Lutto nel mondo della poesia. Se n’è andato il 29 novembre 2014 Mark Strand, una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea internazionale.
–
“Perennemente in crisi, la poesia rimanda a luoghi e tempi lontani dalla realtà sociale. E’ pura interiorità e quindi sempre attuale“.
(Mark Strand)
Ricordiamo il poeta di origine canadese, Mark Strand con le sue stesse parole… “La poesia rimanda a luoghi e tempi lontani della realtà sociale. E’ pura interiorità e quindi sempre attuale”.
Poco sotto la video intervista con Mark Strand realizzata il 18 maggio del 2011 a Roma, all’American Academy.
Ciao Mark…
–
INTERVISTA A MARK STRAND
di Luigia Sorrentino
American Academy 2011
Siamo qui per parlare dell’ opera del poeta Mark Strand, l’opera di un poeta definito ‘della montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi. Innanzitutto ci dica una cosa… Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, di volersi dedicare totalmente alla scrittura… E’ successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata?
“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio, bensì uno studente-pittore, ma, in un certo modo, l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa: prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta. Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”
–
La sua prima poesia, quella degli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?
In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo ‘misterioso’, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma, al contempo, ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore disperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché, in generale, non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”
Tutta la sua opera è costellata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…
Come definirebbe la sua poesia? “Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”
–
Lei potrebbe anche essere definito ‘Il poeta della disillusione’. Forse questa è una delle caratteristiche principali della sua opera di poesia. Lei dice che l’immaginazione è come svanita o affievolita. L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?
“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che ‘L’uomo e il cammello’ sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: ‘l’hai rovinata, rovinata per sempre!’ (riferendosi alla poesia). E’ la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo!… Un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso! A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto: ‘Come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia?’ E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa? Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”
IL MIO NOME
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi,
marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei
di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba,
ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo
cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato,
e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii
che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii
il mio nome come per la prima volta, lo udii
come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante
come se appartenesse non a me ma al silenzio
dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Da: “L’uomo che cammina a un passo avanti al buio” Poesie 1964-2006 di Mark Strand, Oscar Mondadori, 2011. Traduzione di Damiano Abeni.
THE END
BY MARK STRAND
Not every man knows what he shall sing at the end,
Watching the pier as the ship sails away, or what it will seem like
When he’s held by the sea’s roar, motionless, there at the end,
Or what he shall hope for once it is clear that he’ll never go back.
When the time has passed to prune the rose or caress the cat,
When the sunset torching the lawn and the full moon icing it down
No longer appear, not every man knows what he’ll discover instead.
When the weight of the past leans against nothing, and the sky
Is no more than remembered light, and the stories of cirrus
And cumulus come to a close, and all the birds are suspended in flight,
Not every man knows what is waiting for him, or what he shall sing
When the ship he is on slips into darkness, there at the end.
LA FINE
DI MARK STRAND
Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine,
guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà
quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine,
o cosa spererà una volta capito che non tornerà più.
Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto,
quando il tramonto che infiamma il prato e la luna piena che lo gela
non compariranno più, non ogni uomo sa cosa scoprirà al loro posto.
Quando il peso del passato non si appoggia a nulla, e il cielo
non è più che luce ricordata, e le storie di cirro
e cumulo giungono alla fine, e tutti gli uccelli stanno sospesi in volo,
non ogni uomo sa cosa lo attende, o cosa canterà
quando la nave sulla quale si trova scivola nel buio, là alla fine.
Traduzione di Damiano Abeni
Da: “L’uomo che cammina un passo davanti al buio” Poesie 1964-2006, Oscar Mondadori, 2011.
Mark Strand, (1934-2014), è nato a Summerside, nella Prince Edward Island (Canada) ed è cresciuto negli Stati Uniti. Ha vissuto a New York e ha insegnato alla Columbia University “Inglese e Letterature comparate. “Quasi invisibile”, la sua dodicesima raccolta di poesie, è la prima pubblicata dopo l’autoantologia del 2007 “New Selected Poems”, tradotta da Damiano Abeni col titolo “L’uomo che cammina un passo davanti al buio” e pubblicata nel 2012 da Mondadori, così come la precedente, “Uomo e cammello” del 2006.
E’ autore anche di un libro di racconti “Mr and Mrs Baby”, di tre volumi di traduzioni (da Rafael Alberti, Carlos Drummond de Andreade e da poesie Quechua), di diverse antologie, – tra cui in Italia con Damiano Abeni “West of Your Cities”, Nuova Antologia della poesia americana, (minimum fax, 2003), di monografie sui pittori contemporanei William Bailey e Edward Popper e di tre libri per bambini.
In Italia, oltre a tre plaquette per le Edizioni L’Obliquo sono disponibili: due antologie delle sue poesie “L’inizio di una sedia” Donzelli, 1999; “Il futuro non è più quello di una volta”, Minimum fax, 2006), un volume di scritti d’arte “Edward Hopper – Un poeta legge un pittore”, Donzelli 2003) e la favola “Il pianeta delle cose perdute”, Beisler 2002, “Il monumento” Fandango libri, 2010, “Ehi, Mark! scusa il ritardo, scusa il ritardo…”, (Una passeggiata (da mezzogiorno a mezzanotte) di Mark Strand con Damiano Abeni, Luca Sossella Editore, 2011 .
Mark Strand ha ricevuto numerosi premi e onorificenze: nel 1990 è stato nominato Poeta Laureato negli Stati Uniti. Nel 1993 ha vinto il Premio Bollingen, nel 1999 il Pulitzer con la raccolta “Blizzard of One” e nel 2009 la Medaglia d’oro dell’American Academy of Arts and Letters
Quando si vive ci si sente immortali e poi… rimangono poesie e ricordi.