Andrea Gareffi, “L’opus contra naturam di Montale”

Eugenio Montale

DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Chi ha detto che Eugenio Montale era un nichilista? Una vecchia tradizione di studi, avvitata sulla scettica vena diaristica di Satura (1971) e delle ultime sillogi, lo dipinse per decenni come simbolo di inflessibile negazione. Eppure Eusebio, in molte poesie e nei rivelatori (e talora depistanti) autocommenti, non ha mai nascosto una sua personale, benché velleitaria e problematica, ricerca di trascendenza. Dopo che Paolo De Caro, nell’intricato ciclo cliziano, ha scoperto legami testuali con l’eresiarca ebreo Jakob Frank, la parabola interpretativa di alcuni passaggi fondamentali dell’Opera in versi ha cominciato decisamente a correggersi. L’elegante saggio di Andrea Gareffi dal titolo junghiano L’opus contra naturam di Montale, pubblicato nella collana «Mosaic» di Loffredo diretta da Elisabetta Marino e Fabio Pierangeli, fa luce e giustizia su un aspetto ancora poco conosciuto della poetica montaliana che si pone come rivoluzione copernicana negli studi del maggiore poeta del nostro Novecento. È l’intero impianto compositivo della lirica di Montale ad appartenere a una kafkiana teologia individuale o a una tensione mistica individuata da Gareffi nell’ampio spettro del lavorio psicologico e delle conquiste della coscienza. Non una vera e propria confessione religiosa (benché siano innegabili i punti di contatto con il cristianesimo), ma una sorta di «metafisica immanente», orientata verso un’«eternità d’istante» à la Kierkegaard, che mantiene nitida la distinzione di anima e animus ed è in rapporto di prossimità con il verum ipsum factum di Vico. Ma lo studioso si spinge oltre: la spiritualità montaliana, in continua genesi e in perpetuo rinnovamento, è forse mediata anche dalla prospettiva gnostica e asiatica di Bobi Bazlen: si può parlare allora di un Montale orientale o addirittura taoista? Sarebbe troppo, ma qualcosa c’è.

Borges, Giuda, Zaccheo, i barnabiti genovesi (in particolare padre Semeria), i Vangeli gnostici, gli Inni sacri di Manzoni, i contingentisti francesi, testi sacri indiani e cinesi: il materiale religioso messo in campo da Gareffi è imponente e non si rivolge soltanto alle influenze dirette del poeta ma lascia presupporre un’affinità di pensiero che sfiora tutta la grande tradizione poetico-mistica occidentale e non. In questo geroglifico fittissimo di rimandi e allusioni il conto investigativo — a partire dal celebre voltarsi di Forse un mattino andando («Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore da ubriaco») — tenta di comprendere un archetipico e radicale gesto di senso. Cosa è accaduto all’uomo che si volta? Centrale è la relazione tra io lirico e destinatario che nasconde già in sé qualcosa di tenebroso: «L’io della poesia si rivolge ad un tu, tanto più essente quanto più assente; il tu invisibile resta muto. Ma è questo tu a condurre la danza del tempo. Il cupo ritornello pronunciato dall’io, quasi ipnotica e smagata delusione, esinanire irrimediabile del tu, che trapassò dal visibile nel suo contrario, inchioda la poesia alla sua rovina. […] La poesia resta, chi la scrive va, e chi la ispira lo precede: non ci sarebbe poesia senza la perdita, della quale rende testimonianza il ricordo». Se il tu è infinitamente lontano, ciò non va ascritto all’ineffabilità del suo passaggio, quanto alle cognizioni del soggetto persuaso dall’improvviso «segreto» autorivelatosi nel mondo al di là della rappresentazione. Gareffi risolve spinose (e annose) questioni cliziane in un batter d’occhio, per altro con una prosa memorabile, lasciando intendere tracce di continuità in ogni punto dell’opus: «Iri è Clizia dalle iridi color dell’iris (diversamente contrassegnata altrove dal giglio rosso), l’ebrea che annuncia la terra promessa di Canaan. Ella è qui un tu totaliter aliter rispetto all’io, (sebbene il tu avesse occhi “grigi”, come lo descrive Marianna, o addirittura sul celestino, così nel ritratto di Peyron). Il tu è completamente converso in Dio. “Le visage d’autrui”, il viso di Iri, è fatto irraggiungibile nel nimbo, un’abissale distanza divide l’io dall’Iddia. L’io decise di morire (al 95%) per l’invisibile — ecco la poesia; e l’abbandonò nella vita». Ricerca di Dio, dono della poesia.

La dolorosa scelta di Montale (la vita al 5%) — in questo senso davvero kierkegaardiano — ha dunque a che fare con un preciso e consapevole gesto religioso. Ed ecco allora che la tesi principale dello screziato saggio di Gareffi prende forma e fisionomia definitiva: «In Forse un mattino andando, il “rivolgersi” all’indietro rivelava il “nulla alle mie spalle”, il “vuoto dietro di me”. Era un rivolgersi verso il principio?, verso le origini donde si è venuti, un ripercorrere “la via percorsa”, come in Voce giunta con le folaghe? […] Fare il vuoto di tutto l’umano per lasciarlo libero di riempirsi di tutto il sacro. Anima, poesia, immagini. Il capitolo 20 rappresenta la resurrezione di Gesù. Quel ‘mattino’, Maria di Magdala andò alla tomba di Gesù: era vuota. Si volge indietro due volte».

Con questa suggestiva intuizione esegetica Gareffi ribalta l’interpretazione nichilistica del «nulla» alle spalle di Forse un mattino andando: come nell’Ungaretti di Mio fiume anche tu era lo spazio del sacro a rivelarsi, non la coscienza della vacuità dell’esistere. Come, nel mattino di Pasqua, Maria di Magdala si volta e finalmente trova il maestro. «La prima volta Maria vede Gesù davanti a sé, ma non lo riconosce: ella non ne può disporre; la seconda volta è Gesù che la chiama per nome, è Gesù che dispone di lei, e solo allora lei lo riconosce».

Andrea Gareffi, L’opus contra naturam di Montale, Loffredo Iniziative Editoriali, pp. 206, € 20

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