Quando l’arte si riconobbe: Cucchi e Basquiat

Jean-Michel Basquiat e Enzo Cucchi New York, PS1, 1981 – Foto Archivio “Enzo Cucchi” per gentile concessione © copyright riservati

di Fabrizio Fantoni

Dalle profondità stratificate dell’archivio Cucchi, come un fossile di luce rimasto sepolto sotto il peso del tempo, riemerge una fotografia che segna un momento importante nella storia dell’arte moderna. Non è un’immagine: è una soglia. Un varco che si apre su un istante irripetibile, in cui due orbite artistiche si sfiorano e generano una collisione silenziosa, destinata a riverberare per decenni. Da un lato, Enzo Cucchi, giovane sciamano della pittura, già intriso di visioni arcaiche, di simboli che sembrano scolpiti nel tufo della memoria mediterranea. Dall’altro, Jean-Michel Basquiat, ancora acerbo ma già incandescente, come un codice urbano che pulsa sotto pelle, un profeta metropolitano che scrive con il sangue e il ritmo.

I loro sguardi si incrociano. Non si parlano: si leggono. Si riconoscono come due creature nate dallo stesso incendio, pur se cresciute in terre lontane. È un incontro che non ha bisogno di parole, perché ciò che accade è al di là del linguaggio: è il battesimo di una nuova grammatica visiva, fatta di ferite, di intuizioni, di materia che vibra. Quella fotografia non è solo documento: è reliquia, è epifania. È il battito originario di una rivoluzione che non ha nome, ma ha voce.

Siamo nel 1981, in una New York che pulsa come un cuore in fibrillazione, affamata di rotture, di visioni, di linguaggi che non chiedano permesso. Diego Cortez — alias Jim Curtis — concepisce New York/New Wave, una mostra che non vuole semplicemente esporre, ma detonare. Il luogo scelto è il PS1, un’ex scuola elementare abbandonata, trasformata in cattedrale profana dell’arte emergente. Cortez, con l’intuito di un rabdomante, raduna 119 artisti, ciascuno portatore di una lingua nuova, di una ferita da esibire, di un’urgenza da gridare.

Tra loro, Jean-Michel Basquiat. A lui viene dedicata una sala intera: quindici opere che sembrano urlare, sanguinare, danzare.  Il pubblico accorre come in pellegrinaggio. Henry Geldzahler, sovrintendente ai beni culturali di New York, chiede di incontrarlo, acquista una tela. Cortez, già proiettato nel futuro, prepara il terreno per l’ingresso di Basquiat nel pantheon dei grandi dealer.

Ed è in questo crocevia che arrivano Enzo Cucchi e Sandro Chia, esponenti giovanissimi di un nuovo modo di fare arte in Italia. L’incontro con Basquiat è folgorante. Non vedono un graffitista, ma un visionario. Un artista che, come loro, rifiuta le etichette e cerca l’essenza. Chiamano Emilio Mazzoli, il gallerista che aveva acceso la miccia della Transavanguardia a Modena. Mazzoli vola a Manhattan, vede le opere, le acquista. Propone a Basquiat una mostra personale, la prima in Europa.

Nel maggio seguente, Basquiat arriva a Modena. È spaesato, lontano dalla sua giungla urbana, privo dei suoi rituali: erba, LSD, junk food. Ma Mazzoli lo accoglie, lo rifornisce di materiali, lo lascia creare. E Basquiat esplode. Produce tele immense, febbrili, viscerali. Ogni opera è un grido, un sogno, una ferita aperta.

Seguono mostre di successo: Annina Nosei a New York, Larry Gagosian a Los Angeles, Bruno Bischofberger a Zurigo. Basquiat diventa meteora e stella fissa, icona e enigma.

Ma tutto parte da quell’incontro al PS1. Da quello sguardo tra Enzo Cucchi e Jean Michel Basquiat. Due percorsi autonomi, due visioni distinte, ma una stessa tensione: fare dell’arte un linguaggio che non si piega, che non si addomestica, che brucia.

Modena diventa il punto di partenza di una traiettoria che cambierà la cultura visiva contemporanea. E quella fotografia, finalmente svelata, è la chiave di volta. Non solo un ricordo, ma un segnale. Un momento in cui l’arte ha smesso di essere forma e ha cominciato a essere destino.

