Ilse Aichinger, “Consiglio gratuito”

Ilse Aichinger, per gentile concessione

GEBIRGSRAND

Denn was täte ich,
wenn die Jäger nicht wären, meine Träume,
die am Morgen
auf der Rückseite der Gebirge
niedersteigen, im Schatten.

MARGINE DI MONTE

Che mai farei
se non ci fossero i cacciatori, i miei sogni,
che al mattino
sul lato opposto dei monti
scendono, in ombra.

SONNTAGVORMITTAG

Gott zu lieben,
ihn anzubeten
und ihm allein zu dienen.
Rastend
auf dem Weg zu den Höfen
zur bestimmten Stunde
aus der Ferne gesehen
über dem Schnee.

DOMENICA MATTINA

Amare Dio,
adorarlo,
obbedire a lui soltanto.
In una sosta
lungo il cammino per le cascine
all’ora stabilita
visto da lontano
sulla neve.

WIDMUNG

Ich schreibe euch keine Briefe,
aber es wäre mir leicht, mit euch zu sterben.
Wir ließen uns sacht die Monde hinunter
und läge die erste Rast noch bei den wollenen Herzen,
die zweite fände uns schon mit Wölfen und Himbeergrün
und dem nichts lindernden Feuer, die dritte, da wär ich
durch das fallende dünne Gewölk mit seinen spärlichen Moosen
und das arme Gewimmel der Sterne, das wir so leicht überschritten,
in eurem Himmel bei euch.

DEDICA

Non vi scrivo lettere,
ma non farei fatica a morire con voi.
Ci calammo pian piano giù per le lune,
la prima sosta ancora ai cuori di lana,
la seconda già con i lupi e il verde dei lamponi,
e con il fuoco che non lenisce nulla, alla terza sarei allora,
attraversate le nubi sottili che discendono con muschi radi
e il povero brulichio delle stelle, da noi superato senza fatica,
nel vostro cielo con voi.

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Rosmarie Waldrop, “La riproduzione dei profili”

Rosmarie Waldrop

FATTI

 

Avevo dedotto dalle immagini che il mondo era reale e per questo mi fermavo, perché chi sa cosa può accadere se parliamo di verità salendo le scale. Di fatto, avevo paura di seguire l’immagine fino a dove raggiunge la realtà, contro cui si poggia come un righello. Pensavo che sarei morta se il mio nome non mi avesse toccata, o se l’avesse fatto soltanto con la sua estremità, lasciando l’interno aperto a così tante antenne come una pioggia casuale che scroscia dalle nuvole. Hai riso e hai detto a tutti che avevo preso la Torre di Babele per Noè nella sua Ebbrezza.

*

Non volevo prendere, nella mia mano fredda, questa strada che mi avrebbe riportata a casa, né seguire il consiglio che mi avevi dato di trovare un altro uomo che mi trattenesse perché lo studio di un’emicrania non avrebbe risolto il problema della sensazione. Tutto quel tempo, provavo a pensare, ma il fiume e la sponda si fondevano in un’unica oscurità, e le parole si appropriavano di significati che le rendevano difficili da usare alla luce del giorno. Credevo che entropia significasse abbracciarmi le gambe strette al corpo così che l’ombra del ponte sul Seekonk potesse scriversi nel mozzo della sua ruota abbandonata.

*

Nella mia immagine del mondo la parte accidentale cade con la pioggia. Qualche volta, di notte, l’aria diluita. Mi hai detto che le case più povere, giù lungo il fiume, portano ancora il segno dell’inondazione, ma il mondo si divide in fatti simili a vagabondi sorpresi e scompigliati da un vento improvviso. Quando hai smesso di preparare citazioni dai misogini dell’antichità era chiaro che avresti presto dimenticato la mia strada.

 

FACTS

 

I had inferred from pictures that the world was real and therefore paused, for who knows what will happen if we talk truth while climbing the stairs. In fact, I was afraid of following the picture to where it reaches right out into reality, laid against it like a ruler. I thought I would die if my name didn’t touch me, or only with its very end, leaving the inside open to so many feelers like chance rain pouring down from the clouds. You laughed and told everybody that I had mistaken the Tower of Babel for Noah in his Drunkenness.

