Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia.

 

Dimenticate

Si sbracciano come in un sogno
o è l’abbraccio del fuoco e voi: dimenticate.
Dimenticate la gioia
che vi reclama e vi sfa
i gesti dentro un solo grande giorno di luce
che qualcuno disse la vita.
Dimenticate le mura che si aprono,
le macerie e il sale
d’ogni pianto che sbriciola
vetri e pensiero
e prepara il verde luminoso dei prati
mentre giorno dopo giorno
mette spore, dimenticate il bambino
scalzo che vola nell’aria e i bambini, tutti, il grande buio e
l’impossibile, il silenzio
che vi cresce intorno e prepara tutto,
e mai lo dite,
dimenticate le madri
che camminano nell’ombra e abbracciate in sogno fino all’ultimo
respiro, i vivi e
i morti che mai si ricongiungono. Questi sassi scagliati
contro un viso qualunque.
Dimenticate.
Tutto.

Ricomincerete: non il centro del buio
l’uscita dal buio era la sporgenza
alla fine, come in premio, la vita.

Oh ma questo no. Oh questo,
non lo dimenticate.

La vocazione della parola

di Luigia Sorrentino

Dimenticate – imperativo e categorico – dimenticate tutto. Perché il nulla è già abitato da noi. Dimenticate – participio passato – per far riemergere dal lontano, ciò che si è perduto, abbandonato, nella necessità del distacco dalle cose della vita. Sembra esserci, in questo titolo, e più ancora, nella poesia di Alessandro Santese, un’apparente contraddizione: c’è una progressione di accadimenti e di vita vissuta da «dimenticare» in quanto tutto è destinato alla morte, al nulla e, al tempo stesso, c’è lo sprofondamento, la regressione, nella forza e nel tempo dell’esperienza vissuta «dimenticata», da estrapolare dall’oblio nel quale si è depositata.

È bene chiarirlo subito: quello che ci attende, dall’inizio alla fine di questo poemetto, è la vocazione di una parola pura, che nulla nasconde dietro di sé perché tutto si mostri per quello che è. Ma l’atto del rievocare, ciò che siamo stati e ciò che non saremo più, provoca una divorante e asfissiante nostalgia di qualcosa che non si è mai posseduta del tutto e che si dirige nel linguaggio, verso una realtà percepita come ricordo.

Questo spazio poetico, scevro da condizionamenti estetizzanti, conduce il lettore nel regno dell’ombra, nel brodo primordiale, nella luce ustionante del fuoco che apre uno squarcio a una dimensione assoluta, cosmogonica, che tutto in sé contiene: il passato, il presente e il futuro.

E ancora, con voce sapienziale, imperativa, solenne, il poeta ripete «dimenticate» e in esergo ai versi che leggeremo scrive: “Perché ogni cosa venga/dal fuoco per ritornare al fuoco”. Versi che rivelano al lettore il destino che l’attende: il ritorno alla fiamma, al cosmo dal quale tutto il vivente proviene e ritorna.

L’esergo in calce ci rammenta che il poeta viene abitato dalla parola della poesia, da quest’arte speciale, contro la sua stessa volontà. Per Santese tutto ha un’origine e una fine: ecco, dunque che ogni cosa animata, diventa traccia di un respiro, fiato: viene dal fuoco, per poi ritornare al fuoco, al rito cosmico che consuma il ciclo e ricomincia nel tutto unico del rivivente. Ed è proprio il bruciare, l’ardere, l’ustione, l’iniziazione di questa poesia. Un’azione che incontra l’attitudine filosofica di un poeta alla costante ricerca del pensiero che fa emergere il futuro dal nulla, elemento questo, che caratterizza la poesia di Alessandro Santese, una delle voci più originali e promettenti della sua generazione.

L’incontro con il fuoco conduce a un atto di nascita, a un luogo d’origine nel quale il poeta si è nutrito e ha respirato, un luogo in cui la parola ha cercato la sua espressione vitale. Ed è proprio lì, nel luogo del creato, che Santese ha sperimentato la vita, “il piangere che ti accolse”, l’accadere del mondo e poi l’abbandono di ogni cosa vissuta: “accennando una via, un ritmo, una morte / tu seguila, amore, tu dimenticala”.

La poesia e il linguaggio di Alessandro Santese appartengono a un tempo che precede la storia, sono l’impronta lasciata da una forma quasi ancestrale, preistorica, “pietra / ustionata dalla luce”, spazio in cui la materia si dimena “agli angoli del buio” nel sogno della vita.

La capacità versificatoria di questo giovane poeta raggiunge un’intimità profonda quando ci accorgiamo che non smette, nemmeno per un istante, di interrogarsi sul significato dell’esistere, non arretra di un passo, neanche quando con consapevolezza è costretto a separarsi da ciò che ha amato, in un luogo in cui pulsa l’anima del mondo e dal quale tutti siamo usciti: “Si spezza nel sonno un altro sonno,/che ci dimentica/e non conosciamo/giurammo nulla è stato/se non questo/vedere l’anima del mondo/in una fiamma”.

La poesia di Alessandro Santese è una parola che vuole unirsi al silenzio, a una dimensione che colma ogni ferita, ogni strappo: “tutto il bene che è stato […] non lo potrai/mai dire, il silenzio/ancora che tocca le tempie e colma ogni crepa/ […].” Versi che sono una musica nel ritmo del divenire. Una parola, quella di Santese, che ricrea per ritrovare nella lingua della poesia, un’azione purificatoria, e lo fa con versi di efficacia notevole.

(Alessandro Santese, Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita 2019)

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Alessandro Santese (Roma,1990) vive a Milano, dove insegna in un istituto superiore. È autore del libro La luce e l’enigma. E. Montale, gli Ossi, per uno studio (Universitalia 2016). Di prossima pubblicazione la raccolta Vento nelle mani degli uomini (Crocetti editore).

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