Alessandro Santese, “Carezzami ti prego”

Un’opera d’esordio folgorante: Santese con “Vento nelle mani degli uomini”, ci riporta a una poesia di ampio respiro, a uno spazio cosmico che tutto crea e distrugge.

Alessandro Santese

Dimenticate

Si sbracciano come in un sogno
o è l’abbraccio del fuoco e voi: dimenticate.
Dimenticate la gioia
che vi reclama e vi sfa
i gesti dentro un solo grande giorno di luce
che qualcuno disse la vita.
Dimenticate le mura che si aprono,
le macerie e il sale
d’ogni pianto che sbriciola
vetri e pensiero
e prepara il verde luminoso dei prati
mentre giorno dopo giorno
mette spore, dimenticate il bambino
scalzo che vola nell’aria e i bambini, tutti, il grande buio e
l’impossibile, il silenzio
che vi cresce intorno e prepara tutto,
e mai lo dite,
dimenticate le madri
che camminano nell’ombra e abbracciate in sogno fino all’ultimo
respiro, i vivi e
i morti che mai si ricongiungono. Questi sassi scagliati
contro un viso qualunque.
Dimenticate.
Tutto.

Ricomincerete: non il centro del buio
l’uscita dal buio era la sporgenza
alla fine, come in premio, la vita.

Oh ma questo no. Oh questo,
non lo dimenticate.

*

Carezzami ti prego

Carezzami ti prego in questa notte sterminata
di voci e vetri grano grano ricomposti
nella carne
che ci tiene
svegli, alla notte, lungo un filo. Sai, è stato un attimo, e poi
siamo stati cancellati
dal canto e del mondo per ritornare
nel sangue
che agghiaccia un giorno
dentro un volto, e prende
un corpo, un altro
ancora e
sfiora vite, vede vite, sente vita alle labbra, prende
contorni e chiaroscuri, luci
e risa. L’attimo, l’unico, e poi…
fu luce immensa ai vetri
chiamò improvvisi all’amore
d’ogni solco nella carne
mia e tua, nella mente, d’ogni vuoto
bacio e ti lascio e ti lasciano i giorni
per entrare ora, dentro, nelle
ossa
fino al bruciare
improvviso del cristallino dentro un battito: “ora”,
ti prego, lasciami
entrare, o sarà niente
e saremo niente
polvere lacrime
di gioia e mai più.

*

Da me a te

Ciò che cade tra le mani e squarcia le mani, a metà: le apre nel      [sangue
una poesia, un grumo di luce e sogno, una liberazione
per coloro che vengono e ci leggono dentro
ogni cosa, le ramificazioni screziate dell’essere, l’albero fulgido, chinandoci la testa sopra
per morirci
sdraiati od entrare,
nel fiato della nottola nel sibilo della caverna
del firmamento che
rotea
assottigliandosi
nella marea delle nuvole sopra la fronte
come il bastone sollevato
a due mani per fare paura l’uccello grandissimo della morte, chiamando tutti
i venti a raccolta
nella scatola del cartone, nell’erba,
nella buca del pozzo,
nel granulo iridato di polvere
che slaccia volando
i capelli lunghissimi
alla donna
dispiegandoli nell’aria,

leggono: dei giocattoli del ridere e della gioia piovuti
dal baratro del firmamento
e nascosti, ora dopo ora, dentro il verde della terra,
della punta della piroga che si frantuma
come le ossa contro l’onda del nulla
dalla quale, un giorno, a nuoto, si nasce,

leggono
delle unghie dell’orso sognate in sogno
è un giorno conficcate
lentamente
nel costato,

delle lingue inusitate e demolite
avverate nel libro di tutti i leggenti
di tutti i veggenti
di tutti i soldati
di tutti i salpati,
i giochi, gli ammanchi,

del battito miracolato dei cento talloni
sulla terra arrossata di polvere
per il troppo danzare, per il troppo gioire, per il troppo ardere,
perché la falena elettrica degli occhi
sbigottisse una mattina di fronte alla pagina bianca e sterminata
del libro della poesia aperto sulle cosce
dal quale andavano leggendo,
leggendo, dell’uomo e della
donna, accovacciati l’uno nell’altra, mentre disegnano
per terra, senza volerlo, in silenzio,
gridando, una storia diversa,
accovacciata in altre storie,
granello di sabbia in granello di sabbia, da te a tutti, saltando tutto, ogni cosa; da me a te.

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Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Odisseas Elitis, Poesie

Odisseas Elitis

Elena

Uccisa con la prima goccia della pioggia l’estate
Madide le parole un tempo madri a chiaro d’astri
Parole tutte destinate solo a Te!
Dove mai tenderemo le mani ora che il tempo non ci calcola più
Dove mai getteremo gli occhi oramai che le remote linee
hanno fatto naufragio nelle nubi
Ora che le tue palpebre sopra i nostri paesi sono chiuse
E siamo – come invasi dalla nebbia – soli
Soli assediati dalle tue sembianze morte.

