RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

Continua a leggere

Alessandro Santese, “Carezzami ti prego”

Un’opera d’esordio folgorante: Santese con “Vento nelle mani degli uomini”, ci riporta a una poesia di ampio respiro, a uno spazio cosmico che tutto crea e distrugge.

Alessandro Santese

Dimenticate

Si sbracciano come in un sogno
o è l’abbraccio del fuoco e voi: dimenticate.
Dimenticate la gioia
che vi reclama e vi sfa
i gesti dentro un solo grande giorno di luce
che qualcuno disse la vita.
Dimenticate le mura che si aprono,
le macerie e il sale
d’ogni pianto che sbriciola
vetri e pensiero
e prepara il verde luminoso dei prati
mentre giorno dopo giorno
mette spore, dimenticate il bambino
scalzo che vola nell’aria e i bambini, tutti, il grande buio e
l’impossibile, il silenzio
che vi cresce intorno e prepara tutto,
e mai lo dite,
dimenticate le madri
che camminano nell’ombra e abbracciate in sogno fino all’ultimo
respiro, i vivi e
i morti che mai si ricongiungono. Questi sassi scagliati
contro un viso qualunque.
Dimenticate.
Tutto.

Ricomincerete: non il centro del buio
l’uscita dal buio era la sporgenza
alla fine, come in premio, la vita.

Oh ma questo no. Oh questo,
non lo dimenticate.

*

Carezzami ti prego

Carezzami ti prego in questa notte sterminata
di voci e vetri grano grano ricomposti
nella carne
che ci tiene
svegli, alla notte, lungo un filo. Sai, è stato un attimo, e poi
siamo stati cancellati
dal canto e del mondo per ritornare
nel sangue
che agghiaccia un giorno
dentro un volto, e prende
un corpo, un altro
ancora e
sfiora vite, vede vite, sente vita alle labbra, prende
contorni e chiaroscuri, luci
e risa. L’attimo, l’unico, e poi…
fu luce immensa ai vetri
chiamò improvvisi all’amore
d’ogni solco nella carne
mia e tua, nella mente, d’ogni vuoto
bacio e ti lascio e ti lasciano i giorni
per entrare ora, dentro, nelle
ossa
fino al bruciare
improvviso del cristallino dentro un battito: “ora”,
ti prego, lasciami
entrare, o sarà niente
e saremo niente
polvere lacrime
di gioia e mai più.

*

Da me a te

Ciò che cade tra le mani e squarcia le mani, a metà: le apre nel      [sangue
una poesia, un grumo di luce e sogno, una liberazione
per coloro che vengono e ci leggono dentro
ogni cosa, le ramificazioni screziate dell’essere, l’albero fulgido, chinandoci la testa sopra
per morirci
sdraiati od entrare,
nel fiato della nottola nel sibilo della caverna
del firmamento che
rotea
assottigliandosi
nella marea delle nuvole sopra la fronte
come il bastone sollevato
a due mani per fare paura l’uccello grandissimo della morte, chiamando tutti
i venti a raccolta
nella scatola del cartone, nell’erba,
nella buca del pozzo,
nel granulo iridato di polvere
che slaccia volando
i capelli lunghissimi
alla donna
dispiegandoli nell’aria,

leggono: dei giocattoli del ridere e della gioia piovuti
dal baratro del firmamento
e nascosti, ora dopo ora, dentro il verde della terra,
della punta della piroga che si frantuma
come le ossa contro l’onda del nulla
dalla quale, un giorno, a nuoto, si nasce,

leggono
delle unghie dell’orso sognate in sogno
è un giorno conficcate
lentamente
nel costato,

delle lingue inusitate e demolite
avverate nel libro di tutti i leggenti
di tutti i veggenti
di tutti i soldati
di tutti i salpati,
i giochi, gli ammanchi,

del battito miracolato dei cento talloni
sulla terra arrossata di polvere
per il troppo danzare, per il troppo gioire, per il troppo ardere,
perché la falena elettrica degli occhi
sbigottisse una mattina di fronte alla pagina bianca e sterminata
del libro della poesia aperto sulle cosce
dal quale andavano leggendo,
leggendo, dell’uomo e della
donna, accovacciati l’uno nell’altra, mentre disegnano
per terra, senza volerlo, in silenzio,
gridando, una storia diversa,
accovacciata in altre storie,
granello di sabbia in granello di sabbia, da te a tutti, saltando tutto, ogni cosa; da me a te.

Continua a leggere

Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Ancora due passi. Per Franco Loi.

