L’orizzonte del tragico

Luigia Sorrentino

Nota critica di Giuseppe Martella

Fatto salvo il suo valore poetico intrinseco, il testo “Olimpia, Tragedia del passaggio” di Luigia Sorrentino (in scena al Napoli Teatro Festival Italia, direzione artistica di Ruggero Cappuccio, il 16 luglio h.22.30, Giardino Romantico di Palazzo Reale, a Napoli)  ha tutte le valenze proprie di una sceneggiatura rituale, come per esempio La sagra della primavera di Stravinsky, di per sé musica memorabile che tuttavia si compie appieno nelle movenze del balletto omonimo. Alla sola lettura, Olimpia (Interlinea, 2013, 2019), sembra infatti quasi opporre resistenza come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso del testo, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandovi intorno, come in un assedio senza fine. Una città-tempio ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca.

*

Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia. Il testo appartiene alla linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo (tra Otto e Novecento, da Rimbaud a Valery, da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan), condensata al massimo in un intreccio archetipico che ha già di per sé movenze da tragedia greca, dal momento che i ruoli degli attori e del coro si fondono in una dimensione estatica, impersonale e sembrano obbedire ai dettami di un fato occulto tanto più quanto ci sembra di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale” (Milo De Angelis) e quanto più la scena sembra annegare in un tripudio di luce (il dominio del colore bianco assume qui infatti la doppia connotazione della purezza e del lutto).

Strutturalmente si tratta infatti di un dramma pronominale dove la permutazione delle tre persone (io, tu, lei) avviene con cadenze cerimoniali che distribuiscono il dentro e il fuori ad ogni cambio di scena. Lasciando poi che siano gli spettatori (lettori) ad assegnare le sfere dell’immaginario, del simbolico e del reale in questo percorso iniziatico che coniuga le due facce del mito greco, essoterica ed esoterica, la luce di Olimpia e l’ombra di Eleusi, proiettandole verso l’irrisolvibile ambiguità del tragico. Nel complesso il testo organizza i suoi spazi semantici proiettandoli sulla mappa dei luoghi della città sacra, sicché l’intreccio che ne risulta è letteralmente una serie di superamenti di soglia o di riti di passaggio, per cui la costruzione e la visita di questa città di parole alla fine coincidono. L’architettura e l’archeologia si sovrappongono in modo tale che quando si è giunti alla fine del percorso si viene rinviati all’inizio e la città nuova lascia intravedere in sé lo scheletro di quella vecchia, l’insieme di detriti e di rovine che costituiscono le sue fondamenta. Torniamo così nella grotta dell’inizio, nel ventre della terra madre da cui siamo usciti, chiudendo una specie di cerchio magico di cui l’immagine del lago, che si trova al centro del poema, costituisce il fuoco virtuale della riflessione, l’occhio immoto del ciclone, la sua soglia simbolica interna: il luogo del possibile sprofondamento del volto che ci manca, la “lei che è lì” dall’inizio, l’oggetto del desiderio e dell’adorazione, della ricerca e del canto, l’Euridice di Orfeo, l’ombra amata che può ad ogni istante sprofondare “a un passo da noi”. Perché qui si tratta di una iniziazione che è nel contempo esistenziale e poetica. Ed è a questo punto che, in Olimpia, all’io poetico come allo spettatore, viene incontro “il traguardo dell’ombra” (39), la porta liquida che gli può consentire di scendere nell’immemoriale inconscio per trarne fuori immagini mirabili, oppure al contrario condannarlo a sprofondare insieme ad esse in un vortice allucinatorio, nel labirinto di specchi e nella foresta di simboli che pure deve necessariamente costruire e attraversare. La struttura del testo di Olimpia, pure nella descrizione sommaria che si è data, ci rimanda dunque imperiosamente a quell’orizzonte mitico in cui soltanto quest’opera può davvero essere vissuta e compresa.

*

Ma nell’adattamento per la scena il testo subisce alcune importanti modifiche che spostano il mito nella direzione della tragedia.

