Quasi una poetica

Federico Carrera

di Federico Carrera

Ho fatto davvero piazza pulita. Mi sono tolto di dosso – o almeno questo era l’intento, il proposito – tutti gli «zavagli», come si dice da queste parti, della mia scrittura in versi degli ultimi anni: tic, ossessioni, manie. Ho esaurito l’esauribile. E da quando ho chiuso il nuovo libro, quel poco di buono che ho scritto era ripetitivo o già visto – frantumato in clichés vari – e soprattutto non mi dava né mi dà soddisfazione. Non che scrivere – e scrivere poesia in particolare – significhi questo, tutt’altro: è che Saba augurava a Giudici un grande amore o un grande dolore – e lo augurava al poeta, disse, non all’uomo, com’è chiaro. Non so bene quale strada prendere e quei pochi momenti di poesia – da dove nasca il verso rimane un bel mistero, senza dubbio – che mi capitano ogni tanto, li lascio cadere nel vuoto e li dimentico in pochi minuti. Insomma: pare che io abbia davvero staccato tutto, che le cose non mi parlino più e – quel che è peggio – che io non le voglia per il momento ascoltare.

Eppure, oggi – è una domenica di gennaio – c’è un sole ghiacciato e un cielo limpido e mi dispiace fin troppo rinchiudermi in casa a ripetere ad alta voce la mia traduzione di Tacito – che utilità possa avere non lo so, ma così chiedono di fare i Dotti – quindi decido che la vita in fondo è mia, che mi sono dato da fare molto in questi anni e che – per carità – se esco un’ora a passeggiare non morirà nessuno. Così esco. Inverto la solita rotta della mia passeggiata e mi dirigo al parco, perché ho voglia di vedere per bene il cielo e il lago che lo specchia quando è immoto come oggi. Arrivo, ma prima di sedermi su una panchina getto uno sguardo alle palazzine dall’altro lato del parco e mi ricordo che quasi un anno fa, in una passeggiata più o meno come questa, scrissi una poesia senza titolo che principiava con questo verso: «sul tetto del palazzo c’è un cubotto quadrato». Indubbiamente un brutto verso, che però mi sono ripetuto in testa per mesi. La poesia, anche quella era venuta fuori brutta: non sapevo più cosa metterci dentro, avevo ripetuto il motivo della solita donna lontana e che nella mia testa mi odia, mescolato a qualche citazione troppo esibita di Sereni e Montale. Senza davvero alcun dubbio, una delle mie poesie più brutte. Ma ora. Ora ho fatto tabula rasa, ho cambiato tutto: riproviamo. (Mi ero quasi detto interiormente che non avrei davvero più scritto una poesia, almeno per qualche mese…). Così comincio:

Sul tetto del palazzo c’è un cubotto

Noto però che i palazzi con “cubotto” sono due, anzi tre (ma è più bello immaginare, e quindi scrivere, che siano due). E poi penso a quella antica poesia, che partiva da una descrizione e che però era fatta tutta di ripensamenti e cancellature, e penso che oggi è come se fossi ritornato qui apposta per riscriverla, ma scrivere una poesia brutta è come commettere un delitto e, in fondo, quando si sbaglia una poesia, è come se si sbagliasse a prendere la mira di un sentimento, è come un fallimento esistenziale in piccolo. Quindi – ma è già una seconda immediata stesura perché correggo mentre scrivo – la strofa esce così:

 

Sul tetto del palazzo c’è un cubotto –
ma quale dei due? E se dal descrivere
nasce lo scrivere e da esso l’eliminare,
mi chiedo se è compiere un delitto
scrivere la poesia che non ho scritto. Continua a leggere

Marco Bini. “New Jersey”

Marco Bini, foto di proprietà dell’autore

New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera

 

«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.

Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).

Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere

RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Ritratto di giovane poeta

Federico Carrera, 2020 credit ph Mauro Terzi

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Appunti per un ritratto-da-farsi
di Federico Carrera

 

Tratteggiare un ritratto di sé a ventidue anni non è cosa facile: la mano trema e il pennello sembra sempre inspiegabilmente asciutto. Si ripiega allora sulla matita, sempre che la punta non si spezzi, il foglio non si squarci e così via. Ma a me piace usare la matita. Sono in confidenza: prendo appunti a matita, sottolineo libri e manuali a matita.

La penna è troppo definitiva. Riconosco che si tratta di un segno di incertezza, di insicurezza, ma la matita mi mette al riparo, dall’errore e dalla definizione. Ho poco più di vent’anni, dicevo. Forse si pretende da me, adesso, il ritratto di un ventenne, di un giovane studente universitario.