Le loro traiettorie sembrano distanti, eppure si sfiorano come correnti sotterranee che scorrono verso la stessa foce: un’arte che rifiuta il silenzio concettuale e torna a parlare con immagini, simboli, materia e poesia.

Basquiat abbandona il rigore minimalista per una pittura febbrile, istintiva, dove la figura esplode in segni, parole e colori che urlano la sua verità.

Cucchi, visionario ed evocativo, si allontana dall’astrazione cerebrale per abbracciare una figurazione poetica, dove mito e storia si fondono in un linguaggio personale, quasi oracolare. Entrambi scelgono di raccontare il mondo non con formule, ma con visioni.

Il passato vibra nelle loro opere come una presenza viva. Cucchi evoca la letteratura, la mitologia, la memoria dell’arte antica, trasformandole in immagini che sembrano emergere da sogni arcaici.

Jean-Michel Basquiat, con la furia di chi vuole riscrivere la storia, intreccia riferimenti alla cultura afroamericana, alla schiavitù, alla musica, creando un mosaico che è insieme denuncia e celebrazione.

Ogni tela è un campo di battaglia.

Enzo Cucchi “Paesaggio barbaro” (1983) Foto Archivio “Enzo Cucchi” per gentile concessione © copyright riservati

Enzo Cucchi mette in scena il conflitto tra forze opposte – luce e tenebra, spirito e carne -mentre Basquiat costruisce un caos visivo che riflette le tensioni sociali, spirituali e identitarie del suo tempo. I loro simboli non spiegano, ma evocano, non descrivono, ma feriscono, interrogano.

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Estetica dell’intimità, il ritratto secondo Dino Ignani

Dino Ignani

di
Fabrizio Fantoni

 

E in corso presso il Palazzo municipale di Rocca San Giovanni (CH) la mostra fotografica Intimi Ritratti, dedicata all’opera di Dino Ignani, uno dei protagonisti più sensibili e rigorosi della fotografia italiana contemporanea.

L’esposizione raccoglie venti ritratti fotografici dei più importanti poeti italiani del secondo Novecento, realizzati dall’autore a partire dagli anni ’80. Un corpus straordinario che restituisce, attraverso lo sguardo dell’artista, la profondità e la complessità di un’intera generazione letteraria.

La mostra rappresenta un’occasione preziosa per riflettere sull’opera di un maestro che ha fatto del ritratto la sua cifra stilistica, la sua voce artistica.

I ritratti fotografici realizzati da Dino Ignani possiedono una qualità rara e profondamente evocativa: riescono a restituire non solo l’immagine esteriore del poeta, ma anche la sua dimensione interiore, la sua anima. In questo senso, si tratta di ritratti che potremmo definire metafisici, poiché vanno oltre la mera rappresentazione visiva per accedere a ciò che è nascosto, silenzioso, invisibile. La fotografia diventa così uno strumento di rivelazione, capace di far emergere il pensiero, la sensibilità e la tensione spirituale che abitano dietro lo sguardo, dietro la postura, dietro ogni dettaglio del volto ritratto.

Queste immagini non si presentano come opere chiuse o definitive, ma al contrario sembrano volutamente aperte, lasciando spazio all’interpretazione dello spettatore. Dino Ignani non impone una visione, ma invita chi osserva a entrare nel ritratto, a esplorarlo, a interrogarsi. Ogni fotografia diventa una soglia, un invito a varcare il confine tra ciò che si vede e ciò che si intuisce, tra la superficie e la profondità. Il volto del poeta non è mai solo un volto: è una mappa, un enigma, una porta aperta sul suo mondo interiore.

Le fotografie di Dino Ignani si collocano, quindi, in una zona di confine, in uno spazio liminale dove il visibile e l’invisibile si incontrano e si fondono. È su questa zona di frontiera che l’immagine si arresta, lasciando spazio alla parola scritta. La fotografia non è fine a sé stessa, ma entra in dialogo con il testo, con la poesia, con il pensiero. Nasce così una corrispondenza reciproca tra immagine e parola, dove l’una completa e amplifica l’altra. Il ritratto diventa allora un luogo di incontro, un territorio poetico in cui il silenzio dello sguardo si intreccia con la voce della scrittura.

