Su Olimpia di Luigia Sorrentino
di Alessandro Bellasio
«Tutto sta nel sentire o non sentire miticamente». Questa fulminante intuizione nietzscheana potrebbe essere posta in epigrafe al «libro di una vita» (come scrive Milo De Angelis in prefazione) di Luigia Sorrentino. Perché Olimpia si colloca in effetti nel novero di quelle opere che fanno i conti con le grandi questioni del destino e dell’origine, della morte e del sacro, senza però cedere alla facile tentazione dell’elegia e di un sublime di maniera, di una retorica magniloquenza del verso. Tutt’altro. La sintassi fluida, la lingua priva di asperità, il tono fermo, lontanissimo da effusioni nostalgiche contraddistinguono questa lirica. Imbastita, come i lettori del libro già ben sanno, su uno scenario di memoria dichiaratamente hölderliniana (ma cruciale ci è sempre parsa anche la presenza di Rilke, specialmente quello dei Neue Gedichte), e che diventerà scena vera e propria il prossimo 16 luglio, quando al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli vedremo sfilare su un palcoscenico reale Iperione, Olimpia, Empedocle: le figure decisive di una Grecia arcaica, sfuggente e sibillina, ancora in bilico tra partecipazione cosmica e aggregazione politica, tra sentimento panico e stabilizzazione nel logos, una Grecia ancora immersa nella luce stellare dell’epica, e dove si combatte la guerra tremenda per l’assegnazione del limite, per la sanzione del confine tra umano e divino e il solo, imperdonabile peccato è quello della hybris. Di cui è figura emblematica non solo il titano Iperione, ma lo stesso Empedocle, figura leggendaria con la quale si cimentò, in un’opera celebre e incompiuta, il nume tutelare Hölderlin, ma che non mancò di attirare l’attenzione, in tempi più recenti, di un grande studioso come Giorgio Colli.
Empedocle – cui le varie tradizioni hanno di volta in volta attribuito la qualifica di sapiente, di profeta, di sciamano, in una stratificazione dove è facile intuire come i contorni dell’una sfumino subito in quelli delle altre – che è qui presentato come archetipo dell’artista, destinato in ugual misura alla gloria e all’espiazione per aver cercato, con la sua opera, di violare i confini stabiliti da una legge inflessibile e antecedente, che nulla ha a che vedere con l’umano.
Come Iperione, che vuole gettare un ponte tra i mortali e i celesti, così pure Empedocle è qui artefice di un altro ponte grandioso, eretto tra l’Ellade e l’Oriente e inteso a unirne i mondi, quasi a ricomporre in terra quel en kai pān che è il nucleo dell’antica sapienza ellenica. Ed è qui, sul crinale di questa simmetria tra il titano e l’artista, che si gioca la partita mortale dell’umano, che è quella del tragico, cioè della moira: la parte assegnata. Perché, proprio come indicò per primo lo stesso Hölderlin, i Greci furono il solo popolo in grado di operare non solo un’equivalenza sconvolgente, ma di viverne fino in fondo le conseguenze ultime: bello è ciò che ha la forza di abitare la propria moira, di (com)misurarsi con lo spazio del proprio destino; bruttezza è invece quella diminuzione d’essere, consistente nella debolezza di chi viene meno alla moira, di chi precipita nell’assenza di destino, appunto, nel dysmoron. La grandezza e l’inesauribilità di figure come Iperione e come Empedocle – del mondo greco in generale – è allora anche l’indecidibilità a cui essi ci costringono nel momento in cui, dal fondo dei millenni, pongono la questione, attualissima e ineludibile, di quale sia e dove si collochi il vero confine tra libertà e necessità.