Con la fronte sul vetro vegliamo il nuovo cruccio
Non è la morte che ci abbatterà se ci sei Tu
Se un vento altrove c’è che tutta intera ti vivrà
Ti vestirà da presso come la speranza nostra ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde di là dal tuo sorriso fino al sole
E gli confida che c’incontreremo ancora
Non è la morte che fronteggeremo no
Ma così breve goccia della pioggia d’autunno
Un sentimento torbido
L’odore della terra infradiciata nelle anime nostre che s’allontanano via via

Se non è la tua mano nella nostra
Se non è il sangue nostro nelle vene dei tuoi sogni O la luce nel cielo immacolato
E dentro noi la musica segreta – malinconica
Pellegrina di tutto ciò che ci tiene al mondo ancora
È quest’umido vento l’ora dell’autunno il distacco
L’amaro appoggio del cubito al ricordo
Che spunta quando già la notte sta per scinderci dal chiaro
Di là dalla finestra quadra
Che guarda sull’angoscia e nulla vede
Perché s’è fatta musica segreta vampa al focolare bàttito
dell’orologio grande alla parete
Perché s’è già cangiata
In poesia – verso su verso – in suono parallelo a pioggia lacrime parole
Altre parole eppure anch’esse destinate solo a Te!

*

La Passione

Salmo II

Lingua mi diedero greca,
povera casa sui lidi d’Omero.
La lingua mi fu l’unica cura sui lidi d’Omero.
Ivi la perca e il sarago
ventosi verbi
verdi correnti nell’azzurro
e ciò che vidi accendersi nei visceri
spugne, meduse
con le prime parole di Sirene
conchiglie rosa con le prime strie di nero.
La lingua mi fu l’unica cura con le prime strie di nero.
Ivi cotogne, melagrane
e bruni iddii, cugini e zii
l’olio che si vuotava nelle botti immense
aliti dalla correntìa fragranti
di giunco e di lentischio
di ginestra e di zenzero
coi primi zirli dei fringuelli;
salmodie dolci con i primi Gloria Patri.
La lingua mi fu l’unica cura con i primi Gloria Patri!
Ivi palme ed allori
l’incenso vaporante
benedicente spade e carabine.
Sul terreno – un ammanto di vigneti –
nidore, brindisi di uova
Cristo è risorto
coi primi botti degli spari greci.
Mistici amori con l’incipit dell’Inno.
La lingua mi fu l’unica cura con l’incipit dell’Inno!

Odisseas Elitis, Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, traduzioni di Filippo Maria Pontani, Filippomaria Pontani e Nicola Crocetti, Crocetti/Feltrinelli.

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L’ “Odissea” di Kazantzakis, evento on-line

Giovedì 20 maggio 2021 – 19:30

L’ “Odissea” di Kazantzakis – memory lane + anteprima (80′)

LINK PER DIRETTA VIDEO: https://youtu.be/MS3L729RQW0

La serata di oggi, 20 maggio 2021, organizzata dalla Casa della Poesia di Milano è a cura di Milo De Angelis.
Voce recitante: Viviana Nicodemo.
Sarà presente Nicola Crocetti.

In occasione della sua uscita in volume (Crocetti, 2020), riproponiamo la serata del 15 maggio del 2019, in cui Milo De Angelis presentava l’”Odissea” di Nikos Kazantzakis nella traduzione di Nicola Crocetti, che ha lavorato per molti anni a questo magnifico poema dello scrittore greco (autore tra l’altro di “Zorba il greco”) e ora finalmente è giunto al termine di questa impresa titanica.

L’”Odissea” di Kazantzakis, pubblicata per la prima volta nel 1938 e composta di 24 canti – come le lettere dell’alfabeto greco e come i poemi omerici – è ricchissima di invenzioni linguistiche e neologismi che hanno fatto disperare tutti i traduttori del mondo. Ma in compenso ci immerge in una scena epica grandiosa, rinnovando fin dalla radice il suo protagonista, Ulisse: tornato a Itaca e annoiato dalla monotona atmosfera del luogo, egli riprende il suo infinito viaggio e cerca un nuovo significato per la sua vita e per la nostra.
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Una poesia di Lars Gustafsson

Lars Gustafsson

 

Vita

La vita scorre attraverso il mio tempo,
e io, un volto non rasato,
dove le rughe sono profonde, analizzo
le tracce.

Pensieri come bestiame,
avanzano sulla strada per bere,
estati perdute ritornano, ad una ad una,

profonda come il cielo viene la malinconia,
per la pianta di carice che fu,
e le nuvole che allora rotolavano più bianche,

eppure so che tutto è uguale,
che tutto è come allora e irraggiungibile;
perché sono al mondo,

e perché mi prende la malinconia?
E gli stessi lillà profumano come allora.
Credimi: c’è un’immutabile felicità.

