In memoria di te, Mark Strand

Mark Strand

Incendio

A volte scoppiava un incendio e io ci camminavo dentro
e ne uscivo illeso e continuavo per la mia strada,
e per me era soltanto un’altra cosa fatta e finita.
Quanto a estinguere l’incendio, lo lasciavo ad altri
che si gettavano nelle nubi di fumo con ramazze
e coperte per spegnere le fiamme. Una volta finito
facevano crocchio per parlare di quello che avevano visto –
la gran fortuna di aver testimoniato i lucori del calore,
l’effetto acquietante della cenere, ma anche più di aver conosciuto il profumo
della carta che brucia, il suono delle parole che respirano la loro fine.

Mark Strand nella traduzione di Damiano Abeni (Mondadori, 2007)

Fire

Sometimes there would be a fire and I would walk into it
and come out unharmed and continue on my way,
and for me it was just another thing to have done.
As for putting out the fire, I left that to others
who would rush into the billowing smoke with brooms
and blankets to smother the flames. When they were through
they would huddle together to talk of what they had seen –
how lucky they were to have witnessed the lusters of heat,
the hushing effect of ashes, but even more to have known the fragrance
of burning paper, the sound of words breathing their last. Continua a leggere

Video-Intervista a Mark Strand

Mark Strand

Mark Strand, in assoluto una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea, ha appena pubblicato in Italia per gli Oscar Mondadori una raccolta di tutte le poesie: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Oscar Mondadori, 2011 (euro 15,00).

In questa video-intervista realizzata da Luigia Sorrentino il poeta di origine canadese, Mark Strand, premio Pulitzer per la poesia nel 1999, rivela un’inedita lettura di tutta la sua opera poetica.

 

Intervista di Luigia Sorrentino
Accademia Americana di Roma
18 marzo 2011

Siamo qui per parlare della sua opera di poeta, l’opera di un poeta definito della ‘montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi.

Innanzitutto ci dica una cosa…

Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, a un certo punto, di dedicarsi totalmente alla scrittura… è successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata? Che ricordi ha dei suoi esordi letterari?

 

“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio ma bensì uno studente pittore, ma in un certo modo l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa, prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta.  Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un  modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”

 

La sua prima poesia, quella scritta negli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?

 

“In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo “misterioso”, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma al contempo ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore di sperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché in generale non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”

 

Via via, negli anni, la sua identità poetica sembra che si sia dedicata a un esercizio di purificazione interiore…  “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è il titolo della raccolta in cui, per la prima volta, viene proposta un’ampia scelta in Italia della sua produzione poetica tra 1964 e il 2006.

Chi è “L’uomo che cammina a un passo davanti al buio”?

 

“Rappresenta ognuno di noi. Non è una persona in particolare, non sono nemmeno io, sebbene pensi di camminare un passo avanti al buio, specialmente ora che sto invecchiando, il buio diventa sempre più vicino,  ma è il destino di ognuno di noi quello di essere un passo avanti al buio. Lo si può pensare in questo modo, ogni giorno che si vive, che si sopravvive, si sfugge al buio… è questo il senso che volevo trasmettere con il titolo del mio libro in italiano. Ninet’altro. Ha un senso? … ok”

 

Tutta la sua opera – è stato detto – sembra dominata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…

Come definirebbe la sua poesia?

“Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”

Lei potrebbe essere definito anche “il poeta della disillusione”. Forse questa è una delle principali caratteristiche della sua opera. Lei dice che immaginazione collettiva si è affievolita… L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?

“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che “L’uomo e il cammello” sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: “l’hai rovinata, rovinata per sempre” riferendosi alla poesia. E la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo… un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso. A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto… come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia? E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa?! Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”

 

Possiamo dunque dire che “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è l’uomo contemporaneo che cammina in uno spazio oscuro, che precede il buio in cui si concluderà la sua esistenza?

