Victor Hugo, “Mazeppa e altre poesie”

Victor Hugo

 

Dall’introduzione
di
Stefano Duranti Poccetti

 

Avvinarsi a queste poesie non è stato sempre semplice, intrise come sono di riferimenti storici e anche mitici. È stato perlopiù impossibile, purtroppo, mantenere i giochi di rima dell’Autore.

Mi sono concentrato piuttosto – più da poeta che da traduttore – sulla fedeltà all’aspetto concettuale e mistico di Hugo, entrando con lui in rapporto empatico, cercando di dare alle liriche l’aspetto più piacevole possibile e in questo, nella maggioranza dei casi, è stata la stessa lingua francese, di norma non così divergente dalla nostra, a dettarmi l’andamento, i tempi giusti, la parola appropriata; ma, quando questo non è stato possibile, è normale avere trovato degli escamotage che spero saranno accettati dai lettori e soprattutto dallo stesso Hugo, che, chissà, magari ci starà osservando da qualche parte mentre ci accingiamo a ripristinare con lui un legame nel ricordo della sua poetica, troppo spesso dimenticata.

Nel mio piccolo, offro questa raccolta, dopo che con la casa editrice Nulla Die avevo pubblicato la traduzione de Les Chevaliers errants.

 

Mazeppa

 

(A M. Louis Boulanger)
Away! – Away! –
En avant! En avant!
Byron, Mazeppa

 

Allora Mazeppa, stridente e piangente,
vede braccia, piedi, fianchi dalla sciabola lambiti
e tutte le sue membra legate
a un arroventato cavallo nutrito d’erbe marine,
irrequieto, emanante fuoco dalle narici
e fuoco dai piedi.

Quando è attorcigliato nei nodi come un rettile,
ha ben da rallegrarsi della sua rabbia inutile
il carnefice, tutto esultante
di vederlo infine cadere sulla feroce groppa,
sudore sulla fronte, saliva alla bocca,
sangue negli occhi.

Si sente un grido e subito ecco per la pianura
l’uomo e il cavallo in fuga senza respiro
sulle mobili sabbie,
soli, riempendo di rumore il vortice di polvere.
Simili alla nera nuvola in cui serpeggia il fulmine
volano insieme ai venti!

Vanno. Nelle valli passano quali tempesta,
come quegli uragani raccolti nei monti,
quale globo infuocato.
Poi, già non sono altro che un punto nero nella bruma,
sfacendosi nell’aria quale fiocco schiumante
nel vasto oceano blu.
Vanno. Lo spazio è esteso. Nel deserto immenso,
nell’orizzonte senza fine che ricomincia
entrambi s’immergono. Continua a leggere

John Keats, Ode all’autunno

John Keats

All’autunno

Tempo di nebbie e d’ubertà matura,
Dell’almo sole amico prediletto;
Tu che, seco, la vite ti dai cura
Di far felice d’uve, intorno al tetto,
E di pomi i muscosi alberi adorni,
Gonfi la zucca, e alle nocciuòle un sapido
Gheriglio infondi, e i frutti empi di nettare,
E ancor fai gemme, ultimi fior per l’api,
Ond’esse credon che coi caldi giorni
Sopra la terra Estate ognor soggiorni,
Per cui trabocca ogni umida celletta:

Chi non ti ha visto tra le tue ricchezze?
Talor chi cerca scopre te: sei colco
Su un’aia, pigro, ventilanti brezze
Fra i tuoi crini asolando; o presso un solco
Mezzo-mietuto, mentre il tuo falcetto
Lascia di tagliar l’erba e i fiori attorti,
T’infondono i papaveri il sopore;
O, attraversando un rivo, il capo eretto,
Come spigolatrice, a volte porti;
O, ad un torchio di sidro, gli occhi assorti
Tu fissi al gemitio per ore ed ore.

Dove son, dove i cantici di Maggio?
Non pensarvi, hai tu pur tua melodia:
Quando, affocando il dì che muor, d’un raggio
Roseo le stoppie opaca nube stria,
Un coro di zanzare si querela
Tra i salci fluviali, in basso o in suso
Spinte, secondo il vento cada o aneli,
E dai borri gli agnelli adulti belano,
Cantano i grilli, ed un gorgheggio effuso
Fa il pettirosso da un giardino chiuso,
Rondini a stormi stridono pei cieli.

Traduzione di Mario Praz Continua a leggere

Una poesia inedita di Peter Balakian

Peter Balakian

Erbe dell’ignoto

Non dimenticare l’estate del covid
era verde con il sole nel centro di New York.

Ricorda che il verde era traslucido,
foglia di olmo giallo-blu e aghi di abete rosso,

il verde delle strisce opache di Rothko
il verde di Giotto fatto con tuorli d’uovo sull’intonaco,

il verde sfocato delle ninfee a Giverny
il verde di Arshile Gorky nei giardini di Van,

verde traslucido dell’uva sul davanzale
il latte versato sulla tazza di maiolica verde,

i cipressi di Van Gogh nel vento di Arles
che soffia sulle onde verde salvia del Rodano —

nell’orchidea falcata
tra le fronde della Giungla di Rousseau

e il verde d’inchiostro e acqua sulla lavagna di Maria
che mi ha svegliato prima dell’alba —

il muro bianco della mia stanza che incornicia il mondo
prima di contemplare un campo di farfalle ansiose.

Mente di strisce ed emulsioni. Erbe dell’ignoto.
Resta. Nel ritorno. Tuorli d’uovo sull’intonaco.

Peter Balakian, da No Sign, University of Chicago Press, 2022, traduzione di Alberto Fraccacreta. Continua a leggere

Mariella Mehr, “L’ultimo miglio di tempo”

Mariella Mehr – traduzione di Anna Ruchat – immagini di Teresa Iaria

 

 

 

Zugeschmerzt
meine letzte Meile Zeit,
sinnlos, ihr lesbare Vergebung
anzubieten.

Etwas wie Blut schmückt meine Hand,
als hätte ich gestern noch
in Fleisch gewühlt mit meinem
Verrat am wispernden Mond.

Die Trauer zwängt sich aus den Ketten,
forscht nach der Farbe, die ich nicht trage.

Nur die Füsse, eine untrügliche Spur,
hinterlassen sich angemessen im Schnee.
Er wird zum lasterhaften Rot beim Betreten,
unbegehbar für andere.

Abgesonnen ist jedes deiner Liebesworte,
unnütz geworden Geste und Blick.

Und doch, und doch
verspinnt mich bei
Niedrigwasser der Foenna
eine Fee zu Kummer,

als wäre da einer der hat,
was mir bisweilen nachts zu
sein gelingt.

Chiuso nel dolore
il mio ultimo miglio di tempo
non ha senso offrirgli una remissione
leggibile.

Qualcosa che somiglia al sangue ingioiella la mia mano
come se ancora ieri avessi
frugato nella carne col mio
tradimento alla luna sussurrante.

Il lutto si libera dalle catene
cerca il colore che io non porto.

Solo i piedi, una traccia inconfondibile,
lasciano la misura di sé nella neve.
Di un rosso vizioso diventa quando la calpesti
impercorribile per altri.

Di senso inverso è ognuna delle tue parole d’amore
il gesto, lo sguardo ormai inutili.

Eppure, eppure,
una fata,
nei giorni di secca della Foenna
mi porta dolore

come se ci fosse qualcuno che ha
quello che ogni tanto di notte
mi riesce di essere.

 

© Mariella Mehr e per le immagini Teresa Iaria

 

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L'”Ulisse”, il capolavoro di Joyce, torna nella traduzione di Alessandro Ceni

In vista del centesimo anniversario della pubblicazione, nel febbraio 2022, il capolavoro di Joyce torna in una nuova traduzione a cura di Alessandro Ceni.

Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.

Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.

 

 

Nota introduttiva
di Alessandro Ceni

Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.

                                           Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio

La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.

James Joyce, Ulisse

1. Abracadabra

Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.

2. Abracadabra

Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).

3. Abracadabra

Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.

