Giovanna Sicari, eternamente nel cerchio

Giovanna Sicari, Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI LETTURA DI MONICA ACITO

Non tutte le donne amate dai poeti si nascondono tra le righe.
Alcune di loro sono fatte solo di inchiostro, altre tremano insieme alla carta.
Altre ancora riposano, dolcemente, tra un verso e l’altro, in attesa che una mano le sfiori per richiamarle alla vita.

Giovanna Sicari non è stata semplicemente la donna di Milo De Angelis, uno dei poeti viventi più importanti della nostra tradizione letteraria: questa veste non le si addice e sta stretta al suo ricordo, che è vivo e selvaggio, come certi frutti di mare che si trovano solo nella sua Puglia.

Giovanna Sicari non è stata mai un attributo o un complemento d’arredo; non è mai stata solo una semplice musa, ma è stata Calliope in persona.

Nata a Taranto nel 1954, in un sud arcaico che profumava del sale dello Ionio, Giovanna Sicari si trasferisce a Roma da piccola, nel quartiere Monteverde.
Il fondale marino della Puglia, prematuramente abbandonato, scorrerà continuamente sotto la pelle della poetessa, pronto a sgorgare, rompere argini e creare crepe nella parola.

Il litorale ionico, salutato a otto anni, rimarrà rannicchiato per sempre in uno stadio prenatale della sua memoria, dove si annidano soltanto i ricordi rimossi e l’acqua del battesimo.

Il mare e l’abisso del sud ritornano nei versi di Sicari con una prepotenza quasi rabbiosa, che ricorda la fusione pànica di alcune liriche di “Alcyone” (1903) di D’Annunzio, in particolare “Meriggio”.

D’Annunzio compie una metamorfosi con il paesaggio marino, dissolvendosi nel suo “mare etrusco” e disperdendo nell’acqua, i suoi connotati

E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;

(Gabriele D’Annunzio, Meriggio, Alcyone, 1903)

Allo stesso, modo, Sicari, lascia che il mare e il mito della sua infanzia le modellino i fianchi; compie un vero e proprio matrimonio con i luoghi che hanno segnato la sua storia.

Sicari è poetessa e sposa:

Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

(Giovanna Sicari, “Poesie 1984-2003”, a cura di R. Deidier, Roma, Empirìa, 2006)

Sicari, però, compie un passaggio in più: riesce a trasportare i luoghi marini della sua prima infanzia nel quartiere di Monteverde a Roma, che diventa l’altare ufficiale della sua storia personale, il cerchio da cui partire, per poi girare in tondo e morire.

Monteverde, Monteverde, Monteverde: Sicari ripeteva il nome del suo quartiere come se fosse stata una formula sciamanica o un rito apotropaico.
Mugolava, si passava Monteverde tra la lingua e il palato, nello stesso modo in cui Cesare Pavese sussurrava, tra i denti, le poesie dedicate alle sue campagne delle Langhe piemontesi.

Proprio così lei pronunciava il nome del suo quartiere, come un “talismano contro infelicità e timore”.

A Roma si iscrive a Lettere, vive l’epoca della contestazione giovanile militante e impara la natura “politica” della parola poetica.

Le sue prime poesie appaiono su “Nuovi Argomenti”, “Alfabeta” e “Linea d’ombra”; alla fine degli anni Ottanta, dirige anche la rivista “L’Arsenale”.

Lavora poi come insegnante in un ambiente molto particolare, il penitenziario di Rebibbia; l’insegnamento in carcere è uno dei tòpoi della letteratura, fucina di ispirazioni e immagini ricorrenti: basti pensare all’ultimo romanzo della scrittrice napoletana Valeria Parrella, “Almarina”, che narra di una donna che insegna nel carcere minorile di Nisida.

Tutto questo impasto di vita e politica, militanza e impegno, costituisce la preistoria umana di Giovanna Sicari.

La sua produzione è un viaggio più fisico che spirituale, che si snoda da “Viaggio clandestino” (Siena 1984) a “Sigillo” (1989), passando per “Uno stadio del respiro (1995) ed “Epoca immobile (2004): tutta la sua produzione è ora riunita nel volume “Poesie 1984-2003”.

La sua non è, però, poesia nostalgica e di semplice rievocazione, non è poesia che si fonda sul mito del passatismo; e, allo stesso tempo, non è semplicemente poesia rurale.
La sua è una poetica plastica e viva, che si serve del potere concettuale della natura e del ricordo per illuminare, come un cerino, tutto ciò che respira e dorme nella penombra.

La brevità del tempo, la dialettica tra il bene e il male, il contrasto tra polpa e involucro, tra superficie e sostanza: queste sono le gemme che costellano la poesia di Sicari.

