Alessandro Bellasio, “Il laccio antartico”

Alessandro Bellasio / credits ph. Dino Ignani

IL LACCIO ANTARTICO

​​​​​​                           Per C. e M.

I.

Risalendo, a colpi di gomito,
per questa tumida, strenua
vena accidentata, respiro adesso
la mia caligine, tutti gli anni
diluviati addosso, e i padri che ho bruciato
in una antica
camera iperbarica.
Lasciami, ti dico, lascia
mi – io
sono di lato
ai miei pezzi e vi galleggio
al centro, come un sughero

in questa stanza
solitaria, dove mi addormenta
senza amore, rimini… Io,
con la punta
più gelata del mio ago,
ho toccato
questo vento di metallo, quell’
artide lontano
che mi somiglia e parla,
quel pensiero
troppo vero
di me, e in me
mia calotta carnivora – ventosa
a tentacoli
che mi divorava. Io
so
che non c’è resurrezione, nessuna
luce
in fondo al corridoio, oltre questo perdere
nitido, assoluto – a questa
stanza calpestata
da un’astinenza
che sento inginocchiarmi a notte,
quando fisso, perfettamente solo,
ciò che in questa vita è stato
metà di un carcere, metà del nulla.
Ricordatevi: mai, qui io,
ho chiesto a voi di amarmi.

II.

Conosco – per averlo
presagito nel pensiero –
il mio destino di stuprato. Io,
sanguinato in un cane
contro la realtà, stringo
il laccio antartico, impugnando i medici
con imperio e
assorbendo metadone, vangeli,
ingenti palliativi – raggelato qui
nella torsione violenta del mio cristo.
Non c’è, lo so,
al mondo altro
che questo andare, venire trasportati
fra i centri di recupero
in cui svanire in pace. Per quanto
tempo, vi domando,
dovrò restare ancora
in tutto questo obnubilato?

Sollevo, oggi,
un occhio tramortito
su un mondo che non ho più visibile – io, di ombra,
che intrattengo colloqui
con le ombre
venute a ispezionare il mio cervello.
Anche io, come ognuno,
sono il corpo
che ho distrutto – la parte
trafitta, negata – la sola vita
vera, quella
che non c’è stata.


III.

Hanno mandato agenti a rovistare nel mio cervello.
Vi siete, da sempre,
ostinati voi
a riabilitarmi, mentre
io stanavo furiosamente in me
i crismi di una fine esatta, perentoria.
Devo, oggi, rispondere di me,
legittimare
il martirio che ho inflitto alle mie strade
regredendo all’ago – quella parte
polverizzata in me, che incarnavo
già da molto prima di capire.

Mi denudano, adesso,
dei miei pensieri, e li registrano
per dirmi dove andare,
chi sono – io davvero
da migliaia di vite
stato morto

È
terribile vedersi
patteggiando un’altra dose
di respiro, cigolando
veramente inermi qui, vero ostaggio –
oggetto
seriale di una cura
a cui non potrò mai più sfuggire.
Cosa importa
come ho vissuto, se sono io
dinanzi a voi
lo sprofondamento di una vita in cui nessuno è stato?


IV.

Perdo
liquidi stanotte, plasma, sostanza
sottile… Ricordo
i secondini, in lontananza,
rovistare dentro un letto, sequestrare
i pochi grammi
di una polvere che anch’io
ho saputo uguale alla mia vita, la sola
tollerabile, quella che ti uccide.

Ammanettato, qui,
dove apro un occhio
di puro buio nell’insonnia,
annaspando fra i sussulti
di un respiro finito, spezzato

svenuto in questa infermeria
che somministra a tutti con violenza la salute…

È, veramente, da molte epoche scoccata
mezzanotte in me, il suo rintocco
biblico, antartico – un
destino che mi ha disteso, per sempre,
su queste panchine senza più domani:
liquefatto
sulla pedana stretta di un cucchiaio,
pattumiera
di queste strade dove ho vagato
invisibile, mitragliato…
                   Non ho
memoria di nessuno io
incontrato in questa vita mai

V.

Ho visto anch’io
molti uomini sputare in me, detestarmi
per ciò che sono, e che divento
impugnando
la mia rovina, ammucchiando
pezzo a pezzo il mio sfacelo.
Perduro, qui, succhiando ancora
due molecole di aria, il raro ossigeno
per la mia bocca diventata buco.

È
davvero in me che termino, benedetto forte
da un cristo di grigiore, da un vangelo
di rabberci e toppe
che non potrà mai più parlarmi…Cavia
al cospetto di quest’occhio
psichiatrico
che sento calare col suo fato su di me.

Galleggio, stanotte,
altissimo sulla mia incoscienza
verso un paradiso
fermo, raggelato. Non ho
rimpianto, non conosco
elegia. Io, che ho detto sì –
io che solo, e da me stesso,
mi sono arato.

VI.

Ho varcato a modo mio
le soglie perentorie dell’ascesi.

Anacoreta
delle panchine, stilita
di infiniti pomeriggi
conficcati qui, tra i condominî
sfigurati dal grigiore
di un esistere qualunque: sono entrato
nel grande monastero delle veglie, ho
spezzato il pane, distribuito l’ostia
per ognuno dei miei giorni
così lontani, polverizzati… Non ho
neppure io
mai più dormito, cercato
sollievo, riposo. È
questa, delle teste
slacciate, pendenti
la sola tregua che mi è stata data.

VII.

Poi non mi hanno mai più trovato.

Da ogni
punto dell’esistere
è giunto, perentorio in me,
questo soffocare
nel vuoto, nell’aria…

Ho, se ben ricordo,
provato io, un giorno,
a paracadutarmi
su una vita più creata,
dentro gli alberi
dove fiorisce l’acqua, ci saluta
un battesimo… Non c’è
niente da dire – volevo dirvi – da
fare
per la vita che si è giurata. Tutto
è stato
un colare a picco
lontano dalla grazia – ma senza errore, ma
con giustizia, con
metodoIo
non ho tremato, mai
mi sono opposto.
Sono stato
la valle stretta, sì, la
pertica abissale
di questa fine – mi sono spinto
così dentro, così
lontano in essa, che sono uscito
dall’altra parte

VIII.

Tenuto
a ridosso infine
di queste ceneri, dove
io stesso assumo, vivente,
la forma invisibile di un fumo
appoggiato come un’ombra su di me…
Ho
bucato la tristezza, sono andato
in quell’angelo di polvere
che mi ha deciso, tempo addietro,
sancendo con imperio lo sterminio.

Sono, di me,
le mie poche braccia
decretate, queste vene
che mi sono abraso
con pazienza – qualcosa
avvenuto in disparte, che si potrà dimenticare…
Ciarpame
vagamente diseducativo
di voi, ho
spento io
con le mie mani questa morte
potentemente scoperchiata in me,
e attinta a lungo
nel forte preludio delle dosi.
Mi so, da sempre,
destinato a scendere, nitidamente,
nel verdetto di un alto milligrammo. Io,
che ho ubbidito – io che solo
sono entrato
nell’indelebile

Alessandro Bellasio è nato nel 1986 a Milano.
Ha pubblicato la raccolta Nel tempo e nell’urto (LietoColle-Pordenonelegge, 2017), segnalata al premio Ponte di Legno Poesia e vincitrice del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como e del Premio di Poesia Città di Fiumicino, sezione “Opera prima”.
Suoi articoli e recensioni sono apparsi su riviste e blog letterari, tra cui Nuovi Argomenti, Poetarum Silva, Rai News Poesia.
Ha tradotto dal tedesco e si è occupato in particolare dei maggiori poeti dell’espressionismo (Georg Trakl, Gottfried Benn, Georg Heym).

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