Philip Larkin, da “High windows”

Philip Larkin

When I see a couple of kids
And guess he’s fucking her and she’s
Taking pills or wearing a diaphragm,
I know this is paradise

Everyone old has dreamed of all their lives—
Bonds and gestures pushed to one side
Like an outdated combine harvester,
And everyone young going down the long slide

To happiness, endlessly. I wonder if
Anyone looked at me, forty years back,
And thought, That’ll be the life;
No God any more, or sweating in the dark

About hell and that, or having to hide
What you think of the priest. He
And his lot will all go down the long slide
Like free bloody birds. And immediately

Rather than words comes the thought of high windows:
The sun-comprehending glass,
And beyond it, the deep blue air, that shows
Nothing, and is nowhere, and is endless.

Da High windows (1974)

Quando vedo una coppia di ragazzi
e immagino che lui se la chiava, che lei
prende la pillola o porta il diaframma
penso “questo è il paradiso

che ogni vecchio ha sognato per una vita intera”.
Catene e riti buttati via da qualche parte
come una vecchia mietitrebbia
e tutti i giovani che scivolano

verso la felicità, senza fine. Mi chiedo
se quarant’anni fa qualcuno mi ha
guardato pensando “così dev’essere la vita,
niente più Dio, basta sudare nel buio

pensando all’inferno e cose simili;
e perché mai celare quello che pensi del prete?
Lui e i suoi sgherri scivoleranno via
come liberi uccelli di sangue. E subito,

più delle parole, penso alle finestre alte:
il vetro che assorbe il sole
e lì nell’oltre-azzurro, un’aria profonda che non dice niente
e non è da nessuna parte. E non finisce.

Traduzione di Giovanni Ibello Continua a leggere

Paul Claudel, “La Scarpetta di raso”

Paul Claudel

La letteratura come gioia

Traduzione, note e saggio critico di Simonetta Valenti

Doña Prouhèze. — […] Perché far finta di non credermi quando credi a me disperatamente, povero infelice!
Dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità.
il Vice-re. — A che cosa mi serve questa gioia se tu non puoi donarmela?
Doña Prouhèze. — Apri ed essa entrerà. Come fare per donarti la gioia se tu non le apri quella sola porta attraverso la quale posso entrare?
Non si possiede affatto la gioia, è la gioia che ti possiede. Non le si pongono condizioni.
Quando avrai fatto ordine e luce in te, quando ti sarai reso capace di essere compreso, è allora che essa ti comprenderà.

il Vice-re. — Quando sarà, Prouhèze?
Doña Prouhèze. — Quando tu le avrai fatto posto, quando avrai ritirato te stesso per farle posto, a questa cara gioia! Quando la chiederai per sé stessa e non per aumentare in te ciò che le fa opposizione.

_____________

Paul Claudel, La Scarpetta di raso, XIII scena, III giornata, traduzione, note e saggio critico di Simonetta Valenti, Le Château Edizioni, Aosta 2011.

 

COMMENTO

DI

ALBERTO FRACCACRETA

 

La Scarpetta di raso (Le Soulier de satin) è il capolavoro di Paul Claudel (1868-1955). Fu pubblicata nel 1929 e fu messa in scena solo dopo molti anni, con grande fatica. La traduzione integrale della pièce — scritta sia in versi e in prosa — si deve all’appassionata edizione proposta da Simonetta Valenti, uscita nel 2011 per Le Château, arricchita da note preziose e da un commento esplicativo. Di cosa parla La Scarpetta di raso? È un opus magnum al limite della rappresentabilità, affollato da decine di personaggi e di quadri d’azione, emblema del teatro totale, anzi del «teatro-mondo» tipico della sterminata fantasia dell’autore francese. Eppure, le quattro giornate in cui si svolge il dramma hanno alcuni ‘fili’, alcuni motivi conduttori, che ne riescono a esemplificare il messaggio. Come sottolinea la curatrice, un ‘filo giallo’ è ad esempio legato al tema del potere e della conquista; un ‘filo blu’ coincide con l’ineffabile intervento del mondo spirituale a favore dei protagonisti della vicenda; un ‘filo verde’ riguarda il discorso sull’arte che lo stesso Claudel lungamente imbastisce, presentando l’ipotesi di un’arte ‘cattolica’, capace di toccare ogni angolo del cosmo e di dimostrarsi universale.

Ma soprattutto c’è un ‘filo rosso’. Su questo vorrei soffermarmi. Sì, perché le multiple, multiverse e labirintiche scene della Scarpetta di raso sono riassumibili in poche battute: l’amore di Don Rodrigue per Doña Prouhèze. Un amore ovviamente contrastato, che cerca di fissarsi nell’eterno e che ha suscitato splendide riflessioni — dal teologo Hans Urs von Balthasar a Carlo Bo — sulla natura non soltanto pragmatica (affettiva) di questo amore, ma anche per i suoi significati simbolici, filosofici, teologici. La storia è semplice: in un Seicento ancora fortemente ‘combinatorio’ Prouhèze è sposata prima con l’anziano Don Pelayo, poi — morto il coniuge — con il vile Don Camille. In entrambi i casi non può venir meno al vincolo matrimoniale, che accetta per obbedienza e per necessità. Don Rodrigue, che lei ama riamata, non può che desiderarla in un altro spazio e in un altro tempo, oltre le catene della necessità. Continua a leggere

Una poesia di Charles Simic

Charles Simic

 

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

____________

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan Continua a leggere

Vince Fasciani, “ho dimenticato l’anima in lavanderia”

Vince Fasciani

la mancanza di forza morale mi irrita la gola

a volte la mia anima     pende                                     nel vuoto

penso che stia accadendo qualcosa

preferisco rimanere anonimo

ho difficoltà a respirare

***

jacot                                         il grigio del gabon canta lontano

con la sua voce ferma e rauca

probabilmente mi sto facendo delle idee

la mia anima vola come distaccata da me

vado a trovare il grande architetto

dell’universo

la mia mente è tenuta insieme per opera dello spirito santo

devo passare l’aspirapolvere

non sono sicuro di poter finire la mia vita

in tempo

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Wallace Stevens, “Fabliau of Florida”

Wallace Stevens

Fabliau of Florida

Barque of phosphor
On the palmy beach,

Move outward into heaven,
Into the alabasters
And night blues.

Foam and cloud are one.
Sultry moon-monsters
Are dissolving.

Fill your black hull
With white moonlight.

There will never be an end
To this droning of the surf.

Fabliau della Florida (traduzione di Giovanni Ibello)

Barca di fosforo
Sulla spiaggia di palme,

Spingiti verso la soglia del cielo
Negli alabastri
E nei blunotte.

Schiuma e nuvola sono la stessa cosa.
Gli aridi mostri lunari
Si dissolvono.

Riempi il tuo buio scafo
Con luce di luna.

Mai sarà detta, mai la fine
A questa liturgia di risacca.

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La poesia di Paul Éluard

Paul Éluard

 

L’eterna primavera nella poesia di Éluard

di Mario Famularo

 

Limitare la questione stilistica sulla poesia di Éluard alle istanze e caratteristiche del movimento surrealista, per quanto fondamentali a comprenderne la storia e il percorso letterario, sarebbe un errore: la sua parola nasce da un’altissima compenetrazione di convincimento etico, vicissitudine sentimentale e trasfigurazione di tali elementi verso l’universalità dell’esperienza umana, di ogni uomo e di ogni donna.

Nel corso della sua lunga opera poetica, da Capitale de la douleur a Le temps déborde, fino a Le phénix, le figure femminili sono sempre differenti, nella biografia dell’autore: dalla dolorosa separazione con Gala, avvenuta in giovane età, al lungo sodalizio con Nusch, che terminerà con la sua morte, fino alla rifioritura piena con Dominique, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita.

Ma “l’altezza del tono”, riconosciutagli anche da Fortini (che ha tradotto diversi suoi testi, in particolare raccolti in un pregevole lavoro antologico pubblicato da Einaudi) ha proprio tale caratteristica costante, nonostante i temi trattati si estendano alla riflessione civile e storica: quella sentimentale, in senso ampio.

Il perimetro delle singole personalità femminili tende a farsi sottile e a evadere dai margini identificativi e biografici, al punto che i suoi ultimi testi potrebbero benissimo riferirsi a ciascuna di esse, come se ogni donna della vita di Éluard avesse contribuito alla formazione di un’unica immagine femminile, assoluta, in cui ciascuna di esse converge; e a fronte di questo ricco femminino illimitato, le aspirazioni del poeta, anche quando sfiorano le tematiche civili, storiche e morali, tendono a replicare la medesima istanza di universalità anche con il valore umano del soggetto, dell’io lirico, verso la stilizzazione assoluta di un sentimento puro che unisce tutti gli uomini.

È una caratteristica che si evolve nel corso degli anni e delle opere, ma che già in pochi testi si può riconoscere per le caratterizzanti attribuzioni vicine al sacro, in cui l’intreccio con i residui dell’esperienza surrealista si impone in immagini cristalline, nitide, dove la dimensione del sogno si legittima come pura ed autentica interpretazione del reale.

E così la donna è “figlia di una primavera / che non finisce”, che ride dell’insensata violenza degli uomini, ed è “sempre in fiore”, con i “piedi fermi”, “tenera con i forti” e “debole con i teneri” – un’immagine in cui dolcezza e autorevolezza si intrecciano, dove la debolezza delle reciproche solitudini umane si fa possibilità di una forza illimitata che accomuni ognuna di esse: di solitudine in solitudine verso la vita.

E se la debolezza dell’ “uomo nel vuoto”, che si riconosce “sordo cieco muto / sopra un immenso piedistallo di silenzio nero”, in un “assoluto di uno zero ripetuto” sembra già, nel riconoscere la purezza della notte e l’immacolata bellezza del mondo, un’aspirazione sentimentale alla bellezza, tale debolezza si trasforma in valore umano, attraverso l’esperienza pura del sentimento, trasfigurata: “all’improvviso parlando mi sento vincitore / più chiaro e più vivo più fiero e migliore / più vicino al sole”, ed ecco che i riferimenti all’infanzia (“In me nasce un bambino … di sempre che nasce da un bacio unico”) impongono un sentire autentico e allo stesso tempo primigenio, incorrotto e viscerale, non mediato: “la morte è vinta e un bambino emerge dalle rovine / dietro di lui le rovine e la notte scompaiono”.

La notte, che nella solitudine era pura, svanisce di fronte alla potenza di questa assolutizzazione dell’esperienza sentimentale, che in Éluard diventa totalizzante, incontro tra tutti gli uomini e tutte le donne, moltiplicate in un unicum attraverso un gioco di specchi (e gli specchi sono assai frequenti nella sua poesia).

E l’immagine di questo sentimento assolutizzante, pieno e universale, che unisce ogni esperienza umana in una vitalità illimitata, innocente e sacra, pure se “in un mondo spietato”, protegge dalla morte, dalla corruzione, dalla dissolvenza, dalla caduta di senso cui si riferiva con quella “solitudine compiuta”, quel “nulla … oblio senza limiti”, perché “non c’è notte per noi / nulla di ciò che perisce può toccarti” – ed Éluard lo scrive pochi anni dopo la scomparsa dell’amata Nusch, proprio perché il sentimento sopravvive ai singoli uomini, alle singole relazioni, alla stessa specie umana, sembrerebbe suggerire, attraverso il suo riflesso (il suo specchiarsi) in ogni altra esperienza analoga, attraverso la sua assolutizzazione nella dimensione del sogno e del sacro, attraverso la consacrazione della vitalità che l’accompagna. Continua a leggere

L’Odissea di Kazantzakis tradotta da Crocetti

Nikos Kazantzakis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Nel 1956 il Premio Nobel per la Letteratura è assegnato ad Albert Camus, che diviene il più giovane detentore dell’ambita onorificenza. Lo scrittore francese di origine algerina, con eleganza d’antan, invia un telegramma al più anziano collega : «Voi l’avreste meritato cento volte di più». Di fatti — si saprà in seguito — in quella tornata l’autore neogreco arrivò secondo, fortemente penalizzato per altro dal suo stesso paese che «si mobilita, non già per sostenerlo, bensì perché non gli venga assolutamente assegnato il prestigioso riconoscimento». È quanto scrive Nicola Crocetti nell’informatissima introduzione all’Odissea di Kazantzakis, opus magnum del poeta cretese, diviso in 24 canti — come le lettere dell’alfabeto greco — e composto dal «numero sacro» di 33.333 versi (5.527 in più dei poemi omerici messi insieme!) in decaeptasillabi, una sorta di metro barbaro che tenta di ricreare il ritmo degli esametri classici.

L’Odissea costa al suo versatile artefice 13 anni e mezzo di lavoro (dal 1925 al 1938), 7 stesure autografe, 240.000 versi redatti a mano, con un esercizio di scrittura che arriva anche a 200 decaeptasillabi quotidiani e con la presenza di 7.500 athisàvrista, ossia parole introvabili sui vocabolari, trascritte personalmente sul taccuino e recepite nelle isole Cicladi, espressione della cosiddetta dimotikì, la lingua popolare.


Ma il multiforme ingegno di Kazantzakis non era nuovo a imprese di questo genere: fu traduttore infaticabile dell’Iliade, della Divina Commedia, di Shakespeare, del Faust di Goethe e anche di Bergson, Darwin e Nietzsche, autore di drammi, opere di poesie, romanzi (si pensi a Zorba il greco, Il poverello di Dio e L’ultima tentazione, portata al cinema da Scorsese nel 1988). La sua «sconfinata fantasia» e la «prodigiosa capacità lavorativa» divengono presto leggendarie. Siamo, infatti, dinanzi alla vastità di un’intelligenza come poche nell’intero Novecento, uno scrittore profondamente incompreso a causa dei suoi rimpasti filosofici e ideologici (un eclettismo à la Posidonio), di quell’ibridismo sincretico che è alla base della sua stessa concezione religiosa.

La parola d’ordine dei libri di Kazantzakis è forse contaminatio, ossia quella tecnica di fusione di registri stilistici e visioni spirituali che ha come risultante un condensato caleidoscopico: non stupisce allora che il sequel dell’Odissea omerica, fluvialmente composta dal poeta di Iraklio classe 1883, funzioni come una «sintesi di tremila anni di storia del pensiero» e appaiano nel corso del poema Gesù (il Pescatore Gentile), Don Chisciotte (Capitan Uno), Buddha e addirittura Trotsky, Lenin e Stalin sotto mentite spoglie.

Ma qual è il significato profondo del testo? «Tutta l’opera di Kazantzakis — scrive Crocetti che ha lavorato indefessamente alla traduzione per quasi un decennio, producendo per altro una versione armoniosa e naturale, premiata recentemente dai lettori del Corriere della Sera —, e l’Odissea in particolare, è animata dalla lotta del bene contro il male. Secondo l’autore cretese, il compito di un poeta e di uno scrittore non dev’essere la ricerca del bello, ma la verità; non la creazione di un’utopia, ma la trasformazione dell’utopia in realtà». Dietro alle ottime aspirazioni si cela però un «pessimismo eroico» e il tentativo ulissiaco di fondare una Città ideale fallisce con l’esaurimento delle forze tensive.

L’Odissea, monstrum letterario che richiama a sé in un unico calderone lo scibile, racconta l’evoluzione stessa dell’umanità, il desiderio di grandezza, la sete inesausta di avventure e lo scontro con il trascendente (come Giacobbe e l’angelo di Dio), lo smisurato anelito dell’uomo non soltanto verso la conoscenza — aspetto che Kazantzakis ha mutuato dall’Ulisse dantesco —, ma soprattutto verso un principio di pienezza e di pace, già ravvisabile nelle prime battute dell’epos (Proemio, vv. 1-3): «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,/ che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,/ perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi». Le trappole logiche e i paradossi insiti nella poesia di Kazantzakis, persino nell’impurità linguistica, sintattica e ortografica, coincidono con le misticheggianti antinomie del suo pensiero, con il suo immaginare Dio ostaggio d’amore dell’uomo.

Magnifico è l’episodio in cui la Morte si addormenta e sogna la vita (canto VI, vv. 1265-1292): «Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,/ che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,/ che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra/ passeggino donne nobili e cantino le schiave».

 

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Thomas Pynchon, “Contro il giorno”

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Thomas Pynchon. È un nome, solo un nome. Flatus vocis. Vive a New York ma nessuno lo ferma per strada perché nessuno può dire esattamente che viso abbia. Siamo in possesso di una manciata di fotografie della sua giovinezza. Capelli leccati, naso piccolo e stretto, dentoni, blusa da marinaio. Intelligenza vispa. Nel 2018 sono uscite su un rotocalco americano un altro paio di istantanee di lui anziano, con il bastone, chioma nivea e floridissima. Il figlio Jackson al suo fianco. Qualcuno dice che nel film con Joaquin Phoenix Inherent Vice, tratto dall’omonimo romanzo pynchoniano, ci sia un cameo con lo scrittore. La notizia non è confermata, ma è certo che abbia prestato la sua voce in una puntata dei Simpson. Recitava sé stesso con un sacchetto marrone in testa e un punto interrogativo stampato.

Thomas Pynchon ha ottantatré anni e — secondo alcuni — è tifoso della Juventus (?!). Non ha mai concesso un’intervista in vita sua (è un record assoluto perché un altro grande sfuggente della letteratura americana, Cormac McCarthy, qualche strappo alla regola lo ha fatto). Paragonato a Salinger per ovvi motivi e candidato al Nobel da decenni, ha esordito a ventisei anni con V., testo letteralmente inafferrabile, e ha proseguito con un libro cult del postmodernismo e del realismo isterico, L’incanto del lotto 49.

Le trame dei romanzi di Pynchon — sia ben chiaro — sono intricatissime, labirintiche. I dettagli nascondono il tutto e il tutto si riversa borgesianamente dentro ogni singolo dettaglio.

I nomi dei personaggi sono quasi sempre parlanti: si pensi a Oedipa, protagonista dell’Incanto, o Herbert Stencil (“stampino”) che gira il mondo alla ricerca di qualcuno o qualcosa che si chiami V. Queste tipologie di opere Calvino le definisce «romanzi enciclopedici moderni», nei quali avviene in sostanza «un’analisi dello sfacelo, una coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità».

Episodi storici poco noti o completamente sconosciuti, cultura elevatissima e pop dei più triti, amore per la fisica e le scienze naturali, crudi tecnicismi e momenti lirici si mescolano in reticoli cristallini e tetraedrici, in forme allotropiche e deformanti al limite della piena comprensibilità. Tutto questo cosa ha a che fare con la poesia? Continua a leggere

Weldon Kees (1914 -1955)

Weldon Kees

Vi proponiamo quattro poesie di Weldon Kees, inedite in Italia. tratte da The Collected Poems of Weldon Kees, edited by Donald Justice, University of Nebraska Press, Lincoln, 2003

Aspects of Robinson

Robinson at cards at the Algonquin; a thin
Blue light comes down once more outside the blinds.
Gray men in overcoats are ghosts blown past the door.
The taxis streak the avenues with yellow, orange, and red.

Robinson on a roof above the Heights; the boats
Mourn like the lost. Water is slate, far down.
Through sounds of ice cubes dropped in glass, an osteopath,
Dressed for the links, describes an old Intourist tour.
Here’s where old Gibbons jumped from, Robinson.

Robinson walking in the Park, admiring the elephant.
Robinson buying the Tribune, Robinson buying the Times. Robinson
Saying, “Hello. Yes,this is Robinson. Sunday
At five? I’d love to. Pretty well. And you?”.
Robinson alone at Longchamps, staring at the wall.

Robinson afraid, drunk, sobbing Robinson
In bed with a Mrs. Morse. Robinson at home;
Decisions: Toynbee or luminol? Where the sun
Shines, Robinson in flowered trunks, eyes toward
The breakers. Where the night ends, Robinson in East Side bars.

Robinson in Glen plaid jacket, Scotch-grain shoes,
Black four-in-hand and oxford button-down,
The jewelled and silent watch that winds itself, the brief-
Case, covert topcoat, clothes for spring, all covering
His sad and usual heart, dry as a winter leaf.

Aspetti di Robinson

Robinson gioca a carte all’Algonquin, una sottile
luce azzurrina scende ancora dalle veneziane.
Uomini in cappotto grigio sono spettri sospinti oltre la porta.
I taxi lasciano sui viali strisce di giallo, arancio e rosso.
Questa è Grand Central, Mr Robinson.

Robinson su una terrazza sopra The Heights; le barche
piangono come chi si è smarrito. Laggiù l’acqua è ardesia.
Con suono di cubetti di ghiaccio lasciati cadere in un bicchiere, un osteopata,
vestito per il golf, descrive un vecchio giro Intourist.
– È da qui che è saltato il vecchio Gibbons, Robinson.

Robinson cammina al Parco, ammira l’elefante.
Robinson compra il Tribune, Robinson compra il Times. Robinson
dice, “Pronto. Sì, sono Robinson. Domenica
alle cinque? Molto volentieri. Non c’è male. E tu?”.
Robinson da solo a Longchamps fissa il muro.

Robinson spaurito, ubriaco, Robinson piange
a letto con una certa Mrs Morse. Robinson a casa;
Decisioni: Toynbee o luminol? Dove brilla il sole,
Robinson in boxer a fiori fissa le onde.
Dove finisce la notte, Robinson nei bar dell’East Side.

Robinson in giacca principe di Galles, scarpe stringate,
cravatta allentata e camicia oxford button-down,
orologio prezioso e silenzioso che si carica da solo, cartella,
soprabito, abiti primaverili, coprono tutti
il suo solito cuore triste, secco come una foglia d’inverno. Continua a leggere

Ryan Murphy, 6 frammenti

Ryan Murphy

 

Da “Diari su scatole di fiammiferi”
1.
Macchia di luna nell’erba alta.
L’aria umida, una sposa grigia.
2.
Di fronte al cardine
un acquietato noi
E poi dal nulla, un sospiro.
Le sole sparute parole che riconosco.
3.
Coro di martelli
e dunque il mare.
La soglia da cui
dipende una luce più forte.
4.
Stecco in fiore e airone
cenerino. Luce del sole che fugge
sulle rocce di un ruscello poco profondo.
Disfacimento e.
5.
Padiglioni abbacinanti di benzinai
Crochi e noli-me-tangere.
Se le locuste si piegano ai loro riflessi.
Se l’indaco.

6.
Considera come si piegano le ombre
e malgrado l’insonnia
come la stanza ti sopravvive.
Non una sola luce.
 
Traduzioni di Giovanni Ibello
*
 
From “The matchbook diaries”
1.
Blot of moon through the rush-grass.
The humid air a gray bride.
2.
Across the pivotal
stilled a we –
And out of nothing, a breathing.
The poor only words I know.

Albert Camus, “Sull’avvenire della tragedia”

di  LORENZO CHIUCHIU’ 

Il testo proposto è parte di una conferenza che Camus tenne ad Atene nel 1955. La traduzione integrale è uscita su Davar III (Reggio Emilia 2006) e su “La Repubblica” del 18/11/2006.

Il tragico e la sua «immobilità forsennata», le «duplici maschere del bene e del male»; il «tutto è bene» simile all’attuale «andrà tutto bene»; la responsabilità del singolo di fronte alla dismisura della storia (per Camus la guerra fredda, per noi la globalizzazione) e delle potenze che la attraversano (la tecnica, le guerre convenzionali e quelle economiche, la peste che colpisce i corpi e quella che svuota il senso delle parole); il teatro di propaganda che somiglia alle retoriche politiche di oggi.

Camus, come tutti classici, precorre i tempi o li dissolve, fa impallidire cronaca e sociologia: a volte la storia assume il volto del destino e l’ultima parola spetta alle esistenze libere, inquiete e in rivolta.