Franco Loi

di Alessandro Santese

 

 

Consegnato alla sua giacca a vento grigia, la sciarpa multicolor lunga ai due lati del collo che spiove fino alla cintola, Franco Loi cammina su e giù, sopra un palco che potrebbe essere una via tra le tante che sapeva a memoria di Milano. C’è un incontro; lui parla; il titolo è: «Il silenzio dell’amore». Ma non parla soltanto, cammina, su e giù, da un lato all’altro, senza sosta: e si lascia sottilmente invasare. Camminare lo riporta alle sue vie, pensa, forse, qualcuno. Una scrivania, al centro esatto del palco, dell’acqua e un bicchiere rovesciato sulla testa della bottiglia, una sedia e tutto l’occorrente, lo attendono. Non li vede neppure. Entra ma come non entra davvero; comincia a parlare. Non si accomoda, declinando gli onori di casa. Tiene il cappotto e la sciarpa. E forse rifiuta, in silenzio, con grazia naturale, senza volere, la cerimonia degli arrivati, di chi è costretto a parlare poi borghesizzando i fatti in poltrona, dal pulpito morbido: vuole fare su e giù, continuando a scalpitare anche lì senza tregua, è probabile, le sue strade mentali, zeppe di rioni rumorosi o festanti, silenzi definitivi, occhi ridevoli, risa violente e pane caldo. Vento, tram, bèj tusann; balere; la guerra dentro.
Quarantacinque minuti. Su e giù, e ancora, continua, su e giù: mentre parla, ce ne accorgiamo, egli si lascia parlare, con la sua voce da giradischi magato unghiato dalla puntina, flautata nel timbro, dolcemente spiritesca. I temi sono quelli che lo muovono, grandissimi, da sempre: il silenzio mentale, lo spiro di amore dantesco, le dimensioni intersecanti del tempo, la dettatura dell’anima e dei versi, i morti e l’innamoramento, riportati tutti ad altezza d’uomo e a misura di vita con la disinvoltura di uno sciamano senza difese cresciuto nei sobborghi, quasi stesse, con la stessa naturalezza, continuando il porta a porta dei tempi del PCI, solo ora con l’anima e i suoi segreti da confidare.
E difatti cammina al bordo quasi del palco, come per immergere anche se stesso nel flusso di chi lo ascolta. Dunque termina: e se ne va, così come era venuto, senza stacco di cinepresa, il cappotto troppo grande ancora addosso, senza nulla toccare degli strumenti di chi si vuole a casa, lasciandoli lì intatti, dietro di sé, pungolato invece da un demone che lo spingeva con furia dentro sé e che chiamava, anche lui, poesia.
Chi sedeva ascoltando, io credo, stupiva. E lì sotto, non lontano dal flusso, quel giorno, al centro Asteria, stupivo sorridendo di gioia anche io.   Continua a leggere

Alessandro Santese, “Un grande, osceno silenzio”

Alessandro Santese

AI PIEDI DEL TEMPO

ALESSANDRO SANTESE

Restano in silenzio, riguardandosi l’una nel riverbero degli occhi dell’altra, le due donne arrivate sul luogo. La pietra che trovano è vuota: il vuoto le stringe. Il corpo, amato, disamato, toccato e caduto, non c’è.

Il corpo che è nulla e abitava una voce, il corpo che è molle e robusto, non c’è.

Giunte sul luogo fresco del ricordo, per piangere ed ossequiare il momento del pianto, così il ricordo già evapora, prima che mano amica o nemica lo contamini, allora come sempre, disseppellendo se stesso nell’aria come la morte venuta fuori un giorno dal suo giardino, rigoglioso di margherite ed asfodeli: invisibile, inizierà a camminare allora tra le strade dei superstiti, scalza, forse, forse compunta, i quali parleranno bisbigliando di lei e del ricordo di lei mentre lei non è che già lì. Da sempre. Da prima di sempre. Dentro una luce accecante. Ne faranno, dell’episodio manchevole, coloro che restano, un monumento ben fatto. Nei secoli; lo chiederanno anche ai secoli.

Può accadere che accorrendo sul luogo del tragico per testimoniarne l’essenza, come gettandogli trenodicamente le braccia verso, si perda, forse, proprio il dono essenziale del tragico. Un grande, osceno silenzio è lì. Il quale non scema, ma cresce.