Lars Gustafsson nella traduzione di Enrico Tiozzo. Dalla rivista “Poesia”, n. 249, Crocetti Editore

Liv

Liv strömmar genom min tid.
och jag, ett orakat ansikte,
dar vecken djupnar, granskar spåren

Tankar som boskap
fram till vågen för att dricka,
förlorade somrar återvänder, en för en,

kommer ett himmelsdjupt vemod
över ett stanrgras som var.
och molnen som rullade vitare då.

och anda vet jag att allt år detsamma
att allt år som då och oåtkomligt:
varför ar jag i världen.

och varför kommer det till mig?
Och samma syrener doftar som då:
Tro mig: det finns en oföränderlig lycka.

Lars Gustafsson, un testo da “En privatmans dikter”

 

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Philippe Jaccottet, “Quegli ultimi rumori…”

Philippe Jaccottet

NOTA DI LETTURA DI LUIGIA SORRENTINO

Questo libro di Philippe Jaccottet pubblicato nel 2008 con Gallimard, esce  nel 2021 con Crocetti Editore a cura di Ida Merello e Albino Crovetto.

Un’opera eterogenea, nella quale visioni della natura, ricordi e sogni si accompagnano a citazioni di altri scrittori e poeti a lui vicini, che creano quello che potrebbe essere definito un mosaico testuale all’interno del quale diversi generi letterari si uniscono amalgamati dalla visione del poeta e lo rendono riconoscibile da un altro punto di vista.

L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro, diventano trasparenti, di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa. Così l’anima è davvero trasformata in uccello”.

Queste parole scritte da Jaccottet nel 1954 possono essere interpretate come il desiderio di superare l’ io poetico per eliminare la distanza da letture che portano oltre: Giacomo Leopardi, Peter Handke, Kafka, le poesie ritrovate di Ingeborg Bachmann, quelle del poeta polacco Premio Nobel per la letteratura Zbigniew Herbert e altri.

Le parole degli scrittori e i versi dei poeti citati che entrano nel mondo del poeta svizzero, rivelano a Jaccottet “l’istinto che permette alle cose di lasciarsi trasportare dolcemente nell’aria, verso l’alto”, per raggiungere la pienezza  in cui ogni confine è annullato.

Leggendo questo libro si entra in uno spazio fisico senza limite,  nel quale i vari materiali testuali interiorizzati delineano il ritratto culturale e emotivo del poeta Philippe Jaccottet.

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Procida, la rivincita della Poesia

di Monica Acito

 

 

La conquista dell’Italia minore, quella dei borghi e dei grappoli d’azzurro pescati sui fondali marini. La rivincita della lentezza,  del tempo dilatato e dell’odore dei limoni. “Procida, la cultura non isola”: questa è la formula del dossier che ha incoronato Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Ma Procida in quanto isola ci ricorda anche che ognuno di noi è un’isola, insondabile, irraggiungibile, impenetrabile, da difendere, da tutelare come bene assoluto. Ed è la prima volta che una piccola isola ha trionfato, sbaragliando una folta concorrenza. Procida si è laureata Capitale Italiana della Cultura per tante ragioni, ma vi è anche una motivazione poetica, una radice al di là del tempo.

Non è stata decisiva solo la dimensione patrimoniale e paesaggistica, e nemmeno la possibilità di uno sviluppo sostenibile delle realtà isolane e costiere del Paese: a fare la differenza è stato, anche a detta della giuria, soprattutto il messaggio poetico che scaturisce da questa scelta. Una piccola isola che punteggia il golfo di Napoli, che brilla in mezzo al mare e colpisce, con la sua luce, tutta la penisola; un puntino che pulsa di vita, che insegna che la cultura non dipende dalla posizione geografica, ma dalla vocazione e dalla volontà di costruire un discorso comune. Perché la cultura non è isolamento o esilio; non è soltanto un orpello da indossare col vestito buono della domenica, o un trofeo da tenere su una mensola per impressionare il proprio interlocutore. La cultura è sale marino, villaggi di pescatori, sudore e orizzonti tremolanti di mare; la cultura è fatta di storie che attraversano le grotte e le insenature di un’isola e che diventano eterne, magnificando se stesse nel momento stesso in cui prendono corpo. L’isola non è soltanto un coagulo di terra e rocce, che svetta in mezzo al mare: possiamo affermare, con orgoglio e una certa dolcezza, che l’isola è un vero e proprio genere letterario.

Al di là del nome: che si chiami Procida, Ischia, Capri o Itaca, l’isola è sempre Madre e mai matrigna, un ventre a cui tornare per ritrovare quella vita ancestrale che solo la poesia può rievocare.

L’orizzonte letterario dell’isola di Konstantinos Kavafis è Itaca: un approdo, un punto d’arrivo, ma anche un posto del mondo dal quale ripartire, un luogo che ha l’odore dello iodio e la crudezza della libertà. Kavafis viaggia per scoprirsi e liberarsi, e l’isola diventa il suo corrispettivo terrestre.