La poesia, per lei, è sempre stata forza magmatica, forza di donna e quasi di sonnambula: Milo De Angelis, in “Compito e vigilia”, racconta del processo creativo di sua moglie, che ricorda un po’ quello dei primi maudits, Verlaine e Rimbaud in primis.

La musica, prima di ogni altra cosa, scriveva Verlaine: per Sicari, l’ispirazione e la musica avevano lo stesso fiato; quando chiamavano, lei rispondeva con un istinto animale.
La sua composizione era fisica, più che mentale: chiamava all’appello le forze poetiche che vivevano sotto la sua pelle, tra i suoi nei, nel suo ombelico e nelle vertebre della sua schiena, e poi le trasferiva sulla carta, in una trance creativa che la svuotava totalmente.

Nessun assenzio o terzo occhio del poeta, soltanto una febbre che pulsava, a intermittenza, in qualche zona remota del suo corpo:

Erano curve le loro vene
Appoggiata appena allo schienale

ero là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più giù della scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano.

(Giovanna Sicari, “Sigillo”, 1989)

Animale, donna, zingara, selvaggia e disciplinata al tempo stesso: Sicari era capace di riunire tutti gli ossimori nello spazio del suo corpo, e dare loro un ordine rigorosissimo.

Anche l’amore era per lei esperienza iniziatica, istintiva e logica al tempo stesso:

*Vorrei baciarti il sangue
amore mio, e ancora fare andare
le dita nel vento,
accarezzarti i capelli, la fronte
sentirti dentro l’aria
dentro il ventre, sentire
come è leggero il vento
e come apre le vie
e come tutto sembra possibile
sapere quanto possa
l’amore con la saliva e il silenzio
curare dalla fonte.

20 luglio 2000*

Ma, soprattutto, l’amore assume i contorni di un processo conoscitivo, che porta Sicari a fissare, nello specchio, la sua stessa immagine di donna che si riconosce soltanto nella poesia che tutto esplora. E in questo, Sicari è Sibilla Cumana:

Estate ‘95

Potrei chiedere alla sibilla
di una sera tenera e infantile
quando dolce bolle l’acqua
del pozzo ma la sibilla
sono io, allora dico tutto,
delle sevizie e degli abbandoni
di lettere felici e infami
interi repertori di silenzi e i biglie
quando i parenti erano l’autorità
e amavo ogni forestiero.
La maga dice: la legge incombe
la legge vuole, domani ti darà
la sua acqua. Cammino
in diagonale, ho mire e tuffi
– dammi la forza, dammi il bene –
Il mare è tempesta pura,
i mendicanti sono fermi
sulla spiaggia di Sperlonga
tappeti e spalle curvi, ogni
cellula è lontana da quella
madre che tortura, ogni famiglia
è ferma in quella legge speciale
della fortuna, della scintilla
del lungomare, della cellula
che si ripete.

Giovanna Sicari (“Epoca Immobile”, 2004)

Nel 1997, l’inizio nel calvario: una via crucis con le sue stazioni, una più penosa dell’altra, fino al tragico epilogo nel 2003.

La morte di Sicari è stata un eventum nella poesia di Milo De Angelis, come tutte le morti delle persone amate.

Del resto, cosa sono i lutti, se non prove generali della nostra stessa morte?

La morte della sua compagna è stata lo strappo nel cielo di carta, l’occasione da cui è germogliato “Tema dell’Addio”, che Milo De Angelis ha pubblicato nel 2005.

La morte di Giovanna è stata la ratio, che ha dato vita alla raccolta; poi, l’inchiostro di De Angelis ha cominciato a diramarsi come una ragnatela, e i cerchi concentrici della sua poesia hanno toccato tutti i nodi dell’esperienza umana, tanto da rendere questa raccolta un vero e proprio exemplum dell’assenza in tutte le sue forme.

In “Tema dell’Addio”, l’assenza è un tarlo sotterraneo, presente sotto l’epidermide di tutti noi; un parassita, che si nutre dei piccoli gesti quotidiani, che ci preannuncia il distacco dalle persone e dalle cose che amiamo.

De Angelis, con eleganza e compostezza, scrive un vero e proprio compendio di tutti gli addii possibili e immaginabili, e ci fa sentire il rintocco di tutti gli amori interrotti, dei ricordi spezzati, dei lutti e dei fantasmi che vivono nell’ombra.

L’addio diventa una belva pronta a morderci all’improvviso, un animale che si nasconde nelle nostre stanze, nei nostri gesti e nei respiri delle persone e delle cose che amiamo.
Il distacco è un animale che conosciamo tutti; prima o poi, dovremo offrirgli il nostro tributo di sangue.

E soltanto la poesia può azzardare la mossa più audace: fissare quella belva negli occhi, senza paura.