Guardare un ritratto di Dino Ignani non è solo un’esperienza estetica, ma anche intellettuale e emotiva. È un viaggio dentro l’identità del poeta, ma anche dentro noi stessi. Le sue fotografie ci interrogano, ci provocano, ci invitano a riflettere sul senso della rappresentazione, sul rapporto tra immagine e verità, tra apparenza e essenza. In questo modo, Dino Ignani non è solo un fotografo: è un interprete dell’anima, un mediatore tra il visibile e l’invisibile, tra l’arte e la vita.

Amelia Rosselli nel ritratto di Dino Ignani

Tra le fotografie più emblematiche realizzate dall’autore, quella che ritrae Amelia Rosselli si impone come un raro esempio di composizione fotografica capace di coniugare rigore formale e intensità emotiva. Non si tratta semplicemente di un ritratto, ma di una costruzione visiva stratificata, dove ogni elemento concorre a delineare una presenza che è al tempo stesso fisica e intellettuale, concreta e simbolica.

La poetessa appare immersa in una struttura di piani prospettici che ne accentuano il valore plastico, quasi scultoreo. La profondità dell’immagine non è solo spaziale, ma anche concettuale: ogni livello sembra suggerire una diversa dimensione del suo pensiero, della sua identità, della sua storia. Il volto di Amelia Rosselli, con accanto una kefiah palestinese, si volge verso sinistra, in una direzione che non è solo fisica ma metaforica. Il suo sguardo si proietta in un altrove che sfugge alla definizione, come se cercasse una verità che non si lascia catturare, ma solo intuire. Continua a leggere

Tracce di invisibile nell’opera di Giulia Napoleone

di

Fabrizio Fantoni

 

Si è svolta, nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello, la mostra antologica dedicata all’opera di Giulia Napoleone, intitolata “Segni senza confinecurata da Lorenzo Fiorucci.

L’esposizione, articolata e stratificata, si propone al visitatore non semplicemente come rassegna di lavori, ma come autentico percorso esperienziale, capace di coniugare introspezione e contemplazione cosmica.

Attraverso una selezione accurata di opere – disegni, inchiostri, incisioni, pastelli, oli su tela e libri d’artista – si delinea un tracciato visivo che supera la mera dimensione estetica, per diventare geografia interiore, fatta di vibrazioni percettive e visioni rarefatte. L’indagine formale condotta dall’artista si configura come riflessione profonda sulla genesi e sul dissolvimento della forma, intesa come manifestazione transitoria e dinamica di universi pulviscolari, generati nelle pieghe più remote dell’inconscio.

Particolarmente significativi sono i libri d’artista, nei quali si manifesta con evidente forza poetica il dialogo sottile tra immagine e parola, tra il gesto grafico e la scrittura, dando corpo ad una sintassi visiva che unisce lirismo e rigore.

I colori – prevalentemente il rosso e il blu – assumono il ruolo di presenze pulsanti, capaci di interagire empaticamente con le risonanze emotive dello spettatore.

Nell’universo visivo di Giulia Napoleone, la scansione ritmica dei segni dischiude una dimensione musicale che si percepisce non con l’udito, ma con la mente. I tratti non solo tracciano, ma modulano. Come in una partitura silenziosa, ogni segno possiede un proprio tempo, una propria intensità, una pausa necessaria.

Ne risulta una vibrazione visiva che si accorda a frequenze interiori, generando corrispondenze sottili, imprevedibili e profonde con lo spettatore.

L’esperienza di fronte alle sue opere è una sinestesia del gesto: i colori diventano suono, lo spazio diventa ritmo. Il blu può evocare un accordo grave, il rosso una nota acuta, e lo spazio bianco una sospensione armonica.

L’interiorità di chi osserva si sintonizza con quella dell’artista, stabilendo un dialogo in cui ogni composizione si fa melodia tacita, capace di risuonare nella memoria emotiva.

La struttura ritmica non si rifà ad un tempo lineare, bensì ad una ciclicità senza fine. I segni non conducono a una conclusione, ma si aprono continuamente alla possibilità di nuove letture e nuovi ascolti visivi. In questo senso, la musica delle sue opere non è mai esaurita: è una partitura aperta.