Sì, perché l’isola, a prescindere dal nome con cui viene chiamata, è la meta finale del nòstos (νόστος): il poeta si mette in viaggio, solca il mare e lascia dietro di sé scie d’inchiostro. Alle rocce affida i suoi segreti e la dimensione dell’isola gli riconsegna sempre la verità luminosa e incandescente. Cosa rimane alla fine del viaggio verso l’isola? Gli rimane proprio il viaggio, che è il più prezioso dei doni da affidare all’immaginario del poeta, che saprà plasmarlo e addomesticarlo.

Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.

(Konstantinos Kavafis, Itaca, vv.31-36, Tutte le poesie, Einaudi, 2015, a cura di Nicola Crocetti)

Itaca come Procida, contiene e diffonde gli spasmi del poeta; isola a cui alla quale tornare, per sentirsi figli di divinità mai tramontate, perché i numi dell’isola sono semplici, composti di acqua, minerali ed elementi naturali.

E non importa quale sia il nome del lembo di terra o del costone roccioso, perché l’essenza spudorata e primigenia della poesia vivrà sempre, tra le fessure e gli anfratti di ogni isola.

Il nome di Procida è, innegabilmente, nome poetico di ampio respiro.

Iosif Brodskij

Procida riecheggia in una poesia del poeta russo Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, ed è sempre emozionante osservare il profilo dell’isola attraverso gli occhi di un poeta che ha saputo essere sia “classico” che “contemporaneo”, qualsiasi sia l’accezione di entrambi i termini. Perché l’isola è classica, patria del mito, ma è anche e soprattutto contemporanea perché continua a contenere il sangue della nostra civiltà, è culla della poesia e attualità che non possiamo ignorare. E ancora di più non possiamo ignorarlo adesso.

Procida

Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.

Un gabbiano artiglia l’orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.

(Iosif Brodskij, “Poesie italiane” Adelphi, 1996, traduzione di Giovanni Buttafava)

Reti stese ad asciugare e fissate, nello sguardo del poeta, come parenti dei lenzuoli. Uno sguardo quasi chiaroveggente, purificato dal sale dell’isola, che rende tutto più nitido. I colori sono perfettamente messi a fuoco, la mossa del gabbiano è precisa e chirurgica, e il blu di Procida è un vero e proprio manto che avvolge tutta la poesia con grazia e decisione.

Il tocco finale, con la stella incandescente che s’incendia, sembra offrirsi al lettore come un martirio estremo, quello della poesia che prende fuoco nel cielo e si offre a tutti, disperdendosi negli atomi di sale, acqua e sabbia.

Che l’isola possa assumere le sembianze di una Madre lo riscontriamo anche nel poema in versi di Luigia Sorrentino. Olimpia si trasforma in una creatura immensa, gravida di mare e di umanità. Ed è con il peso dell’umano nel grembo che la creatura approda alla piccola isola.

Coro 1

tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava lì sotto e dentro

questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa

le acque la accolsero

e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola, tutti
portava nel suo grembo

(Luigia Sorrentino, Olimpia, Coro I, Iperione, La caduta, Interlinea, 2013, 2019)

L’isola è dunque l’approdo gravido d’umanità di una Madre in un luogo senza confini dal quale si staglia una voce che rivela all’umano la notte del grembo.

La Sorrentino come un oracolo, con versi chiari e luminosi, sembra sussurrare al mare parole che smuovono le onde: “c’è una notte arcaica in ognuno di noi / una notte dalla quale veniamo/ una notte piena di stupore/ quella perduta identità dei feriti,/ si popola di volti”, e ci ricorda che tutti proveniamo dallo stesso seme notturno, e quella notte arcaica rimarrà sempre nel nostro codice genetico, come una condanna o una rivelazione.

Ed è proprio dall’approdo al profilo roccioso dell’isola, da quella notte arcaica, che possiamo scoprire la nostra vera identità di naufraghi. Dalla notte possiamo risollevarci, rinascere e purificarci, guardando il mare dal profilo dell’isola che accoglie e rigenera.

Non è Procida l’isola della Sorrentino, o forse sì, potrebbe esserlo. Perché un’isola è sempre un’isola, da qualunque parte la si osservi, è una terra emersa dalla quale far emergere la coscienza, la consapevolezza di ciò che siamo. Continua a leggere

L’Odissea di Kazantzakis tradotta da Crocetti

Nikos Kazantzakis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Nel 1956 il Premio Nobel per la Letteratura è assegnato ad Albert Camus, che diviene il più giovane detentore dell’ambita onorificenza. Lo scrittore francese di origine algerina, con eleganza d’antan, invia un telegramma al più anziano collega : «Voi l’avreste meritato cento volte di più». Di fatti — si saprà in seguito — in quella tornata l’autore neogreco arrivò secondo, fortemente penalizzato per altro dal suo stesso paese che «si mobilita, non già per sostenerlo, bensì perché non gli venga assolutamente assegnato il prestigioso riconoscimento». È quanto scrive Nicola Crocetti nell’informatissima introduzione all’Odissea di Kazantzakis, opus magnum del poeta cretese, diviso in 24 canti — come le lettere dell’alfabeto greco — e composto dal «numero sacro» di 33.333 versi (5.527 in più dei poemi omerici messi insieme!) in decaeptasillabi, una sorta di metro barbaro che tenta di ricreare il ritmo degli esametri classici.

