“Buon compleanno, Dudù!” Video-Intervista a Raffaele La Capria

Raffaele La Capria

Raffaele La Capria
a cura di Luigia Sorrentino

Roma, 30 ottobre 2011

 

“Buon compleanno Dudù!”
Il 3 ottobre del 1922 nasce a Napoli uno dei più raffinati scrittori italiani del Novecento, Raffaele La Capria, per gli amici Dudù (o anche Duddù) con la doppia D. Prova ne è l’ultimo libro pubblicato dall’autore nel 2011, “Confidenziale” Edizioni Il Notes Magico (12,00 euro).

Si tratta di una raccolta di lettere confidenziali – come suggerisce il titolo – scritte a La Capria dai suoi amici. Goffredo Parise, Lina Wertmuller, Francesca Sanvitale, Emanuele Trevi che scrivevano “Caro Dudù”, ma anche lettere di altri amici che scrivevano “Caro Raffaele La Capria”, come Anna Maria Ortese, Edoardo Albinati, Umberto Silva, e quelle di altri ancora che scrivevano “Caro La Capria”, come Norberto Bobbio.
L’occasione è ghiotta per me me, per augurare a Dudù, che compie oggi 89 anni, “Buon Compleanno!” riproponendovi il testo e il video di una delle mie interviste a La Capria. In particolare, quella realizzata per Rainews24, nel 2005, subito dopo l’uscita del libro “L’estro quotidiano” (Mondadori, 2005).

La Capria, quasi alla fine della video-intervista mi racconta di un suo sogno ricorrente, il sogno in cui gli riappaiono i genitori che lo scrittore dice di ‘incontrare per caso’, come se fossero andati via dalla casa e lui non sapesse dove sono andati a finire.

La domanda piena d’affetto che La Capria rivolge a suo padre e sua madre è questa: “Ma come fate a vivere da soli? Io non so niente di voi…  Chi vi mantiene? Dov’è la vostra casa?”  […]

Il testo (parziale) dell’intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino

Riprese e Montaggio di Luigia Sorrentino
Roma, 2005


L’epoca che viviamo è tragica, funestata da eventi tragici. Come vive Raffaele La Capria questa sua epoca?

‘L’ho scritto nella ultima pagina del mio libro ‘L’Estro quotidiano’. Quel libro l’ho scritto nel 2003, ma per ragioni editoriali è uscito nel 2005. Dal 2003 al 2005 la situazione è peggiorata e il tasso di odio, ferocia, crudeltà, è aumentato nel mondo in maniera inimmaginabile. Dopo le esibizioni filmate delle teste tagliate e la strage programmata dei bambini in Ossezia, si è persa la bussola dell’umano e le parole non sono più all’altezza del male che vorrebbero denunciare. Il nostro privato rispetto a questi eventi tragici, sembra una futilità. Qual è il risultato? Di ridurre la nostra vita quotidiana a un assurdo. Adesso la nostra vita quotidiana non ci sembra più normale, è una pretesa normalità. Ma è una normalità falsa quella in cui crediamo di vivere noi privilegiati, credendo di stare in pace, di non soffrire di queste terribili calamità che il mondo soffre’.

Quest’epoca, ha cambiato qualcosa nella sua scrittura?

‘Certo. Soprattutto se si legge tutto il mio libro ‘L’Estro quotidiano’ si sente che è attraversato come da un’angoscia, da un sottile rimorso di star bene. Si sente che c’è una frattura spaventosa tra quello che sappiamo e la vita che viviamo. Questo aspetto lo metto in evidenza in un punto preciso del libro in cui racconto che sto guardando la televisione e vedo massacri, cose orrende e dico: “questo è il telegiornale delle otto, e io devo vestirmi in fretta, alle nove ho un appuntamento al ristorante”. Ed è proprio questo l’assurdo: vedere il male, ma poi andare al ristorante.

In un articolo uscito sull’ Espresso Giorgio Bocca ha detto che La Capria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo le due Napoli, quella della borghesia, colta e aristocratica, e quella selvaggia, del popolo napoletano. Praticamente Bocca dice che lei ha inventato la napoletanità.

‘Non ho inventato la napoletanità, ma l’ho analizzata criticamente. L’ho analizzata e criticata anche più ferocemente di quanto Bocca, qualche volta, abbia criticato il sud e i mali del sud. Bocca dice, però, che questa mia teoria è elegante, ma consolatoria. E io gli ho risposto: “Bhe? Che c’è di male che sia consolatoria? La letteratura deve essere anche consolatoria, oltre che critica.’

Il suo linguaggio narrativo di certo non rappresenta la Napoli della camorra e della illegalità. È una sua scelta non rappresentare quella Napoli?