Ne scaturisce una cartografia dell’anima, priva di margini, che accoglie l’osservatore trasformandolo in parte integrante dell’opera stessa. Continua a leggere

Frammenti di luce assente

Opera di Enzo Cucchi copyright ph. Fabrizio Fantoni

Le opere di Enzo Cucchi e Massimo Luccioli
nel nuovo spazio espositivo di Simone Aleandri

Testo e fotografie
di
Fabrizio Fantoni

 

Lungo diciassette metri, con un soffitto che sfiora i sei metri d’altezza e una fila di finestre che punteggia la parete sinistra, da cui filtra una luce soffusa capace di accarezzare le geometrie dell’antico pavimento: così si presenta – con la solennità di una cattedrale laica – il nuovo spazio espositivo di Simone Aleandri, inaugurato recentemente nel cuore pulsante di Roma, a pochi passi dal Campidoglio.

È in questa cornice austera e luminosa che Aleandri prosegue il suo percorso ventennale di ricerca e promozione artistica: un lavoro attento e rigoroso, volto a far emergere percorsi spesso trascurati dalla storiografia ufficiale. In questo contesto, ogni opera esposta sembra ricevere e restituire l’energia dell’ambiente circostante – trasformando lo spazio espositivo in un luogo di contemplazione e rivelazione – candidando la nuova galleria a diventare uno dei punti di riferimento più importanti per l’arte contemporanea e il primo Novecento nella capitale.

Al centro della galleria si staglia “Paese mio” di Enzo Cucchi, scultura che domina la scena come un cuore pulsante, radicato in memorie ancestrali e visioni liriche. Cucchi offre qui non solo una forma, ma una voce silenziosa: l’opera vibra come un canto sospeso, capace di evocare il senso di appartenenza, spaesamento e desiderio che abitano il paesaggio interiore dell’uomo.

Realizzata in bucchero, nel fuoco sapiente di Massimo Luccioli, l’opera di Enzo Cucchi si presenta come una colata vulcanica in lenta solidificazione, capace di generare forme inaspettate. Al centro della composizione, su un paesaggio di case appena suggerite, si erge solenne la figura umana, asse verticale che taglia longitudinalmente l’intera opera. Come un meridiano del tempo, questa presenza attraversa le ere geologiche e restituisce, dal suo volto lacerato – simile a un antico elmo stilizzato – la memoria di ciò che siamo stati, attraverso la disposizione di teschi sulla nera superficie.

Incisa su piani di spessore quasi impercettibile, la scultura evoca il rilievo basso e vibrante della tradizione donatelliana, stabilendo un dialogo intenso con la luce. Quest’ultima, accarezzando la materia scura, ne esalta i volumi e ne trasforma costantemente la percezione. Lo spettatore è immerso in una metamorfosi visiva continua, dove ciò che appare muta costantemente sotto il gioco dei contrasti.

È proprio in questo incontro tra l’oscurità e la luce che il linguaggio artistico di Cucchi si fa poesia in virtù di una verticalità del pensiero e di una tensione espressiva del segno che raramente trovano pari nel panorama dell’arte contemporanea.

 

“nella cintura d’acqua

fluttuava immenso l’indistinto

inattuato attaccava la nebbia

melmosa, non era ancora luce ma

notte continua, durava

in quello spazio la non luce

 

si volse la notte si volse

bisognosa a noi che aprimmo

lo sguardo alla forma sollevata

 

solo questo gesto che vede

qualcosa si schiarisce

illumina e avvicina

nell’istante posato

negli occhi che egli chiude”

Opera di Enzo Cucchi copyright ph. Fabrizio Fantoni

I versi di Luigia Sorrentino  – tratti dal Coro III di  “Iperione, la caduta” sezione della raccolta “Olimpia” (Interlinea 2013 – Rist. 20198) – si rivelano il commento più adeguato all’opera di Cucchi. La sua scultura si colloca sul confine estremo dell’indistinto — quella frontiera tra essere e non essere più — dove la materia oscura lotta con la luce, dando forma per un attimo a figure che subito si ritraggono nell’ombra da cui sono nate.