L’Odissea costa al suo versatile artefice 13 anni e mezzo di lavoro (dal 1925 al 1938), 7 stesure autografe, 240.000 versi redatti a mano, con un esercizio di scrittura che arriva anche a 200 decaeptasillabi quotidiani e con la presenza di 7.500 athisàvrista, ossia parole introvabili sui vocabolari, trascritte personalmente sul taccuino e recepite nelle isole Cicladi, espressione della cosiddetta dimotikì, la lingua popolare.


Ma il multiforme ingegno di Kazantzakis non era nuovo a imprese di questo genere: fu traduttore infaticabile dell’Iliade, della Divina Commedia, di Shakespeare, del Faust di Goethe e anche di Bergson, Darwin e Nietzsche, autore di drammi, opere di poesie, romanzi (si pensi a Zorba il greco, Il poverello di Dio e L’ultima tentazione, portata al cinema da Scorsese nel 1988). La sua «sconfinata fantasia» e la «prodigiosa capacità lavorativa» divengono presto leggendarie. Siamo, infatti, dinanzi alla vastità di un’intelligenza come poche nell’intero Novecento, uno scrittore profondamente incompreso a causa dei suoi rimpasti filosofici e ideologici (un eclettismo à la Posidonio), di quell’ibridismo sincretico che è alla base della sua stessa concezione religiosa.

La parola d’ordine dei libri di Kazantzakis è forse contaminatio, ossia quella tecnica di fusione di registri stilistici e visioni spirituali che ha come risultante un condensato caleidoscopico: non stupisce allora che il sequel dell’Odissea omerica, fluvialmente composta dal poeta di Iraklio classe 1883, funzioni come una «sintesi di tremila anni di storia del pensiero» e appaiano nel corso del poema Gesù (il Pescatore Gentile), Don Chisciotte (Capitan Uno), Buddha e addirittura Trotsky, Lenin e Stalin sotto mentite spoglie.

Ma qual è il significato profondo del testo? «Tutta l’opera di Kazantzakis — scrive Crocetti che ha lavorato indefessamente alla traduzione per quasi un decennio, producendo per altro una versione armoniosa e naturale, premiata recentemente dai lettori del Corriere della Sera —, e l’Odissea in particolare, è animata dalla lotta del bene contro il male. Secondo l’autore cretese, il compito di un poeta e di uno scrittore non dev’essere la ricerca del bello, ma la verità; non la creazione di un’utopia, ma la trasformazione dell’utopia in realtà». Dietro alle ottime aspirazioni si cela però un «pessimismo eroico» e il tentativo ulissiaco di fondare una Città ideale fallisce con l’esaurimento delle forze tensive.

L’Odissea, monstrum letterario che richiama a sé in un unico calderone lo scibile, racconta l’evoluzione stessa dell’umanità, il desiderio di grandezza, la sete inesausta di avventure e lo scontro con il trascendente (come Giacobbe e l’angelo di Dio), lo smisurato anelito dell’uomo non soltanto verso la conoscenza — aspetto che Kazantzakis ha mutuato dall’Ulisse dantesco —, ma soprattutto verso un principio di pienezza e di pace, già ravvisabile nelle prime battute dell’epos (Proemio, vv. 1-3): «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,/ che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,/ perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi». Le trappole logiche e i paradossi insiti nella poesia di Kazantzakis, persino nell’impurità linguistica, sintattica e ortografica, coincidono con le misticheggianti antinomie del suo pensiero, con il suo immaginare Dio ostaggio d’amore dell’uomo.

Magnifico è l’episodio in cui la Morte si addormenta e sogna la vita (canto VI, vv. 1265-1292): «Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,/ che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,/ che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra/ passeggino donne nobili e cantino le schiave».

 

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Vivian Lamarque, “Il signore d’oro”

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

Torna in libreria dopo 34 anni “Il signore d’oro” di Vivian Lamarque, stampato per la prima volta da Nicola Crocetti nel 1986 e ristampato nell’ottobre del 2020 nelle nuove collezioni di poesia Feltrinelli/Crocetti.

In anteprima vi proponiamo il testo di Vivian Lamarque che apre la ristampa.

QUANTO HA DOVUTO LAVORARE IL MIO DOTTORE

DI VIVIAN LAMARQUE

Il signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra sinistra c’era una finestra
alla loro sinistra destra c’era una porta.
Non c’erano specchi eppure in quella stanza
profondamente ci si specchiava”.