 

Sull’avvenire della tragedia
di Albert Camus

 

Un saggio orientale nelle sue preghiere chiedeva alla divinità di risparmiargli di vivere in un’epoca interessante. E la nostra epoca è interessante, vale a dire tragica. Per purificarci dai nostri mali, abbiamo almeno il teatro della nostra epoca o possiamo sperare di averlo? In altre parole, è possibile la tragedia moderna? È questa la domanda che vorrei porre oggi. Ma questa domanda è ragionevole? O piuttosto è del tipo: «avremo un buon governo?» o «i nostri scrittori diverranno modesti?» o ancora «i ricchi spartiranno presto la loro fortuna con i poveri?», domande interessanti, ma che danno più da sognare che da pensare.

Credo di no. Credo invece che per due ragioni ci si possa interrogare legittimamente sulla tragedia moderna. La prima è che i grandi periodi dell’arte tragica si collocano, nella storia, in secoli di transizione, in momenti in cui la vita dei popoli è ad un tempo carico di gloria e di minacce. Dopo tutto Eschilo combatte due guerre e Shakespeare è contemporaneo di una bella serie di orrori. Inoltre entrambi si trovano in una sorta di pericolosa svolta nella storia della loro civiltà.

Si può rilevare che nei trenta secoli della storia occidentale, dai Dori fino alla bomba atomica, non ci sono che due periodi dell’arte tragica, entrambi circoscritti nello spazio e nel tempo. Il primo è il greco, presenta una grande unitarietà e dura un secolo, da Eschilo a Euripide. Il secondo dura poco più e fiorisce nei paesi limitrofi ai confini dell’Europa occidentale. In effetti, non si è sottolineato a sufficienza che la magnifica esplosione del teatro elisabettiano, il teatro spagnolo del secolo d’oro e la tragedia francese del XVII secolo sono pressoché contemporanei. Quando Shakespeare muore, Lope De Vega ha cinquantaquattro anni e ha già fatto rappresentare la gran parte delle sue pièces; Calderón e Corneille sono vivi. L’intervallo di tempo fra Shakespeare e Racine non è più lungo di quello fra Eschilo e Euripide. Almeno storicamente possiamo considerare che si tratta, con estetiche differenti, di una sola e magnifica fioritura, quella del Rinascimento, che nasce nel disordine ispirato al palcoscenico elisabettiano e raggiunge la perfezione formale nella tragedia francese. Continua a leggere

Ungaretti, “Blake visioni”

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Il 2 giugno di quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa di Giuseppe Ungaretti: una data che inevitabilmente fa pensare all’eredità lasciata dal massimo esponente del cosiddetto “ermetismo” (benché l’etichetta non renda giustizia della complessità della poesia ungarettiana). In illo tempore la sfida Ungaretti-Montale era senz’altro più sentita. Nella storia degli studi assistiamo oggi a una netta vittoria del secondo, appartenente al partito che fortemente lo sostenne a sfavore del cattolico Ungaretti (non si dimentichino le parole di Leone Piccioni: «Ebbe contro il partito dei laici, che gli contrappose sempre Eugenio Montale. Non gli è mai stata perdonata la vicinanza con il mondo cattolico e il sostegno che quel mondo dava alla sua opera»).

Eppure, sebbene in maniera diversa e secondo differenti sfumature liriche, entrambi sono stati altissima espressione di un’inquietudine religiosa che li ha visti sfiorarsi nell’agone, toccare il vertice della loro arte a distanza di circa un decennio: Ungaretti con Il Dolore nel 1947 e Montale con La bufera e altro nel 1956. Due capolavori come punti di luce infinitamente lontani nella siderale distanza degli astri letterari, eppure percorsi entrambi da una sete di assoluto e di disvelamento del sacro nell’esperire la sofferenza individuale e universale. Quella che nel poeta più anziano è parola nuda, poésie pure, confessione e in senso lato «vita d’un uomo», nel più giovane è impalcatura metaforica, poésie metaphysique, misticismo e costruzione di un personaggio. Da un lato c’è il Cristo di Mio fiume anche tu («Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell’umane tenebre,/ Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri,/ Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/ Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/ Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri»); dall’altro la Cristofora «iddia che non s’incarna» della Primavera hitleriana e di Iride («Perché l’opera tua (che della Sua/ è una forma) fiorisse in altre luci/ Iri del Canaan ti dileguasti/ in quel nimbo di vischi e pungitopi/ che il tuo cuore conduce/ nella notte del mondo, oltre il miraggio/ dei fiori del deserto, tuoi germani»). Due stili e due modi d’approccio alla poesia inconciliabili fra loro, benché ci sia una prossimità nelle tematiche e nell’uguale reazione al descensus ad inferos della guerra e dei disfacimenti della storia. Continua a leggere

Mark Strand e la sua riscrittura di “La sera de dì di festa” di Giacomo Leopardi

Mark Strand

The night is warm and clear and without wind.
The stone-white moon waits above the rooftops
and above the nearby river. Every street is still
and the corner lights shine down only upon the bunched shapes of cars.
You are asleep. And sleep gathers in your room
and nothing at this moment bothers you. Jules,
an old wound has opened and I feel the pain of it again.
While you sleep I have gone outside to pay my late respects
to the sky that seems to gentle
and to the world that is not and that says to me
“I do not give you any hope. Not even hope.”
Down the street there is the voice of a drunk
singing an unrecognizable song
and a car a few blocks off.
Things pass and leave no trace,
and tomorrow will come and the day after,
and whatever our ancestors knew time has taken away.
They are gone and their children are gone
and the great nations are gone.
And the armies are gone that sent clouds of dust and smoke
rolling across Europe. The world is still and we do not hear them.
Once when I was a boy, and the birthday I had waited for
was over, I lay on my bed, awake and miserable, and very late
that night the sound of someone’s voice singing down a side street
dying little by little into the distance,
wounded me, as this does now.

*

La sera è mite e chiara e senza vento.
La pietraluna ci aspetta sui tetti
e sopra il fiume vicino. Ogni strada è silenziosa
e le luci dei semafori brillano sulle forme arpionate delle auto.
Tu dormi. E il sonno si spande nella stanza
nulla in questo momento ti tange. Jules,
si è riaperta una vecchia ferita e io sento di nuovo il dolore.
Mentre dormi sono uscito per porre i miei omaggi tardivi
al cielo che mi sembra così gentile
e al mondo che invece non lo è e mi dice
“Io non ti do alcuna speranza. Neanche la speranza”. Continua a leggere

Shukria Rezaei ai Taleban, “Non sono stata al vostro inferno”

Shukria Rezaei

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Oggi vi proponiamo le poesie di Shukria Rezaei, una giovane poeta nata in Afghanistan, di famiglia Hazara, l’etnia più perseguitata dai Taleban in Afghanistan. La sua famiglia emigrò nel Regno Unito quando Shukria aveva 12 anni. Fra le poesie di Shukria qui pubblicate, due, ‘Homesick’ e ‘My Hazara People’, sono incluse nel volume England, Poems from a School; la terza, ‘To the Taliban’, è inclusa nel libro di Kate Clanchy, Some Kids I Taught and What They Taught Me, Picador 2019 e in Italia nella raccolta La testa di Shakila, poesie e prose scelte di Kate Clanchy, cura e traduzione di Giorgia Sensi, Edizioni LietoColle-Gialla oro, 2019.

 

To the Taliban

I haven’t been to your hell
for terrorising, theft, or treachery,
for stealing young boys and girls.
But I have heard your thundery shootings,
the yells of children,
the cries of hearts.

I haven’t touched your grenades or your bullets;
nor worn your chain of bullets around my neck
and claimed jihad;
but I have touched broken lives,
shattered glass,
and walked on an injured land,
where blood oozes and boils
until the steam reaches your nostrils.

I haven’t read the Quran you have read
where to kill is fine
where rape is acceptable.
But I have read the Quran of Prophet Mohammad (PBUH)
where killing one person is killing all of humanity.

I haven’t felt the texture of your hairy face,
your stained clothes
stained with bloodshed
stained with sins,
heavy with all
that is pulling you down.

I have felt the texture
of the man’s white face that you killed.
It was like the touch of a cloud.
My eyes glitter with the shine of the martyrs.

