RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Alessandro Bellasio, presentazione a Milano

A Milano, sabato 4 giugno 2022, alle ore 18, Alessandro Bellasio presenta la silloge Monade (L’Arcolaio) e la raccolta di saggi Disappartenenza. Letteratura e ascesi, i primi due volumi della Trilogia dell’infrangibile, presso la Libreria Popolare di via Tadino.

Intervengono Milo De Angelis, Lorenzo Chiuchiù e Andrea Leone. Continua a leggere

Alessandro Bellasio, “Monade”

Alessandro Bellasio

NELL’AMBRA

Sepolti
sotto queste bende, dove
il nostro odio
tende il filo
e si fa pensiero, verklärte Nacht
di un mercurio strano
che ci divora con i suoi granelli, una
pioggia
leggera e già inalata, che anche tu
misurasti a morte con il tuo respiro:
sei nell’ambra.

«Due grammi
di astinenza mutano
la mente in una torcia, scavano
con unghie vuote
dentro il sonno, e tu
sotterrato il lume
ti scopri da te stesso arato».

Gli occhi, talvolta, hanno mani,
entrano nei faggi
radunandone i magneti
mappano
la struttura del vento.

Una vertigine, perenne,
scendendo dalla macchina
spegne i fari, avvicinandosi
con un solo passo
mi sussurra

Non avrò
in questa vita mai
altra gioia
all’infuori di te

LITIO

Un luogo azzerato è l’ora
dove abbiamo respirato cenere, la
polvere, finissima,
di queste esalazioni
tra cui vivremo piano e cancellati… Avvolti
nella strana calma
di un sussulto, dove le sostanze
agiscono radiali, diventano sentenza
dipinta e improvvisa
nello stridio di noi: ecco,
da un alto giorno, venirci incontro
i nostri sensi
inginocchiàti, dentro il niente,
nei patriarchi – qui,
riversi sui giornali,
dove capiamo a stento il nostro esistere,
l’interludio, perenne,
di notizie e scorie
che vi crivellano civili
con i kalashnikov, gli F16.

Scocca
da lontano questo colpo, e
si alza sopra i legni
dove sbatte respirando
nel niente degli uomini, mentre
un urlo
pende dal soffitto, sempre
più preciso sempre
più vicino, squarciandosi la gota… Altri
cieli, poi, lunghissime
incursioni dentro la radice,
tra le raffiche – il soffio
di nessun ossigeno
in volo verso il paradiso, quando
punta il freddo
che vive nelle docce, l’attimo
che vi attraversa
senza generarsi, fino
al giorno del giudizio,
finché sia l’ergastolo
di ogni cellula e dei secoli
e l’universo torni
nel suo principio immobile.

Estratti da “Monade“, di Alessandro Bellasio (L’arcolaio, 2021)

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Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

L’essenziale raccoglimento della poesia

Don DeLillo

SILENZIO E PAROLA
Una riflessione a partire da Don DeLillo

di Alessandro Bellasio

«Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?».
Così sentenzia e si conclude, condensando il proprio messaggio, l’ultimo lavoro di Don DeLillo, il racconto/pièce Il silenzio. Una conclusione deludente e oleografica, come il libro stesso, a dire il vero, complice flagrante di quell’umanismo spurio e tecnicizzato che domina ormai incontrastato l’«ordine del discorso» mondiale, e nel cui dominio rientra evidentemente anche la letteratura mondiale, la letteratura che fa mondo, quella che ne restituisce istanze e valori, qui nella persona di uno dei suoi più celebrati eroi.
Già, il mondo… quante sciocchezze, in nome del mondo. Non è in nome del mondo, della collettività – secondo l’equazione implicita operata da DeLillo stesso – non è in nome delle masse sterminate e sterminatrici, che si è giunti a quell’apocalisse al ralenti così ben immaginata e restituita proprio dal racconto medesimo? Non è in nome dei popoli e dei fantasmi universalistici su di essi lungamente proiettati, che si sono messe in moto sulla Terra le «magnifiche sorti e progressive», a cui dobbiamo quella catastrofe amministrata che era già da molto tempo divenuta la nostra vita quotidiana, solo diffratta dalle pie illusioni di crescite e prosperità ad libitum?
Di sicuro, nulla di tutto ciò e, anzi, nulla in generale fu mai fatto – e per fortuna, vorremmo aggiungere – in nome dell’individuo… Ma – come ogni persona integra dentro di sé ancora sa perfettamente, benché in maniera sempre più timida e nebulosa – in realtà è proprio solo l’individuo che conta, solo l’esistenza ad avere valore, senso, durata.
E però non l’individuo nell’accezione materialistica e gregaria dell’individualismo – naturale pendant di ogni collettivismo – accezione da cui DeLillo implicitamente muove, assumendola come posizione ideologica di fondo, tacita e indubitabile, e a cui riapproda poi nella sua lapidaria conclusione, una volta compiuto il giro intorno a sé stesso e alle proprie inveterate convinzioni, speculari a quelle dei lettori che blandisce.

E d’altro canto, se la preminenza dell’istanza collettiva su quella individuale è il messaggio che l’autore americano intende rilanciare, nel momento in cui pure volessimo accogliere tale esortazione e però, da buoni europei, cercassimo anche di rinvenire non solo le matrici emotive e occasionali, ma le profonde radici storiche di un’idea così “moderna”, non saremmo forse obbligati a riconoscere che le nostre sciagure sono cominciate proprio nel momento in cui, a partire dalla seconda metà del XIX secolo grossomodo, alla concomitanza fatale di socialismi e darwinismi, prede facili di un facile Zeitgeist trapassato piano piano in visione del mondo tout court, noi abbiamo preso l’abitudine nefasta di concepirci, zunächst und zumeist, come comunità zoologica –  ossia nel momento in cui l’uomo si è saputo legittimato, tanto sul piano della dialettica storica, quanto su quello della cultura scientifica, a pensarsi prima di tutto come specie, e a farlo su vasta scala, su scala mondiale, in ottica sia diacronica che sincronica? Non è lì, sulla soglia del collettivo umano inteso come tale in virtù di ragioni squisitamente socio-biologiche, che possiamo collocare la cesura epocale che ci porta dritto fino ai nostri giorni, e al sinistro (nonché contradditorio in termini, a rigore) umanismo biologista[1] verso il quale sembrano puntare i vettori attuali della produzione di senso e di segni, e dunque anche la letteratura? Continua a leggere

Una poesia di Alessandro Bellasio

Alessandro Bellasio

CLESSIDRA

«Una vena, spargendo all’improvviso
l’albume del proprio sangue in stasi,
divenne la parola, la grande
navata in cui il pensiero
scolpì il pensiero, bruciandolo.
Non si riebbe, neanch’esso,
mai più dal trauma, quella
fitta, altissima e
a forma di torre
piantata al centro
di sé, tra i soffitti dove
il vuoto ancora
aleggia sulle acque, con nevi immobili,
bicchieri, urina e gusci
in levitazione su di lui. Fu
l’assoluta
mancanza di ossigeno, l’aria
strappata
che dominava quelle altezze o forse
fu il peso
schiacciante che devasta, sulle cime,
il tempo – lì davvero
globo azzurro, densa, insostenibile
deità di asma… Fu
un movimento brusco
che lo ridestò da questa parte
della ferita, dove giunse solo – cavo
d’acciaio
per i tiranti della mente, bulbo
oculare e
vento sottile
planato con il suo silenzio sulla valle…
Non seppe, poi, mai più di sé,
riavvolto, all’improvviso,
nel nastro di acque oscure, scomparve
nel canneto, in una scia di limo
e minuscoli insetti
che lo riconobbero, chiamandolo per nome.
Al suo risveglio – raccontano i saggi –
apparisti tu».

