Milo De Angelis, Video-Intervista

Milo De Angelis: L’imperativo categorico e l’infinito presente

di Luigia Sorrentino

Ho conosciuto Milo De Angelis in occasione di una lettura di poesie a Ortona nel 1986. Fu in quel contesto che De Angelis mi mise di fronte alla sua poesia, regalandomi la prima edizione di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. I suoi versi mi colpirono per la solennità e la compiutezza della voce con la quale il poeta anticipava un sapere sconvolgente che pochi riuscivano a percepire. Dopo quel primo incontro andai più volte a Milano, la città dove il poeta tuttora vive, per rivedere De Angelis. Ricordo i lunghi pomeriggi trascorsi nella casa di via Rosales a parlare di poesia. Fu in uno di quegli incontri che il poeta divertendosi a giocare con la radice del mio cognome disse: “lo sai cosa significa sorren in tedesco?”. E poi aggiunse: “Significa approdo“.
Recentemente ho appreso che  la parola sorren non è più di uso comune In Germania. Grazie all’intermediazione di Soledad Ugolinelli, nel Goethe Institute di Roma che ha consultato il dizionario della lingua tedesca dei Fratelli Grimm, edito nel 1854, è venuto fuori che sorren significava letteralmente “legare saldamente con una fune”, un termine che si usava, in particolare, per indicare il modo in cui i barili dovevano essere legati nella stiva a bordo di una nave, onde evitare che si perdessero durante un viaggio.
Scopro oggi che De Angelis aveva utilizzato la radice del mio cognome, sorren, per dare forza al legame che si era instaurato fra noi. Saldamente legati durante il viaggio. L’approdo, altro non era, metaforicamente, che il luogo della poesia.

 

T. S.

I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II
E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

Intervista a Milo De Angelis
di Luigia Sorrentino
Milano, Vita Bovisasca, 85
23 dicembre 2006

 

De Angelis, quando si viene toccati dalla poesia? Quando la poesia si chiama?

“si viene toccati dalla poesia quando sentiamo che è una via obbligatoria e tutte le altre vie ci sembrano un’evasione… Sì, un’evasione da ciò che è essenziale,  dalla parola che è più antica in noi e che il tempo ha reso un destino. Una parola non ritrattabile, una parola d’onore, una parola depositata da sempre, a cui dobbiamo a tutti costi dare un nome. Dare la parola dice bene di questa fedeltà alla promessa poetica.e questo lo sentiamo già poeticamente, con quella forza imperativa con quella voce da ultimatum che è propria del verso”.

Somiglianze, pubblicato nel 1976, trent’anni fa, è la prima raccolta di versi di Milo De Angelis, nella quale ricorrono tematiche forti, legate al mito dell’infanzia e dell’adolescenza. Una poesia in cui il presente diviene l’imperativo categorico della parola poetica: “Se ti togliamo ciò che non è tuo/ non ti rimane niente.” Il verso è tratto da la poesia che s’intitola L’idea centrale. Un verso forte, imperativo e categorico. 

“L’imperativo è il tempo e il modo della poesia. È un imperativo in cui lettore deve entrare, deve sentire che quel verso è un grido… Grido di soccorso, di gioia, di stupore, di rabbia, di memoria, di dolore. Un grido comunque che ci chiama, e che è rivolto a noi, proprio a noi… e dobbiamo ascoltarlo, a tutti i costi. La poesia porta in sé l’ultima volta. L’ultima cena, la razza estinta, l’estrema unzione, qualcosa che ci chiama con violenza a essere presenti, ci avverte che non ci saranno repliche, perché è un atto unico”.

 

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Orhan Pamuk, “Istanbul”

Orhan Pamuk

Un altro Orhan

di Luigia Sorrentino

Chiunque legga Orhan Pamuk  capirà che tutta la sua opera è attraversata dal tema dell’identità nella continua esplorazione del conflitto tra islamismo e occidentalismo.

Pamuk,  scrittore di fama internazionale, nato a Istanbul il 7 giugno del 1952, candidato al Premio Nobel per la Letteratura – ha al suo attivo sette romanzi –   ha rischiato di finire in carcere per “manifesta offesa alla turchità”,  quando ha riconosciuto la Turchia colpevole dello sterminio di un milione di armeni e 30 mila curdi  in Anatolia ad inizio del XX secolo.

Incontrare Pamuk in una città come  Napoli, in occasione della 52esima edizione del Premio Napoli,   è stato, per me,  fortemente simbolico.

Napoli e  Istanbul, sono infatti collegate da un comune strato di cultura e di tradizione. Sono state entrambe città-regno, sono, ancora oggi, città costantemente  rivolte verso l’Europa alla ricerca di una identità libera dalla tristezza, dalla miseria, dalla decadenza.

Napoli e Istanbul conservano un’identità comune che mira a raggiungere anche la qualità, il successo, dell’Occidente. Ma ci sono, nel mondo, molte città che somigliano a Istanbul. Tutte quelle che condividono con Istanbul la malinconia, il disordine, la precarietà, il crollo, da sconfitta o da povertà.

“Vi dirò chi sono”, scrive Pamuk in Istanbul.

E racconta che una volta disegnava, studiava architettura e sognava di diventare pittore. Poi, non si sa perché, decise di diventare scrittore e di vivere la sua seconda esistenza.

(VIDEO INTERVISTA INSERIRE QUI)

 

Intervista a Orhan Pamuk
di Luigia Sorrentino
Napoli, 14 settembre 2006

 

Pamuk, lei a vent’anni ha capito che sarebbe diventato uno scrittore.  In quegli anni studiava architettura e sognava di affermarsi come  pittore.  Che cosa le fece cambiare direzione?

Tra l’età di sette e ventidue anni ho sempre sognato di fare il pittore. Poi a ventidue anni qualcosa è scattato nel mio cervello e ho deciso di smettere di dipingere ho iniziato a scrivere romanzi. Pian piano mi sono affermato, prima a livello nazionale come scrittore, poi a livello internazionale e da allora tutti hanno iniziato a chiedermi perché ho smesso di dipingere. In realtà non c’è una risposta singola, un’unica risposta a questa domanda. Nel tempo, man mano che la domanda mi veniva posta, ho sviluppato tante risposte. In effetti mi è stata fatta così tante volte questa domanda che alla fine ho deciso di scrivere un libro per rispondere, e questo libro è Istanbul. Non c’è un’unica riga, un’unica parola che lo spieghi, però il libro, nel suo complesso, è una risposta a questa domanda. Continua a leggere