Shakila *

* Nel gruppo di poesia di Kate Clanchy alla Oxford Spires Academy, Shakila è il nome di Shukria Rezaei

 

Ai Talebani

Non sono stata al vostro inferno
per terrorismo, furto, tradimento,
rapimento di ragazzi e ragazze.
Ma ho sentito il rombo dei vostri spari,
gli urli dei bambini,
le grida dei cuori.

Non ho toccato le vostre granate e i vostri proiettili;
non ho portato al collo la catena delle vostre pallottole
e dichiarato la jihad;
ma ho toccato vite spezzate,
frantumi di vetro,
e camminato su una terra ferita,
dove il sangue tracima e ribolle
finché il vapore ti sale alle narici.

Non ho letto il Corano che avete letto voi
dove uccidere è giusto,
dove stuprare è accettabile,
ma ho letto il Corano del profeta Maometto (PBUH)
dove uccidere una persona è uccidere tutta l’umanità.

Non ho tastato la vostra faccia irsuta,
i vostri abiti macchiati
macchiati di sangue
macchiati di peccati,
appesantiti da tutto ciò
che vi trascina in basso.

Ho tastato
il viso bianco dell’uomo che avete ucciso.
Era come toccare una nuvola.
I miei occhi brillano della luce dei martiri. Continua a leggere

Bolesław Leśmian, una traduzione


Mrok na schodach

Mrok na schodach. Pustka w domu.
Nie pomoże nikt nikomu.
Ślady twoje śnieg zaprószył,
Żal się w śniegu zawieruszył.
Trzeba teraz w śnieg uwierzyć
I tym śniegiem się ośnieżyć —
I ocienić się tym cieniem,
I pomilczeć tym milczeniem.

Buio sulle scale

Buio sulle scale. Vuoto in casa.
Nessuno aiuterà nessuno.
La neve ha coperto le tue tracce,
Il tuo dolore era sparito nella neve.
Devi credere nella neve ora
E cancellarti con la neve –
E farti ombra di quell’ombra
E tacere con questo silenzio.

Dalla raccolta Dziejba Leśna

Traduzione di Luigia Sorrentino

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Dylan Thomas, due poesie

Dylan Thomas nella traduzione di Maria Borio

Al principio…

Al principio era una stella a tre punte,
Un sorriso di luce attraverso il volto vuoto,
Un ramo di osso attraverso l’aria che si radicava,
La sostanza divisa che diede midollo al primo sole,
E, bruciando cifre nel giro dello spazio,
Cielo e inferno si mescolavano roteando.

Al principio era la pallida firma,
Sillabata tre volte e stellata come il sorriso,
E dopo vennero le tracce nell’acqua,
Timbro del volto coniato sulla luna;
Il sangue che toccò la croce e il graal
Toccò la prima nuvola e lasciò un segno.

Al principio era il fuoco crescente
Che incendiava le atmosfere da una scintilla,
Una scintilla a tre occhi, rossi occhi, spuntata come un fiore,
La vita sorgeva e zampillava dai mari rotanti,
Esplosa alle radici, pulsati dalla terra e dalla roccia
Gli oli segreti che guidano l’erba.

Al principio era la parola, la parola
Che forma le solide basi della luce
Estrasse tutte le lettere del vuoto;
E dalle nuvolose basi del respiro
La parola fluì in alto, traducendo al cuore
I primi caratteri della nascita e della morte.

Al principio era la mente segreta.
La mente era chiusa e saldata nel pensiero
Prima che il caos si dividesse al sole;
Prima che le vene si scuotessero nel loro setaccio,
Il sangue lanciò e sparse ai venti della luce
L’originale costola dell’amore.

Traduzione di Maria Borio

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Una poesia di Franco Buffoni

Franco Buffoni, credits photo Dino Ignani

[Senza titolo]

Siamo tutti un po’ gibollati all’Ardeatina
Su cinque corsie dove al massimo
Dovrebbero starcene due
Senza caffè alle sette di mattina,
Alcuni furono finiti col calcio del fucile
Sono stati trovati col cranio sfondato
Erano ubriachi alla fine gli assassini
E sbagliavano la mira
Uno era qui accanto all’uscita ostruita
Si era trascinato in agonia.

Franco Buffoni

[Untitled]

We are all a bit worse for wear on the via Ardeatina,
with its five lanes
where two should be the max,
at seven a.m. without any coffee…
Some were finished off, pistol-whipped.
They were found with their skulls smashed-in.
By the end, the assassins were so drunk
they couldn’t shoot straight.
One lay next to the blocked exit,
dragging himself here
in the throes of death.

Traduzione di Jacob Blakesley

Jacob Blakesley

 

 

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Dylan Thomas, due poesie

Dylan Thomas nella traduzione di Maria Borio

La collina delle felci (apparsa su «Testo a fronte», 58, I, 2018)

Quando ero giovane e puro sotto i rami di mele
Vicino alla casa sonora e felice perché l’erba era verde,
La notte immensa sopra la valle stellata,
Il tempo mi faceva esultare e risalire
Dorato l’apice dei suoi occhi,
E fra i carri adorato ero il principe delle città di mele
E una volta oltre il tempo, divino, alberi e foglie
Con orzo e margherite trascinai
Lungo i fiumi di luce dei frutti caduti nel vento.

E verde e spensierato, celebre fra i granai
Vicino all’aia felice, e cantavo perché la fattoria era casa,
Nel sole che solo una volta è giovane,
Il tempo mi faceva giocare
Dorato nella grazia dei suoi mezzi,
E verde e dorato ero il cacciatore e il mandriano, i vitelli
Cantavano al mio corno, le volpi sulle colline latravano limpide e fredde,
E il giorno del Signore risuonava lento
Fra i ciottoli dei ruscelli sacri.

Per tutto il sole era correre, era bello, i campi
Di fieno alti come la casa, le melodie dai camini, era aria
E gioco, bello e d’acqua
E il fuoco verde come l’erba.
E la notte sotto le pure stelle
Mentre cavalcavo il sonno i gufi portavano la fattoria lontano,
Per tutta la luna, fra le stalle beato, sentivo i caprimulgi
Volare con il fieno dei covoni e i cavalli
Illuminarsi nel buio.

E poi sveglio, e la fattoria, come un nomade bianco
Nella rugiada, tornava indietro, il gallo sulla spalla: era tutto
Splendore, era Adamo e la vergine,
Il cielo nuovamente si addensava
E il sole si faceva rotondo proprio in quel giorno.
Così doveva essere la creazione della luce
Pura nel posto rotante del principio, i cavalli incantati
Caldi andavano fuori dalla stalla che nitriva verde
Verso distese di lode.

E celebrato tra le volpi e i fagiani vicino alla casa gioiosa
Sotto le nuvole appena create e felice quanto il cuore durava,
Nel sole più volte nato,
Percorrevo le mie strade svagate,
I desideri facevano correre la casa nel fieno alto
E non mi curavo, nei miei scambi celesti, che il tempo accogliesse
In ogni suo giro melodioso solo poche canzoni d’alba
Prima che i bambini verdi e dorati
Lo seguissero fuori dalla grazia,

Non mi curavo, nei giorni bianchi agnello, che il tempo mi portasse
Alto nel solaio affollato di rondini con l’ombra della mia mano,
Nella luna che sempre sta sorgendo,
Nemmeno che cavalcando il sonno l’avrei sentito
Volare con i campi alti e al risveglio nella fattoria
Dileguato per sempre da una terra senza bambini.
Oh, quando ero giovane e puro nella grazia dei suoi mezzi
Verde e morente mi teneva il tempo
Benché cantassi nelle mie catene come il mare.

Traduzione di Maria Borio Continua a leggere

Cesare Pavese & Yiannis Pappas

Cesare Pavese

I mari del Sud Cesare Pavese

                         (per A. Monti)

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.

Vent’anni è stato in giro per ii mondo.
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.

Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi “.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte hen grossa alla curva una targa-rèclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spieghò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.

Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intomno il frusciare e ii fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli “. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti .
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

[7-19 settembre – novembre 1930]

Yiannis Pappas

 

Οι θάλασσες του Νότου – Cesare Pavese       

( στον Α. Μόντι )

Περπατάμε ένα βράδυ στην πλαγιά ενός λόφου,
σιωπηλά. Στην σκιά του σούρουπου που προχωρούσε
ο ξάδερφός μου φαντάζει σαν γίγαντας ντυμένος στα λευκά,
που προχωράει ήρεμος, ηλιοκαμένος στο πρόσωπο,
σιωπηλός. Η σιωπή είναι η αρετή μας.
Κάποιος πρόγονός μας ήταν σίγουρα λιγομίλητος
– ένας άνδρας ανάμεσα σε ηλίθιους ή ένας θλιμμένος ανόητος –
για να διδάξει σε μας τέτοια σιωπή. Continua a leggere

Norman MacCaig: stelle, pianeti, mucche e un caprone

Norman MacCaig

Goat

The goat, with amber dumb-bells in his eyes,
The blasé lecher, inquisitive as sin,
White sarcasm walking, proof against surprise,

The nothing-like-him goat, goat-in-itself,
Idea of goatishness made flesh, pure essence
In idle masquerade on a rocky shelf –

Hangs upside-down from lushest grass to twitch
A shrivelled blade from the cliff’s barren chest,
And holds the grass well lost; the narrowest niche

Is frame for the devil’s face; the steepest thatch
Of barn or byre is pavement to his foot;
The last, loved rose a prisoner to his snatch;

And the man in his man-ness, passing, feels suddenly
Hypocrite found out, hearing behind him that
Vulgar vibrato, thin derisive me-eh.

da “A Common Grace” (1960)

*

Caprone

Il caprone, l’ambrata ottusità nei suoi occhi,
il satiro menefreghista, curioso come il peccato,
bianco sarcasmo su quattro zampe, a prova di stupore,

il non-sembra-affatto un caprone, di-per-sé-caprone,
l’idea di lascivia fatta carne, pura essenza
in maschera indolente rizzata su una roccia –

si appende a testa in giù dove l’erba è più verde per strappare
uno sterpo dalla gola arida del dirupo,
ci tiene a quel quel filo d’erba macilento. La nicchia più stretta

è cornice perfetta per il volto del diavolo, il tetto più ripido
del granaio o della stalla è un marciapiede per i suoi zoccoli,
l’ultima rosa, la più amata, un prigioniero per la sua razzia.

E l’uomo nel maschio passa in secondo piano, improvvisamente
si scopre ipocrita, all’udire dietro a sé quel
vibrato primitivo, sottilmente canzonatorio, beeh-eeh. Continua a leggere

Amore e Tradimento

Kate Clanchy

Kate Clancky

Men

I like the simple sort, the soft white-collared ones,
smelling of wash that someone else has done,
of apples, hard new wood. I like the thin-skinned,
outdoor, crinkled kind, the athletes, big-limbed,
who stoop to hear, the moneyed men, the unironic
leisured sort who balk at jokes and have to blink,
the men with houses, kids in cars, who own
the earth and love it, know themselves at home
here, and so don’t know they’re born, or why
born is hard, but snatch life smack from the sky,
a cricket ball caught clean that fills the hand.
I put them all at sea. They peer at my dark land
as if through sun on dazzling waves, and laugh.

Franco Buffoni

Franco Buffoni

Uomini

Odorano di bucato quelli che mi piacciono
– Ma di bucati fatti da altre –
Sanno di mela e legno nuovo duro,
Portano il colletto floscio, slacciato.
E’ il genere sportivo d’ossa solide il mio,
Atleti d’aria aperta e pelle fresca
Che protendono il tronco per sentirci meglio,
Un po’ arruffati, con scarso sense of humour,
Non colgono i giochi di parole
Ma hanno i soldi le case le automobili
Coi bambini dentro,
E posseggono e amano la terra.
Lì si sentono a casa e a loro agio
Non sanno d’essere stati partoriti
Né come sia difficile far nascere
Perché colgono la vita
Come venuta giù dritta dal cielo,
Una palla da cricket presa bene
Che ti riempie la mano.
Li manderei tutti per mare, là dove
Tra onde abbaglianti di luce intravedono
La mia striscia di terra nera e ridono. Continua a leggere

La furia analogica di Dylan Thomas

Dylan Thomas

DYLAN THOMAS LO SCIAMANO

Commento e traduzione di Alessandro Bellasio

Poeta degli elementi e delle linfe segrete della natura, voce accorata del contatto magico e primordiale con il mondo, Dylan Thomas (Swansea, 1914 – New York, 1953) è autore di un corpus poetico in cui la dirompente furia analogica è disciplinata da un bagaglio retorico accuratamente scelto e limitato, fedele alle figure amate (antitesi semantiche, sinestesie, assonanze, allitterazioni), e capace di dare vita a potenti architetture visive, culminanti in improvvise accensioni visionarie.

Vere avventure percettive, le liriche di Thomas si condensano preferibilmente intorno a pochi nuclei psichici ricorrenti, descrivendo un moto centrifugo, rotatorio, privo di sviluppo e, piuttosto, immortalato nell’attimo estatico di contemplazione della propria sorgente interiore.

Con il suo ritmo ipnotico, con la sua voce antica e sciamanica, il grande poeta gallese, prima di affondare per sempre negli abissi dell’alcol, ci ha consegnato una folgorante testimonianza di cosa sia la poesia ispirata, e di quale forza arcaica e rovinosa sia portavoce il poeta “entheos”, il poeta “posseduto dal dio”, per cui tramite ci giunge la voce perduta e panica di un’inattingibile origine.
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Wallace Stevens, il poeta più amato dalle nuove generazioni

Wallace Stevens

From “The collected poems of Wallace Stevens”, 1954

Poetry is a destructive force

That’s what misery is,
Nothing to have at heart.
It is to have or nothing.

It is a thing to have,
A lion, an ox in his breast,
To feel it breathing there.

Corazón, stout dog,
Young ox, bow-legged bear,
He tastes its blood, not spit.

He is like a man

In the body of a violent beast.
Its muscles are his own…

The lion sleeps in the sun.
Its nose is on its paws.
It can kill a man.
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César Vallejo, “Piedra negra sobre una piedra blanca”

Cèsar Vallejo, “Piedra negra sobre una piedra blanca”

PIETRA NERA SU UNA PIETRA BIANCA

Morirò a Parigi mentre fuori diluvia
un giorno del quale possiedo già il ricordo.
Morirò a Parigi – e non mi confondo
forse un giovedì, come oggi, d’autunno.

Sarà di giovedì, perché oggi, giovedì, che scrivo
questi versi, gli omeri mi si son messi
alla meno peggio e, mai come oggi, son tornato
con tutto il mio cammino, a vedermi solo.

César Vallejo è morto, lo picchiavano
tutti senza che lui avesse fatto nulla
gli davano duro con un bastone e duro

anche con una corda: testimoni
i giorni giovedì e gli ossi omeri
la solitudine, la pioggia e le strade.

(traduzione della poesia di Federico Guerrini)

PIEDRA NEGRA SOBRE UNA PIEDRA BLANCA

Me moriré en París con aguacero,
un día del cual tengo ya el recuerdo.
Me moriré en París – y no me corro –
tal vez un jueves, como es hoy, de otoño.
Jueves será, porque hoy, jueves, que proso
estos versos, los húmeros me he puesto
a la mala y, jamás como hoy, me he vuelto,
con todo mi camino, a verme solo.
César Vallejo ha muerto, le pegaban
todos sin que él les haga nada;
le daban duro con un palo y duro
también con una soga; son testigos
los días jueves y los huesos húmeros,
la soledad, la lluvia y los caminos… Continua a leggere

Odisseas Elitis, da “Monogramma”

Ti piangerò sempre − mi senti −
da solo, in Paradiso

I
Girerà altrove le linee
Della mano, il Destino, come un manovratore
Per un attimo acconsentirà il Tempo

E come altrimenti, visto che si amano gli uomini.