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Francesco Negri, “Ultimo stadio”

Milano, Stazione Centrale

NOTA DI LETTURA DI ALESSANDRO BELLASIO

Bildungsroman sfigurato, avventura tragico-picaresca in chiave ultrapop, pastiche espressionista con un occhio al sampling (dichiarato) e uno al cut-up (non dichiarato), Ultimo stadio, romanzo d’esordio di Francesco Negri, è un viaggio al termine della notte sparato in un acceleratore di particelle, prima ridotto in pezzi e poi riassemblato. Non solo in virtù del procedimento di sampling preso in prestito dall’hip-hop, ma per la distorsione e la frantumazione spaziotemporale con cui viene imbastita la trama, con continui salti tra gli anni immediatamente precedenti e quelli immediatamente successivi al “crovid-19”, in una Milano sterminante e sterminata, tutta periferie e pattume, disperazione e sorveglianza assoluta. L’attualità la fa da padrona, ma l’epoca è assunta con lucidità implacabile, a tratti con vera furia, in un moto di odio e di rivolta che, tuttavia, più che al sovvertimento punta al rilancio della posta in gioco, spingendo all’estremo le contraddizioni del nostro tempo e portandole fino al parossismo, all’intollerabile.

La vicenda ci immette nel cuore delle vite di tre giovanissimi amici, cresciuti a fame vera e fame chimica tra le panchine e i casermoni della Barona, periferia sud della metropoli, che di eccesso in eccesso passano dal tifo ultrà alla fama artistica internazionale, transitando per il carcere, i boschetti di Rogoredo e i salotti mondani della società bene. Negri compie una scelta coerente con le proprie premesse (il mondo è dato per frammenti impazziti, vediamo cosa succede frammentandoli ancora di più e scaraventandoli tutt’intorno a velocità supersonica), e aziona una macchina narrativa al cui interno storie, riflessioni, personaggi, sentimenti ed esperienze vengono sempre bruciati sul nascere, come se non ci fosse tempo per dilungarsi troppo perché ogni cosa è già distrutta nel momento stesso in cui è intravista, toccata, e molto più spesso comprata. Consumata prima di consumarla, cosicché tutto ciò che ancora si può fare non è che reiterarne la sparizione, con il fantasma del (auto)sacrificio, infatti, sempre sullo sfondo. Sparizione che però non è mai assoluta (ed è questa la sua, la nostra dannazione) perché tutto è infinitamente permutabile, perfettamente reversibile, in un mondo basato unicamente sul loop della propria autoconsunzione, che come tale non termina mai.

emerge è così un ritratto fedele della velocità (e voracità) anfetaminica con cui si è obbligati a esistere e estinguersi nell’epoca dell’ipercapitalismo planetario, ridotti a materiali di scarto prima ancora di essere entrati nel ciclo produttivo, e condannati comunque e da sempre a una vita larvale. D’altro canto, la decisione preliminare di accostarsi mimeticamente all’oggetto del proprio furore, nel tentativo di destrutturarlo dall’interno, accentuandone al massimo le linee di faglia e esasperandone le tensioni oppositive, trova riscontro in una lingua e in una sintassi più travolte che stravolte, in un cozzare e deflagrare dei segni che lascia inviolato il codice che li governa, nel tentativo (impossibile?) di batterlo sul suo stesso terreno, svelandone tutta l’ipocrisia e il nichilismo di fondo. Non poco, perché nel panorama (non solamente nostrano) di sempre più soffocante omologazione letteraria, culturale, esistenziale, il gesto di sfida e la vitalità tachicardica del romanzo di Negri rappresentano una vera boccata di ossigeno per chi non si accontenta della paccottiglia concertata a tavolino che, sempre più disinvoltamente e impunemente, viene spacciata per letteratura. Continua a leggere

Gabriele Gabbia, “L’arresto”

Gabriele Gabbia

LA PAROLA DIFFRATTA DI GABRIELE GABBIA
di Alessandro Bellasio

Libro scarno e ripido, L’arresto di Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) possiede il magnetismo proprio dei libri a lungo meditati e nei quali la parola ha stretto un patto di sangue con il pensiero, con una visione del mondo innegoziabile, univoca. Poche poesie, anch’esse scarne e ripide, a tratti quasi sbreccate o amputate, dove l’autore – alla seconda raccolta dopo La terra franata dei nomi – fa i conti con una condizione perfettamente espressa fin dalla copertina: uno spioncino attraverso il quale si scorgono delle sbarre. È da lì che si incontra il mondo – o meglio che non lo si incontra, ma lo si guarda nel tentativo di rievocarne il ricordo. L’arresto è, in prima istanza, il posto di blocco o lo sbarramento che media l’esperienza dell’essere, dell’esistere. Ed è quindi anche cella di detenzione, la prigionia di chi osserva le cose da una condizione di allontanamento originario, di esclusione dal dominio della presenza: l’arresto è questo essere sottratti da vivi ai vivi, fino alla vertigine di non essere più nessuno, o tutti.

Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.

L’assenza è la cifra di chi è sottratto, la cifra dell’arrestato: egli viene meno, non c’è più. Ed è allora che le cose cominciano a giungergli da molto lontano, screpolate, diffratte. L’esperienza in Gabbia è vissuta e restituita già sempre come ricordo, prima ancora che accada, ferma «da sempre verso questi occhi in cui | tutto è stato». Nel dominio dell’assenza è la sostanza stessa a farsi vacua, volatile – e la vita è «il divenire incarnato di un calco». La tensione si raccoglie e si rivolge così verso l’interno, dove tuttavia non trova più l’appoggio di alcuna interiorità, ma solo la stessa voragine ontologica che aveva precedentemente rinvenuto nell’esterno. L’occhio allora arretra, si blocca, non ha che sé stesso sospeso a mezz’aria, nel vuoto, e la parola è questo grafema oculare arrestatosi un attimo sul nulla, prima di svanire. Continua a leggere

In ricordo di Franco Loi

Franco Loi

di Alessandro Bellasio

La voce più appassionata, struggente a tratti, di una lingua che non esiste più, che non si sente più, che più nessuno parla. Il milanese di laboratorio di Franco Loi esisteva solo in lui, per lui, certo, eppure c’era un’intera città che in quella lingua trovava forma, sensi, felicità. Poco si può aggiungere su un poeta tanto conosciuto e amato, se non che era forse proprio la gioia, perfino nelle poesie più nere e disperate, il tratto saliente della sua poesia, la sua energia segreta, quella forza centrifuga che la portava in giro per le strade, gli odori, i volti di una città che vi si specchiava, che vi ritornava dentro come nella sua custodia, come nel suo vestito. «Cunuss vör dí vardà e inamuràss» (conoscere vuol dire guardare e innamorarsi), scriveva Loi, e davvero nessuno più di lui ha saputo guardare, ascoltare, fiutare Milano e, dunque, amarla, conoscerla.