Milo De Angelis riesce a mostrarci (e a domare) quella belva che si nasconde nelle case di tutti noi, che dorme sotto i nostri letti e che si sveglia appena apriamo gli occhi al mattino.

L’addio, però, può anche incarnarsi nel corpo di un piccolo animale: spesso, proprio in quello di una mosca.

Ed è questo il caso di Eugenio Montale, che costruisce una vera e propria poetica dell’addio, negli xenia dedicati a Drusilla Tanzi, la sua Mosca, compagna di vita e di milioni di scale.

In “Satura”, pubblicato nel 1971, Montale ha scelto di disseminare dei piccoli doni per il suo insetto morto, così da mostrare a tutti il cadavere della mosca esanime e renderlo correlativo oggettivo dell’abbandono.

Montale prende una lente di ingrandimento e ci mostra il corpo inerme della sua Mosca, volata nel mondo silenzioso dei defunti, ma presente nel cosmo eterno della poesia.
Il poeta non smette mai di dialogare con lei, che si posa su tutti gli oggetti delle sue stanze e non li abbandona mai.

Uno specchio e una lente di ingrandimento: ecco il confine e la differenza tra De Angelis e Montale. I due oggetti possono sfiorarsi sottilmente, ma non sono sovrapponibili.

Milo De Angelis sceglie di partire dall’eventum della morte di Sicari per sviscerare l’addio in tutte le forme possibili, e lo fa  partendo dall’occasione della morte della sua compagna, per riflettere tutti gli addii nascosti nelle cose e nelle persone del mondo, abbracciando il tema  universale della morte e pizzicando le corde di tutta l’esperienza umana; Montale, invece, impugna una lente d’ingrandimento per mostrarci una mosca che compare nella foschia, mentre lui legge un testo biblico.

E il poeta non riesce a riconoscerla, perché Mosca era priva di lenti.

E se Mosca fosse riuscita a vedere la poesia di Montale soltanto spogliandosi dei suoi occhiali?

Del resto, gli occhi miopi di Mosca sono gli unici a percepire che la realtà “non è quella che si vede”, così come gli occhi dell’indovino Tiresia, del bibliotecario di Borges, di Omero o dei personaggi di Saramago, colti da una peste bianca che rende tutti ciechi.

 

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.

(Eugenio Montale, “Satura”, 1971, Xenia I)

Il tono di “Tema dell’addio” quindi, è levigato da un intenso labor limae, non sprofonda negli eccessi, rende omaggio alla sua donna con la stessa delicatezza con cui anche Umberto Saba si rivolgeva alla sua Lina, paragonandola a tutte le femmine di animali presenti in natura e alle “cose leggere e vaganti”.

Giovanna Sicari è stata donna e poeta fino alla fine.

Fino all’ultimo respiro nella Clinica del Sacro Cuore, così vicina al suo quartiere di Monteverde, luogo della sua preistoria umana.

Sicari è morta nel suo cerchio, a nemmeno cinquant’anni.

Ti ho sognato con una divisa allegra da marinaio
giungevi come l’uomo pietoso, dentro la schiuma morbida
toccavi con calma evitando le ferite, ogni giorno
iniziavi la discesa, bruciavano le ferite
ma le vette aprivano drappi e buchi
per istinto uniformi.

(Giovanna Sicari, “Poesie 1984-2003”, a cura di R. Deidier, Roma, Empirìa, 2006)

Ora Sicari sta ancora sognando quel marinaio.

E la schiuma morbida, e tutte le ferite di quel mare eterno che hanno formato la sua preistoria umana.

Ora lei è musa, poesia e inchiostro, per sempre sepolta in quel cerchio, da cui non se ne è mai andata.

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POSTILLA

*“Vorrei baciarti il sangue/ amore mio”, dal tono così appassionato e vibrante, è una poesia inedita di Giovanna Sicari che non è mai stata pubblicata in libro.
Non tutti i forzieri di diamanti, però, rimangono in eterno nel mare magnum dell’inedito; anzi, a volte, osservando il pelo dell’acqua, si può scorgere il profilo di qualche tesoro nascosto.
In questo caso, non c’è bisogno di affidarsi a difficili carte nautiche, o di andare molto lontano con lo sguardo: alcuni ultimi sprazzi inediti di Sicari vivono proprio qui, sul blog “Poesia, di Luigia Sorrentino”, nella sezione “Poeti da riscoprire”, in un articolo del 5 marzo 2014 curato da Fabrizio Fantoni e Luigia Sorrentino.
Per leggere questa poesia di Sicari, insieme ad altri suoi ultimi inediti, basterà cliccare qui: http://poesia.blog.rainews.it/2014/03/milo-de-angelis-sulla-poesia-di-giovanna-sicari/
È stato proprio Milo De Angelis a concedere queste poesie al blog “Poesia, di Luigia Sorrentino”, in esclusiva assoluta.

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