Eppure tutto, in quella quiete, palpita e vibra, a ben vedere, ancora più a fondo, come il vuoto dentro il quale brulica e vibra vita e natura salendo. Nulla, se così fosse, vi sarebbe da colmare con l’affanno improvviso del respiro, perché anche il nulla lì sarebbe l’eco di un respiro, forse, di troppo. E mentre un primo immediato movimento testimoniale, presentendola, vorrà oscuramente appropriarsi di quella ulteriore nascosta vita, avvicinandosi troppo con il fiato al suo collo – per soffocarne così la voce più profonda, sigillata sotto metri e metri di terra chiusa in bocca all’evento – ai secondi che arriveranno, invece, ritardatari perenni in ritardo sulla storia e sulla necessità di poter dire eccomi, a loro che riconosceranno vuoto e intoccabile davvero il dolore del luogo sacro, che a loro mai non appartiene, viceversa, sarà forse dato di restituire il vuoto del luogo e dell’evento, senza volerlo, a se stesso. Alla pace di se stesso. Al suo fuoco invisibile. Così intrecciandolo, davvero, ai fili del suo ordito incessante. Continua a leggere

Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Prefazione di Luigia Sorrentino

In questi versi ulcerati di Giovanni Ibello c’è un sopravvissuto che invoca la rivoluzione dal margine dell’abbandono. La città sulla quale riversa lo sguardo il poeta non è patria madre per Amin – figura centrale del poemetto – ma nemmeno per l’altro protagonista di questi versi che condivide con il compagno la frustrazione della cancellazione. Il primo frammento del poemetto è già un avvertimento per il lettore: “La poesia è un lunghissimo addio”. La parola di questa poesia rivela fin da subito la cronicità della separazione, addio, miseria, segregazione si annidano in questi frammenti insurrezionali. I versi sorgono quindi da un grido di addio, dalla rinuncia a “fare alta la vita”, contratti come sono nel loro stato di alienazione, fino allo spasimo dell’ultima variante. Una parola potente che tocca la condizione umana tesa sul cavo di un burrone, una parola folgorante che si fa carico di qualcosa che non riguarda solo la capacita versificatoria di Giovanni Ibello. La lingua del poemetto, ha infatti, una prospettiva ampia, che parla di una generazione disposta a morire e a risorgere con Amin, con versi memorabili come questi: “Ci lega la parola feroce, una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido,/ tu che muori / in quell’assillo di aranceti / che ritorna.” Il cifrario della poesia di Ibello è uno Yucatan, inteso come luogo irraggiungibile e impenetrabile, che però, alla fine, trova nella cancellazione la tenerezza della visione: “Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare.” Ecco che la voce del reietto si fa espressione di una mutazione creaturale e lascia intravedere “un rammendo di secondi luce” che lenisce le ustioni provocate dalla violenza dell’esperienza terrena. Versi che rivelano che la speranza nasce dai disperati, dagli abbandonati: saranno loro a trovare “un altrove di spine e diademi.”

Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello (premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita). Continua a leggere

Antonella Anedda vince il Premio Poesia Città di Fiumicino 2019

Antonella Anedda / credits ph Dino Ignani

È Antonella Anedda con “Historiae”, (Einaudi, 2019) la vincitrice della Quinta edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera di Poesia. Lo ha deciso la giuria tecnica composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino e Emanuele Trevi, nel corso della finale del Premio che si è svolta  a Fiumicino, sabato 26 ottobre, alle 18.30, nella sala convegni dell’Hotel Best Western Rome Airport. Alla serata hanno partecipato Stefano Dal Bianco, “Ritorno a Planaval”, (GiallaOro, Pordenonelegge, LietoColle 2018) secondo classificato, e Stefano Raimondi, “Il sogno di Giuseppe”, (Amos Edizioni 2019), terzo classificato.

Nel corso dello serata, condotta dal Angelo Perfetti, Direttore della testata “Faro on line” e dal presidente e ideatore del Premio, Gianni Caruso, con la partecipazione straordinaria di Viviana Nicodemo, è stato consegnato il Premio alla Carriera a Umberto Piersanti e sono stati consegnati i premi e i riconoscimenti a tutti gli altri partecipanti:

Continua a leggere

I finalisti e i vincitori del Premio Poesia Città di Fiumicino 2019

A Fiumicino, sabato 26 ottobre, alle 18.30, nella sala convegni dell’Hotel Best Western Rome Airport, (via Portuense, 2465) si svolgerà la serata finale del “Premio Poesia Città di Fiumicino 2019” con le letture dei poeti, la proclamazione del vincitore o della vincitrice per l’Opera di Poesia e la consegna dei numerosi premi e riconoscimenti.

Nel corso della serata la Giuria Tecnica, composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino e Emanuele Trevi, designerà il vincitore della Quinta Edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino 2019 per l’ “OPERA DI POESIA”.

Per la sezione “PREMIO PER L’OPERA DI POESIA”, finalisti Continua a leggere