Il cielo darà forma alle nostre viscere
E l’innocenza colpirà il mondo
Con l’acre nero della morte. Continua a leggere

Franco Manzoni, “Angelo di sangue”

Franco Manzoni

FRANCO MANZONI nella traduzione di ELIZA MACAN
da Nella febbre di Eros – În febra lui Eros

La tana

dove ti annidi tutta nera
a filigrana rosa
la pioggia bianca fa le fusa
linfa di miele e mulino
sul fieno nel cespuglio
un’orma di farina
prezioso capezzolo di ghiaccio
il corpo tuo la tana
si arrende al mio faro silenzioso
si dona e va per la pianura piana

Bârlogul

unde te cuibărești toată neagră
în filigranul roz
toarce ploaia albă
limfă de miere și moară
pe fân în desiș
o urmă de făină
sfârc prețios de gheață
bârlogul corpul tău
se predă farului meu tăcut
se dăruiește și pleacă pe cîmpia întinsă Continua a leggere

Shakespeare in scena, quattro traduzioni di Patrizia Cavalli

Queste che presentiamo – pubblicate per la prima volta e insieme – non sono semplici, seppure magistrali, traduzioni di quattro opere di Shakespeare: “La tempesta”, “Sogno di una notte d’estate”, “Otello” e “La dodicesima notte”. Sono molto di piú. Sono la voce che un poeta ha saputo dare ai personaggi, ascoltandoli, immaginandoli e vedendoli in scena. Sono traduzioni nate per la scena, che è il loro luogo naturale. Continua a leggere

Jarosław Mikołajewski, “Libro dei poveri”

 

Jarosław Mikołajewski

nn

non tanto all’improvviso
quanto inaspettatamente
seppe che di lì a poco
sarebbe scomparso dalla faccia
della terra

ci furono le procedure
la discrezione
e il tono in cui
i catechisti insegnano
a dire no ai testimoni di jehova

gentile e deciso

prima provò rimpianto

tanti scritti incompiuti
tanti non iniziati
interminabili

dopo un breve momento
pensò che il non finito
è tutto

lui stesso e il mondo
intero
fino a che la scomparsa
non concluderà l’opera
e dopo

e dopo ci sarà
un mondo altro
anch’esso con qualcosa
o qualcun altro
d’incompiuto

con un’altra e altrui
scomparsa

trovò la sua consolazione
e non provò nessun piacere
pensando che scompaiono
anche gli altri

no

era una sensazione
di tipo solidale Continua a leggere

Dylan Thomas, poesie

DYLAN THOMAS

Nel mio mestiere o arte ombrosa

 

Nel mio mestiere o arte ombrosa
praticata nella notte quieta
quando solo la luna s’infiamma
e gli amanti riposano a letto
con tutti i dolori nelle braccia,
il mio lavoro è cantare la luce
non per ambizione o pane,
non per vanagloria o commercio di incanti
su impalcature in avorio
ma per il modesto salario
del loro più segreto cuore.
Non scrivo per l’uomo orgoglioso
che si ritrae nella furia di luna
su questo zampillo di pagine,
non per i morti che torreggiano
con i loro usignoli e salmi
ma per gli amanti che abbracciano
i dolori di tutte le età,
e non offrono lodi o compensi
incuranti del mio mestiere o arte.

 

 

In my craft or sullen art

Exercised in the still night
When only the moon rages
And the lovers lie abed
With all their griefs in their arms,
I labour by singing light
Not for ambition or bread
Or the strut and trade of charms
On the ivory stages
But for the common wages
Of their most secret heart.
Not for the proud man apart
From the raging moon I write
On the spindrift pages
Not for the towering dead
With their nightingales and psalms
But for the lovers, their arms
Round the griefs of the ages,
Who pay no praise or wages
Nor heed my craft or art. Continua a leggere

Zbigniew Herbert, da “L’epilogo della tempesta”

Zbigniew Herbert

Breviario II

Signore,

donami l’abilità di comporre lunghe frasi, la cui linea è la linea del respiro, sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano

 

Signore, donami la forza e la destrezza di quelli che costruiscono lunghe frasi, ramificate come una quercia, spaziose come un’ampia valle, perché vi entrino mondi, ossature di mondi, mondi di sogno

 

e anche perché le frasi principali dominino sicure sulle subordinate, e controllino la loro corsa complicata, ma espressiva, che persistano impassibili come un basso continuo sugli elementi in moto, che li attirino, come attira gli elementi la forza delle invisibili leggi gravitazionali

 

prego allora per frasi lunghe, frasi modellate con fatica, estese così che in ognuna si trovi il riflesso speculare di una cattedrale, un grande oratorio, un trittico

 

e anche animali poderosi e piccoli, stazioni ferroviarie, un cuore pieno di rimpianto, abissi rocciosi e il solco dei destini nella mano

 

Zbigniew Herbert

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Robert Creeley, il fuoco dei beatniks

THE DISHONEST MAILMEN

 

They are taking all my letters, and they
put them into a fire.
I see the flame, etc.
But I do not care, etc.

The poem supreme, addressed to
emptiness – this is the courage

necessary. This is something
quite different.

I POSTINI DISONESTI

 

Stanno prendendo tutte le mie lettere,
e le gettano nel fuoco.
Vedo la fiamma, ecc…
Ma non mi importa, ecc…

La suprema poesia, scagliata
nel vuoto – questo è il coraggio

necessario. Questo è un qualcosa
di profondamente diverso.

 

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Samuel Beckett, l’epistolario 1929-1940

IN COPERTINA
Ritratto di Samuel Beckett (1920 ca).
GETTY IMAGES/HULTON ARCHIVE

RISVOLTO

Samuel Beckett è stato a lungo conosciuto, e venerato, anche per la sua aura, dovuta all’aspetto fisico, all’inaccessibilità e al singolare dono per cui certe sue battute – scritte o recitate che fossero – entravano subito nella leggenda e nell’uso quotidiano. Ma soprattutto colpiva, intorno a lui, una zona di silenzio, che era in primo luogo una cifra stilistica. Così, di fronte alle sue lettere straripanti torna in mente il celeberrimo slogan inventato dai produttori di Ninotchka per la Garbo: Beckett parla! Sì, perché nelle sue lettere Beckett parla, moltissimo, e di tutto: del suo primo datore di lavoro, «Mr Joyce»; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion; delle numerose lingue che abitava, e da cui spesso si sentiva posseduto; Continua a leggere

Antonio Nazzaro & Luigia Sorrentino

Proponiamo un’anteprima di alcune poesie di Luigia Sorrentino tradotte in spagnolo da Antonio Nazzaro e pubblicate dalla rivista di poesie ispano-americana Ærea, (link: http://www.aepoesia.com/p/inicio.htmlu) diretta da Daniel Calabrese e Eleonora Finkelstein.

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Nietzsche, “Also sprach Zarathustra”

di Lorenzo Chiuchiù

OLTREUOMO

Chi è l’ Übermensch di Nietzsche? Non è un potenziamento delle facoltà o delle capacità dell’umano: in luogo di «superuomo» sarebbe dunque da accogliere l’intuizione di Gianni Vattimo che, ne Il soggetto e la maschera, traduce Übermensch con oltreuomo.
L’uomo, scrive Nietzsche in Al di là del bene e del male, è «non ancora stabilmente determinato». Il filosofo rigetta le due antropologie alla base della tradizione filosofica e teologica occidentale: l’essenza dell’uomo non è decisa né dalla natura né da Dio. L’essenza dell’uomo non è cioè fondata sulla razionalità, sul pensiero e sul linguaggio propri e distintivi dello zoon logon echon, dell’«animale razionale» nella Politica di Aristotele.  Ma l’uomo non è nemmeno l’Adam della Genesi, nato dal respiro divino (in ebraico ruah) che anima la terra (adamah). L’uomo non è  «a immagine e somiglianza» (Genesi, I, 26) del creatore. L’uomo è per Nietzsche, un animale non stabilizzato, un «animale profondo», come rileva Giorgio Colli in Dopo Nietzsche. E proprio l’inquietudine circa la sua propria essenza lo rende un essere pericoloso. Nietzsche sembra far propria una sentenza di Sofocle in Antigone: «non esiste nulla di più inquietante dell’uomo». Continua a leggere