Il poeta nord-irlandese Seamus Heaney, uno dei più riconosciuti fra i viventi, premio Nobel per la Letteratura nel 1995, in residenza per il 2013 presso l’American Academy in Rome, ha rilasciato in esclusiva un’intervista televisiva per Rai News 24.
(ndr) Per vedere e ascoltare la versione integrale in inglese (e traduzione in italiano) vai QUI.
Breve introduzione
Durante gli anni Sessanta Seamus Heaney ha lavorato inizialmente come insegnante e poi come lettore alla Queen’s University ed i suoi primi tre libri di poesie sono stati scritti durante questo periodo.
Nel 1972 Heaney si trasferisce con la famiglia da Belfast a County Wicklow, nella Repubblica d’Irlanda.
Nella video-intervista Seamus Heaney parla della sua poesia raccontando il periodo della guerra e dei Troubles (i disordini) nell’Uslter, l’Irlanda del Nord.
Intervista integrale a Seamus Heaney
di Luigia Sorrentino
Roma, American Academy
16 maggio 2013
Seamus Heaney, lei è nato il 3 aprile del 1939 in una fattoria nella contea di Derry, a Casteldawson, primo di nove figli, in Irlanda del Nord. Lei è nato nella patria di Percy Bysshe Shelley e di William Bulter Yeats, due dei più grandi poeti del mondo. A Belfast ha frequentato un gruppo di scrittori raccolti attorno al poeta e critico Philip Hobsbaum, fra essi Seamus Deane, Michael Longley e Marie. Devlin, che divenne sua moglie nel 1965, dalla quale ha avuto tre figli.
Seamus Heaney, lei nel 1944 ha solo cinque anni quando le truppe americane entrano in Irlanda del Nord. Un evento lontanissimo nella sua memoria. La Storia si sta facendo e lei è molto giovane. Di questo evento, come di altri, si trova traccia nella sua poesia, ma la sua voce è “fuori campo”, il suo sguardo lenisce le ferite di una comunità gravemente danneggiata dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La sua poesia tenta una riconciliazione, anche nella memoria. Siamo nel 1944, quasi alla fine della guerra …. di lì a poco gli Stati Uniti avrebbero bombardato il Giappone con la bomba atomica lanciata su Hiroshima e Nagasaki causando più di duecentomila morti fra i civili. Una tragedia di proporzioni inestimabili incisa per sempre nel cuore del mondo.
Quando ero bambino vidi i soldati americani arrivare in Irlanda del Nord in quanto si stavano preparando ad invadere l’Europa continentale. L’esercito britannico e quello americano erano ovviamente alleati. L’Irlanda del Nord, in quanto parte del Regno Unito, era coinvolta nel conflitto bellico, e non la Repubblica di Irlanda, ma l’Irlanda del Nord, dove vivevamo noi.
Il mio primo ricordo di quell’evento è che da bambino mi arrampicavo su di un albero da cui si vedeva la strada che attraversava il nostro villaggio. Vidi la colonna di soldati che arrivarono a bordo di jeep, carri armati, veicoli blindati passare sotto di me. Allora pensavo che questo evento fosse l’ingresso del male nel paradiso terrestre, l’irruzione della modernità nel piccolo mondo dell’Irlanda rurale.
Mi ricordo anche un aeroporto militare dalle nostre parti. I piloti si stavano addestrando in vista del cosiddetto D-Day e continuavano ad arrivare degli aeroplani. Ho vissuto la guerra così, aeroplani in cielo, soldati a terra.
Un’atmosfera generale di guerra nell’aria e nell’etere, ma non avevo veramente idea di che cosa stesse succedendo e della sua gravità.
Con il tempo, nel corso della mia esistenza, ho cercato di far riemergere i miei ricordi e ho cercato di dare a loro un senso diverso.
Seamus Heaney, lei nel 1944 frequenta la scuola elementare di Anahorish, in Irlanda del Nord, un luogo che ritorna nella sua raccolta di versi District e Circle tradotta in italiano da Luca Guerneri. In quella poesia che ha per titolo Anahorish lei fa riferimento proprio a quel periodo e a quel bambino arrampicato su un albero che vede arrivare in Irlanda del Nord gli americani.
