Paul Celan, una poesia nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan

da Mohn und Gedächtnis,  Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere

Benedetto Croce, “La poesia”


IN COPERTINA
Giambattista Tiepolo, Gruppo allegorico per soffitto (disegno relativo alla decorazione di villa Cordellina, Montecchio Maggiore, 1743). Civici Musei di Storia e Arte, Trieste.

A cura di Roberto Calasso

A distanza di più di trent’anni dall’Estetica, che ebbe immensa risonanza e influenza, ma che naturalmente sollevò anche obiezioni di ogni genere, Croce volle tornare, nel 1934, sui grandi temi di quel libro, precisando tutti i punti delicati della sua teoria – e al tempo stesso, talvolta, sottoponendoli a sottili mutazioni. Il risultato fu La Poesia, che, se ha avuto minore fortuna dell’Estetica, può essere considerata l’opera più matura e complessa di Croce nell’ambito estetico – e quasi il compendio di una vita di riflessioni sulla volatile essenza della letteratura.

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Emilio Rentocchini, “Lingua madre”

EMILIO RENTOCCHINI

di Guido Monti

Con LINGUA MADRE Ottave 1994-2014 libro pubblicatonel 2016 da Incontri editrice (pp. 290, euro 14) Emilio Rentocchini fa confluire in un unico volume, vent’anni di produzione poetica racchiusa in 256 ottave. Si è molto parlato e scritto di questo poeta puro ed anche puro dicitore, che ha ricevuto a suo tempo attestati di stima e sicuro affetto tra gli altri da uno dei grandi del secondo novecento Giovanni Giudici. E nella sentita prefazione che Gianni D’Elia scrisse sul libro Ottave edito da Garzanti nel 2001 si legge: “Uscito nei primi anni Novanta sulla rivista “Lengua”, Rentocchini colpiva immediatamente per la voce sicura, fin dal primo verso, dove la consumazione della lingua dei parlanti è la dichiarazione della verità dialettale, ma non solo di quella…” e D’Elia ha pienamente ragione perché se indubitabilmente le ottave sono scritte nella forma del dialetto sassolese, esse proprio per profondità di sentire ed apoditticità di dettato, ci restituiscono quel brivido senza scampo, quella consapevolezza definitiva sull’esistere che deve possedere e trasmettere la poesia tout court, non importa se dialettale o in lingua. Torno un attimo indietro, perché poeta puro? perché penso e questo accade raramente ai poeti, perché i più in verità divengono tali, come si dice, sviluppando i propri talenti ed affinandoli anche in maniera encomiabile, che Emilio Rentocchini invece sia posseduto in nuce da un alto spirito artistico che poi è spirito dei tempi, dei secoli, che sembra d’un tratto convergere nei suoi testi quasi chiamandolo a scrivere nel metro dell’ottava ariostesca e chissà forse è azzardato dire che Ludovico Ariosto, contiguo anche territorialmente, parli in lui? o è lui a interrogarlo ed il poeta rinascimentale a rispondere ma comunque questo intreccio di lingue, di spazi, è lampante, nel fiume impetuoso del testo dove si potrebbe parlare di brusio, rumore dell’intertestualità, per citare Ezio Raimonidi ed i suoi memorabili studi sul Petrarca lettore di Dante. Continua a leggere

Benedetta Craveri, “Gli ultimi libertini”

                                         

Craveri_7591«Gli ultimi libertini, (Adelphi, 2016) racconta la storia di un gruppo di aristocratici la cui giovinezza coincise con l’ultimo momento di grazia della monarchia francese»: sette personaggi emblematici, scelti non solo per «il carattere romanzesco delle loro avventure e dei loro amori», ma anche (soprattutto, forse) per «la consapevolezza con cui vissero la crisi di quella civiltà di Antico Regime … con lo sguardo rivolto al mondo nuovo che andava nascendo». Continua a leggere

Silvio Perrella, video intervista

Silvio Perrella

Intervista a Silvio Perrella
di Luigia Sorrentino
Napoli, 30 ottobre 2006

 

 

Qual è la forma di Napoli? Quella che si vede in superficie, o quella nascosta, sotterranea, piena di inquietudini e di Storia? E qual è il legame tra la città che sta sopra e quella che sta sotto? Silvio Perrella, scrittore e critico, nato a Palermo nel 1959, ma trapiantatosi a Napoli negli anni Settanta, in Giùnapoli (Neri Pozza, 2006) muove i suoi primi passi «alla scoperta della città dai mille clamori» rischiando continuamente di perdersi, trascinando con sè un filo per riconnettersi, come ha scritto Elena Ferrante, ai «luoghi disintegrati delle emozioni», tessendo continuamente la domanda: qual è la forma di Napoli, la sua natura sfuggente che riduce in cenere ogni sua immagine o rappresentazione? La passeggiata con Silvio Perrella alla scoperta di Napoli inizia dal ventre della città, da Via Benedetto Croce, luogo in cui il protagonista di Giùnapoli, conclude il suo viaggio. E’ qui che Perrella scopre, e lo scopre camminando, il suo profondo innamoramento per Napoli e per i ‘giganti’ che la abitarono. Uno di questi fu Benedetto Croce.

Nel suo libro lei a un certo punto racconta di Benedetto Croce e dice: «C’è un gigante ibernato, di cui è possibile vedere ogni dettaglio e sentire ancora il respiro. Ha ancora gli occhi aperti. Aspetta pazientemente. Sì, un gigante che ha nascosto le ali tra i libri. E bisogna essere un po’ archeologi per sentirne la presenza. Anche dall’alto, con il binocolo, si dovrebbe vedere una figura disseminata nella città, qualcosa di unico, che nelle altre città italiane non esiste. Un uccello preistorico e moderno, una fenice e un albatros.» (da Giùnapoli, pag. 169.) Lei intende dire che la presenza di questo «gigante ibernato», Benedetto Croce, ricongiunge, metaforicamente, la Napoli che si vede dall’alto con quella che si vede dal basso. E noi, ora, stiamo passando proprio davanti al palazzo dove visse questo ‘gigante’…


«Noi siamo ora in Via Benedetto Croce. Siamo appena passati da Palazzo Filomarino. Lo ha mai visitato? E’ un luogo molto particolare: conserva la biblioteca di Benedetto Croce. Io credo che in Italia, e forse in Europa, vi siano poche altre biblioteche private di questo genere, entro cui c’è ancora qualcosa che è visibile, cioè la voglia, il desiderio e la possibilità di concentrare il sapere nella mente di un solo uomo. Visitare la biblioteca di Croce, come io faccio fare al protagonista del mio libro, è un momento in cui Napoli ci racconta e ci suggerisce qualche cosa che ti fa capire la sua Grandezza, quanto sia stata innestata nella Storia e quanto, speriamo, lo sia ancora.»

 

Perrella, immaginiamo ora di essere proprio nella Napoli degli anni ’70, quando il protagonista del suo libro arriva a Napoli. Qual è la sua storia?

«La storia di iniziazione di uno straniero. Che venga da Palermo è importante, ma lo è fino a un certo punto… E’ la storia di uno che non è nato a Napoli, ma che a Napoli cerca una conoscenza. Vuole fare esperienza, vuole capire se è possibile vivere a Napoli. Lui è affascinato, all’inizio. Napoli gli dà un impatto violento, difficile, lo spiazza, però nello stesso tempo gli suggerisce che la città è come se possedesse un corpo. Napoli, improvvisamente, gli si configura come un corpo che si relaziona al tuo corpo individuale, un corpo più vasto, un corpo sociale, stratificato, complesso, che chiede una conoscenza e chiede lo sguardo di chi sa penetrare, di chi non si ferma alla superficie, di chi appunto, va Giùnapoli, non solo dal punto di vista urbanistico e strutturale, seguendo la verticalità della città, ma che va anche al di sotto dei luoghi comuni, che non si ferma.»

E poi? che cosa succede al suo protagonista?

«Camminando scopre che la conoscenza della città è possibile solo se ci si avventura, per le scale, per i gradini, per i gradoni, per il Petraio, per la Pedamentina. Predilige, ad esempio, le funicolari, che sono un mezzo di trasporto verticale che congiunge rapidamente parti diverse delle città. E a un certo punto si rende conto di una cosa che non sempre è raccontata in modo così evidente: che Napoli ha una verticalità molto forte e che questa verticalità non è solo legata all’architettura ma è anche una verticalità sociale, e lui sente che è necessario connettere l’alto con il basso, e scopre che quando si connettono l’alto e il basso, e cioè il ‘giùnapoli’ e il ‘sùnapoli’, la città diventa grande, diventa importante, diventa la più grande metropoli europea, come diceva Elsa Morante in un suo scritto.»

 

Giùnapoli

Noi ora stiamo percorrendo a piedi la parte più antica della città. Con un solo colpo d’occhio, voltandoci indietro, possiamo vedere in uno scorcio lontano, la Napoli Alta: la Certosa di San Martino e Sant’Elmo. Uno dei paesaggi più suggestivi della città.

«Noi siamo ora a Piazza San Domenico Maggiore. In questa piazza vale la pena di fermarsi per vedere proprio la verticalità di cui parlavo prima. Siamo nella zona che si chiama Spaccanapoli: ci sono tante strade e il decumano Maggiore, siamo nella struttura greco-romana: da qui possiamo vedere chiaramente la città che va verso l’alto, verso Castel Sant Elmo, e la Certosa di San Martino situata sulla sommità della collina. Il rapporto tra il basso della città e l’alto della collina ricorda l’Acropoli di Atene, e fa pensare, anche, alla possibilità che ci sia stata a Napoli una fondazione molto antica. Tanto è vero che, per molto tempo, il rapporto tra alto e basso della città era assicurato da una unica strada, la Pedamentina.» Continua a leggere