Per Mario Benedetti, presentazione a Pordenonelegge

IL LIBRO

Sono 45 i poeti e i critici che nel libro Per Mario Benedetti portano un ricordo del poeta friulano, un commento o un’ipotesi di interpretazione di una sua opera, ripercorrendo momenti della sua vita, incontri e passaggi dai suoi libri. Una testimonianza d’affetto e allo stesso tempo un orizzonte di risposte a una poesia che ha saputo affascinare e convincere gli appassionati al di là delle appartenenze generazionali e degli orientamenti della poetica personale.

Il libro, Per Mario Benedetti uscito con Mimesis nel 2021, sarà presentato in anteprima al Festival di  Pordenonelegge venerdì  17 settembre alle 21.00 alla Libreria della Poesia di Palazzo Gregoris,

Interverranno Alberto Bertoni, Maria Borio, Milo De Angelis, Stefano Raimondi e Luigia Sorrentino.

Presenta Alberto Garlini.

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Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

Mario Benedetti
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Roberto Esposito, “Vitam instituere”

Roberto Esposito

Concludiamo il nostro lungo ciclo di incontri di Catena Umana/Human Chain con un saggio inedito scritto per il blog Rai da Roberto Esposito, uno dei maggiori filosofi viventi, di origini campane. Mai come in questo momento la comunità mondiale si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, i virus,  tanto da dover tutelare la vita e delle comunità, all’interno dei propri confini territoriali.
L’intervento di Esposito, VITAM INSTITUERE, si rivolge agli uomini ai quali chiede, di sforzarsi sempre più a che l’Istituzione venga rinnovata.  “Non è possibile –  scrive Esposito – per gli esseri umani, cessare di istituire la vita.”

Luigia Sorrentino

 

 

VITAM INSTITUERE

di Roberto Esposito

Se dovessi nominare il compito cui il tempo del coronavirus ci chiama tornerei all’antica espressione latina ‘vitam instituere’. Senza ripercorrerne la storia – si tratta di un passo di Demostene, citato dal giurista romano Marciano nel Digesto –, veniamo al suo significato più attuale. Nel momento in cui la vita umana appare minacciata, e anche sovrastata, dalla morte, il nostro sforzo comune non può essere che quello di istituirla sempre di nuovo. Cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di creare sempre nuovi significati. In tal senso è stato detto da Hannah Arendt, e prima ancora da Agostino, che noi, gli uomini, siamo un inizio perché il nostro primo atto è quello di venire al mondo, iniziando qualcosa che prima non era. A questo primo inizio ne ha fatto seguito un altro, un ulteriore atto istituente, costituito dal linguaggio, che lo psicanalista francese Pierre Legendre ha definito seconda nascita. È da essa che ha preso origine la città, una vita politica che ha spinto quella biologica in un orizzonte storico. Non in contrasto con il mondo della natura, ma attraversandolo in tutta la sua estensione. Per quanto autonomo nella ricchezza delle sue configurazioni, lo spazio del logos, e poi del nomos, non ha mai potuto separarsi da quello del bios. Anzi la loro relazione si è fatta sempre più stretta, al punto che è divenuto impossibile parlare di politica sottraendola all’ambito da cui la vita si genera.
La prima nascita annuncia la seconda come questa si radica in quella. Perciò non è possibile, per gli esseri umani, cessare di istituire la vita. Perché è la vita ad averli istituiti immettendoli in un mondo comune. In questo senso la vita umana non è riducibile a semplice sopravvivenza – a ‘nuda vita’, per riprendere l’espressione di Benjamin. Essendo fin dall’origine istituita, la nostra vita non è mai coincidente con la semplice materia biologica – anche quando è schiacciata violentemente sulla sua parete. Anche in quel caso, forse mai come in esso, fin quando è tale, la vita rivela un proprio modo di essere che, per quanto deformato, violato, calpestato, resta tale – una forma di vita. A conferirle questo carattere formale – ulteriore rispetto alla semplice biologia – è la sua appartenenza a un contesto storico, fatto di relazioni sociali, politiche, simboliche. Ciò che fin dall’inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è questa rete simbolica entro la quale quello che facciamo acquista significato e spessore per noi e per gli altri.