*

I didn’t want to take this street which would lead me back home, by my own cold hand, or your advice to find some other man to hold me because studying one headache would not solve the problem of sensation. All this time, I was trying to think, but the river and the bank fused into common darkness, and words took on meanings that made them hard to use in daylight. I believed entropy meant hugging my legs close to my body so that the shadow of the bridge over the Seekonk could be written into the hub of its abandoned swivel.

*

The proportion of accident in my picture of the world falls with the rain. Sometimes, at night, diluted air. You told me that the poorer houses down by the river still mark the level of the flood, but the world divides into facts like surprised wanderers disheveled by a sudden wind. When you stopped preparing quotes from the ancient misogynists it was clear that you would soon forget my street.

Rosmarie Waldrop, La riproduzione dei profili, a cura di Maristella Bonomo, nella collana “Le Meteore”, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat, per FinisTerrae di Ibis, Pavia 2021.

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William Carlos Williams, “La primavera e tutto il resto”

William Carlos Williams

La primavera e tutto il resto (1923) è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento.

Scritto dal grande poeta modernista americano William Carlos Williams come risposta alla pubblicazione di The Waste Land di T.S. Eliot del 1922, La primavera e tutto il resto è un prosimetro che raccoglie i versi giovanili che egli riteneva migliori e mostra quanto l’esperienza dell’arte cubista e la violenza della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato ogni scrittura e reso necessaria una radicale apertura verso un’incognita vita nova.

Ne risulta un’opera fremente, mossa, spezzata, liberata da ogni piaggeria formale, in cui il poeta pone al centro il tentativo di una rinascita dell’intera cultura Occidentale grazie all’immaginazione, intesa però come l’unica forza capace di far sostare il lettore su ciò che da sempre gli è stato tolto, ovvero il momento attuale, l’adesso, dove ognuno di noi possa infine ritrovare se stesso.

ESTRATTI

Se qualcosa del momento verrà fuori – tanto meglio. E più probabilmente ciò accadrà, tanto più non ci sarà nessuno che vorrà vederlo.

C’è una costante barriera tra il lettore e la sua consapevolezza dell’immediato contatto con il mondo. Se c’è un oceano, è qui. O piuttosto, l’intero mondo è nel mezzo: Ieri, domani, Europa, Asia, Africa, – tutte le cose remote e impossibili, la torre della chiesa di Siviglia, il Partenone. Continua a leggere

L’amicizia fra Castor Seibel e Giacinto Scelsi

Domenico Brancale cura per PROVA D’ARTISTA Un’amicizia – Castor Seibel e Giacinto Scelsi. La nota di questa amicizia artistica e profonda è per Domenico Brancale, il Mi, la terza nota della scala musicale, l’unica priva di diesis e di bemolle come se Brancale volesse affermare la verità umana nell’assolutezza del suono della parola: l’amicizia fra due persone emette un suono netto, definito, privo di  “alterazioni”, perché  per Brancale, è un dialogo infinito, perenne, che non può esistere senza l’essere umano, così come la musica non può esistere senza il suono.

(Luigia Sorrentino)

 

ESTRATTO

Antifona

per Sharon Kanach

M’illumino / d’immenso – la poesia di Giacinto Scelsi, se solo fosse capace di definirsi, potrebbe certo fare suo questo grido di Giuseppe Ungaretti.

Sant’Agostino confessa: “A chi mi rivolgo quando mi rivolgo a Dio? Alla luce che è in me.” Come parlare dunque, in altri termini, della poesia? Lei che, con ogni poeta genuino*, estende i suoi confini? Sant’Agostino, per continuare: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so bene, ma se mi chiedono di spiegarlo, non lo so più.”

La poesia – quando c’è poesia – rifiuta e distrugge ogni tentativo di spiegazione. La poesia è, punto e basta.

È lei che porta l’uomo verso il suo interno che è spazio illimitato. Come, come voler spiegare la poesia quando è lei stessa che spiega il mondo!

