Portrait di Georg Heym (1887 – 1912)

Georg Heym

Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità, vi proponiamo il terzo e ultimo contributo di Alessandro Bellasio su Georg Heym, dopo essere entrati nell’esperienza estetica di Gottfried Benn e di George Tralk.

COMMENTO DI ALESSANDRO BELLASIO
Traduzioni di A. Bellasio

Quando, risucchiato dalle correnti gelide dello Havel, dove si è tuffato per salvare l’amico Ernst Balcke, Georg Heym muore, non ha ancora 25 anni, ma si lascia alle spalle un corpus di centinaia di poesie, oltre alle prose.
La morte per annegamento è un motivo ricorrente della sua opera, attestata anche dall’unica raccolta pubblicata in vita, Der ewige Tag (accanto al riferimento classico di Ofelia, ne abbiamo testimonianza in poesie come Schwarze Visionen, o Die Tote im Wasser). E d’altra parte, il motivo si rivela presagio di un destino. L’espressionismo perde di colpo il proprio enfant prodige, il suo giovanissimo, implume Baudelaire (tale era considerato Heym ai suoi esordi). Il poeta della Berlino irrequieta e ipertrofica di inizio novecento se ne andò talmente presto che di lui a malapena poterono registrare le cronache, eccezion fatta per quelle letterarie.
Heym che fu, probabilmente, il più espressionista fra tutti gli espressionisti – o meglio: un caposcuola, il poeta in cui certe distillazioni simbolico-metaforiche, comuni a un’intera generazione, vennero aggregandosi secondo una chimica divenuta poi classica: la metropoli patibolare e predatrice, lo scatenamento delle forze distruttive nell’uomo moderno, orfano di dio quanto di sé stesso, la perdita del baricentro, il dissidio tra malinconia e rivolta, e quel peculiare senso di catastrofe imminente che avvolge i suoi versi di una inconfondibile luce violacea – quel perimetro livido entro cui vaga e precipita un’umanità debilitata, spettrale.
Umbra vitae, non a caso, è l’eloquente titolo della seconda raccolta del poeta slesiano, pubblicata postuma poco dopo il tragico epilogo della sua breve esistenza. Tutta vissuta sotto l’astro folgorante della poesia.
Una poesia che ricorre volentieri a forme chiuse, quasi a voler mettere sotto chiave, a voler cintare e contenere quelle forze laceranti e disgregatrici che si trovarono a fronteggiare i poeti dell’epoca post-nietzscheana; in un mondo, quello germanico dell’età guglielmina, percorso da tensioni politiche e da linee di faglia metafisiche che avrebbero in effetti dovuto condurlo alla deflagrazione. E forse, proprio quelle forze e tensioni vennero a delinearsi nella personalissima tassonomia di Heym, nell’avvicendarsi di figure al limite e del limite che popolano la sua poesia: i silenziosi, i suicidi, i folli – le diverse manifestazioni di un’umanità che assume il proprio destino ormai solo in virtù del carico di rovina e decadimento che esso comporta.
E, su tutto, plumbea e abissale, Berlino – vero nucleo di irradiamento del poema heymiano, catalizzatore elettivo e nodo di massima tensione psichica tra esistenza e secolo, come fu per la Parigi di Baudelaire. Berlino che, quasi a suggellare il patto di sangue con il suo poeta, volle chiamarlo prematuramente a sé, tuffandolo nel nastro ghiacciato dei suoi fiumi, e gelandogli per sempre nella bocca il canto di odio e amore che egli volle consacrarle.

Berlin (II)

Der hohe Straßenrand, auf dem wir lagen,
war weiß von Staub. Wir sahen in der Enge
Unzählig: Menschenströme und Gedränge,
und sahn die Weltstadt fern im Abend ragen.

Die vollen Kremser fuhren durch die Menge,
papierne Fähnchen waren drangeschlagen.
Die Omnibusse, voll Verdeck und Wagen.
Automobile, Rauch und Huppenklänge.

Dem Riesensteinmeer zu! Doch westlich sahn
wir an der langen Straße Baum an Baum,
der blätterlosen Kronen Filigran.

Der Sonnenball hing groß am Himmelssaum.
Und rote Strahlen schoß des Abends Bahn.
Auf allen Köpfen lag des Lichtes Traum.

Berlino (II)

Seduti lungo il ripido e polveroso
ciglio della strada, contemplavamo
la folla innumerevole e confusa,
e, immensa nella sera, la metropoli lontana.

I tram stracolmi e imbandierati
si aprivano un varco tra la gente.
Autobus, zeppi e sudici, fendevano le strade.
Strepito di clacson, fumo, automobili…

Verso lo sterminato mare di cemento! Eppure
a ovest si profilava, di albero in albero,
la filigrana dei rami spogli.

Pendeva enorme il sole, ai limiti del cielo,
e la volta della sera sprigionava i suoi raggi rossi.
In alto, su tutto, il sogno della luce.

 

Die Ruhigen

Ernst Balcke gewidmet

Ein altes Boot, das in dem stillen Hafen
am Nachmittag an seiner Kette wiegt.
Die Liebenden, die nach den Küssen schlafen.
Ein Stein, der tief im grünen Brunnen liegt.