*

Olimpia, Tragedia del passaggio è infatti il titolo di questa pièce. Passaggio in diversi sensi: sia come rito di passaggio e processo di individuazione dei protagonisti che come passaggio epocale dall’età del mito (e dell’epos) a quella della tragedia, appunto, e in particolare al genere della tragedia della colpa. Ciò avviene attraverso tagli e giunture strategiche nel testo ma soprattutto attraverso l’inserzione di un nuovo protagonista: Empedocle, che si affianca a Iperione come attante della “caduta”, spostando il centro gravitazionale della vicenda e modificando la funzione della “lei” anonima cui abbiamo accennato, figura composita di divina e immortale, madre e figlia, Demetra e Persefone, dea e città sacra: Olimpia.

*

Da protagonista assoluta che era, essa accentua ora le sue funzioni corali, divenendo fondale mobile e trasparente della vicenda, nonché trait d’union fra Iperione ed Empedocle, destinatore e aiutante delle loro rispettive cadute. Iperione, etimologicamente “colui che sta più in alto”, “padre del sole” in certe varianti del mito, figlio di Urano e Gea, fratello di Crono (principio del tempo), appartiene alla stirpe dei titani che furono sconfitti da Zeus e soppiantata appunto dagli olimpici. La sua caduta, già nel mito avviene per decreto del Fato e, nel nostro testo, Olimpia sempre glielo rammenta. Quella di Iperione, così come accade per il Prometeo di Eschilo, è una tragedia del fato. Non che il fato escluda la colpa, ma la contempla fin dall’inizio come condizione dell’esserci. Così il Prometeo di Eschilo conosce fin dall’inizio la propria colpa (il dono del fuoco ai mortali), la causa del suo supplizio per mano di Zeus, e rimane inchiodato ad essa fino alla fine del dramma.

*

Diversa è la struttura delle tragedie della colpa, il cui prototipo è ovviamente l’Edipo re di Sofocle, perché qui è proprio la presa di coscienza della colpa da parte del protagonista a determinarne la sventura: così quando Edipo apprende del suo incesto con la madre, si acceca e va in esilio a Colono.

*

Nelle tragedie del fato non c’è un vero e proprio cambiamento del cuore (metanoia) del protagonista, in quelle della colpa invece sì. Come per Edipo, nel nostro testo è proprio la coscienza di colpa a determinare la rovina di Empedocle e la sua decisione di votarsi alla morte. Medico e filosofo, architetto e poeta, Empedocle di Agrigento passò parte della propria vita a Olimpia, amato e riverito per le proprie doti.

*

Sapiente leggendario, egli è tuttavia umano, troppo umano: confidando nella propria perizia, pecca di hybris contro gli dei e la natura, nel volere costruire un ponte troppo grande che unisca l’Oriente e l’Occidente.

*

L’eccesso contenuto nelle sue buone intenzioni è quello stesso che caratterizza lo sviluppo della tecnica e della civiltà in generale. Perché nel suo ethos confliggono inscindibilmente volontà di potenza e volontà di forma (Kunstwollen). Così, in quanto signore della tecnica, sfida i vincoli della natura ma questa non regge il peso degli uomini e i pilastri del ponte sprofondano in mare procurando una strage. Allora Empedocle prende coscienza all’unisono della propria colpa e della propria finitudine umana e sceglie consapevolmente di darsi la morte.

*

Nei suoi dialoghi con la Morte, in una delle sezioni conclusive del nostro testo, la vicenda assume perciò nel contempo connotati esistenziali ed ecologici, che la rendono attualissima, proiettandoci su un nuovo orizzonte del tragico.

*

Sicché la visione finale di Olimpia (genitivo soggettivo e oggettivo), miraggio di armonia, dea e città, che era nel poema di Sorrentino un inno alla gioia tragica nei cicli naturali di morte e rinascita, prende ora tinte decisamente più fosche: si carica dello sbigottimento, e del senso di colpa e di impotenza che assale oggi il genere umano, in perenne stato di emergenza, in quanto responsabile dello sconquasso planetario che ha causato, e della possibile estinzione della propria specie dalla faccia della Madre Terra offesa.

*

Il più intimo, ultimo passaggio messo qui in scena, è dunque quello inerente alla stessa poesia che si apre ad accogliere un nuovo, più che umano (onto e filogenetico) orizzonte del tragico.

______________
NAPOLI TEATRO FESTIVAL
OLIMPIA, TRAGEDIA DEL PASSAGGIO

______________

LEGGI ANCHE

PREMESSA A “OLIMPIA, TRAGEDIA DEL PASSAGGIO
di Luigia Sorrentino

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *