Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai, foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie inedite tratte dall’opera prima del giovane autore Due tempi (Ensemble editore, 2021) Prefazione Maurizio Cucchi.

 

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla. Continua a leggere

Mariachiara Rafaiani, “Dodici ore”

di Tommaso Di Dio

Dodici ore è l’aspro resoconto di una felice parzialità. Dodici sono infatti le ore che formano la metà di un giorno e dodici è numero che si impunta su di una soglia e spartisce, per un giorno solo all’anno, la faccia in luce da quella in ombra. Il numero dodici sembra ricordarci che c’è una zona visibile e un’altra oscura, incosciente e perduta, dove tutto può accadere e dove ogni trasformazione trova il suo invisibile inizio. Nondimeno, il numero dodici, fin dalle più antiche tradizioni, è legato alla completezza, alla perfezione: dodici è il numero di chi trova compimento. Dodici sono le tribù che formeranno un popolo, dodici gli amici che saranno testimoni di un dio bizzarro che volle farsi carne e dodici sono i mesi che chiudono un anno come anche le case delle stelle che fin da Babilonia e dalle civiltà dell’Indo indicarono il ritorno del tempo. In questo numero c’è la gioia della perfezione, la festa della totalità; eppure, al contempo, in esso si annida il senso della parte, della partizione, di ciò che, diviso, scorre.

Con questo libro, siamo di fronte ad un esordio, ad una prima prova che non vuole dissimulare mai, neanche per un momento, il suo essere opera integrale di una giovinezza che ancora dura. Una poesia, quella della Rafaiani, che si dichiara programmaticamente in cerca di intensità; che del tempo cerca il picco, la vertigine: il momento quando il tempo sembra si annulli e si viva una vita ironicamente infinita («Il nostro tempo è infinito, buon viaggio», p. 13). Pregio e al contempo suo limite, pagina dopo pagina, si procede fra momenti apicali. Continua a leggere

Michele Hide, “Il baule di Zollikön”

michele_hideE’ uscita con Stampa 2009, l’opera prima di Michele Hide, Il baule di Zollikön, “un esordio assolutoscrive Maurizio Cucchi nella prefazione, “per la maturità espressiva e per l’energia dl linguaggio che attraversa e sostiene una serie di testi che vengono a costituire per più che una prova o una plaquette, ma un vero e proprio libro, la cui fisionomia risulta già molto netta. […]

Michel Hide introduce nei suoi testi paesaggi, personaggi, residui mnestici, che si sono accumulati nel tempo in un vasto depsito forse ancora in gran parte da visitare. Come quel baule del quartiere di Zurigo, appunto Zollikön, con il quale il poeta intitola il suo primo libro. […]
Da un testo all’altro, inoltre, Hide, riesce a muoversi attraverso ritmi e forme diverse, sperimentando, volta a volta, i toni e i registri che più si addicono a ogni specifica situazione, passando così dal verso breve e scandito, a quello più ampio e materico fino a veri e propri brevi passaggi in prosa. Ed è anche in queste capacità di variazione stilistica è un altro segno positivo di una maturità già sorprendentemente acquisita con l’esordio.” Continua a leggere

Alessandra Frison, “Le ore della dispersione”

Anteprima editoriale

E’ appena uscito nelle librerie italiane l’opera prima di poesia di Alessandra Frison “Le ore della dispersione” LietoColle (I Giardini della Minerva) 2013, a cura di Maurizio Cucchi.

“Le ore della dispersione”  è dunque l’opera d’esordio di Alessandra Frison, nata a Zevio, in provincia di Verona, nel 1985, studentessa di Filosofia all’Università Statale di Milano. Le sue prime poesie erano comparse nel 2008 nell’Almanacco dello Specchio Mondadori.  Continua a leggere

A “Notti d’autore” Enzo Cucchi

Enzo Cucchi è il protagonista della terza puntata di “Notti d’autore“, in onda il 24 gennaio alle 0:30 su Rai Radio Uno. Il programma di Luigia Sorrentino che va in onda settimanalmente nella notte tra il mercoledì e il giovedi raccoglie la testimonianza esemplare ed esclusiva di un artista dallo straordinario talento visionario.
Enzo Cucchi è uno dei principali protagonisti della corrente italiana denominata dal critico Achille Bonito Oliva negli anni Ottanta “Transavanguardia”. Una corrente artistica che si proponeva il ritorno dell’arte alla manualità, al disegno, alla vera pittura, per chiudere definitivamente la parentesi dell’arte cosiddetta ‘concettuale’.

L’AUDIO CON L’INTERVISTA A ENZO CUCCHI di Luigia Sorrentino

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Luigia Sorrentino, da “C’è un padre”

La foto di Luigia Sorrentino è di Gerardo Sorrentino

di Carlo Bordini

E’ uscita recentemente l’opera prima di Luigia Sorrentino composta per la maggior parte da poesie giovanili scritte dall’autrice nella seconda metà degli anni Ottanta dal titolo C’è un padre, Manni editore, 2003, pagine 110, € 12.

E’ una poesia orfica, fatta di allusioni, contiguità, empatie, analogie, immagini che spesso danzano e trascolorano continuamente, immagini mutanti, quella che non a caso Milo De Angelis definisce “incanto lucido”.

Le poesie della prima parte si susseguono ritmicamente e danno l’impressione di essere, se non costruite, montate per essere un unicum, (“questo panico è scomposto / dove lo sguardo è escluso / posso dire nessuno domani / avrà tutto /dietro”). Una poesia a volte piena di cantabilità, cantabilità enigmatica (“come il remo che divide l’oceano / accostai l’onda alla bocca / di slancio nel mezzo / tutta sciolta l’anima / voleva inghiottirmi”).

Poesia fatta anche di frammenti, qualcosa come “universi istantanei”, che è il titolo di una sezione del libro, che si susseguono, si completano, si incalzano, e a volte si arrestano in una suggestione pensosa. (“c’è sempre c’è / un chiaro tratto, / separatamente, da qui all’eterno”). E ancora: “il ventre è concluso // le bocche enormi sono pronte // dentro entrerà col suo /cappuccio di ombre / un attimo”.

Dalla sezione “Terra come il nero” la poesia si distende, i ritmi si fanno più lenti, i colori più cinerei, come nella prima poesia della sezione citata. Le immagini suggeriscono una poesia a volte più riflessiva, la ricerca di un’identità: “e sono assolutamente io / quel tipo / esile o pericolosamente / bizzarro al primo vento / incerta estasi / restami pure dicevo”.

Con la lunga poesia “Lacrima Christi”, dedicata al padre, e la sezione “I ricordi” e le successive, si apre idealmente una seconda parte del libro, una poesia più esplicitamente narrativa, più piana, più comunicativa, in cui la commozione si fa descrizione e narrazione. Una poesia che anticipa una terza parte di poesie recenti, non presenti nel libro, e ancora inedite, (“so che non vi è vita né percezione / in questo stato di demenza / il tempo lasciato in qualche scarpa / con la morte sempre in agguato / la morte che guardo / e mi fa male / ad ogni sillaba / e gli uccelli qui sono protetti / e la guerra si svolge altrove”), che danno l’idea di un percorso che si va distendendo e arricchendo in una maggiore complessità, o possiamo dire piuttosto in un più pressante bisogno di musicalità, in cui si accentua il carattere simbolico delle immagini e in cui si intravede il vissuto, e in cui la capacità descrittiva del reale va accentuandosi. Continua a leggere