Perché molti anni dopo nella poesia racconta quell’evento?
La poesia sui soldati americani nella raccolta “District and Circle” l’ho scritta dopo aver visto un servizio in televisione sulle truppe americane sulle strade dell’Afghanistan e dei contadini con i loro turbanti, i loro costumi stavano seduti lì vicino e osservavano questi strani soldati americani che passavano davanti a loro. Mi sono reso conto che questo era l’inizio di qualcosa di molto pericoloso. È riemerso il ricordo di me bambino che guardavo i militari americani nel ’44. Li guardavano anche i miei vicini che erano degli allevatori di maiali e il martedì mattina li ammazzavano per fare carne e quindi si sentivano le urla strazianti di questi maiali nel mattatoio. Nella mia poesia Anahorish l’urlo straziante dei maiali e il pericolo rappresentato dai soldati americani si uniscono non so come nella mia immaginazione.
Parliamo ora della sua prima raccolta di versi ” Morte di un naturalista” ( Death of a naturalist) uscita nel 1966 da Faber & Faber di Londra che è tuttora il suo editore.
Lei aveva 27 anni. La sua poesia manifesto è “Scavare” (Digging), scavare con la penna (e non con la vanga o con la pistola dei combattenti irlandesi). Fin dal suo esordio la sua principale attività di poeta è “scavare la parola”, entrare dentro la parola, per conquistare lentamente, ma con sempre maggiore convinzione la propria voce.
Perché la parola è l’arma dei veri grandi conquistatori: è una lama che affonda nella carne. La penna scava, sta in ascolto, ma la Storia passa sotto i suoi occhi…
La lingua che si parla nell’Isola di Smeraldo è storia che si è sedimentata. Innanzitutto è la storia di una lingua perduta, quella nativa dell’Irlanda, cioè il gaelico, poi dal diciassettesimo secolo in poi l’inglese, ma non solo l’inglese, ma anche lo scozzese con l’arrivo dei coloni presbiteriani nel 17esimo secolo.
La storia e la toponomastica in Irlanda raccontano proprio la storia di cui parlava lei, una storia fatta di vittorie, di un popolo conquistato. Il mio villaggio natio che si chiama Anahorish in lingua gaelica significa “luogo dalle acque limpide”. Ho scritto molte poesie sulla toponomastica.
Poi, un altro soggetto delle mie poesie è l’archeologia.
Le paludi in Irlanda custodiscono molti tesori e possiamo dire che sono dei musei che contiengono gran parte del nostro patrimonio culturale. Gran parte delle opere d’arte l’irlandesi è stata rivenuta nelle paludi. La storia quindi è legata a doppio filo agli scavi a terra e alle scoperte. Scavi condotti attraverso gli strati del tempo.
Verso la fine degli anni Sessanta, la situazione politica proprio in Irlanda del Nord si complica e dà origine a Belfast ai troubles – i disordini – la cosiddetta “guerra a bassa intensità” che è durata fino alla fine degli anni Novanta i cui effetti si sono allargati anche all’Inghilterra e alla Repubblica d’Irlanda. I disordini hanno causato più di tremila morti. Una faida interna durata trent’anni. I cittadini cattolici che vivevano nell’Ulster venivano discriminati dalla maggioranza protestante che era al governo: per loro era più difficile trovare lavoro e erano confinati nelle case popolari.
Che cosa ricorda di quel lungo periodo di violenze e disordini che hanno causato tante morte che hanno lasciato una lunga scia di sangue nel suo paese d’origine?
