voluto dare a loro. Su uno di questi sentieri tu stesso potresti assumere una forma diversa. Non lo credi possibile, ma potresti persino scivolare nuovamente nell’io. Il dominio dell’io sulla storia potrebbe mettere fuori campo la lacuna di cui hai parlato, riempire gli spazi, riparare l’assenza, ed essere ugualmente la fine della storia stessa, almeno nella forma che questa aveva assunto, la forma che ti ha condotto fino a questo punto.

All’inizio di questo racconto c’era il senso di un’urgenza. Un senso di una precarietà come se le cose potessero venir meno, come un mutamento di luce fa svanire il loro riflesso nel vetro di una finestra o di uno specchio. Allora parlavi di un inventario, per stabilire e confermare l’esistenza delle cose stesse, quelle che erano con te dentro quella stanza in cui sei tuttora, a cui eri arrivato da chissà dove. C’erano tracce di Blanchot, di Kafka e di Melville. Ma non avevi pronunciato i loro nomi, non avevi messo virgolette a segnalare la presenza della loro voce, che ti pareva confondersi con la tua voce in quella stanza vuota e senza echi. Avevi comunque deciso che non ci sarebbe stato un io pronto a calare su tutto per farlo suo. Hai poi discusso dell’io senza dire io. Quando la tensione iniziale sembrava poter diminuire di intensità, è invece diventata reale la minaccia del fuori, quell’onda che lambiva il davanzale della tua finestra. Ti sei confrontato con essa. Non eri certo che questo fosse il tuo compito, ma non hai potuto farne a meno. Non hai nemmeno cercato di attraversarla con una metafora, con un racconto allegorico. L’hai scarica lì, sulla pagina, perché ti pareva di non poterne fare a meno. Quello che allora non hai detto è che all’improvviso ti sei sentito vecchio. La precarietà con cui avevi dato avvio al racconto si è incarnata nel passo del vecchio, nel respiro del vecchio. Nelle limitazioni che non solo il tuo corpo, ma che la società stessa ti impone affidandoti questo ruolo da recitare in pubblico. Da questo per ora sei salvo perché sei in una stanza, con una finestra, solo.

La vecchiaia per Proust è una sorta di “prefazione o annuncio della morte”. È per gli uomini “il più miserevole degli stati e che li fa precipitare dai loro fasti come i re delle tragedie greche costringendoli a sostare lungo la via crucis che diventa la vita degli impotenti”. Re Lear e il suo matto ne sono una grottesca beckettiana rappresentazione. Secondo te Proust ha ragione e ha torto insieme. La vecchiaia può farti inciampare nell’ostacolo delle tue debolezze e obbligarti a risibili movimenti per mantenere l’equilibrio. Può forse però darti anche qualcosa d’altro. Non osi certo dire che la vecchiaia porti saggezza, ma può almeno portare a uno sguardo disincantato sulla morte, ben diverso dalla fascinazione, per esempio di Andrès Serrano in ”Morgue”, o di certe opere di Marlene Dumas. Può insegnarti l’uso del nero su cui c’era in pittura divieto, e che è stato sostanzialmente liberato da Manet. Anche Nietzsche affermava il valore del nero, il valore del pessimismo, affermando che i periodi più intensi della sua vita erano stati quelli in cui era immerso in una nera aura pessimistica, che è d’altronde la cifra che egli aveva individuato nei Greci dell’età tragica. Dioniso, è pessimismo e debordante pienezza. Questa è la saggezza pessimistica del Sileno che dovrebbe portare al godimento di ciò che è terreno, di ciò che è qui, adesso. Euripide nelle Baccanti radicalizza questa raccomandazione. Meglio non chiedersi nulla. Meglio non sapere. Nietzsche alla ricerca di un altro sapere, il sapere del sì alla vita, amava il pessimismo dei Greci. Non amava però il pessimismo dell’intellettuale Euripide, che non lasciava scampo. Il sapere non è sapere, questo ripetono le sue Baccanti. “Migliaia di speranze ci sono per migliaia di uomini. Alcune felicemente si compiono per i mortali, altre svaniscono. Colui che giorno per giorno ha una vita felice, io stimo beato”. Sapienza dunque è semplicemente vivere, non chiedere nulla: è non voler sapere nulla. Ecco, il vecchio, almeno il vecchio che sei tu, vuole invece sapere. Ti rendi conto che la situazione ha abbassato l’orizzonte delle attese per tutti. Anche il tuo orizzonte si è stranamente abbassato e si è al contempo ravvicinato. Quando spingi in avanti lo sguardo è come se rimbalzasse contro questa linea d’orizzonte e ti fosse restituito. Hai qualche esitazione a spingerlo di nuovo in avanti come se potesse alla fine affondare nell’opaco. È uno spazio di esitazione e di vuoto. Ti chiedi fin dove sia possibile resistere alla percezione del vuoto, dell’assenza. Poi ti viene in mente Rauschenberg che cancella un disegno di De Kooning e lo espone con il titolo “Erased De Kooning”. La volontà di dare forma e visibilità anche al vuoto, anche alla cancellazione, all’annientamento come a qualcosa che è, con cui possiamo confrontarci, con cui è necessario confrontarci.