E’ l’indistinto dell’alba, quando la luce non ha ancora vinto le tenebre e tutto è indefinito; è l’indistinto originario, in cui il mondo è ancora sospeso nella possibilità. Ed è proprio tale indefinitezza che conferisce assolutezza al linguaggio di Cucchi, sottraendolo a ogni oggettività, rendendolo puro accadere poetico.

L’opera di Enzo Cucchi è come la fiamma tremolante di una candela: rischiara le ombre senza dissolverle, custodendo intatto lo spirito di una notte arcaica – luogo di veglia, di studio e di sogno. È in questo spazio sospeso che l’uomo può spingersi oltre, distaccarsi dal reale, dilatare i confini dello spazio e del tempo, fino a raggiungere quella soglia sottile in cui si risveglia una coscienza nuova, capace di attraversare le ombre profonde dell’inconscio.

Scrive Mario Finazzi: “Le forme immaginate, affiorate, illuminate solo il tempo di tracciarle, hanno viaggiato dal nero delle profondità biologiche e psicologiche dell’artista al nero opaco del bucchero, forse, si potrebbe dire, riportate al buio, e il riportare al buio quelle immagini ha lo strano calore di un nostos, di un ritorno a casa(il testo è tratto dal catalogo “Prendere al buio per riportare al buio” edizioni Aleandri Arte Moderna 2025)

Opera di Enzo Cucchi copyright ph. Fabrizio Fantoni

 

L’opera di Enzo Cucchi entra in risonanza profonda con le ceramiche di Massimo Luccioli, anch’esse esposte presso la galleria Simone Aleandri Arte Moderna.

Tre conche primordiali in bucchero, in cui la materia – trasformata dall’alchimia del fuoco – assume la consistenza di una pietra nera, quasi lavica, che si frantuma in mille frammenti. Su questi, l’artifex imprime il segno del proprio passaggio, lasciando una traccia indelebile della sua presenza.

Opera di Massimo Luccioli copyright ph. Fabrizio Fantoni

Le opere di Luccioli sembrano emergere da un tempo verticale e insondabile, archetipico. Forme ancestrali che condensano la memoria profonda dell’umanità, e che, come le sculture di Cucchi, instaurano un dialogo intenso con la luce. Una luce che non illumina, ma viene assorbita, scomparendo nell’intima gravità di una materia arcaica. Continua a leggere

Kim Simonsen, il poeta delle Isole Fær Øer

Kim Simonsen © Thomas Koba, per gentile concessione

Introduzione, traduzione italiana dei versi ed estratto dalla postfazione al volume
di Giovanni Agnoloni

Oggi desidero proporvi una selezioni di versi dalla silloge del poeta faroese (già noto a livello internazionale e tradotto in molte lingue) Kim SimonsenLa composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, edita da I Libri di Mompracem nel 2025 col finanziamento degli enti culturali delle Isole Fær Øer “FarLit” e “Mentanargrunnur Landsins”.

La traduzione l’ho realizzata partendo dalla versione inglese della collega (e poetessa) statunitense Randi Ward, che mi ha anche aiutato a cogliere alcune importanti sfumature del testo originale faroese, che ho potuto seguire – pur non conoscendo la lingua – grazie ad alcune sue assonanze con lo svedese.

Seguono cinque poesie (nelle tre lingue) tratte della prima e dalla seconda sezione del volume, nelle quali emergono i temi-chiave della raccolta, che ruota attorno alla morte del padre del poeta, tornato alla sua isola proprio in quell’occasione. Quel ritorno diventa per lui uno spunto per riflettere su come tutto, nella natura liquida del pianeta, sia collegato in un’entropia carica di senso. Infine, troverete un estratto dalla mia postfazione, dove questi temi vengono ulteriormente approfonditi.

Stamani è morto mio padre;
per tutta la vita ha navigato
gli oceani del mondo.
Ora le onde s’infrangono
come sempre si sono infrante
l’una sull’altra.
È così che arriveranno
a cingere le sponde di questa terra:
in un turbinio sovrapposto
di strati
su
strati.

Í morgun doyði pápi mín,
hann sigldi alt lívið
á heimsins høvum.
Nú bróta aldurnar
sum aldur hava brotið
oman á aldur.
Soleiðis vilja aldurnar
fevna fjøruna
landið
alt tað
sum legst
oman á
alt.