La gioia, accompagnata d’altro canto da una pietas lucidissima e spontanea, mai sentimentale né artefatta, così connaturata a una poesia fatta dei gesti, delle emozioni, delle parole di ogni giorno; e però sempre intesi a partire da un tratto mitico, da un trasporto epico. Epopea milanese, nella quale, tuttavia, sfilano ben riconoscibili le questioni essenziali e ineludibili del nostro destino: la morte, il dolore, la perdita. I testi di Loi (rigorosamente legati all’oralità, all’immediatezza del vissuto, all’istante) sono costellati da questo smarrimento, dalla meditazione sconsolata sulla fine, sull’irreparabilità del tutto.

Rari i poeti che con lo stesso nitore accorato siano mai riusciti a immortalare l’addio a un amico, come nella lirica che Loi scrisse in memoria del poeta Giulio Trasanna, suo maestro.

 

E nüm sèm chi amô, Giüli, a camenà,
liend, sulient, dré ´l luster del murtori,
e gh’è ‘n festà là nel prâ, tra i pagn al vent,
de fjö che scappa e pö ríden, e de dònn
ch’j se vòlta e j se sègna, e stan lí,
ne l’aria fèrma, a vardà, o a pensà,
e pö, prest, turnaràn a la sua câ,
a cüntàssela-sü, de la vita, e di mort,
ch’àn vist, o ch’àn sugnâ, e de biròcc cuj piüm…
E in due te sét, tí, amîs?
Ché la tua cartapelgura, i brasc,
el còll resgâ, j èm vist, lí, un mument,
cume a dundà sü ‘l büs lungh de la cassa,
nel finí vöj de quèl’umbra, lunga
cum’i ciel e i ciel quan’ se sprufunda,
quèl che nient nüm ne sèm, e fa paüra.

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Esecuzione dell’ultimo giorno

Lorenzo Chiuchiù

L’IRREVERSIBILE

Su Esecuzione dell’ultimo giorno di Lorenzo Chiuchiù

di Alessandro Bellasio

Da una parte, gli scrittori con la parola giusta per ogni occasione, sia essa lieta o funesta; dall’altra, gli scrittori con quelle e solo quelle, ineludibili parole – le parole del loro destino. Perché è del destino, è della frontalità irriducibile dell’esserci, che qui si tratta. Di un musicista, randagio e geniale, bersagliato dalla verità e dalle sue apparizioni saettanti, dedito anima e corpo alla realizzazione di un progetto devastatore e senza ritorno: comporre l’ultima sinfonia, la sinfonia dell’estremo, la partitura capace di intercettare la musica delle sfere e di piegarla a sé, evocando la fine del mondo. Questa (prendendoci licenza deittica) la vicenda al centro di Esecuzione dell’ultimo giorno, primo romanzo di Lorenzo Chiuchiù, nel quale avvertiamo tutta la potenza tellurica della sua poesia, ma qui votata a un respiro, a una orchestrazione che imbocca la via, a sua volta ultimativa e totalizzante, della letteratura assoluta. E per ottemperare a questo voto, Chiuchiù decide di seguire l’eco di una storia terribile e lontana, quella di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, pianista russo che ebbe l’intuizione di un’opera musicale capace di far divampare il cosmo, svellendone i cardini sonori. Da questa traccia prende ispirazione il racconto, che segue poi in realtà una direzione completamente autonoma, anzitutto tramutando Skrijabin in Viktor Semënov: il nome, carico di fatalità (nomina sunt numina), della piazza dove Dostoevskij, ormai certo della fine, venne graziato.


Ed ecco allora il problema: quale lingua convocare, che possa rendere giustizia alla scintilla e alla fiammata di un materiale tanto incandescente? Chiuchiù azzarda, e, come il suo Semënov, persegue la sola cosa che valga ancora la pena di perseguire, l’impossibile. O meglio: ne viene perseguito, perché si tratta di una scrittura dove, finalmente, non abbiamo l’impressione che chi prende parola si senta a casa propria, e che ci blandisca per farci accomodare: non vediamo disporsi davanti a noi il bel salotto di un repertorio autoriale, no, qui ci troviamo agli antipodi rispetto alla letteratura-prontuario – a quella forma di scrittura, subalterna e degradata, cui ci hanno abituati decenni di pubblicazioni votate all’immediatezza mortifera della trasparenza e della comunicabilità, che nella sua cifra significa poi reversibilità dei contenuti e permutabilità degli stili. Niente di tutto questo, e non per scelta, ma per forza di cose. Qui siamo in piena guerra, il lettore è travolto fin dalla prima riga, fin dal primo giro di frase, dalla furia del testo. Ma ciò accade perché è lo scrittore, lui per primo, ad essere stato sferzato, ad aver subìto la collisione frontale con quei nuclei psichici, con quelle potenze, e ad esserne stato polarizzato. Qui non ci sono coordinate, ambientazioni, nemmeno Perugia è davvero Perugia, bensì una città mnestica – siamo in territori siderali e inabitabili, siamo nell’irreversibile e vi sentiamo soffiare il vento gelido delle forze. Tutto è unico e conclusivo, è l’elementare a prendere parola e a dettarsi: chi scrive ha il compito di trasferirne nell’idioma lo scintillio e il brivido, sapendo che non vi sarà una seconda chance. Assistiamo così allo scatenarsi di una lingua fatta di accensioni e di torsioni, di illuminazioni ed estasi fulminee, dove ogni singolo atomo prosodico, ogni componente sintattica è agitata da tensioni estreme, proprio come quell’uomo, Viktor Semënov, di cui immortala tutta la furia, l’amore e il desiderio divorante. Continua a leggere

Bellezza e Destino

Su Olimpia di Luigia Sorrentino

di Alessandro Bellasio

 

«Tutto sta nel sentire o non sentire miticamente». Questa fulminante intuizione nietzscheana potrebbe essere posta in epigrafe al «libro di una vita» (come scrive Milo De Angelis in prefazione) di Luigia Sorrentino. Perché Olimpia si colloca in effetti nel novero di quelle opere che fanno i conti con le grandi questioni del destino e dell’origine, della morte e del sacro, senza però cedere alla facile tentazione dell’elegia e di un sublime di maniera, di una retorica magniloquenza del verso. Tutt’altro. La sintassi fluida, la lingua priva di asperità, il tono fermo, lontanissimo da effusioni nostalgiche contraddistinguono questa lirica. Imbastita, come i lettori del libro già ben sanno, su uno scenario di memoria dichiaratamente hölderliniana (ma cruciale ci è sempre parsa anche la presenza di Rilke, specialmente quello dei Neue Gedichte), e che diventerà scena vera e propria il prossimo 16 luglio, quando al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli vedremo sfilare su un palcoscenico reale Iperione, Olimpia, Empedocle: le figure decisive di una Grecia arcaica, sfuggente e sibillina, ancora in bilico tra partecipazione cosmica e aggregazione politica, tra sentimento panico e stabilizzazione nel logos, una Grecia ancora immersa nella luce stellare dell’epica, e dove si combatte la guerra tremenda per l’assegnazione del limite, per la sanzione del confine tra umano e divino e il solo, imperdonabile peccato è quello della hybris. Di cui è figura emblematica non solo il titano Iperione, ma lo stesso Empedocle, figura leggendaria con la quale si cimentò, in un’opera celebre e incompiuta, il nume tutelare Hölderlin, ma che non mancò di attirare l’attenzione, in tempi più recenti, di un grande studioso come Giorgio Colli. Continua a leggere

La materia frangibile del ricordo

Stefano Pini

Su MANDATO A MEMORIA di Stefano Pini
Nota di lettura di Alessandro Bellasio

Sospeso tra rievocazione e divieto, tra reviviscenza e perdita, il nuovo libro di Stefano Pini ci conduce in quel luogo impraticabile e familiare, vicinissimo eppure inaccessibile, che è il ricordo. Mandato a memoria (Interlinea, 2019) imbastisce un fitto dialogo con le ombre, ombre delle persone ma anche ombre dei luoghi, delle cose, una lunga incursione nei territori del passato la cui prerogativa – come vuole la citazione di Faulkner posta dall’autore in esergo alla silloge – è quella di non essere mai davvero tale. Esso alimenta e configura il nostro presente, ma lo fa anzitutto sottraendovisi: ellissi repentine, vicoli senza uscita e strade improvvisamente sbarrate si susseguono nella raccolta di Pini, in cui il non detto svolge un ruolo forse ancor più determinante di ciò che invece perviene alla parola.

Qui il silenzio è decisivo, permea di sé uomini e vie, attraversa le esistenze e guida segretamente gli incontri. Un silenzio da non intendersi, tuttavia, come reticenza o omissione, bensì come confine invalicabile dietro il quale sta l’essenza inviolabile delle cose, e della parola stessa. Un confine che non può, non deve essere oltrepassato, perché è proprio il suo perimetro a proteggere la memoria e la fragile sostanza di cui si compone: un solo ulteriore tentativo di precisarne i contorni farebbe svanire tutto come per eccesso di luce. Il libro di Stefano Pini è un libro di penombra, di chiaroscuro, sorretto da una peculiare oculatezza del vedere e del dire, che sa riconoscere l’interdetto e circoscrivere il sottratto. Proprio da questo moto di sottrazione provengono le ingiunzioni a «non chiamare», a «non parlare», di uno dei testi iniziali: ogni gesto scomposto potrebbe compromettere la materia infinitamente perturbabile, frangibile della memoria. Proprio tale eccesso costituirebbe l’infrazione, la colpa da riscattare, qualora avvenisse. «Proviamo insieme | la memoria chiusa da perdonare | nel livido per tutto questo tempo». «Ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».

Attenzione e ascolto, silenzio e attesa: sono queste le dimensioni entro cui esplorare l’edificio interiore, nel raccoglimento. Dal quale guizza poi d’un tratto il particolare decisivo, la frase indelebile, il gesto irreparabile o prodigioso cui ciascuno è vincolato per sempre: sarà il lettore a ricostruire l’accadimento, la situazione d’insieme, in base alle poche pennellate suggerite dall’autore.

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L’ora dell’azzurro cupo

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto Dino Igbani


Nota di Alessandro Bellasio


​​​​​«altrove il sole ha la luce»

Poche le voci nitide, necessarie e immediatamente riconoscibili nella loro cifra lirica essenziale, come quella di Mario Benedetti. Una voce abitata allo stesso modo dall’allarme e dall’immedesimazione, dove la parola sa farsi a un tempo lucida e inerme, sapiente e commossa, e decisivo ne è il valore testimoniale, l’inaggirabile frontalità dell’esser vivi. Una parola esposta, come vuole il magistero di Celan. In essa tocchiamo con mano il significato della sentenza secondo la quale «la poesia è un dono fatto agli attenti». L’opera di Mario Benedetti è imbevuta fino allo spasmo – mai gridato, mai esibito, eppure netto e tangibile – di questa attenzione acuminata e partecipe, della cui energia segreta si alimenta l’evento lirico. Un’attenzione strenua, una fedeltà alle cose fatta di riserbo e di pudore, capace, con quel suo tono smorzato, con il suo calore trattenuto, di creare sempre uno spazio di intimità con il lettore, pur nella frattura e nei sussulti dello sguardo e del sentire, così connaturali allo stile di Mario Benedetti.

Un’intimità che passa principalmente da quel nucleo di disarmo che è forse la cifra stessa dell’opera, del poeta. In un’antica intervista, a proposito di Umana gloria, Benedetti ebbe a dire: «penso che la parola indifesa e colloquiale ma spaesante sia quella dell’uomo che muore, noi moriamo con queste parole, con queste pause del respiro». E Benedetti, con tale parola disadorna e rigorosissima, fatta via via degli elementi più semplici e umili del vivere (Umana gloria), dei suoi scarti e delle sue scorie inassimilabili (Pitture nere su carta), o ancora dei suoi frammenti mnestici e delle istantanee della caducità (Tersa morte), ha progressivamente, inesorabilmente portato la sua poesia – e insieme a essa noi tutti, suoi devoti lettori – in territori sempre più estremi, folgorati dal «brivido di stare», nel luogo senza ritorno in cui si incontrano parola, esistenza e verità: quel confine che non è più la vita, non è ancora la morte, ma in virtù del quale soltanto possono dispiegarsi ed essere tutt’uno la vita e la morte. Continua a leggere

“Olimpia, tragedia del passaggio”

Uno dei pastelli di Giulia Napoleone realizzato per l’edizione francese di OLIMPIA, uscito in Francia con la traduzione di Angèle Paoli (Al Manar, giugno  2019)

Breve commento di Luigia Sorrentino

Ci sono libri che entrano nella tua vita e, per diverse ragioni,  non vogliono più uscirne. Olimpia, (Interlinea, 2013, 2019) è per me uno di quei libri. Fa fatica a sparire dalla mia vita. Le traduzioni in tedesco di “Iperione, la caduta” che qui presento in anteprima assoluta ai miei lettori, sono di Bettina Gabbe. Sono  nate dalla necessità  di mettere in scena “Olimpia, tragedia del passaggio“, drammaturgia di Luigia Sorrentino.