All’inizio quando tutto è cominciato c’era una miscela di fervore mischiata al senso di una minaccia incombente. Il movimento per i diritti civili in Irlanda del Nord si poneva come obiettivo la fine delle discriminazioni nell’assegnazione degli alloggi, il diritto di voto nelle elezioni amministrative locali, e tante altre cose. Ci sono state delle marce, delle proteste studentesche… Avevamo la percezione che si stesse avvicinando la possibilità di uno scenario inedito, cioè quello che vedeva i cittadini di seconda classe avanzare. C’era quindi fervore, ma dopo lo svolgimento delle marce e la repressione delle manifestazioni da parte delle forze dell’ordine statale, l’atmosfera si è offuscata e due gruppi di cittadini, i lealisti protestanti e i repubblicani cattolici, hanno iniziato a scontrarsi nelle strade. L’ironia della sorte è stata che l’esercito britannico è giunto in soccorso dei cattolici che subivano le aggressioni dei protestanti lealisti aiutati talvolta dalla polizia. È iniziato così quel periodo dei troubles. Ricordo esplosioni, notizie di assassini, persone uccise, persone che conoscevamo.
Bisogna ricordare tutto questo, ma la cosa importante è che alla fine, dopo anni spesi inutilmente in distruzioni, violenze, omicidi, tutto questo è giunto all’epilogo nel 1994. Da allora sono state create delle strutture che senza dubbio hanno contribuito al miglioramento della vita nella Repubblica di Irlanda e nell’Irlanda del Nord. Ora c’è speranza, non necessariamente ottimismo, ma speranza, questa si.
La sua famiglia viveva in un clima di grande tensione sociale perché faceva parte della minoranza cattolica dell’Ulster. Eppure la sua voce poetica proprio attraverso “lo scavo della lingua” – perché lei non ha mai attivato una protesta scoperta contro le discriminazioni – attraverso la poesia ha posto in essere una trasformazione sottile e silenziosa, ma potentissima che ha trovato molti seguaci, sia nella regione in cui è nato, l’Irlanda del Nord, sia in Gran Bretagna.
Seamus Heaney, in che modo si può mettere in atto un programma di scavo della psiche individuale e collettiva? Come si può attivare la “trasformazione” attraverso la poesia?
In comunità in cui i legami sono molto stretti, e queste comunità possono anche essere interi paesi, quando gli artisti svelano i loro segreti, in realtà rivelano i segretì dell’intera comunità a cui appartengono. La conoscenza segreta. Questo normalmente avviene in paesi sottoposti a repressione, come la Polonia nel periodo comunista, anche la stessa Russia nel periodo sovietico. Gli artisti e i poeti tramettevano segnali all’anima degli altri. Penso che tutto abbia avuto inizio così, da una prima fonte. Talvolta un poeta scrive una poesia, una poesia autobiografica per esempio, che raccoglie attorno a sè una decina di lettori, raggiunge un pubblico e poi riesce ad arrivare a cento lettori e questi sono i primi vagiti (beginnings) di una cultura e penso che fondamentalmente le cose vadano così, quasi di nascosto. Stiamo parlando di luoghi di crisi, e la poesia di cui stiamo parlando proviene da qui. Montale ha scritto un bellissimo panflet “La seconda vita dell’arte” nel quale ritengo colpisca nel segno. Parla di come gli artisti scrivano le loro poesie come di un innalzamento dalla vita che condividiamo tutti che si trova nella forma della letteratura, per poi tornare alla vita da cui quella stessa poesia è zampillata. E quindi il cerchio si chiude quando la poesia viene ricevuta dal pubblico e dunque anche il pubblico è molto importante.
Lei nel 1976 lascia definitivamente L’Irlanda del Nord, lascia Belfast, per andare a vivere con sua moglie Marie prima a Wicklow, per poi trasferirsi a Dublino, nella Repubblica d’Irlanda di cui è diventato cittadino per insegnare all’Università Letteratura Inglese.
Successivamente nel 1984 viene nominato professore di Retorica e di Oratoria all’Università di Harward, negli Stati Uniti.
Poi tra il 1989 e 1994 ritorna nel Regno Unito e ricopre la cattedra di Poesia all’Università di Oxford.
Nella sua opera, Electric Light, tradotta in italiano da Luca Guerneri, ci racconta della fine delle violenze in Irlanda del Nord, ma un uomo, Seamus Heaney, è stato sradicato per sempre dal suo paese d’origine.