Ma non so bene da dove partire. Mi piacerebbe avere un respiro generazionale. Mi è negato alla radice, non ne ho l’indole. Ma per un ritratto forse è bene partire da lontano – la prospettiva migliore dalla quale tentare di descriversi.

Riconosco (abbozzo) due stagioni nella mia vita: una in cui si piange, una in cui non si riesce a piangere. È stato tutto qui, il mio vivere, tra questi due poli.

Fino ai quattordici anni, ho pianto per ogni cosa – dal dolore al piccolo capriccio.

In particolare, mi commuovevo sinceramente per i film che guardavo – strumenti emotivamente ben calcolati. In effetti, a quell’età (a dire il vero già da qualche tempo prima, forse da sempre), il cinema ha incominciato ad avere un’importanza capitale per me. E continua tutt’ora ad averne. Al punto che, quando mi chiedono cosa io voglia fare ‘da grande’, mi trovo sempre a rispondere con la stessa coppia di parole: “il regista”.

Il cinema ha aperto ai miei occhi da pre-adolescente ancora-bambino le porte di un mondo altro (Altro?), fatto di immagini e colori, di musiche ben studiate e colpi di scena, ordinato in schemi narrativi ora nascosti ora incontrovertibili ora curiosamente liberi. Un mondo del tutto preferibile, insomma, a questo nostro quotidiano, in cui viviamo e che siamo abituati a chiamare reale.

Tuttavia, per me – e in questo non posso mentire – il cinema è sempre stato più reale della realtà, più importante, più degno di attenzioni e di cure. Ma non voglio divagare.

Dicevo: un tempo in cui si piange, un altro in cui non si riesce. Continua a leggere

Tra dolore e ricordo, la morte di chi resta

Luigia Sorrentino credits ph. di Gerardo Sorrentino

Su “Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino
di Federico Carrera

 

Il senso autentico e profondo dell’ultima raccolta di poesie di Luigia Sorrentino – Piazzale senza nome, edito da Pordenonelegge-Samuele Editore nel settembre del 2021 – è tutto racchiuso, non richiesto ma non celato, nelle prime pagine della silloge, in quello spazio in cui l’intento autoriale da astratto si fa narrabile.

Proprio in questo delicato luogo di soglia Sorrentino pone una citazione plutarchea in cui la morte dei vecchi è assomigliata a un giungere a destinazione e quella dei giovani a un naufragio (Fr. 205 Sandbach). Questa citazione trova il suo primo controcampo poche pagine dopo, in una breve prosa poetica sapientemente intitolata Morti parallele (il titolo plutarcheo delle Vite parallele viene così rovesciato).

Ed è proprio con questo testo che Sorrentino apre la pista alla lunga schiera di naufragi e di incontri con la morte di personaggi giovani, che sono insieme astratti, come simboli di una generazione, e concreti, come ricordi di persone davvero vissute e davvero smarritesi.

Sotto questo aspetto, Piazzale senza nome è senza dubbio un libro fortemente generazionale, un piccolo poema epico-narrativo sulle sventure di una generazione – gli adolescenti degli anni Ottanta – che si è trovata coinvolta in un insieme di circostanze disperate: droga, incidenti, omicidi, violenza. E i versi di Luigia Sorrentino, nella loro metrica piana e narrativa, assestata intorno all’endecasillabo, evocano con grande potenza una curiosa sensazione di malinconia, che richiama vagamente quel contorcersi di membra proprio dello spleen di baudelairiana memoria.

Le descrizioni lucide e dolenti di Sorrentino si susseguono dunque senza una rigida struttura che le inquadri, in modo che il discorso – così vivo e autentico – non si riduca a banale racconto letterario, ma mantenga la sua potenza espressiva.

Così unitario, eppure così spezzato e frammentario, il racconto di Sorrentino sembra voler raccogliere i cocci di ciò che rimane oggi di questi giovani, dopo il trascorrere di tanta memoria, in un susseguirsi di liriche brevi, ma pungenti ed esatte nell’espressione e nella lingua.

Ciò che colpisce è il fiume di parole che investe il lettore: parole esatte, cariche di ricordo, e che la stessa Sorrentino sembra aver scritto quasi senza controllo, lasciandosi trascinare dall’urgenza del dettato – tanto che i testi sono datati come composti in un biennio, tra il 2017 e il 2018.

Quando sentii per la prima volta Luigia Sorrentino parlare di questo libro, nel contesto del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, una sua frase mi ha colpito molto: «la poesia ci parla sempre di una condizione umana precaria». Continua a leggere