Ringrazio Jacob Blakesley, (lui sa perché) e Alessandro Bellasio.

Iperione, la caduta

nulla può crescere e nulla
può così perdutamente dissolversi
come l’uomo.

(F. Hölderlin, Iperione)

 

LA LETTURA IN TEDESCO DI SEBASTIAN REIN

 

Coro 1

tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava lì sotto e dentro

questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa

le acque la accolsero

e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola ancora tutti
portava nel suo grembo

Hyperion, der Fall

Es kann nichts wachsen
und nichts so tief vergehen,
wie der Mensch.

(F. Hölderlin, Hyperion)

Chor 1

alles lag auf ihr
und sie trug all das Gewicht
und das Gewicht waren ihre Kinder
Kreaturen, die noch nicht
auf die Welt gekommen waren
sie lag da, darunter und darinnen

dies Leid durchfloss sie von Neuem
ils immer etwas schwand

die Wasser umschlossen sie

und beim Nahen der Küste
der kleinen Insel trug sie alle
im Schoß

Coro 2

c’è una notte arcaica in ognuno di noi
c’è una notte dalla quale veniamo
una notte piena di stupore
quella perduta identità dei feriti
si popola di volti,
quell’abbraccio mortale

in un tempo sospeso tra mente e cuore
mai la notte fu così stellata

gettati in mare ingoiarono acqua
e pietre, e strisciarono sulla sabbia
e furono in totale discordia
ebbero passi pesanti
e sparirono, sottoterra

il cenno si dissolve
da sé cade il fragile umano
frutto effimero, del mortale Continua a leggere

Paul Celan, poesia, esistenza e verità

Paul Celan

COMMENTO E TRADUZIONE DI ALESSANDRO BELLASIO

Tesa, lampeggiante, cesellata fino all´estremo e di volta in volta incandescente o raggelata, ipnotica o allarmante, quella di Paul Celan (1920 – 1970) è una poesia che accade in uno spazio mitico, turbato da uno spettro di luce siderale, dove tutto appare come attraverso la propria filigrana ontologica, in forma di emblema e di cifra.
Della vasta produzione di uno dei più grandi lirici del novecento, proponiamo alcuni brevi, folgoranti testi attinti da raccolte diverse, ma nei quali comune e decisiva è la ricerca sul senso della parola e sull’indissolubile intreccio tra poesia, esistenza e verità.

(Traduzioni di Alessandro Bellasio)

Mit wechselndem Schlüssel
schließt du das Haus auf, darin
der Schnee der Verschwiegenen treibt.
Je nach dem Blut, das dir quillt
aus Aug oder Mund oder Ohr,
wechselt dein Schlüssel.

Wechselt dein Schlüssel, wechselt das Wort,
das treiben darf mit den Flocken.
Je nach dem Wind, der dich fortstößt,
ballt um das Wort sich der Schnee.

Con alterna chiave
tu apri la casa dove
vortica la neve delle cose taciute.
A seconda che il sangue ti sgorghi
da occhio o da bocca o da orecchio,
cambia la tua chiave.

Cambia la tua chiave, cambia la parola,
cui è concesso vorticare tra i fiocchi.
A seconda del vento che via ti sospinge
intorno alla parola si fa più fitta la neve.

(da Von Schwelle zu Schwelle, Di soglia in soglia, 1955)

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Portrait di Georg Heym (1887 – 1912)

Georg Heym

Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità, vi proponiamo il terzo e ultimo contributo di Alessandro Bellasio su Georg Heym, dopo essere entrati nell’esperienza estetica di Gottfried Benn e di George Tralk.

COMMENTO DI ALESSANDRO BELLASIO
Traduzioni di A. Bellasio

Quando, risucchiato dalle correnti gelide dello Havel, dove si è tuffato per salvare l’amico Ernst Balcke, Georg Heym muore, non ha ancora 25 anni, ma si lascia alle spalle un corpus di centinaia di poesie, oltre alle prose.
La morte per annegamento è un motivo ricorrente della sua opera, attestata anche dall’unica raccolta pubblicata in vita, Der ewige Tag (accanto al riferimento classico di Ofelia, ne abbiamo testimonianza in poesie come Schwarze Visionen, o Die Tote im Wasser). E d’altra parte, il motivo si rivela presagio di un destino. L’espressionismo perde di colpo il proprio enfant prodige, il suo giovanissimo, implume Baudelaire (tale era considerato Heym ai suoi esordi). Il poeta della Berlino irrequieta e ipertrofica di inizio novecento se ne andò talmente presto che di lui a malapena poterono registrare le cronache, eccezion fatta per quelle letterarie.
Heym che fu, probabilmente, il più espressionista fra tutti gli espressionisti – o meglio: un caposcuola, il poeta in cui certe distillazioni simbolico-metaforiche, comuni a un’intera generazione, vennero aggregandosi secondo una chimica divenuta poi classica: la metropoli patibolare e predatrice, lo scatenamento delle forze distruttive nell’uomo moderno, orfano di dio quanto di sé stesso, la perdita del baricentro, il dissidio tra malinconia e rivolta, e quel peculiare senso di catastrofe imminente che avvolge i suoi versi di una inconfondibile luce violacea – quel perimetro livido entro cui vaga e precipita un’umanità debilitata, spettrale. Continua a leggere

Alessandro Bellasio, “Il laccio antartico”

Alessandro Bellasio / credits ph. Dino Ignani

IL LACCIO ANTARTICO

​​​​​​                           Per C. e M.

I.

Risalendo, a colpi di gomito,
per questa tumida, strenua
vena accidentata, respiro adesso
la mia caligine, tutti gli anni
diluviati addosso, e i padri che ho bruciato
in una antica
camera iperbarica.
Lasciami, ti dico, lascia
mi – io
sono di lato
ai miei pezzi e vi galleggio
al centro, come un sughero

in questa stanza
solitaria, dove mi addormenta
senza amore, rimini… Io,
con la punta
più gelata del mio ago,
ho toccato
questo vento di metallo, quell’
artide lontano
che mi somiglia e parla,
quel pensiero
troppo vero
di me, e in me
mia calotta carnivora – ventosa
a tentacoli
che mi divorava. Io
so
che non c’è resurrezione, nessuna
luce
in fondo al corridoio, oltre questo perdere
nitido, assoluto – a questa
stanza calpestata
da un’astinenza
che sento inginocchiarmi a notte,
quando fisso, perfettamente solo,
ciò che in questa vita è stato
metà di un carcere, metà del nulla.
Ricordatevi: mai, qui io,
ho chiesto a voi di amarmi. Continua a leggere

Portrait di Gottfried Benn (1886 – 1956)

Gottfried Benn

Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità,  vi proponiamo un secondo contributo di Alessandro Bellasio su Gottfried Benn,  dopo essere entrati nell’esperienza estetica di George Tralk.