My father died this morning;
all his life he sailed
the oceans of the world.
Now the waves break
as waves have broken
wave upon wave.
This is how the waves will
embrace the shores of this land:
everything
eddying layer
upon
layer.

L’oceano sta erodendo queste sponde;
i flutti s’infrangeranno su questa terra
finché l’ultimo faraglione non sarà abbattuto.
Il fiordo, le onde, il pendio ormai saturo
Sono divenuti una necropastorale
arcaica, con quest’unico sentiero verso l’Ade.
La morte vive qui adesso,
ecco chi sta rispondendo al mio sguardo
da un punto tra l’aspra banchina e l’erba avvizzita.

Nú máar havið partar av landinum,
at enda fara aldurnar at bróta landið niður
til seinasti drangurin einaferð koppar í havið.
Fjørðurin, aldurnar og váta brekkan
eru endað sum ein deyðspastorala,
arkaisk við einum farvegi til Hades.
Nú er tað deyðin sum býr her,
tað er hann, ið starir aftur
millum hømiliurnar og deyðagrasið.

The ocean is eating away at these shores;
the waves will break against this land
until the very last sea stack is toppled.
The fjord, the waves, the saturated hillside
have become a necropastoral:
archaic with only this one path to Hades.
Death lives here now,
he’s the one staring back at me
from between the bitter dock and the withered grass.

C’è una spruzzata di neve sulla cengia scoscesa.
Neve, un compromesso
tra materia liquida, gassosa e solida.
La delicata formazione dei suoi fiocchi
è come questo intervallo—
come le alghe e l’erba avvizzita.
Proprio come questo giorno,
tra cumuli di sterco di pecora
e pietre bagnate
e perline di umidità che striano le finestre
mentre la casa siede quieta e vuota,
e tutto al di là del vetro attende.
Pietra basaltica ricoperta di borraccina,
muschio verde e giallo.
Non si vede nemmeno un papavero o una rosa.
Adesso non esisti più,
mi dico a voce alta.

Eitt følv hómast uppi á hamrinum,
kavin hendan millumrokningin
millum vætu, gass og fast evni,
hendan skroypiliga evnafrøðin hjá kavanum
er sum hendan tíðin,
sum tarin og deyðagrasið,
líka sum hesin dagurin,
millum túgvur av sparlalortum
og vátum steinum,
har vætan rennur oman eftir vindeygunum,
meðan húsið er stilt og tómt,
uttan fyri vindeygað bíðar alt
basalt og mosarunnið grót,
grønur og gulur mosi,
valmúa og rósur eru ikki at síggja.
Nú ert tú ikki til meiri,
sigi eg hart við meg sjálvan. Continua a leggere

Ingeborg Bachmann, “Il mio ricordo di Giuseppe Ungaretti”

di Dario Borso

 

Ingeborg Bachmann (1926-1973) pubblicò nel giugno 1961 per la casa editrice Suhrkamp la traduzione in tedesco di cinquantatré poesie di Giuseppe Ungaretti, tratte per lo più da L’allegria. Quando il primo giugno 1970 Ungaretti morì, Ingeborg scrisse di getto un ricordo che uscì solo quattordici anni dopo nell’edizione completa delle Opere[1],1, ed è rimasto finora inedito in italiano:

Nel 1961, dopo che avevo tradotto in tedesco la prima antologia delle poesie di Ungaretti, feci conoscenza del grande vecchio. L’incontro io l’avevo evitato il più a lungo possibile, nemmeno a due sue meravigliose lettere avevo risposto, perché temevo che il mio italiano difettoso avrebbe potuto spaventarlo o renderlo diffidente. Comunque avrei dovuto dirmi che nessuno meglio di Ungaretti comprenderebbe che bisogna essere di casa nella lingua propria per poter trasportare un poema da una riva all’altra. Il mio timore davanti al mostro sacro[2] della poesia italiana è svanito in una delle leggendarie risate ungarettiane: non l’ho prima udito parlare, bensì ridere, ridere.

