Diego Bentivegna, “Il fiume mare”

Diego Bentivegna

DIEGO BENTIVEGNA  
Dopo quasi tre settimane chiusi a casa, un mese fa abbiamo ripreso ad andare in bicicletta.
Almeno una volta alla settimana, facciamo una lunga strada in bicicletta, fuori cittá, verso il Nord, dove sono nato e dove ho vissuto fino ai 28 anni.
Al Nord vivono i miei. E vive anche la madre di M.
In bicicletta, quei giorni, andiamo anche fino la casa del padre di M., che abita a 18 kilometri da casa nostra, a Victoria. Sempre verso Nord.
Per fare tutto quel pellegrinaggio, per arrivare all´ultima stazione del percorso e per tornare a casa nostra, bisogna quindi intraprendere una bella escursione, sotto alberi che, nei giorni d´autunno, hanno le foglie un po’ gialle, un po’rossastre, un po’ marrone.
Vicino al fiume.
Si è parlato tantissimo d´animali in queste settimane. Ho letto anche testi bellissimi sul rapporto tra uomo, animale, ambiente.
A dire il vero, già qualche messe prima che arrivasse il male, abbiamo visto un certo cambiamento nel nostro rapporto – diciamo un po’ lontano (da anni che non ho neanche un gatto) -, con i veri altri, con gli animali.
D´estate, nei colli, a Calamuchita, ci piace guardare gli altri.
Quasi ogni sera, quando cade il sole, usciamo di casa per trovare i gufi.
Quasi ogni mattina, verso le undici, andiamo fino il fiume del paese per guardare dalla riva gli uccelli acquatici. Siamo andati oltre il fiume, dove una azienda mineraria ha aperto enormi pozzi, oggi con acque, dove abitano cigni e dove abitano anche delle anatre.

Quest´anno, a dicembre, che è per noi l’estate, quando il male era già esploso nell´Oriente lontano, abbiamo visto che le anatre, nel fiume, si muovevano con dimestichezza tra la gente che faceva placida il suo bagno.
Abbiamo visto pure delle lepri che correvano sul prato, vicinissimo le case.
Abbiamo visto, a Traslasierra, una volpe attraversare il parco della casa dove eravamo.
Anzi, una volta mi è sembrato di vedere addirittura un puma (o forse, chi lo sa, era soltanto un gatto un po’ più grande del solito), una bestia che si fa vedere molto di rado.
L´ultimo giorno che ci siamo sentiti liberi abbiamo deciso di andare a guardare il fiume- mare.
Non eravamo ancora in quarentena, ma c´erano già animali, c´era una vita muta, che non avevamo visto da vicino in quel pezzo di fiume, troppo vicino al mondo urbano. C´erano soprattutto uccelli. Tantissimi. C’era anche, per la nostra gioia, un gufo che volava tra le pietre della riva.
Vidi un animale che pareva essere un grasso topo. Ho pensato che magari fosse un “cuis”, mamifero di cui ho una memoria dal mio passato in campagna, simile a quello che in Italia chiamate, mi sembra, “cavia”, oppure  “porcellino d´India”.
Poi, già a casa, cercando su Internet, ce ne accorgiamo che in realtà quello era un animale di altra specie, un mammifero dei fiumi: un coipo.
Qualche giorno dopo, un altro coipo é stato trovato sul tetto di una casa del quartiere de La Boca, dove il Riachuelo, buio fiume, perde il nome e sciogli le sue acque con quelle del fiume mare.
Ho letto tantissima poesia in questi giorni. Ne ho tradotto parecchie di poeti italiani, molti giovani, scritte anche da persone giovanissime.
Venerdì. Si presenta El otro límite, libro di Maria Borio, poeta che leggo con stretta attenzione da un po’ di tempo. Lo presentiamo via Zoom, e partecipo con Maria, che si trova a Perugia, la sua città, con la traduttrice del libro, con le due ragazze che hanno fatto curato nei minimi particolari l’edizione. Vivono a Rosario, sul Paraná, in lingua guaranitica “fiume che sembra un mare”, le cui acque poi si uniscono con quella dell´Uruguay per far nascere il Río de la Plata.
Penso come quella di Maria sia una poesia che ha visto arrivare con anticipo questi giorni. Una poesía che esiste al limite, come si legge nel titolo del libro, che si scrive nella mancanza del tatto, della presenza fantasmatica del volto dell´altro sullo schermo, della voce che arriva da un posto che non è il corpo dell´altro con cui parlo.
Il nostro fiume sembra davvero un mare. Non si vede mai l´altra sponda, quella uruguaiana. Non si vede che l´acqua che si fonde con cielo.
In questi giorni non ci sono praticamente barche. Dalla nostra riva si vedono solo quelle navi enormi, che partono dai porti sul Paraná, piene di soia, di mais, di grano.
Siccome non c´è movimento di piccole barche, sul bordo dell´acqua riposano fitte colonie di uccelli, come quei gruppi che abbiamo visto sulle acque delle lagune salate, in pianura, a Carhué, l´anno scorso.
Un mare calmo, vero, molto diverso del nostro oceano, che comincia  abbastanza piu al Est di Buenos Aires, dove finisce l´acqua dolce e comincia il sale.
Faccio due, tre volte a settimana, lezione su zoom.
So che non si puo fare altro, ma non riesco ad adattarmi al dispositivo. So che suona un po’ antico, ma mi mancano gli altri. Mi mancano i loro corpi. Soprattutto, mi mancano i loro volti.
Quando uno parla, bisogna che gli altri spengano loro camere. Sento quindi che parlo nel nulla, come se girassimo nel vuoto.
Mi sembra di fare una specie di monologo in un teatro chiuso, davanti nessuno. Come se gli altri non avessero respiro.
Il fiume in questi giorni appare più tranquillo. Piú mite, diciamo. Come se fosse in attesa di una tragedia, come se ci fosse un pericolo inminente.
A volte, sotto gli alberi dei parchi della costa, ci sembra di essere dentro di un film di Tarkovski, in una di quelle scene lunghe, placide, dove non succede molto. Dove quello ch´importa non sono tanto i volti, nè i corpi umani, ma i colori del mondo, l´aria, la luce.
Se volessi scegliere una parola per esprimere quello che provo questi pomeriggi vicino al fiume mare, sceglieriei, penso, una che esprime quello che ho provato pure, per quel che ricordo, al guardare per la prima volte certi film, come Lo specchio o come Stalker: sospensione.
Non mi sento sottomesso a uno stato di eccezione, non provo nemmeno angoscia, non sento che un nuovo mondo nasce, non ho neanche paura.
Quello che provo invece è sospensione. Uno stato d´attesa.
Non so perché (non sono mai stato nei luoghi russi o ucraini presi da Tarkovski) ma comunque penso che questi posti, in questi giorni, questi posti nostri sul fiume, gli somglino tanto.

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Diego Bentivegna è nato a Buenos Aires nel 1973. In poesia ha pubblicato Las reliquias,La pura luz, Geometría y angustia. Il suo libro di saggi Paisaje Oblicuo ha ricevuto il Premio Municipal de Buenos Aires. Insegna lettere presso le università di Buenos Aires e Tres de Febrero.

Il testo qui pubblicato è stato scritto da Diego Bentivegna in italiano, nella nostra bella lingua che conosce e che ama.

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