Sono passati quasi quattro decenni. Tutto era iniziato ( finito mai) il 14 febbraio del 1984, avevo 38 anni.
Da anni sentivo forte necessità di un soccorso, alcuni amici poeti mi consigliavano un’analisi lacaniana, altri una junghiana.
Nel dubbio le iniziai tutte due, antico vizio.
Il dottore lacaniano aveva studio nel centro di Milano, sotto prestigiosi portici. Strano, da quella lussuosa portineria usciva quel giorno il plebeo odore buono di certi minestroni che si mangiano da bambini, salii di corsa, emozionata, credo che la mia prima parola al celebre lacaniano sia stata minestrone.

Il dottore junghiano aveva studio quattro gradini sotto il livello stradale, in un bel palazzo vicino alla Rai di Corso Sempione, con tutte quelle antenne, quelle grandi orecchie. Nessuno stava cucinando niente, credo che le prime o seconde parole siano state se Lei muore da chi vado?

La prima seduta lacaniana era durata meno di 30 minuti, non avevo fatto in tempo neppure a nominarli tutti quei miei svariati genitori che lui aveva detto può bastare.
La prima seduta junghiana dal Dott. B.M. ne durò 90. Riuscii a elencargli non solo tutte quante le figure genitoriali comparse sulla scena, ci fu addirittura tempo anche per le loro scomparse (3 su 4 al compimento del mio quarto anno di vita ).
Da lui mi aveva indirizzata la sua collega del Cipa Dott. Faretra (“astuccio per conservare sul dorso le frecce”) e la freccia del transfert scoccò con una velocità inaudita. Non c’era dubbio che mi avrebbe sposata, anche se forse non subito.

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
Enellarealtà?
La realtà non c’ era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.

Abdicata da decenni: “con una bianca gomma / aveva cancellato l’inutile linea di confine”. A 10 anni giravo per cimiteri ebraici alla ricerca di nomi della mia famiglia d’origine, “ma errore, confondeva persecuzione e paese, i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese”. A quindici credevo che una mia prof fosse mia consanguinea e scrivevo nel diario “oggi mi ha dato 4 (per non fare differenza con le altre)…. oggi mi ha dato 7 (la voce del sangue è stata più forte)”..

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore! Non ve lo potete immaginare.
Anch’io però ce la mettevo tutta. Per meritare di essere sposata.
Manterrò in queste righe un tono lieve (“la mia superficie è felice /
ma venga venga a vedere / sotto la vernice”), ma è stata un’analisi drammatica e potente, ottovolante di sapienti accoglienze e rifiuti.

I mesi passavano, la mia mano non veniva richiesta. Per la mia testa abdicata, che il mio Dottore fosse già felicemente coniugato e con figlia contava zero di zero (io da mio marito Paolo Lamarque – che sempre mi incoraggiò a scrivere – ero separata, benché conservatrice abusiva del bel cognome, ). Infine capii: questione di deontologia, ero sua paziente, bastava non esserlo più, conclusi dall’oggi al domani l’analisi e iniziai un’euforica attesa. Continua a leggere

Ghiannis Ritsos, il mestiere del poeta

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Di non molti altri poeti nel Novecento si può dire che abbiano assolto al loro primo mestiere — la poesia, appunto — giornalmente, quasi con la puntualità di chi sta timbrando un cartellino. Ghiannis Ritsos, classe 1909, originario del borgo peloponnesiaco di Monemvasia, tra i massimi autori della cosiddetta letteratura neogreca, è certamente uno di questi. Desta ammirazione, per non dire commozione, il paziente annotare (con strizzata d’occhio al lettore mon frère) le date, i giorni in rapide sequenze che sapidamente lasciano intravedere persino la combustione, l’acme e poi l’esaurimento di una vena espressiva non soltanto vorace, ma altresì iterabile nei suoi cangianti risvolti lirici. Di questa triplice silloge in un unico libro, in un conchiuso stigma, corredata della preziosa introduzione di Louis Aragon(mutuata a sua volta dall’edizione gallimardiana del ’71), sappiamo che è stata scritta tra il ’68 e il ’69, nel torno di tempo in cui Ritsos «era confinato nei campi di concentramento sulle isole di Ghiaros e Leros, e poi soggetto a domicilio coatto a Karlòvasi, nell’isola di Samo». Su tali pagine solide e saline, cariatidee e corrose dal flusso puntellatore del divenire, pesa il lusinghiero giudizio di Aragon, il quale suggerisce con un certo entusiasmocome Ritsos sia «il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro».