Se dovessi dire oggi o tra anni a persone che non l’hanno conosciuto quale fu il tratto più eminente dell’uomo Ungaretti, per primo direi sempre a occhi chiusi: la sua generosità. Nessuno sapeva donare come Ungaretti, nessuno di più viziare l’altro. Mai sono andata via da lui senza avere un suo dono in mano, una penna verde[3], un libro a lungo desiderato, e andare insieme a mangiare o viaggiare a un congresso significava anche venire continuamente accudita da lui, nulla gli era buono abbastanza per l’altro.

Il dono più grande Ungaretti me l’ha fatto un giorno a Fiumicino[4]. Non so ancor oggi come poté accorgersi che me la passavo male, ma insistette a portarmi di prima mattina dall’albergo all’aeroporto, lì attendere fino al decollo un aereo che sarebbe partito solo la sera, e così perse un giorno intero nel rumore infernale dell’aeroporto, si preoccupò, cercò un posto appartato, fece portare champagne, e con fare misterioso tirò fuori quattro amuleti con i quali da allora sempre viaggio e abito, tra essi uno cinese antico che aveva ricevuto da Jean Paulhan[5] e che perciò non volevo accettare. Ma Ungaretti disse conciliante: “Non ho più bisogno di niente, ho avuto tutto. Ma lei ha bisogno ancora di qualcosa, e tutto questo la proteggerà”[6].

[1] I. Bachmann, Werke, a cura di Ch. Koschel, I. von Weidenbaum, C. Münster, 4 voll., Piper, München-Zürich 1984, IV, pp. 331-332. Continua a leggere

Il poeta Lorenzo Patàro muore a 27 anni

Lorenzo Pataro foto di Luigia Sorrentino, ottobre 2023 – Raipoesia – TGR RAI Campania

DEDICA

A Luigia,
alla parola sacra, 
resistente, 
ponte di piume sull’abisso, 
alla poesia, 
alla fiamma dei versi 
sotto la pioggia dei secoli.

Con affetto e stima

Lorenzo Pataro
ottobre 2023

DOCUMENTO
di Luigia Sorrentino

La comunità dei poeti è sconvolta dalla notizia arrivata ieri sera, 19 febbraio 2025, dai social, della scomparsa del giovane poeta Lorenzo Patàro, morto a 27 anni.

Così Lorenzo mi aveva scritto in una email del 2023 nella quale mi inviava le sue poesie:

“Credo nel valore protettivo della parola. L’arte di dire il bene e il male e di farsi poi proteggere dagli spazi bianchi, nell’intarsio che fa il silenzio. Credo nella poesia come un amuleto a cui ricorrere nei momenti più oscuri. Qualcosa di magico e di ancestrale, viscerale, qualcosa che si sente con il tutto il corpo e con la voce si prova a far vibrare anche per l’Altro. Si prova con il verso a trasmettere quell’uragano che si è sentito in ogni fibra che ha visto la luce e il dolore, la bellezza e anche l’orrore, la vita e la morte (o la percezione di essa)”.

Fra le poesie ce n’era una inedita:

Guardo questo cielo, questo cielo
che è qui adesso, diverso, uguale a tutti gli altri,
ne scruto il fluire come un fiume,
seguo il suo viandare e mi chiedo
chi sono io adesso, che diritto
ho di stare io qui adesso rispetto a tutti
gli altri, a chi ha lasciato il suo solo già da tempo,
nella notte o verso l’alba andando incontro
al suo destino, incontro a chissà quale altro
corpo nuovo da abitare. I morti sanno tutto.
E ti leggono il pensiero. E io tremo se penso
ai miliardi di morti forse vivi e infiniti
chissà dove, sento la vertigine
montare qui nel petto se penso
che anche io, un giorno, farò parte della schiera
e allora che cosa ne sarà delle parole,
anche di queste, che senso avrà avuto respirare,
stare in piedi, avanzare nel mondo e poi sparire.
Forse allora sarà chiaro ogni mistero,
sarà tutto così semplice e perfetto
e mi illudo che ogni cosa andrà al solco
originale. Intanto continuo a guardare questo
cielo e intanto ritremo a pensarmi qui vivo
proprio adesso, incastrato nell’opera del mondo,
a lasciare come gli altri la mia scia.