È proprio tale rete di relazioni comuni che il coronavirus minaccia di spezzare. Non solo la vita prima, ma anche la seconda – la socialità del nostro rapporto con gli altri. Naturalmente, come è evidente, per esprimersi, quest’ultima richiede intanto di essere in vita. Non c’è alcun accento riduttivo nel termine ‘sopravvivenza’. Anzi il problema della conservatio vitae è al cuore della grande cultura classica e moderna. Esso risuona nel richiamo cristiano alla sacertà della vita come nella grande filosofia politica inaugurata da Hobbes. Mantenerci in vita è il primo compito al quale questo maledetto virus ci richiama in una sfida mortale. Ma, dopo la prima vita, insieme a essa, dobbiamo difendere anche la seconda, la vita istituita e solo perciò capace a sua volta di istituire, di creare nuovi significati. Perciò, nel momento stesso in cui facciamo di tutto, come è fin troppo comprendibile, per restare in vita, non possiamo rinunciare all’altra vita – alla vita con gli altri, per gli altri, attraverso gli altri. Ciò, al momento, non è consentito e anzi è vietato, come è giusto e logico che sia. Continua a leggere

Tommaso Di Dio, “Il silenzio, l’assedio”

Tommaso Di Dio

DI TOMMASO DI DIO

Una qualità di silenzio unica, inaudita. Milano, come tante altre città d’Italia e del mondo, è stata fagocitata per alcuni mesi da uno stato di sospensione e apnea. È come se tutta la città e i suoi cittadini avessero smesso di respirare. La città è stata sommersa da un liquido invisibile: aveva il peso del piombo ma era come trasparente, un etere oscuro che, anche di notte, si adagiava come una pellicola sulle facciate delle case, dalle cui finestre rilucevano a centinaia le stanze dove erano intrappolate in una luce d’acquario cose affetti persone.

Mi è davvero difficile spiegare a parole quanto quel silenzio sia stato profondo, sconvolto. Confido che chi qui mi sta leggendo ne abbia una qualche esperienza. In queste settimane ho provato più volte ad ascoltarlo, a dirlo a me stesso, a pensarlo; ma niente, qualcosa sfuggiva, restava inerme al di là dello sguardo. Nella città dove vivo, anche a tarda notte, d’estate, se si tace e si ascolta a finestra aperta, di solito è possibile sentire il grande ronzio delle circonvallazioni, dove operai, automezzi, centraline, termovalorizzatori e ventole, continuano il proprio moto senza mai fermarsi. È il grande boato della città, il rumore bianco del suo sangue in circolo per le strade e le arterie nel suo corpo gigante, che si allarga fino ai confini della Lombardia, con i suoi 10 milioni di abitanti, immerso e connesso dalle sue macchine e strumentazioni, da cui la vita umana occidentale non può più prescindere. Nei mesi feroci della pandemia, gran parte del movimento di questi corpi pesanti è stato abolito; è rimasto invece lo spettrale movimento della luce e delle radiotrasmissioni: la luce che scorreva inesausta per le fibra sotterranea, entrava in ogni palazzo, risaliva i muri, pulsava, mentre il campo del 4G avvolgeva ogni nodo, ogni singolo device alla rete internet mondiale. Il silenzio di questi mesi, infatti, la sua particolare densità, non è stato causato dalla semplice assenza dei motori; è stato tutt’altro dal silenzio che si avverte quando si è dentro un bosco, in mezzo al mare, sulla cima di una montagna. Quello che abbiamo provato è stata invece l’ostinata presenza, finalmente resa palpabile dal diradarsi dei corpi visibili, del moto infinito dei dati che illuminano i nostri schermi. Quel silenzio erano onde, vaste, continue, pulsanti, di informazioni, paranoie, dolori, terrori, paure, speranze, cazzeggio, notizie, faccine. Tutto ciò che agitava il pensiero degli umani, ogni loro spostamento emotivo, era impercettibilmente tradotto in questo scroscio ondulare, frenetico, isterico che finalmente occupava, da solo, lo spazio della terra. Umano e macchinico insieme, ho sentito per la prima volta con la più grande forza questo respiro che è letteralmente l’indescrivibile contemporaneo, il suo sostrato materiale, il fondo brulicante di ogni nostro discorso. A volte, mi affacciavo dalla finestra, guardavo la strada, guardavo le altre finestre; cercavo di cogliere i minimi movimenti della gente, cercavo di sentire cosa si dicevano, cosa provavano dietro le tende, dietro i portoni, cosa si agitava all’interno di quegli spazi chiusi e sigillati e potevo vedere, con una chiarezza mai prima avuta, il fascio di dati che trasudavano e, rivolta contro quegli stessi corpi, a distruggerli, a farli scomparire in un fuoco interno, l’assedio di una forza centripeta, che poteva essere ovunque, che dilagava, che si espandeva. Continua a leggere

Vito M. Bonito, “Dove va un corpo che si ammala e muore?”

INTERPOSTA PERSONA
DI VITO M. BONITO

 

Faccio fatica a pensare per macrostrutture, per astrazioni, per simulazioni.

Queste poche e deboli riflessioni sono a margine e marginali rispetto a quanto accaduto e ancora in atto da mesi, al nostro essere confinati e vivere reclusi tra l’invisibile virale, l’aria sublime e rarefatta di parole giganti talvolta inafferrabili (talvolta fastidiosamente inautentiche), il vaniloquio social-mediale e la microscopia di un quotidiano in cui è difficile arrivare a concludere un pensiero che varchi la soglia della propria vita familiare e biologica.

Faccio l’insegnante e sono padre di una bimba di tre anni e tre mesi, l’orizzonte del mio vivere già da decenni contratto segregato e zoppicante, ha dovuto fare i conti con questi altri due aspetti che in sé, in questi mesi di clausura e distanziamento, hanno presentato vantaggi e svantaggi, messo a nudo sicurezze e insicurezze, sospiri, respiri e logoramenti a cui non sempre sono stato in grado di fare fronte.

Non ho rischiato il posto di lavoro, ma ho dovuto adattarmi a un modo di lavorare quasi capovolto. Un universo capovolto in cui, pesce fuor d’acqua, ho dovuto respirare al contrario, pensare al contrario, comunicare al contrario e per via fantasmatiche, larvali proprio come dentro «il delitto perfetto» così ben spiegato da Baudrillard.

Durante più di due mesi e mezzo murati in casa, una bimba di tre anni – che all’improvviso smette di andare al nido e di vedere gli altri bimbi e non può uscire di casa – comincia a fare domande a cui non sai rispondere con le sue parole e ti accorgi che le tue non hanno e non danno alcun senso e significato a ciò che sta accadendo. Lei comincia altresì ad andare in crisi e ad agitarsi in perfetto orario ogni giorno alle 18 e dopo almeno nove ore che i genitori si sono inventati il mondo per tenerla impegnata, e sono piegati, scarsamente reattivi alle percussioni comportamentali, ai forsennamenti verbali che aumentano proprio quando tu diminuisci, ti stai spegnendo.

Ogni giorno poi fai la conta dei morti, dei contagiati, e così misuri lo spazio in cui vivi. Continua a leggere

Gilda Policastro, “La metafora del fuoco”

Rome, September 21, 2013.
Gilda Policastro, writer, poet, literary critic and essayist, editor of the magazine Allegoria collaborates with «Alias», «Liberazione», «L’Indice dei Libri del mese ‘, L’Immaginazione. He has published essays and articles, was finalist of Premio 2009 Delfini, photographed in Rome in the Park of Villa Torlonia/Gilda Policastro, scrittrice, poetessa, critica letteraria e saggista, redattrice della rivista Allegoria collabora con Alias, Liberazione, L’Indice dei Libri del mese, l’immaginazione. Ha pubblicato saggi ed articoli, è stata finalista del Premio Delfini 2009, fotografata a Roma nel parco di Villa Torlonia.
Photo: RINO BIANCHI

Il tempo delle metafore

gilda policastro

 

I linguisti definiscono speciali o settoriali le lingue dei saperi tecnici e specialistici: il diritto, l’economia, il commercio, l’informatica, la medicina, tra le principali. Si tratta di lingue, come chiariva Gian Luigi Beccaria in un saggio ormai classico degli anni Settanta, parlate da una definita cerchia di persone, con riferimento e per scopi condivisi da tutta la comunità. Non si parlano nel quotidiano, ma possono fare irruzione nelle nostre vite quando abbiamo a che fare con un fenomeno particolare: se abbiamo ereditato, ad esempio, sapremo cos’è una successione, se andiamo a fare degli accertamenti e l’esito è negativo, a differenza che nell’accezione comune l’aggettivo potrà tranquillizzarci. Di solito queste lingue e questi saperi ci riguardano in circostanze particolari, perciò difficilmente coinvolgono più persone nello stesso momento. La situazione eccezionale che abbiamo vissuto negli ultimi mesi ci ha invece posto in contatto con un sapere, anzi, più saperi specialistici che hanno riguardato tutti nello stesso arco temporale (o su punti diversi di una stessa linea temporale, come aveva giustamente osservato Paolo Giordano). Abbiamo anche una data: dal 21 febbraio, dalla scoperta del presunto paziente uno (M***** di Codogno, spixellato in spregio al più elementare senso della privacy), giorno dopo giorno siamo entrati in possesso di saperi e competenze che ci erano, per gran parte, estranei. Ci siamo trovati a vivere un’eterna ora di Scienze, e la differenza col liceo è che a questa ora non ne seguivano altre, di Greco, Latino, Dante o Storia dell’arte. Tutto sospeso, in favore dell’unico sapere emergenziale. E ci nutrivamo di parole (secondo la Treccani, un centinaio) che colonizzavano il nostro immaginario in modo sempre più insistito. Alcune le conoscevamo e le adoperavamo già, in senso metaforico: Daniele Giglioli, sulla scorta di Lacan, nel suo libro intitolato Senza trauma alcuni anni fa aveva studiato la narrativa degli anni Zero considerandone i testi-campione come “sintomi”. Di un pezzo molto condiviso nella rete, abbiamo imparato a dire che è “virale”. In un saggio del 2003 intitolato Poésie action directe Christophe Hanna aveva introdotto il concetto di “poesie-virus” in riferimento a quei casi in cui la poesia “abbandona la forma del libro venduto sullo scaffale di libreria […] per agire all’interno di altri sistemi simbolici: i cartelloni cittadini, il sito web di tendenza, il giornale, la rivista, il cd-rom pedagogico o enciclopedico” (così nella traduzione di Gherardo Bortolotti e di Michele Zaffarano). Salto di specie, indubbiamente. La scienza si è ripresa il suo e abbiamo risemantizzato queste parole nella loro accezione originaria: oggi non si può dire che il sapere scientifico, anche minimale, elementare, sia pur corrotto da un’informazione non sempre scrupolosamente fedele alle fonti e al contesto inevitabilmente conflittuale degli scienziati (abbiamo, tra l’altro, imparato a riconoscere e a tifare per gli esperti delle diverse branche, dai virologi agli epidemiologi agli infettivologi agli statistici), non sia effettivamente entrato nel lessico famigliare e quotidiano. Di tutti. Se i termini sono tornati alla scienza, le parole (per riprendere la distinzione leopardiana tra i primi e le seconde) hanno tentato di riprendersi la loro forza evocativa, soprattutto nella costruzione di metafore. La pandemia è una “guerra contro un nemico invisibile”, la prima e più abusata: peraltro favorita dagli stessi scienziati, che hanno sin da subito parlato di “strategia di contenimento” e di “coprifuoco” per il nostro confinamento (o lockdown). Continua a leggere

Francesco Tomada, “Fallimento del sistema”

FRANCESCO TOMADA foto di Pierluigi Pintar

System Failure

Nei giorni peggiori di quarantena sembrava
che il rischio più grande fosse restare
senza la bombola per l’acqua gassata

intanto fuori la gente moriva

i nostri figli non sono più dei bambini
hanno vent’anni
potrebbero capire l’importanza delle cose
ma forse siamo noi
che dovevamo insegnargli altro

io volevo evitare gli errori di mio padre
nel costruire una famiglia che fosse mia
adesso anche loro
sanno da dove partire
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Forrest Gander, due poesie inedite

Forrest Gander, Pulitzer Prize 2019, ph. by Nina Subin

FORREST GANDER
TRADUZIONE DI LUCA GUERNERI

 


When the Sky Stops Being Blue

 

In isolation they began to notice * new intimacies appear

intensified by the inhuman * oratorios of spring
but it was still * hard to recognize events

as they happened * to explode instant by instant

before them, hard for anyone * to be a whole person

not dwelling on their mistakes * inside a reality filled

with the feeling of unreality * like an ocean filled with

withdrawal, and so (she said) * they would go traveling
across borders in their minds, * and although he agreed
he really just wanted to turn   * back time (he said) to where
the meaning was, and then * both saw in an unpetaling

gift of intuition, the meaning * was here. It was now.

 

Quando il cielo cessa d’essere blu

 

In isolamento presero a notare * l’apparire di nuove intimità

intensificate dagli inumani * oratori della primavera
eppure era ancora * difficile riconoscere gli eventi

mentre andavano * esplodendo istante dopo istante

davanti a loro, difficile per chiunque * essere tutti di un pezzo

non dimorare nei propri errori * dentro una realtà piena

di un senso di irrealtà * come un oceano pieno

di risacca, e dunque (disse lei) * avrebbero viaggiato
attraverso i confini delle loro menti * e benché lui fosse d’accordo,
in realtà avrebbe solo voluto rimettere indietro * il tempo (disse lui) là dove
stava il significato e fu allora * che tutti e due videro in uno sfiorente dono

d’intuizione che il significato * stava nel qui. E nell’ora.

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Giulia Napoleone, “Le fragilità dentro e fuori di me”

In questi mesi di pandemia io ho apparentemente fatto la stessa vita degli ultimi dieci anni, cioè dal mio rientro dalla Siria.

Niente di diverso. Chiusa tra casa, studio e giardino, ho vissuto tempi di completo isolamento, lavorando per molte ore, punto su punto, riga su riga, tra musica e poesia.

Ho alternato in questi anni lunghi periodi di isolamento e lavoro a viaggi anche frequenti, brevi o lunghi che fossero, sempre con accurate e precise preparazioni. Questo insieme mi ha consentito un giusto equilibrio di vita, di rapporti, partecipazioni, incontri con “l’altro da me”.

Il viaggio non è per me solo spostamento, non è lasciare un luogo per arrivare ad un altro.

Disegno di Giulia Napoleone

Per me viaggiare è una condizione, una necessità vitale che mi permette il raggiungimento di quell’equilibrio di cui sono alla costante ricerca.

Equilibrio tra geometria e natura, ordine e caos, realtà e sogno, concentrazione assoluta e mondo esterno.

Essere privata dalla possibilità di viaggiare, di questa risorsa essenziale mi ha quindi creato in questi mesi un grande disagio.

Ho continuato a lavorare, spesso al limite delle mie energie, ma quello che è profondamente cambiato è lo spirito con cui ho affrontato le mie giornate di lavoro. Giorni trascorsi con profonda tristezza per le notizie, le immagini, le incertezze, la perdita di tanti amici.

Disegno di Giulia Napoleone

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Carlo Bordini, “L’Italia è nei guai”

Carlo Bordini/ credits ph. Dino Ignani

Doomsday Clock e realismo
di Carlo Bordini

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Il Doomsday Clock (orologio dell’apocalisse) è l’iniziativa di un gruppo di scienziati dell’università di Chicago intesa a misurare metaforicamente il pericolo di un’ipotetica fine del mondo. Iniziata nel 1947, la lancetta che si avvicina alla mezzanotte dell’apocalisse è andata progredendo; all’inizio mancavano sette minuti; quest’anno, nel 2020, le lancette distano dalla simbolica mezzanotte 100 secondi, solo un minuto e quaranta.

Inizialmente gli scienziati intendevano come elemento principale di pericolo la guerra atomica; dal 2007 hanno cominciato a considerare altri elementi, come, ad esempio, i cambiamenti climatici.

Con questo atto metaforico gli scienziati vogliono ricordare all’umanità che la nostra civiltà è affetta da numerose malattie mortali che dovrebbero essere subito affrontate. Ma queste sono cose che ormai sanno tutti… Io le ho prese dal web (cosa facilissima) ma già le sapevo come le sanno tutti. E tutti sanno che l’umanità non fa quasi nulla per affrontare questi problemi.

Ho la sensazione che il covid-19 faccia parte di questa rovinosa corsa verso la distruzione. Dato che le malattie mortali dell’umanità sono molte, questa mi sembra essere una delle tante, e neanche la più tragica (pensiamo alla sovrappopolazione, ai cambiamenti del clima, alla presenza delle armi atomiche). Comunque io, poetino romano, non ho ricette interpretative o risolutive. Mi limito a constatare che siamo alla vigilia di una fortissima crisi economica, per esempio. Constato. Cerco di salvarmi personalmente.