“L’uomo che cammina un passo avanti al buio non sta camminando attraverso il buio, cammina nella luce. Il fatto che il buio sia dietro di lui e forse lo sta raggiungendo, Ma se fosse stato nel buio e questo lo stesse perseguendo,  non sarebbe stato possibile fare la distinzione che ho fatto.  Noi viviamo in una condizione benedetta di illuminazione. L’illuminazione, la luce non significherebbero niente se non avessimo un senso del buio.  E’ semplice, proprio così come appare. Tutto è nel buio. Chiaramente. Guardate oggi, è una bella giornata, sarebbe ridicolo se dicessi viviamo nel buio. Ideologicamente forse, noi viviamo tempi bui, ma poi l’oscurità diventa materia di discussione.”

E’ stato detto, di lei, il “il poeta dell’assenza”…il suo è un io che si sottrae  al paesaggio, la sua è una poesia semplice, ma anche misteriosa…il suo dire “io” non è un’autoaffermazione, ma una negazione, è un cancellare il sé…

Perché ci sono “tanti vuoti”, tante “sospensioni” all’interno della sua poesia?

 

“Non lo so. Semplicemente non lo so. Ho la sensazione che quando una persona si siede in una stanza, da sola, e scrive, perde la sua connessione con il mondo e diventa il segretario dei pensieri di qualcun altro. In un certo senso si esce dal corpo, si perde il senso del tempo, lo spazio è alterato e si diventa la creatura della propria immaginazione. Quello che voglio dire è che l’assenza dal mondo reale è palpabile quando si è soli in una stanza. Il mistero è qualcosa di inspiegabile, altrimenti non sarebbe misterioso. E’…  da dove vengono queste idee e cosa ti dice la poesia su dove desidera andare. Tutto questo è mistero, in un certo senso non sono io a dire alla poesia dove andare, è la poesia che mi spinge verso una direzione, la poesia ha una propria voce, e io divento il segretario della mia voce. E la mia voce è il prodotto dell’immaginazione. Oltre a questo non saprei cos’altro dire a parte il fatto che preferisco vivere nel mistero, e l’assenza è proprio questo.”

E’ stato detto di lei… anche “poeta pastorale” del genere pastorale, idilliaco… ma non nel senso proprio del termine… nel senso che la sua poesia si colloca in uno spazio idealizzato e artificiale … che rende, per questa ragione, più intensa però la sofferenza, tanto che la critica parla di “idillio negativo di Strand”…

Lei è d’accordo con questa interpretazione? Quali sono, dunque i suoi paesaggi?

“Vorrei concordare con questa caratterizzazione della mia poesia, tuttavia non ne ho mai sentito parlare, perchè non leggo le critiche dei miei lavori, non leggo recensioni. La gente mi dice “è buona, va bene,  non lo è “… io non dico bene, ma chi se ne importa. Ma credo che sia possibile che abbia creato questa negatività idealizzata. Il paesaggio, l’ambiente delle mie poesie, è in realtà  puro arredamento, le montagne appaiono sullo sfondo, il mare che appare è sullo sfondo, così come lo è la luna, quello che mi interessa è l’azione che avviene all’interno della poesia. Per me l’immagine di una poesia è l’azione all’interno della poesia. E’ l’evoluzione della consapevolezza, all’interno dei limiti formali della poesia. Se questo suggerisca dolore o piacere, non lo so. Posso soltanto dire che nello scrivere queste poesie io provo piacere. Poi se trasmetto dolore, e sono sicuro che può succedere… è una domanda difficile. Guardate alle migliaia di crocefissioni che sono state dipinte… la crocefissione è l’esempio del dolore estremo, secondo me. Noi guadiamo questi quadri che possono essere di Velazques, Tintoretto o persino di Salvador Dalì, noi proviamo piacere, il dolore non viene trasmesso. Dobbiamo rimmaginare il dolore, attraverso il piacere che viene trasmesso. In realtà ho scritto una poesia che parla di questo processo. La maggior parte delle poesie parlano di perdita e sono tristi. Ma questa tristezza e questa perdita si identificano nella bellezza, ed è la bellezza che ci commuove.”

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