La tua stanza è un interstizio. È situata all’incrocio di varie correnti che la lambiscono senza travolgerla o sommergerla. Questa sorta di intercapedine nello spazio agisce anche sul tempo. Di Zwischenräume del Zeit, di interstizi di tempo, ha parlato Rilke. Dentro questi interstizi il tempo diventa simile a una materia manipolabile, anche se non manipolabile da te. Si allunga e si abbrevia secondo logiche che ti sfuggono. Vari tempi sembrano ibridarsi, e come può nevicare in agosto sulla Montagna incantata, così nel Castello, come afferma Pepi, “prima o poi vengono anche la primavera e l’estate e ciascuna dura il suo tempo, ma ora, nel ricordo, primavera e estate sembrano così brevi come se non fossero durate molto più di due giorni, e persino in quei giorni, persino nel giorno più splendido qualche volta cade ancora la neve”. Questa azione del tempo e sul tempo è un’esperienza che si ripete in molte performance dell’arte contemporanea. Ti ha colpito, forse perché è al centro di un romanzo di Don DeLillo che ami, Punto Omega, l’istallazione di Douglas Gordon, 24 Hour Psycho del 1993, in cui l’orrore del film di Alfred Hitchcock si moltiplica nella dilatazione del racconto nelle 24 ore in cui si svolge la vicenda insopportabilmente rallentata. De Lillo parla ovunque nei suoi libri di discronie, tempi dilatati, tempi che si stringono, e infine di un tempo che invecchia e che forse muore.

Forse il vecchio vive di fatto in un interstizio di tempo. Anche tu vivi in un interstizio di tempo, in uno spazio temporale che hai tu stesso prodotto, operando una disgiunzione che ti ha portato a produrre un tempo proprio, un tuo tempo. Dentro questo tempo abita l’orrore che percorre la terra, il male che si insinua in essa e la corrode. Vi abita comunque anche il sì alla vita, che è nietzscheanamente pronunciato e ribadito, e la volontà di confrontarti con il male scrivendo, il solo strumento, – che ti è dato in questa stanza, in questo interstizio che hai eletto come tua dimora – che tu sai essere per sua natura ambiguo e pericoloso.

In un primo tempo la scelta dell’essere qui, in questa stanza, era stata determinata dal fatto che qui dovevano essere convocati Wallas e Dora e Gregorio e altri personaggi per concorrere a una storia, che doveva raccontare la realtà che vivi tu oggi. I personaggi sembrano essere scomparsi, ma tu sei rimasto qui, e cerchi dunque di usare l’unico strumento che hai contro il male, la sua malia e il suo potere. Questo strumento è la parola, che tu sai essere, come hai appena ricordato, per sua natura ambigua e talvolta pericolosa. Tu sai che le parole che abbiamo, possono diventare un’arma distruttiva, organizzare l’immagine del mondo e della realtà, imporla. Euripide ha detto nelle Baccanti che chi ha potere e sa ben parlare è un cattivo cittadino. Però la parola è ciò che hai, e cerchi di usarla con la cautela suggerita da Pasolini in Petrolio. Pensi che le tue parole siano deboli, siano poche. Avanzano cariche di esitazione. Ti affidi ad esse, ma non sai dove e come e a chi arriveranno. In un lampo ti viene alla mente la ballata dell’esilio di Guido Cavalcanti, la sua raccomandazione che la “ballatetta”, pur con la sua “voce sbigottita e deboletta”, giunga a giusta destinazione, con il suo carico di “novelle di sospiri / piene di dogli’ e di molta paura”. Perché comunque, continua Guido, “se tu mi vuoi servire / mena l’anima teco”.
In realtà pensi di non sapere quale sia la giusta destinazione delle tue parole. Non sai nemmeno se queste non saranno, come dice Kafka, inghiottite dagli spettri lungo la strada. Eppure, l’idea che le parole, dette con voce “deboletta”, abbiano un carico di anima ti sembra legittimare quell’insensata attività dello scrivere, che pare altrimenti non avere ragione. Se un giorno riuscirai a costruire la tua storia, vorrà dire che sarai riuscito a fare di Wallas e Dora dei cercatori d’anima. Sarai riuscito a farli entrare nel cuore della tua parola. Intanto li tieni accanto a te, li tieni accasati e in qualche modo custoditi e protetti nella tua storia assente.

2 pensieri su “Franco Rella, “L’assenza della storia”

  1. Franco Rella, filosofo, studioso di estetica, narratore egli stesso, ci parla da una stanza come da un confessionale o da un luogo dell’anima. Come da un interstizio del tempo, si interroga sul significato del trauma nell’esistenza (individuale e collettiva) e sulla difficoltà di tradurlo in una storia plausibile. Qui si tratta della confessione per me commovente di un uomo che all’improvviso si sente vecchio e inadeguato. Ma l’assenza, il vuoto di questa storia che riempie la stanza, ci riguarda tutti: è una condizione della tarda modernità. E io penso qui alla Metamorfosi di Kafka, ai drammi di Beckett o Pinter, e alla recente pratica dei giovani giapponesi di fare hikikomori, di vivere la propria vita a lungo dal chiuso di una stanza. L’isolamento, prima di esserci stato imposto dal Covid 19, è forse già da tempo una pandemia diffusa.

  2. Franco Rella ha sempre esercitato su di me un fascino particolare per il suo modo di scrivere. Commovente davvero questo testo. E sento di averlo letto troppo in fretta. Lo condivido. Per ricordarmi di rileggerlo.

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