Sicuramente Ritsos è un maestro nell’equilibrio (tutto modernista, eliotiano) tra la quotidianità e il risorgere sommesso della storia, del mito («Forme mobili, disfatte; — l’inquietudine molteplice/ e la fluidità insidiosa — sentire il rumore dell’acqua tutt’intorno/ imponderabile, profondo, incontrollabile; e tu stesso incontrollabile,/ quasi libero», Disfacimento). L’orecchio di Ritsos, allenato alla camusiana pensée méridienne, sembra adoprarsi a un ascolto furtivo, che spesso ha il carattere rivelatorio dell’occasione («Soffiò un vento improvviso. Le pesanti persiane cigolarono./ Le foglie si sollevarono da terra. Fuggirono via./ Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste adesso», Con queste pietre). È possibile ravvisare un’evoluzione intrinseca, una nuova consapevolezza nelle poesie diaristiche che vanno dalle Pietre alle Sbarre? Be’, innanzitutto, c’è un’evoluzione materica, in senso letterale e letterario, dunque stricto sensu (ossia al di là di ogni materialismo storico, benché siano note le posizioni ideologiche del poeta greco, la cui candidatura al Premio Nobel fu letta in maniera pregiudiziale proprio a causa del suo orientamento politico). Continua a leggere

Bernhard, “Sotto il ferro della luna”

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Le 56 liriche che compongono Sotto il ferro della luna (1958), terza silloge nella breve parentesi poetica di Thomas Bernhard (dal ’63 in poi, con la pubblicazione di Gelo, si dedicherà interamente al romanzo e al teatro), nascondono alcune delle linee tematiche essenziali nell’opera dello scrittore austriaco.

Come per In terra e all’inferno e In hora mortis, troneggia la scena il paesaggio, docile e spaventoso, della provincia austriaca, simbolo o relato di una condizione egologica: paesaggio, dunque, che assume quasi le vesti di una persona loquens, che acquista sentimenti e sommovimenti umani, che si fonde con l’io autoriale nell’opaca silva del verbo per far risuonare un’ulteriore dimensione di sapienza (o anche d’insipienza) delle cose. Si tratta di una prosopopea imperfetta, ossia di un lasciare che gli oggetti immateriali esprimano qualcosa coincidente il più delle volte con lo stato d’animo del poeta, il più delle volte orientato al pensiero della morte e alle sue implicazioni psicologiche.

 

D’altra parte, i termini residuali maggiormente frequenti di questo paesaggio montano e boschivo sono «polvere», «sangue», «pietra», «cenere» (ma anche «luna», «stelle», «alberi», «foglie»). Da un lato l’«egra terra», dall’altro la «luce», le «nuvole», l’alto, l’heideggeriano Aperto.

L’evidente matrice espressionista dei testi capovolge l’idillio bucolico in un inquietante rimando di motivi notturni, al limite dell’orrore («Il bosco avvolgerà le sue ossa/ nell’irrequietezza/ e ti butterà giù/ il vento/ che dal bianco nascondiglio/ di caprioli disfatti/ colpisce.// Il sole seppellirà/ la sua piaga/ dietro i tronchi morenti»). Prosopopea, correlativo oggettivo, sintassi analogica: è chiaro sin dal titolo (a suo modo leopardiano) l’accostamento tra l’esteriore e l’interiore, quella prossimità — tipica della poesia — tra l’interno e l’esterno, lo scambio osmotico di circostanze psichiche ed eventi naturali. L’orrore del paesaggio, il presagio funesto nel «ferro lucido della luna» e «il rigido/ piede dell’uccello gigante/ cui hai confidato/ il tuo lutto/ in inverno» sono elementi che suscitano e al contempo esorcizzano la paura della morte, intesa però come non pienezza di vita, non letizia, non splendore, opacità. Continua a leggere

Poesia e destino, la tragedia e l’eroismo

In occasione della imminente presentazione a Pordenonelegge (giovedì 19 settembre) della nuova edizione di Poesia e destino (Crocetti, 2019) di Milo De Angelis, pubblicata per la prima volta nel 1982 e mai più ristampata, riporto qui un saggio estratto dalla prima parte del libro.

L’autore ripropone nel 2019 integralmente il volume stampato da Cappelli nel 1982 senza alcun ripensamento. Anche la copertina ha la stessa immagine in primo piano: Tohotaua, la ragazza amata da Gauguin nell’ultimo periodo della sua vita nelle isole Marchesi.
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Le figure del mito in Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

GHIANNIS RITSOS, QUARTA DIMENSIONE

commento di Bianca Sorrentino

Il fascino struggente della rovina, il passato che si sgretola e solo nel ricordo conserva il suo splendore, due donne che imbiancano, ma la cui nobiltà non avvizzisce. La Signora in Nero ed Elena, arcane figure del mito, rivivono in una Grecia muta e arrugginita; come fantasmi di una libertà lontana, le creature di Ritsos non rinunciano alle parole e travolgono con il loro dire l’interlocutore silenzioso, riscattando così quel gravoso tacere che la dittatura impone al poeta.