Der Pythia Ruhen, das dem Schlummer gleicht
der hohen Götter nach dem langen Mahl.
Die weiße Kerze, die den Toten bleicht.
Der Wolken Löwenhäupter um ein Tal.

Das Stein gewordene Lächeln eines Blöden.
Verstaubte Krüge, drin noch wohnt der Duft.
Zerbrochene Geigen in dem Kram der Böden.
Vor dem Gewittersturm die träge Luft.

Ein Segel, das vom Horizonte glänzt.
Der Duft der Heiden, der die Bienen führt.
Des Herbstes Gold, das Laub und Stamm bekränzt.
Der Dichter, der des Toren Bosheit spürt.

I silenziosi

A Ernst Balcke

Una vecchia barca, che nel porto quieto
quando è sera ondeggia alla catena.
Gli amanti che dormono dopo i baci.
Una pietra che giace in fondo al pozzo verde.

Il riposo della Pizia, che somiglia
al sonno degli dèi dopo il banchetto.
La candela pallida che sbianca il morto.
Le creste delle nuvole, sopra la vallata.

Il sorriso pietrificato di un demente.
Le coppe impolverate, abitate ancora da profumi.
Violini rotti nel ciarpame dei solai.
L’aria densa, che precede il temporale.

Una vela che splende all’orizzonte.
Il profumo dei campi, che richiama le api.
L’oro dell’autunno, che incorona foglie e tronchi.
Il poeta, che sente la crudeltà della soglia.

Letzte Wache

Wie dunkel sind Deine Schläfen.
Und Deine Hände so schwer.
Bist Du schon weit von dannen,
und hörst mich nicht mehr.

Unter dem flackenden Lichte
bist Du so traurig und alt,
und Deine Lippen sind grausam
in ewiger Starre gekrallt.

Morgen schon ist hier das Schweigen
und vielleicht in der Luft
noch das Rascheln von Kränzen
und ein verwesender Duft

aber die Nächte werden
leerer nun, Jahr um Jahr.
Hier wo Dein Haupt lag, und leise
immer Dein Atem war.

Ultima veglia

Come sono buie le tue tempie.
E le tue mani così pesanti.
Da molto te ne sei andato,
e non puoi più ascoltarmi.

Sotto le luci tremolanti
sei così triste e antico, Tu,
e la tua bocca raggelata
da una fissità terribile, perenne.

Al mattino è già qui il silenzio
e forse nell’aria ancora
il fruscio delle corone,
un odore di cosa morta e perduta

le notti che si fanno
più vuote ora, anno dopo anno.
Qui, dove posavi il capo, e lieve
fu sempre il tuo soffio.

Berlin (V)

Der Regen rauscht in einer weissen Wand.
Die Wolken fliehn, als ob die Sturm zerbliese.
Das Regenwasser läuft am Strassenrand
und auf dem Asphalt hin in heller Brise.

Die Strassenbäume schwanken an den glatten
Pfählen, und zeigen weiss den Blättergrund.
Wie eine schwarze Schar von großen Ratten,
so stehn die Schirme vor des Bahnhofs Mund.

Berlino (V)

La pioggia scroscia in una muraglia bianca.
Le nubi fuggono squarciate dal temporale.
E ai bordi delle strade l’acqua
è un vento di luce sollevato sull’asfalto.

Per strada gli alberi oscillano tra i pali,
il vento rovescia le foglie argentate.
Neri, come una schiera di enormi ratti,
brulicano gli ombrelli nelle fauci della stazione.

Nach der Schlacht

In Maiensaaten liegen eng die Leichen,
im grünen Rain, auf Blumen, ihren Betten.
Verlorne Waffen, Räder ohne Speichen,
und umgestürzt die eisernen Lafetten.

Aus vielen Pfützen dampft des Blutes Rauch,
Die schwarz und rot den braunen Feldweg decken.
Und weißlich quillt der toten Pferde Bauch,
Die ihre Beine in die Frühe stecken.

Im kühlen Winde friert noch das Gewimmer,
Von Sterbenden, da in des Osten Tore
Ein blasser Glanz erscheint, ein grüner Schimmer,
Das dünne Band der flüchtigen Aurore.

Dopo la battaglia

I cadaveri giacciono fitti nei campi,
lungo i margini verdi, sui fiori, i loro letti.
Armi perdute, ruote senza raggi,
cannoni di ferro rovesciati.

Dalle pozze di sangue si alzano vapori,
rossi e neri ricoprono il sentiero bruno.
Dai cavalli morti colano le viscere biancastre,
le loro zampe irrigidite si stagliano nel mattino.

Nel vento freddo gela ancora il lamento
dei moribondi, e a oriente balugina
una pallida luce, un verde bagliore,
l’esile nastro dell’aurora fuggitiva.

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Alessandro Bellasio è nato nel 1986 a Milano.
Ha pubblicato la raccolta Nel tempo e nell’urto (LietoColle-Pordenonelegge, 2017), segnalata al premio Ponte di Legno Poesia e vincitrice del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como e del Premio di Poesia Città di Fiumicino, sezione “Opera prima”.
Suoi articoli e recensioni sono apparsi su riviste e blog letterari, tra cui Nuovi Argomenti, Poetarum Silva, Rai News Poesia.
Ha tradotto dal tedesco e si è occupato in particolare dei maggiori poeti dell’espressionismo (Georg Trakl, Gottfried Benn, Georg Heym).

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