COMMENTO DI ALESSANDRO BELLASIO
Traduzioni di A. Bellasio e  F. Masini

«Esistenza vuol dire esistenza nervosa, cioè eccitabilità, disciplina, enorme conoscenza di fatti, arte. Soffrire vuol dire soffrire nella coscienza, non già per decessi. Lavorare vuol dire innalzamento verso forme spirituali. In una parola: vita vuol dire vita provocata.» Sarebbe forse sufficiente la breve, fulminante sintesi di questo giro di sentenze per definire l’esperienza esistenziale e artistica – esistenziale in quanto artistica – di Gottfried Benn (1886 – 1956). Se non fosse che, come in un gioco di specchi e rifrazioni interiori, dietro il saggista raffinatissimo e sornione c’è il prosatore ellittico e allucinato, e dietro questo il lirico dalle immagini sulfuree e il sottile teorico della poesia statica. E se non fosse che il saggista, il prosatore, il lirico e il teorico a loro volta venissero sempre, accuratamente celati dietro l’impeccabile camice del dermatologo brillante e up to date, che firma studi scientifici per le riviste di settore e raccomanda pomate di zinco per le dermatiti più ostinate. 

L’accolito, insieme a Ernst Jünger, della “emigrazione interiore”, l’asceta del Doppelleben e il discepolo dell’Artistik, iperconsapevolmente scisso tra laboratorio medico e microscopio lirico, fu di certo la figura intellettualmente più complessa (e politicamente più ambigua) dell’espressionismo. E d’altronde, fu anche colui che, davvero e proprio superstite, a giochi ormai compiuti, contribuì a mantenere vivo il ricordo di ciò che il movimento aveva significato per l’arte europea, scontando sulla sua persona, è bene ricordarlo, il rifiuto di abiurare i propri trascorsi, allorché tutto ciò che era stato espressionismo iniziò a puzzare, sempre più pericolosamente, di “arte degenerata”.

Dai tetri affreschi di Morgue ai preziosi mosaici di poesia statica della produzione tarda, dalla prosa assoluta distillata nelle psichedeliche vicissitudini del più celebre dei suoi alter-ego, il sifilopatologo Werff Rönne, fino alle iridescenti stilizzazioni delle prose mature (Romanzo del fenotipo, Il tolemaico), colui che elesse Pallade a nume tutelare (e spettrale) in un mondo disertato tanto dalla ragione quanto dagli i, per tutta la vita seguì il fil rouge di una sola, inaggirabile, primaria intuizione: «in pace o in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista.» Di sé avrebbe forse detto – chiosando con un celebre passaggio di Gehirne«vivevano tutti con il centro di gravità fisso su meridiani, tra rifrattori e barometri, lui solo gettava sguardi oltre le cose, paralizzato dalla nostalgia di un azimut, gridava invocando una chiara pulizia logica e una parola che finalmente lo afferrasse.» Continua a leggere

Portrait di Georg Trakl (1887-1914)

GEORG TRAKL

NOTA E TRADUZIONI DI ALESSANDRO BELLASIO

Verfall: disfacimento, dissoluzione. Se la poesia, prima ancora di dire, nomina, se cioè dice in quanto nomina, e se un poeta è anzitutto i nomi a partire dai quali dà forma al proprio dire, il mondo e la poesia di Georg Trakl (1887- 1914) prendono forma a partire da quel nome essenziale, dal Verfall. Ma il nome, in Trakl, non si sostantiva, non è substantia metafisica, né substratum logico-grammaticale; esso è, piuttosto, l’unità mobile e sempre in calando del divenire. Non essere, non fondamento, ma soglia di un trapasso. Al limite: essere come trapasso. «Io anticipo le catastrofi mondiali. Non prendo partito, non sono un rivoluzionario. Sono il dipartito, nella mia epoca non ho altra scelta se non il dolore». Verfall (come le sue varie declinazioni Untergang, Dämmerung, Neige, Verwesung ecc.) nomina l’essenza della poesia nell’epoca del nichilismo e delle catastrofi planetarie: essa è abgeschieden, congedata, dipartita; dissolta e prosciolta. Poesia scaraventata nell’abisso, nell’Abgrund, nell’assenza di fondamento. Edificata su pochi, ossessivi nomi-totem, ai quali è demandata la tenuta interna del poema. E sui colori. La nota più straziante della poesia trakliana: i suoi colori. Che non provengono né ritornano ad alcuna tavolozza, ma traggono da motivi interiori la loro vera tonalità. Trakl, che ha letto Rimbaud, si spinge là dove il francese si era limitato all’aperçu, per quanto geniale: reinventare la percezione psichica dei colori. A partire però – ed è questa la peculiarità, nonché la coerenza del poeta – da un solo tono dominante, quello del Verfall. Di qui, dalla dimensione di rovina e decadimento da cui sono attinti, i colori trakliani acquisiscono quella loro inconfondibile profondità, di modo che, per esempio, il bianco non è mai solo emanazione di una luce, l’azzurro mai unicamente superficie di un cielo, e il rosso è sempre e elettivamente purpureo. Continua a leggere

La percezione tragica dell’umanità

Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità, vi proponiamo come primo contributo, la nota introduttiva di Alessandro Bellasio che ci immerge, in modo rapido e scorrevole, in una  panoramica del senso e dell’attualità di quella esperienza estetica (ma anche esistenziale) e dei poeti che le diedero voce e più spesso la vita stessa.