 

Estratto da LA SONATA AL CHIARO DI LUNA

Lasciami venire con te. Che luna stasera!
La luna è buona – non si vedrà
che si sono imbiancati i miei capelli. La luna
me li farà di nuovo biondi. Non te ne accorgerai.
Lasciami venire con te.

Con la luna ingrandiscono le ombre nella casa,
mani invisibili tirano le tende,
un dito pallido scrive sulla polvere del piano
parole dimenticate – non le voglio sentire. Taci.

Lasciami venire con te
poco piú avanti, fino al recinto del mattonificio,
fin dove la strada svolta e appare
la città d’aria e di cemento, calcinata dal chiaro di luna,
cosí indifferente e immateriale,
cosí positiva, quasi metafisica,
che puoi finalmente credere che esisti e non esisti
che non sei mai esistito, non è esistito il tempo con la sua rovina.
Lasciami venire con te.

Ci sederemo un poco sul muretto, sull’altura,
e rinfrescandoci al vento di primavera
forse immagineremo pure di volare,
perché spesso, e perfino ora, sento il fruscío della mia veste
che pare il battito di due ali forti,
e quando ti chiudi in questo rumore del volo
senti irrigidirsi il collo, i fianchi, la tua carne,
e cosí stretto nei muscoli del vento azzurro,
nei nervi robusti dell’altezza,
non ha importanza che tu parta o torni
né conta che i miei capelli siano bianchi,
(non è questo che mi dà pena – mi dà pena
che non mi s’imbianchi anche il cuore).
Lasciami venire con te.

Lo so, ciascuno cammina da solo verso l’amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L’ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te.

Ghiannis Ritsos nella traduzione di Nicola Crocetti (Crocetti Editore, 2013) Continua a leggere

Un murale per Alda Merini

alda-merini 

Sabato 21 marzo dalle ore 17

LA BRIGADA OLINDA  e IL TEATRO DELLE DONNE

in occasione dell’anniversario della nascita della poetessa Alda Merini, 21 marzo 1931,  dipingeranno, sulle mura all’internodell’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini,  un murale della sua poesia

Le sfide, le folgorazioni e le pagine più struggenti della grande poetessa italiana. La lirica, le improvvisazioni, gli aforismi, i poemi in prosa. E poi il manicomio, la sua Milano, le battaglie combattute, le guerre vinte. Ma soprattutto l’amore, da dare e ricevere, e la tormentata ricerca di libertà. Da Vuoto d’amore a Superba è la notte, una collana in 16 uscite, curata da Nicola Crocetti, per celebrare il mito della poetessa, della scrittrice, della donna forte, vera, capace di lasciare un segno nella nostra letteratura. E nella nostra memoria. Continua a leggere

Anna Ruotolo, "Secondi luce"

 
Anna 63[1]Secondi Luce“, di Anna Ruotolo, (LietoColle, Faloppio, 2009 – seconda edizione 2011. Nuova ristampa 2014)
Nota dell’autrice
Il secondo luce è un’unità di misura della lunghezza che impiega il tempo. Ma spazio e tempo, in generale, danno forma alle vicende umane, sentimentali, esperienziali, interiori. “Secondi luce” ha nel suo dna il tentativo di inventare un suo tempo e un suo spazio, nel “luogo più giusto” che è, appunto, la poesia.
Questi versi raccontano storie vicine e lontane, dialogano con persone di passaggio – lampi nei giorni sempre uguali – o persone che, con la loro storia minima e insieme grande nel mondo, hanno aggiunto senso alla mia storia minima. Tutte queste facce sono ricomprese nel nome “Guido” (a cui è dedicato il libro, oltre che a tre giovani donne, le mie sorelle, Nicoletta, Chiara e Manuela) che vuol dire “colui che viene da lontano” e che talvolta ritorna o riparte in una notte d’inverno con la forza e la tenacia di chi sa rompere un patto di luce. È un viaggio nel tempo e nello spazio, fino alla rivelazione che solo la parola può fare “meno oscure le città”.
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Crocetti in Sardegna per la ricorrenza dei 25 anni di Poesia

Appuntamento

In Sardegna, a Cagliari e ad Alghero, il 18 e il 19 ottobre 2013 si terranno degli eventi per festeggiare i 25 anni della Rivista Internazionale Poesia  diretta dall’editore Nicola Crocetti.

La ricorrenza, che porta il titolo di “Estuari diversi: 25 anni di Poesia“, è un ciclo di incontri in forma di discussione con l’editore Nicola Crocetti e vari autori, poeti, monaci, che hanno stabilito con la Sardegna un legame di spirito, lingua e tradizione.

L’evento intende approfondire i 25 anni di Poesia con uno sguardo verso l’arricchimento culturale che l’Italia della poesia ha avuto grazie al prestigio della rivista e della casa editrice (si pensi alle traduzioni di Tranströmer e Heaney, apparse con notevole anticipo rispetto al riscontro mediatico e letterario mondiale che hanno poi ricevuto). Continua a leggere