Per Giacinto Scelsi, poesia e suono costituiscono questo spazio illimitato, questa luce che ci unisce all’universo.
L’uomo e l’universo, così pensati, fanno un tutt’uno: ma solo così. Lui, Scelsi, si vuole messaggero!
Imbevuto, compenetrato, impregnato di ciò che ascolta in se stesso e che trasforma in poesia verbale o musicale, ce lo comunica al più alto grado d’incandescenza, laddove l’incanto – incantesimo**, dice lui – comincia ad agire.
Scelsi si immagina come semplice veicolo attraverso cui passa ciò che, continuamente, è in divenire.
Attenzione però a non sbagliarsi: il chiaro non deriva dal chiaro ma dall’oscuro, dalla notte più profonda, come dice Henri Michaux, amico di Scelsi, “oscurità antro da cui tutto può scaturire, in cui tutto bisogna cercare, dal lato più oscuro della notte”.

Ecco! La noche oscura e la nada di San Juan de la Cruz.

Notte che genera luce, come il diamante, che viene dall’antracite informe del carbone e che, sotto l’immensa energia di una pressione millenaria, si cristallizza.

Colui che vuole rendere la luce sul foglio bianco, cominci con il tratto nero della grafite.

Giacinto Scelsi: la sua ossessione per le forme geometriche, luogo elevato in cui musica e poesia si congiungono. La sua geometria è ascensionale, poiché va verso la trasfigurazione di se stessa.
Poetica di forme che suscitano l’emozione estetica: visione poetica della nostra esistenza terrena. Forme che si esaltano, parossismo dei loro stessi contorni nella metamorfosi che solo può l’amore di un cuore ardente, quello di Giacinto Scelsi, che immaginava lo spirito come una luce viva sull’anima.

Castor Seibel
Parigi, gennaio 2006

* In italiano nel testo
** Testo apparso nel volume Giacinto Scelsi, L’homme du son, Acte Sud, Arles 2006 Continua a leggere

Nella lingua di Domenico Brancale

NOTA

Scannaciucce è il nome crudele che i contadini lucani di Sant’Arcangelo diedero alla pianta dell’agave che cresceva ai bordi di aspri e argillosi sentieri. Le lunghe foglie contornate di spine ferivano con ferocia gli asini, che passavano da lì. Da qui il nome e il titolo di questa raccolta di Domenico Brancale uscita nel 2019 con Mesogea Editore: scanna-re asino, ciucce.

 

Qua e pure llà
ne ’ssute tutte quande pacce
E chi u sàpe
si pure i na matine
mi gauzère pp’ ’a lune storte
e m’ ’a ruppère ’a cape
mbacce a nu specchie di luce.

Qui e pure lì
sono tutti usciti pazzi
E chi può dirlo
se pure io una mattina
mi sveglio con la luna storta
e mi rompo la testa
contro uno specchio di luce.

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Claude Royet-Journoud, “Le nature indivisibili”

Claude Royet-Journoud

Nota di Luca Minola

Libro estremo, selettivo Le nature indivisibili di Claude Royet-Journoud, pubblicato da Effigie nel 2016 e tradotto in maniera netta e inequivocabile da Domenico Brancale, è da codificare in continuazione e richiede studio e assiduità. Non appaiono all’interno le versioni dei testi originali dal francese, per una scelta motivata dall’autore stesso: “Nella traduzione, la lingua di arrivo è la versione originale e non l’inverso. D’altronde la poesia ha un corpo. Un recto, un verso. Uno spazio fisico e uno mentale. E’ racconto-e in una sola lingua. Non scrivo una raccolta, ma un libro. Nelle edizioni bilingue ciò che viene distrutto è la nozione stessa di libro: la doppia pagina (sinistra, destra), l’importanza del voltare pagina, la sospensione della narrazione, il rapporto con il tempo, ecc.”. Quindi l’inappropriato elemento dell’originalità di Royet-Journoud, che preferisce il contrasto, il contrario per eccellenza: liberare la traduzione del testo dalla gabbia della lingua originale o il bisogno della sospensione di spazi e tempo. Piace quello che non è, quello che non c’è, che non si può spiegare e soprattutto che non vuole essere spiegato: e “ho bisogno di pensare alla tua mano sulla carta/è l’esercizio più basso/che permette di seguire/una riduzione geografica/erano in attesa di essere notati”. Incide profondamente sulla lettura una pagina attraversata da una parola asciutta, tagliente, svincolata da un’energia comunicativa. Continua a leggere

Domenico Brancale, “Per diverse ragioni”

Domenico Brancale, foto © Heloise Faure

di Tommaso di Dio

Ogni libro di poesia è uno scrigno. E certi scrigni – quelli che intendono nascondere i tesori più preziosi – si aprono soltanto se giriamo contemporaneamente due chiavi. Serve un doppio movimento, congiunto e contemporaneo, affinché la luce ritrovi lo spazio dove brillare. Fra le migliaia di parole possibili, ecco le due chiavi che ho trovato sepolte per entrare nel libro di Brancale.

La prima è un suo verso: «che tutto è infinito sul punto di finire». La seconda è una parola, che in questo libro torna spesso. Una parola che non è una parola, ma è un’azione, un verbo-parola, che richiama e rimanda all’origine stessa della poesia (che appunto è un fare, non una parola nel senso decrepito e tipografico moderno). La parola è respiro. Da qui, da questa duplice porta bisogna partire per entrare nel mondo della poesia di Brancale. Il respiro. Fermiamoci un momento per capire, cosa è il respiro. Esso è l’infinito mondo altrove altro da me, che mi nutre, nutre le mie cellule e mi attraversa; un infinito che però prende coscienza di sé soltanto nel respiro che finisce, che sfinisce, che bisogna sempre sfinire: non finire mai di finire. Soltanto chi finisce, chi ha il coraggio di sostare fra l’inspirazione e la espirazione, conosce il mistero dell’inizio. E questo alto insegnamento Brancale non lo dimentica. Continua a leggere

Domenico Brancale, “Per diverse ragioni”

Dalla nota di Alberto Manguel

Se volessimo immaginare il metodo di lavoro di Brancale, è esattamente la tecnica di Rodin: nello scolpire Rodin aggiungeva argilla alla forma che costruiva, Brancale sottrae, sottrae e continua a sottrarre finché non resta che un granello di senso, ma che grano! In una poesia Brancale dice: «Il cuore è perfetto in ogni battito dell’imperfezione», ossia il cuore raggiunge la sua perfetta condizione esistenziale attraverso l’imperfezione del suo battito, come – potremmo anche dire – il poeta raggiunge la sua perfetta condizione esistenziale attraverso l’imperfezione del linguaggio, attraverso ciò che non può essere detto. La metafora, lo sappiamo, è un’ammissione del fallimento del linguaggio; forse per questo Brancale utilizza metafore così di rado. Le sue immagini valgono a se stesse. L’originalità non è necessariamente ammirabile in un’opera letteraria, ma quando essa è riuscita, sentiamo che quell’opera potrebbe avere duemila anni di vita, come per esempio: «la porta sulla stagione di un altro corpo.»
(Traduzione di Federica Cremaschi)

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L'Italia a pezzi

L'Italia a pezzi[1]Antologia di poeti in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila
“L’Italia a pezzi” è il primo risultato di una lunga ricerca iniziata nel 2008 dalla rivista Argo e proseguita per cinque anni con un folto gruppo di giovani critici, dalla quale è scaturita una mappatura della produzione poetica neodialettale e postdialettale dell’ultima fase del Novecento e dei primi anni del Duemila. L’antologia rappresenta un nuovo approdo e un punto di partenza per la poesia e per la letteratura contemporanea in Italia. Questo lavoro colma un vuoto creatosi negli ultimi quindici anni, durante i quali, dopo le approfondite esplorazioni compiute da Franco Brevini, si è registrata una quasi totale mancanza di accoglienza per le voci neodialettali da parte della grande editoria, a fronte di una produzione sempre più ricca e qualitativamente notevole. “L’Italia a pezzi” propone al lettore una campionatura di autori per i quali il ricorso alla scrittura dialettale non si configura come ripiegamento sul piccolo mondo antico, ma come un necessario incontro con la realtà/contemporaneità, che in molti poeti antologizzati produce scarti linguistici dalla norma. Continua a leggere