CENTO ANNI DI CREPUSCOLO

NOTA DI ALESSANDRO BELLASIO

1919. Fra le macerie di un’Europa appena uscita dalla Grande Guerra, il giornalista e scrittore Kurt Pinthus dà alle stampe presso la propria, semisconosciuta casa editrice una raccolta di liriche dall’eloquente titolo Menschheitsdämmerung. Crepuscolo dell’umanità.
Si tratta della prima, unica antologia organica delle molte voci che diedero vita e parola a un periodo tragico, ma incredibilmente fecondo, per le lettere germaniche, quello dell’Espressionismo.
Tre dei maggiori poeti pubblicati nell’antologia sono infatti, nel 1919, già morti, giovanissimi – Georg Trakl (27 anni), Georg Heym (24), Ernst Stadler (31) – altri dispersi o in esilio (Else Lasker-Schüler), mentre alcuni, emigrati in una doppia vita interiore, avrebbero portato alle estreme conseguenze quella avventura esistenziale ed estetica, tentandone un superamento e una sintesi (Gottfried Benn). Continua a leggere

Le rive del sole di Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

LE ONDE DEL DESTINO DI INGEBORG BACHMANN

commento e traduzione di alessandro bellasio

Tra le voci più alte e le esperienze più decisive della grande poesia europea del XX secolo, Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973) ha saputo declinare in molteplici forme il suo talento letterario, dando vita non solo alle indimenticabili liriche di “Invocazione all’Orsa Maggiore“, ma anche a romanzi vibranti e tormentati come il celebre “Malina” (primo dell’incompiuto ciclo dei Todesarten, i “modi di morire”), così come a lucidi e accorati volumi di racconti (“Il trentesimo anno” e “Tre sentieri per il lago”), oltre che a drammi e saggi radiofonici, tra i quali ricordiamo “Il buon Dio di Manhattan”, o “Il dicibile e l’indicibile“, testimonianza quest’ultimo della profondità filosofica, oltre che critica, della ricerca perseguita dalla poetessa austriaca.
In “Herzzeit”, pubblicato in Italia con il titolo “Troviamo le parole”, è inoltre radunato il vorticoso, febbricitante scambio epistolare che la Bachmann intrattenne con Paul Celan – il grande poeta della Bucovina a un tempo amante, amico, confessore e sodale.

Proponiamo qui la poesia di apertura della raccolta “Die gestundete Zeit“ (Il tempo dilazionato), con la quale Bachmann esordì nel 1953, appena ventisettenne, sbalordendo pubblico e critica per la maturità e la perfezione del dettato. Continua a leggere

La furia analogica di Dylan Thomas

Dylan Thomas

DYLAN THOMAS LO SCIAMANO

Commento e traduzione di Alessandro Bellasio

Poeta degli elementi e delle linfe segrete della natura, voce accorata del contatto magico e primordiale con il mondo, Dylan Thomas (Swansea, 1914 – New York, 1953) è autore di un corpus poetico in cui la dirompente furia analogica è disciplinata da un bagaglio retorico accuratamente scelto e limitato, fedele alle figure amate (antitesi semantiche, sinestesie, assonanze, allitterazioni), e capace di dare vita a potenti architetture visive, culminanti in improvvise accensioni visionarie.

Vere avventure percettive, le liriche di Thomas si condensano preferibilmente intorno a pochi nuclei psichici ricorrenti, descrivendo un moto centrifugo, rotatorio, privo di sviluppo e, piuttosto, immortalato nell’attimo estatico di contemplazione della propria sorgente interiore.

Con il suo ritmo ipnotico, con la sua voce antica e sciamanica, il grande poeta gallese, prima di affondare per sempre negli abissi dell’alcol, ci ha consegnato una folgorante testimonianza di cosa sia la poesia ispirata, e di quale forza arcaica e rovinosa sia portavoce il poeta “entheos”, il poeta “posseduto dal dio”, per cui tramite ci giunge la voce perduta e panica di un’inattingibile origine.
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A Milano la grande poesia polacca

Alla Casa della Poesia di Milano (in Via Formentini 10), giovedì 14 marzo 2019 alle ore 19:30 POLONIA E POESIA, a cura di Milo De Angelis.

Un incontro con i grandi poeti polacchi del nostro tempo: Zbigniew Herbert, Adam Zagajewski e i premi Nobel Czesław Miłosz e Wisława Szymborska presentati da due giovani e appassionati studiosi, Alessandro Bellasio e Giovanni Rapazzini, con la partecipazione del Professor Luca Bernardini, docente di Letteratura Polacca all’Università degli Studi di Milano.

Voce recitante Viviana Nicodemo.

Musiche Bianca Brecce. Continua a leggere

L’indeducibile sostanza del tempo

di Alessandro Bellasio

Quello che è successo non è ancora avvenuto, non è ancora avverato, perché ogni vero inizio è in realtà un ritorno, e il passato non è meno imminente del futuro: «l’inizio è di fronte a noi | che a ritroso andiamo verso il tempo»; «quello che abbiamo vissuto forse | deve ancora succedere».

Così, giunto alla terza silloge, con Tempo riflesso Corrado Benigni segna un importante punto di svolta all’interno della sua produzione. Rispetto al dettato giuridico e marziale di Tribunale della mente (2012), e alla parola ripida e scheggiata dell’opera d’esordio Alfabeto di cenere (2005), la nuova raccolta raggiunge – pur in una sua intima continuità di lingua e di stile, improntati da sempre a semplicità lessicale e sobrietà formale – una saggezza e una sapienza che prendono corpo anche nella ponderata architettura del libro, dove la frequente interrogazione delle questioni essenziali della nostra natura e del nostro destino è bilanciata, da un lato, da sorprendenti incursioni nell’infinitamente piccolo (come nella prosa “Il mondo invisibile degli insetti”, o in singoli frammenti dove ci viene ricordato che «c’è una trascendenza tangibile | nell’infinita interiorità di un filo d’erba») che molto mettono in dubbio il nostro supporci infinitamente grandi; e d’altra parte, come già avveniva in Tribunale della mente, il libro alterna scrittura in versi e brevi prose liriche, segno a sua volta della ricerca di un equilibrio stilistico tra tensione verticale dell’a capo e distensione orizzontale della prosa, e dunque tra sintesi e analisi, intuizione e riflessione. Continua a leggere

Apocalisse senza redenzione

Lorenzo Chiuchiù

Su Le parti del grido di Lorenzo Chiuchiù

Nota di lettura dii Alessandro Bellasio

Da sempre fedele a una parola ultimativa e destinale, giunto alla terza raccolta dopo le precedenti Iride incendio (2005) e Sorteggio (2012), con Le parti del grido Lorenzo Chiuchiù ci consegna un libro al calor bianco, dove l’incandescenza della parola è però puntualmente raggelata dalla lucidità di una visione aliena a ogni enfasi, concentrata unicamente sull’esattezza del dire, sulla precisione assoluta; versi affilati e cesellati a uno a uno, passati per le molte armi da taglio che affollano da sempre i libri del poeta perugino. Una poesia difficile da maneggiare, refrattaria a ogni contromisura da parte del lettore, a qualsiasi tentativo di addomesticamento dialettico, di patteggiamento, di deviazione. Una parola tersa e tesa, concentrata, con cui non si può tentennare e che ci chiama in causa direttamente, senza possibilità d’appello. Abitata, potremmo dire anzi posseduta, da quella violenza misurata e sorvegliatissima così distintiva di Chiuchiù, il quale ha sempre puntato alle verità ultime, ma ha anche sempre avuto ben presente che, con tali verità, non è possibile far romanzo, allestire trama o racconto, poiché esse si danno invece solo per lampeggiamenti, per accensioni improvvise. Siamo qui, nel tempo e nella storia, «come se la vita fosse intera», ma in realtà, a un livello più profondo, si danno battaglia forze e leggi ancestrali, appena intuibili, e «tutto è senza nome, aperto | e sacro come l’occhio del lupo | o come il patto, il suicida, l’innato.» Tutto avviene in uno spazio ripido, scosceso, che minaccia di spalancarci sotto i piedi la voragine fatale – ma senza concessione alcuna al dramma, perché proprio su questo terreno si gioca la partita decisiva della poetica di Chiuchiù, su questa abolizione del pathos drammatico in favore della presa di coscienza tragica, della lucidità impassibile e prolungata, che con voce partecipe ma mai enfatica constata la necessità di tutto quanto accade. Di modo che se anche quella voragine si spalancasse, non vi sarebbe che da prendere atto di un destino precedente, che ci attendeva lì da sempre. È questa una poesia che non si lascia sedurre dall’elegia, né tentare dalla recriminazione: «siamo solo questa gravità del sangue che ci reclama interi, frontali, e perfetti nelle nostre sconfitte, illuminati da pura ferita.»