Come ha superato il distacco dall’ Irlanda del Nord?
Penso sia stata la vocazione per la poesia: lavoravo in Irlanda del Nord a Belfast, dove sono cresciuto. Sono cresciuto in campagna, ma sono andato all’università a Belfast. Ho insegnato all’Università di Belfast. Mentre vivevo lì ho pubblicato tre libri. Poi ho pensato che non mi fossi ancora pienamente dedicato alla Letteratura. I miei libri avevano ricevuto un’ottima accoglienza. Dicevano che ero un poeta, ma io non ne ero sicuro. Pertanto Marie e io abbiamo preso in affitto una casa nella Repubblica d’Irlanda in campagna e abbiamo vissuto lì per 4 anni.
Avevo perso contatto con molte persone e ricordo che in quel periodo lavoravo molto duramente e sentivo che mi stavo guadagnando il titolo di poeta.
In seguito sono tornato all’insegnamento. Come da lei anticipato… così facendo riuscivo a passare quattro mesi a insegnare mentre per gli altri otto mesi dell’anno ero libero di svolgere il mio lavoro: per cui la crescita da adolescente che viveva nelle campagne ad adulto, lavoratore al servizio della Letteratura, che viveva in città, è avvenuta in maniera abbastanza organica. Ho vissuto bene l’esperienza di spostarmi da un posto ad un altro per essere più vicino alla Letteratura.”
Seamus Heaney nel 1995 le è stato conferito il Nobel per la Letteratura dall’Accademia reale di Svezia. Lei è il quarto irlandese dopo Yeats (1922), Shaw (1926), Beckett (1969) al quale è stato attribuito il più alto riconoscimento. La sua è una voce che parla attraverso i grandi poeti classici per denunciare eventi drammatici e politici dei nostri tempi.
In District e Circle mentre il mondo intero assiste alla tragedia dell’l11 settembre 2001 lei cerca una risposta alle assurdità di quegli attacchi terroristici leggendo un’ode di Orazio sull’incertezza della fortuna, il carpe diem. E’ così?
Conoscevo Il carpe diem di Orazio prima degli attacchi terroristici alle torri gemelle di New York dell’11 settembre, ne avevo parlato con i mei studenti di Harvard, ritenendola una poesia sullo shock, sulla sorpresa.
Nella poesia, Orazio non presta orecchio a nulla, vede un cielo limpido e blu, non si aspetta nulla e improvvisamente arriva il fulmine ne viene scosso. In Inglese l’aggettivo latino tremens, che viene utilizzato anche per descrivere i terremoti, si è trasformato anche in “Tremendous”, che (diversamente dall’italiano) viene utilizzato per connotare un grande evento, di natura eccezionale e scioccante.
Quando i terroristi hanno perpetrato l’attacco alle torri gemelle l’11 settembre, mi è venuto in mente questo concetto e ho cambiato la poesia di Orazio e ho eliminato la prima stanza e ne ho aggiunto una mia, in cui ancora una volta alla fine il mondo viene scosso.
Come ha detto lei è vero che questa poesia è una dimostrazione di come i poeti del passato parlino attraverso i poeti dei tempi moderni e in questo modo i classici accorrono in nostro aiuto. Possono essere usati quasi fossero un megafono per raccontare le nostre sofferenze.
La sua poesia – anche dopo aver lasciato l’Irlanda del Nord – si muove tra percezione e ricordo, tra presente e passato, senza mai dimenticare la lezione dei classici. “Le metamorfosi di Ovidio” (scritto tra il ‘ 43 avanti Cristo e il ’17 dopo cristo) il libro Decimo e Undicesimo, in particolare che lei ha tradotto… Il punto in cui Ovidio ci parla di Orfeo e Euredice, è uno dei libri che ha maggiormente influenzato la sua poesia, con Dante a D’Annunzio a Montale.
Perché Ovidio? Forse perché canta un mondo dell’infelicità umana?
Devo confessarle che gran parte del mio lavoro in latino è associato a Virgilio, che è un poeta del tutto diverso. Mi è stato chiesto di tradurre delle poesie di Ovidio, che è un grande mito del mondo questo sì.