‘Uno scrittore non è obbligato a scrivere di camorra. Credo che uno scrittore abbia il compito di dare un’immagine della sua città molto più grande e più complessiva, che include tutto. Una rappresentazione della città, una rappresentazione mentale che sottragga la città dalle false rappresentazioni che gli vengono date continuamente. Tanto utile, rivoluzionaria, importante è l’opera di uno scrittore, quanto più questo scrittore si affranca dalle false rappresentazioni e cerca, come un archeologo della mente, di scavare attraverso la cenere di queste false rappresentazioni, il documento vero, la sostanza vera di quella immagine della città che lui sta creando mentre scrive. A tutto questo deve corrispondere, anche, uno stile adeguato, perché soltanto quando c’è questa fusione tra un’idea e una rappresentazione, e uno stile che la sostiene, funziona la comunicazione.’

Lei tempo fa ha scritto un racconto per spiegare perché ha voluto diventare uno scrittore. Il racconto parla di un bambino di otto anni sulla cui spalla va a posarsi un canarino…

‘Ormai questo racconto è diventato una specie di barzelletta. Anche Roberto Benigni nel film ‘La tigre e la neve’ ha cominciato a far parlare il suo personaggio attraverso questo racconto del canarino… In quel racconto ho cercato di spiegare come è difficile comunicare un’emozione. “Oggi un canarino si è posato sulla mia spalla”, dice il bambino alla mamma. E subito pensa di non aver detto niente di quell’emozione. Allora il bambino capisce che deve trovare le parole per comunicare l’emozione. L’essenza della scrittura, e di tutta la letteratura, sta proprio nella difficoltà continua di comunicare un’emozione.

In ‘Ferito a morte’, il romanzo che lei ha scritto nella seconda metà degli anni ’50, un raggio di sole penetra nella stanza della giovinezza e svela il mistero della vita… Napoli è una città che ferisce a morte?

‘In ‘Ferito a morte’ si parla della spreco della giovinezza. Quindi, non soltanto della bella giornata radiosa – che è appunto quella della giovinezza, dell’attesa e della felicità – ma anche dell’ombra che l’attraversa, che è quella specie di occasione mancata che per tutti è la vita.

‘Ferito a morte’ è un poema romanzesco. Non ha la struttura del romanzo, segue una prosa fatta di assonanze, di metafore, un po’ come avviene nella poesia, dove le parole sono suggerite, quasi a lasciare un vuoto che poi deve riempire il lettore… Ma allora, nei suoi romanzi non esiste una vera e propria struttura narrativa?

‘La struttura esiste, eccome. Però è una struttura di tipo musicale. Nel novecento la scrittura è diventata come una partitura musicale: è scorrevole, e, al tempo stesso, è solida. È fatta come di fil di ferro, ma di ferro.’

Ci spiega perché la sua voce è diversa da quella degli altri scrittori contemporanei?

‘La mia voce è quella dello scrittore che si mette accanto ai suoi personaggi e dice al lettore: ‘sentite come parla’, ‘sentite come dice ora’…. Non è una presa in diretta, ma è una presa critica del linguaggio, e non solo. Siccome le cose che dicono i miei personaggi sono quasi tutte delle stupidaggini, io vorrei appunto dimostrare come si può attraversare la stupidaggine, facendo apparire l’inerzia di una classe dirigente, che è quella che frequenta i circoli nautici. E allora, questa classe dirigente, che io ho chiamato la classe digerente, qual è la cosa che la contraddistingue? Il fatto che non ha saputo parlare. E allora, qual è il suo punto? È il silenzio. È una classe che non ha detto niente. E quella specie di chiacchiera continua che c’è in ‘Ferito a morte’ è appunto il silenzio: questo straparlare senza dire niente’.

Lei si sente un poeta, oltre che uno scrittore?

‘No, non mi sento un poeta, mi sento uno scrittore. Però ho capito quello che dicono i critici, e cioè che Ferito a morte si muove su una pulsione lirica, più che su una pulsione narrativa. Ho capito questo e credo che abbiano ragione, perché è fatto di accordi metaforici e di assonanze che sono, appunto, la vera sostanza della intelaiatura, della tessitura, di questo libro’.

Come mai nelle sue opere ricorre sempre il mare?

‘Perché il mare è un elemento costitutivo della mia vita, sono nato sul mare. In realtà in ‘Ferito a morte’ parlo del mare in modo diverso da come il mare era stato raccontato fino a quel momento. Praticamente il mare lo vedo da dentro, come se fossi un pesce, dalla posizione di chi nuota e il mare lo vede stando dentro.’

Qual è lo scrittore che l’ha affascinato di più?

‘Io ho sempre amato quegli scrittori che hanno parlato dell’uomo risalendo ai suoi sentimenti
antropologicamente più radicati: quindi l’amore, l’odio, la simpatia, eccetera. Tra questi, uno dei più vicini a me è Cecov. Mi piace la sua mitezza. È uno scrittore che si rende conto di chi è l’altro e immediatamente te lo fa scoprire. Ma ho amato anche scrittori problematici, come Dostoevskij, scrittori epici come Tolstoj e tutti quelli che hanno raccontato la vita umana immersa nella corrente della Grande Storia, come Stendhal.’

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[…] “E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì… e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora, vicini, i passi sopra queste pietre.”[…]

da: Ferito a morte di Raffaele La Capria, Premio Strega 1961.

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