(Lorenzo Patàro)

In questa poesia, che probabilmente uscirà postuma in una nuova raccolta di versi di Lorenzo Patàro, si avverte quanto il giovane poeta abbia avvertito il “peso” del suo corpo nel mondo. A rafforzare il mio convincimento i suoi scatti di scrittura che riescono sempre a mettere in luce le contraddizioni dell’essere qui e del non essere più qui, quasi non ci fosse una reale distinzione per Lorenzo fra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Ma quale eredità ci lascia questo giovane poeta?

Lorenzo ci insegna a difendere la nostra libertà, il nostro pensiero, con lo slancio di chi avverte la delicatezza e la precarietà dell’esistenza umana. Continua a leggere

Quasi una poetica

Federico Carrera

di Federico Carrera

Ho fatto davvero piazza pulita. Mi sono tolto di dosso – o almeno questo era l’intento, il proposito – tutti gli «zavagli», come si dice da queste parti, della mia scrittura in versi degli ultimi anni: tic, ossessioni, manie. Ho esaurito l’esauribile. E da quando ho chiuso il nuovo libro, quel poco di buono che ho scritto era ripetitivo o già visto – frantumato in clichés vari – e soprattutto non mi dava né mi dà soddisfazione. Non che scrivere – e scrivere poesia in particolare – significhi questo, tutt’altro: è che Saba augurava a Giudici un grande amore o un grande dolore – e lo augurava al poeta, disse, non all’uomo, com’è chiaro. Non so bene quale strada prendere e quei pochi momenti di poesia – da dove nasca il verso rimane un bel mistero, senza dubbio – che mi capitano ogni tanto, li lascio cadere nel vuoto e li dimentico in pochi minuti. Insomma: pare che io abbia davvero staccato tutto, che le cose non mi parlino più e – quel che è peggio – che io non le voglia per il momento ascoltare.

Eppure, oggi – è una domenica di gennaio – c’è un sole ghiacciato e un cielo limpido e mi dispiace fin troppo rinchiudermi in casa a ripetere ad alta voce la mia traduzione di Tacito – che utilità possa avere non lo so, ma così chiedono di fare i Dotti – quindi decido che la vita in fondo è mia, che mi sono dato da fare molto in questi anni e che – per carità – se esco un’ora a passeggiare non morirà nessuno. Così esco. Inverto la solita rotta della mia passeggiata e mi dirigo al parco, perché ho voglia di vedere per bene il cielo e il lago che lo specchia quando è immoto come oggi. Arrivo, ma prima di sedermi su una panchina getto uno sguardo alle palazzine dall’altro lato del parco e mi ricordo che quasi un anno fa, in una passeggiata più o meno come questa, scrissi una poesia senza titolo che principiava con questo verso: «sul tetto del palazzo c’è un cubotto quadrato». Indubbiamente un brutto verso, che però mi sono ripetuto in testa per mesi. La poesia, anche quella era venuta fuori brutta: non sapevo più cosa metterci dentro, avevo ripetuto il motivo della solita donna lontana e che nella mia testa mi odia, mescolato a qualche citazione troppo esibita di Sereni e Montale. Senza davvero alcun dubbio, una delle mie poesie più brutte. Ma ora. Ora ho fatto tabula rasa, ho cambiato tutto: riproviamo. (Mi ero quasi detto interiormente che non avrei davvero più scritto una poesia, almeno per qualche mese…). Così comincio:

Sul tetto del palazzo c’è un cubotto

Noto però che i palazzi con “cubotto” sono due, anzi tre (ma è più bello immaginare, e quindi scrivere, che siano due). E poi penso a quella antica poesia, che partiva da una descrizione e che però era fatta tutta di ripensamenti e cancellature, e penso che oggi è come se fossi ritornato qui apposta per riscriverla, ma scrivere una poesia brutta è come commettere un delitto e, in fondo, quando si sbaglia una poesia, è come se si sbagliasse a prendere la mira di un sentimento, è come un fallimento esistenziale in piccolo. Quindi – ma è già una seconda immediata stesura perché correggo mentre scrivo – la strofa esce così:

 

Sul tetto del palazzo c’è un cubotto –
ma quale dei due? E se dal descrivere
nasce lo scrivere e da esso l’eliminare,
mi chiedo se è compiere un delitto
scrivere la poesia che non ho scritto. Continua a leggere