Io ho scritto una poesia che si intitola “The Underground” nella quale ci siamo io e mia moglie, che comunque ne esce indenne e parla delle viscere della terra e il mito della perdita della propria donna nell’oscurità che è molto forte.
Da quando ho visitato l’Italia, e questa volta Roma, mi sono interessato sempre di più a Ovidio.
Ho partecipato ad una conferenza su Ovidio presso American Academy di Roma e ho imparato molto su di lui e ora lo vedo sotto una luce diversa.
Ma lei ha ragione: c’è molta passione in lui e c’è l’idea che alcune persone sentono la necessità ineluttabile di oltrepassare i limiti e entrare poco saggiamente e senza preavviso nel territorio del pericolo.
Le metamorfosi di Ovidio sono come le opere di Shakespeare per la letteratura anglosassone. Contengono una vasta costellazione di storie, finzione e possibilità. Per fortuna ci sono!
La sua poetica attraversa la Storia, la condizione della guerra, con oggetti simbolici, o situazioni simboliche, lei prova compassione per l’uomo… così come quando ci parla del macellaio che squarta il corpo del maiale, ci mostra cosa gli eventi significano per gli individui. La sua sembra una poesia personale, ma in realtà tocca gli avvenimenti e si fa testimonianza della Storia. Lei è come un esule in patria: è figlio di Dante, ma partecipa al destino della vita, portando con sé la grande gioia “tragica”, come il suo maestro Yeats.
Qual è il compito del poeta?
Per rispondere a questa domanda non posso far altro che citare il poeta Irlandese William Butler Yeats che ha descritto il compito del poeta con una frase che amo, ma che è anche un’istruzione impossibile da seguire, ma che è comunque una frase bellissima. Egli disse “Ho cercato di condensare in un unico pensiero realtà e giustizia“. E’ una frase bellissima, ma non so se qualcuno, persino Yeats, sia in grado di condensare realtà e giustizia in un’unica immagine o pensiero.
Mi sono anche applicato al problema sollevato dal poeta polacco Czeslaw Milosz, di cui ho un’altissima considerazione. In una delle sue poesie egli si chiede: “Che cos’è la poesia se non riesce a salvare una nazione o un popolo?” Può sembrare un’affermazione strampalata, ma quando si vive in un contesto simile a quello nordirlandese contrassegnato da omicidi e da violenze si può capire questo appello disperato: “Che cos’è la poesia se non riesce a salvare una nazione o un popolo?“.
Dall’altra parte il poeta russo Joseph Brodsky affermava un concetto diverso, diametralmente opposto, ma altrettanto convincente. Egli soleva dire: “Se l’arte ci insegna qualcosa è che la condizione umana è privata“.
Penso che la poesia debba trovare la sua dimensione tra questi due estremi.
Lei ha scritto decine e decine di libri di poesia, ma mi piace qui ricordare uno dei suoi ultimi tradotto in Italiano con il titolo “Catena umana” (Human chain) del 2010 tradotta ancora da Luca Guerneri. Seamus Heaney, proprio in “Catena umana” lei entra in contatto con le cose ultime, gli ultimi istanti della vita. Lo vediamo nella sequenza “Chanson d’aventure”, in cui il suo corpo si avvicina a quell’oltre nel quale non si era mai trovato e vive un’esperienza drammatica… il trasporto in barella in ospedale per un delicato intervento chirurgico.
Il limite dell’umano, il dover prima o poi raggiungere il confine della vita, è qualcosa che le fa paura?