So, da tempo, che il mio compito non è salvare il mondo, ma salvarmi nel mondo. E inoltre, accetto la catastrofe.

Potremmo chiederci: ma allora, a che serve fare il poetino romano? Non lo so. Francamente non lo so. Forse a credere in un’utopia. Come i bambini: chi vuol credere all’utopia metta il dito qua sotto. Continua a leggere

Una poesia di Milo De Angelis

NEMINI

Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere
in un tempo che hai misurato mille volte
ma non conosci veramente,
osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,
l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,
ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora
guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre
ma non è di questa terra e con il palmo della mano
pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono
sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto
che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto
che sembrava un saluto ma è un addio.

(da Linea intera, linea spezzata di prossima pubblicazione da Mondadori) Continua a leggere

Franco Buffoni, “Le bare bianche senza estreme unzioni”

Franco Buffoni, Credits ph Dino Ignani

MICROTRAGEDIA IN TRE QUADRI
DI FRANCO BUFFONI

Qui come tante Lady Macbeth
A lavarci le mani di continuo

Coro: Non va via… Non va via…

Rimpiangendo cattedrali ripiene
Di fedeli convinti al Te Deum

Coro: Così sia… Così sia…

E a scansarci nei supermercati
Riforniti d’ogni bendidio

Coro: Vada via… Vada via…

Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Le notizie sul contagio a Gallarate,
L’occhio mi è caduto sul servizio
Con le foto da Marte. Trentaquattro istantanee
Inviate da Curiosity, il rover della Nasa
Che da otto anni vaga sul pianeta.
Il Sole da Marte in un tramonto blu,
Mount Sharp e il cratere di Gale,
I sedimenti d’un antico fiume
Rocce meteoriti e dune
E poi ad un tratto quel pallino chiaro
The Earth
La Terra vista dal cortile del vicino
Con le fidejussioni i rogiti i contratti
Le zone rosse ed arancioni
Le bare bianche senza estreme unzioni.

(12/05/2020)

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Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere

Catena Umana in difesa di Pompei

catena_umana
Il comitato Pompeimia ha organizzato per domenica 4 maggio 2014 alle 10.30 una Catena Umana con partenza da Piazza Anfiteatro, ingresso scavi di Pompei, che abbraccerà gran parte della zona perimetrale del sito.
Il flash-mob, promosso da associazioni culturali e movimenti che operano sul territorio, nasce dall’esigenza di riavvicinare i cittadini italiani all’antica città di Pompei, “patrimonio mondiale dell’umanità” e far luce su questioni che vanno dalla cattiva e quasi inesistente manutenzione ordinaria del sito, alla gestione e al mancato utilizzo dei fondi destinati a Pompei e bloccati da “ragioni burocratiche”. Continua a leggere

Seamus Heaney alla Casa delle Letterature di Roma

Appuntamento

Martedì 7 maggio 2013 alle 18:30 il poeta irlandese Premio Nobel per la Letteratura nel 1995 Seamus Heaney (nella foto di
Coleman Doyle) ospite nella nostra città terrà un incontro alla Casa delle Letterature di Roma (Piazza dell’Orologio, 3).

Seamus Heaney che è nato ed ha studiato nell’Irlanda del Nord,  soggiornerà all’American Academy di Roma durante il mese di maggio 2013. Durante gli anni sessanta ha lavorato inizialmente come insegnante poi come lettore alla Queen’s University ed i suoi primi libri sono stati scritti durante questo periodo. Nel 1972 Heaney si trasferisce con la sua famiglia da Belfast a County Wicklow nella Repubblica d’Irlanda, dove la sua scrittura diventa più profonda ed oscura condizionata dagli eventi politici del Nord che si andavano intensificando. Da quando gli è stato assegnato il premio Nobel, “per i lavori di bellezza lirica e profondità etica”, Heaney ha pubblicato quattro volumi di poesie e traduzioni dell’Antigone di Sofocle da lui intitolata “La sepoltura di Tebe” e del Filottete di Sofocle da lui intitolata La guarigione di Troia. Nel febbraio del 1999 Heaney ha visitato la casa editrice Arion Press portando con sé la traduzione scritta a mano della poesia del poeta russo Alexander Pushkin intitolata “Arion.” Continua a leggere