E d’altro canto, a livello stilistico, la vis potentemente assertiva di questa poesia trova espressione nel serrato susseguirsi dei tanti imperativi, con i quali non a caso l’opera si apre («Ripeti contro di te: ti illudesti») e si chiude («accetta la morte perché anche quella sono io»), convalidando così anche sul piano delle scelte sintattico-grammaticali l’essenza circolare, centripeta del suo movimento, «dall’unico all’unico». Unità di intenzione e di intonazione poetica, unità di pensiero e di visione, di stile: è questo che emerge considerando anche i precedenti lavori di Chiuchiù, che di libro in libro ha scavato e attinto alle risorse di un mondo coerente, compatto; un poeta e una poesia monacale, claustrale, un’avventura solitaria fedele ai suoi perimetri. Giocata tutta sulla tensione. E dove ogni cosa accade una volta e per sempre, irreversibilmente, potremmo dire “grecamente”. Perché in effetti fin dall’esordio di Iride incendio, e poi più distintamente con Sorteggio[1], Lorenzo Chiuchiù ci ha abituati a uno sguardo presocratico, sapienziale, più vicino ai guizzi e alle accensioni degli ardui moniti eraclitei che non alle raffinate scepsi dialettico-forensi della polis platonica. E un tale sguardo, così antico e inattuale, come testimonia l’esperienza di Chiuchiù può trovare oggi solo nelle lente distillazioni di una lirica asciutta e visionaria una direzione e una voce commisurate alla sua forza arcaica, elementare. Continua a leggere

Alessandro Bellasio, “Lo strapiombo luccicato di pensiero”

LO STRAPIOMBO LUCCICATO DI PENSIERO

Quando giungono, spargendo
ozono ed estro, anche
i certi vegliano, trovano
l’ingresso, hanno il sibilo.
«Con colpi bruschi, tra le frenate
spifferi
mi gelarono il costato
chiamando quel mirino. È
questo
lo scalino dove incespico
con la gamba gelata
dentro il finito. Ed è
forte, qui, riceverne la luce
inginocchiata, gli anni
che ho avuto tutti nella vita,
scavandomeli dentro…»
Fa
tardi sui cuscini.
«Ho la mente
invasa dalle voci – travi potenti
che non controllo, quando tracimano
nell’acqua fortissima
che non so ringraziare. Sono
bellissima… Sono
metà stella, metà aneurisma –
bocca falcidiata da uno sfarzo
che mi stampa nella sete
con verdetto equanime – una
curia, giunta all’udienza del caos.
Entro ed esco, quasi appartenessi a un sosia,
un cencio sulla mia immobilità. Io
vi circondo, nettamente moderna
vi lascio a preparare
filosofie scolastiche, monumenti,
lo sterminio.
Vedo
gli anni, la lenta crepa
accolta in pace nella sua montagna.
E il grigio, che ne è il vivente –
un chilometro. Mente,
che impugni l’asta e salti
nel miracolo, lento
rovinio dei cieli
dove una volta siamo andati…
Anche
io coperta
su quel detto in frammenti, anche
io lavandino
di piastrelle che mi scrutano
da un freddo
straccio di puro abbandonare. Dentro voi
io
ho pianto. Ho
gettato gli indumenti
da un’ultima fessura nelle cose,
e ho detto il mondo
svegliandomi in un’iniezione.
Ho spento la morte
nella mia gamba di ragazzo – ho sfondato
con un colpo secco l’avantreno,
lacerandomi… Smarrita, quasi
in pianto, ho
gridato io
di allontanato sole, di travi.
Ho detto di come
le vite obbediscono al dolore,
di come il buio le nomini.
Ho spento le risaie.
Ho coperto tutto con il tempo».

Alessandro Bellasio, Lo strapiombo luccicato di pensiero

 

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Alessandro Bellasio, “Nel tempo e nell’urto”, Premio Poesia Città di Fiumicino 2017 OPERA PRIMA

Alessandro Bellasio, con “Nel tempo e nell’urto” ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino 2017 per l’OPERA PRIMA. Qui Alessandro è fotografato da Luigia Sorrentino durante un momento della premiazione (28 ottobre 2017)

*

Contro una soglia buia
saremo reclamati
da una voce antecedente

inchiodati
a un silenzio che scava

nemmeno noi capaci
di pensare la morte che siamo

*

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Premio Poesia città di Fiumicino 2017

I finalisti e i vincitori del Premio Poesia Città di Fiumicino 2017

Incisione del 500, di Sebastian Munster, raffigurazione dei porti di Roma nella zona della moderna Fiumicino, quello di Traiano e quello di Claudio.

La Giuria Tecnica del “Premio Poesia Città di Fiumicino” – composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino, Emanuele Trevi – ha selezionato  i tre finalisti della sezione “Opera di poesia” e i vincitori delle sezioni “Premio alla carriera”, “Premio opera prima” e “Premio poesia inedita” che partecipano alla terza edizione del premio.

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I Sapienti e i Fanciulli

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Milo De Angelis

A Teatro Aut-Off di Milano il 14 e il 15 febbraio 2017 Milo De Angelis presenterà due serate di letture di poesie dal titolo I SAPIENTI E I FANCIULLI. A cura di Milo De Angelis.

PROGRAMMA

14 febbraio – ore 21 – ingresso libero

Letture dei poeti Franco Loi, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri

15 febbraio – ore 21 – ingresso libero

letture dei poeti Lorenzo Babini, Alessandro Bellasio, Damiano Scaramella

ore 18.00, ingresso libero

Presentazione del libro “La ragazza Carla” di Elio Pagliarani
Prefazione di Aldo Nove

Con Aldo Nove – Letture di Carla Chiarelli
Interviene Alberto Saibene regista del film omonimo prodotto da Mir Cinematografica e CDV con Rai Cinema.

TEATRO OUT OFF
via Mac Mahon, 16
20155 Milano

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