Penso di non aver più paura della morte. Pensavo molto di più alla morte quando ero più giovane e ci pensavo in maniera diversa. Ritengo che la letteratura mi abbia aiutato, mi ha aiutato anche la mitologia. Certamente come qualsiasi altro ragazzo educato secondo i principi del cattolicesimo, sono cresciuto con una mentalità intrisa dall’idea degli inferi sotto terra e del paradiso in cielo sopra di noi, una sorta di struttura verticale, anche se quando ero adolescente l’inferno era la destinazione che mi incuteva più timore, ma poi questo pensiero è svanito l’ho sostituito con i viaggi descritti nel sesto libro dell’Eneide o nell’undicesimo libro dell’Odissea oppure da Dante, che esprimono un continuum con la vita. Questo è quanto posso dire sull’aldilà, che è stato immaginato in maniera stupenda da poeti e miti di ogni epoca e penso trasmettano questi’idea di continuità, che merita l’epiteto di “vita eterna”.
Leggendo “Catena Umana”, ci si rende conto, ancora una volta, di quanto sia difficile distinguere e separare in Seamus Heaney il poeta dal lettore di poesia. Lo dimostra la sua reinterpretazione de L’aquilone di Giovanni Pascoli che chiude il volume e i versi di Linea 110, che raccontano un viaggio in autobus con in tasca il libro VI dell’Eneide di Virgilio. «lì fui/io nel luogo e il luogo in me».
E il luogo di cui lei ci parla il posto in cui si trova la poesia? La tradizione della grande poesia dei padri?
È qui che l’autobiografismo della poesia di Heaney supera se stesso, oltrepassa l’io. E si fa canto del mondo, spazio sonoro e collettivo in cui ciascuno di noi può riconoscersi.
Seamus Heaney perché la poesia dei grandi padri e madri che ci hanno preceduto è un valore fondamentale per chi voglia scrivere poesia oggi?
Le sono molto grato e la ringrazio per il suo pensiero così generoso secondo cui la poesia vive in noi tutti. E’ vero. Credo che nel corso degli anni la mia opinione sulla poesia si sia approfondita. Penso che la traduzione sia un modo per sfuggire da sé stessi o per fuggire più profondamente dentro di sé.
La poesia che ha citato lei, l'”Aquilone” di Pascoli mi ricorda un momento della mia infanzia quando facevo volare un aquilone nel cielo con mio papà.
Gli aquiloni di allora, non erano in plastica come quelli di oggi, ma erano pesanti ed erano fatti di giornali e carta pesta che doveva asciugare e ci voleva una raffica fortissima di vento per farli volare.
Nella poesia c’è un verso sui ventosi colli attorno a Urbino, che appare anche in una poesia di William Butler Yeats e quindi ci sono un ricordo d’infanzia, un rifermento culturale e la scoperta casuale di una poesia che vengono traslati tutti insieme in un unico istante, in un’unica opera d’arte e questa è una possibilità davvero piacevole che esiste nella poesia di ogni tempo, cioè quella di unire intenzione, intuizione e casualità.”
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Si ringrazia per la gentile collaborazione l’American Academy in Rome, nelle persone di Christopher Celenza, Karl Kirchwey e Jennifer Griffith. Grazie alla signora Marie Heaney. Un particolare ringraziamento all’interprete e simultaneista Domenico Molina.
Per il montaggio, grazie a Alessio Dello Russo, per le Ricerche di Archivio, grazie a Marta Colò.
Interessante il cammino di un uomo che e’ capace di esprimere emozioni e pensieri in poesia. La cosa piu’ bella e’ che i poeti esistono ovunque e sono esistiti sempre. I nostri poeti latini viaggiano i secoli e la loro lingua d’acqua colpisce ancora in modo universale. L’immortalita’ che appare fragile e’
tenace nelle sue manifestazioni e percorre strade apparentemente invisibili.
Adriana cara, tu non ci sei più. Noi non ci siamo mai conosciute, ma tu eri un’accanita seguace del blog. Purtroppo ci hai lasciato da diversi anni. Ma questo tuo commento vive, così come vive in me quella tua lettera che mi dicesti di aver scritto alla dirigenza Rai, non ricordo a chi invitasti la mail, ma sostenevi che non era possibile che il blog di poesia di Luigia Sorrentino non fosse sufficientemente valutato e sostenuto. Io ti ringraziai molto, sei stata l’unica credo… tu, italiana che viveva negli Stati Uniti. Cara Adriana, ti ho amata.
Luigia Sorrentino