La poesia di Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Se penso al tempo mio diventa ora di tutti
– il tempo – se mi perdo nel tempo ridivento io.”

Questa poesia di soli due versi è il nucleo centrale per leggere le Poesie abbandonate di Gian Mario Villalta. Poesie non finite, non concluse, lasciate lì, come si lascia l’infanzia e l’adolescenza, su un territorio di confine.

I componimenti parlano del tempo: “se mi perdo nel tempo ridivento io.”, ma il tempo ha cambiato “l’istante dell’estate”. Il corpo ora è nell’inverno, esposto sulla riva di un gran fiume.

La materia dei versi è invasa da una sostanza plasmata, ma non finita, come le sculture sottili e gracili di Giacometti che avanzano senza direzione nello spazio.

Le dita del tempo hanno lasciato impronte dure, abrase, frastagliate sui corpi scolpiti.

Ti ha lasciato più solo quella specie di sogno” scrive Villalta. L’uomo che guarda e ricorda il ragazzo sente di aver consumato il tempo della vita: “un’erba stremata”.

Le poesie si affacciano su un tempo in cui si pensa di sapere, ma non si comprende quel che realmente accade. L’universo dell’adolescenza emerge allora come condizione esistenziale di un presente incompiuto, in cui qualcosa si è “abbandonata”.

Nell’età dell’adolescenza non c’è nessuna traccia della fine o del bene, perché è un’età priva di finalità, nessuna fine o bene, può esserle attribuita. Ecco quindi che l’epoca, la nostra, si sgretola nel paesaggio e dall’isolamento si assiste a una guerra senza armi, senza nemici.

Oltre al primo esergo che richiama le parole di Giacometti, colpisce il secondo esergo, un verso di Andrea Zanzotto: “… vacillano le scale dell’inverno” tratto da Dietro il paesaggio, (1951) raccolta con poesie scritte tra il 1940-1948, il periodo della seconda guerra.

Il poeta porge al lettore solo le iniziali del nome del grande poeta friulano, quasi ci fosse una volontà di anonimato e al tempo stesso un’identificazione con il proprio maestro e tra “la guerra” alla quale ha assistito Zanzotto nella brigata partigiana con scene crude, la morte degli amici, dei compagni e quella alla quale assiste il poeta Villalta. Ecco che ritorna nell’uomo adulto la parola necessaria, che chiede di capire quello che accade nel mondo. Una parola che diventa resistenza, materia dura, fredda, sulla nuda pelle.

 

Poesie abbandonate

Giacometti non si stancava mai di ripetere che un’opera d’arte
non può mai dirsi finita. Semplicemente, la si interrompe o la si
abbandona

… vacillano le scale dell’inverno
A. Z.

Sono libri difficili, pagine oscure, ma non vuoi che ti basti
vivere con il pasto che aspetta coperto da un piatto
dopo la scuola, un futuro migliore di speranze non tue.
Viene luce più tardi. Il cielo rimena
macerie. L’erba è stremata. Tu non capisci tutto
ma sei sicuro che capiscono te
le parole che un uomo ha scritto e ti immagini
la sua vita, con quei pensieri, la pianura
e la città di ferro che ordina in cerchio l’inverno,
luce che piove amara, uno lo ferma per strada
vicino all’erba, ai container, parlano di queste cose.

*

Ti ha lasciato più solo quella specie di sogno
che hai attraversato passando nel corridoio
dal bagno alla cucina dopo che ti ha trascorso
l’istante di un’estate di venti anni fa
– fine della gioventù – un brivido
nella luce gialla di agosto.
Adesso che arriva il piovere
la luce lascia le lastre
per stare nascosta nell’aria.
Tutto è più di una volta. Ascolta mentre rammendano
la musica uccelli e foglie
quanto il tempo è immenso.
Che abbia bisogno di un corpo ossa budella un sesso
e le vene la merda è inaudito che tutto il tempo
abbia bisogno delle tue povere mani per essere qui.

*

Residui pigmenti inseguono la coda dell’occhio
inghiottiti nell’ultimo abbaglio dove lo sguardo
sconfina la luce e quasi è già immaginare.
Figure care del vivere, voi che foste sempre
un tempo, la prima volta già state
foglie, braccia levate, pane.
La terra arata che la pioggia di giorni uguali
fa scura, tenera, buona
e ripiena di semi, di uova, di sogni
molli come le palpebre di un bambino
che ha pianto a lungo, sognando
gli eroi, supini nel vento e nel rosso violento
dei papaveri. Campo di cenere, è inverno
da generazioni. Residui pigmenti inseguono
la coda dell’occhio, rapprendono,
mentre sul ferro da stendere le lenzuola
sono dure come cartone,
lucida in punta agli steli
la brina scioglie: luce bianca dell’est
schiera le mani di tua madre – che cos’è tuo,
cos’è sempre?
Ingenuo più volte smarrisce il secolo.

*

Se penso al tempo mio diventa ora di tutti
– il tempo – se mi perdo nel tempo ridivento io.

*

Da dove sono venuti gli occhi per tutto questo giallo
acido della colza è venuto anche il cielo a guardare.
Nuvole bianche sopra le case, alla radio canzoni e dietro i vetri
nel tepore potrebbero esserci ancora i corpi,
i visi assorti nei pensieri che volano via
dai compiti da finire, dall’acqua che scorre sopra i bicchieri.
Il bambino si chiede se un giorno sarà possibile
perdere ancora questo momento, trascorrere insieme
come in una fotografia che passa di mano in mano
e ognuno dice qualcosa come “Guarda!” “Perché
gli alberi sono neri, là in fondo?” “Ricordo
quanto aveva piovuto” di mano in mano “Questo
sarei stato io – ero con voi – sarei proprio io, vero?”.

_______________

Gian Mario Villalta è Professore di liceo, saggista e narratore (il suo ultimo romanzo si intitola L’apprendista, 2020, SEM editore). Segue da molti anni il panorama poetico italiano (particolare attenzione ha dedicato all’opera di Andrea Zanzotto collaborando al Meridiano Mondadori e curando l’Oscar degli scritti letterari) e scrive poesia, tra i suoi libri più recenti Vanità della mente (Premio Viareggio 2011) e Telepatia (Premio Carducci 2016). È direttore artistico di pordenonelegge, festa del libro con gli autori.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *