Gina Gioia, “Il diritto alla salute”

Gina Gioia

diritto a essere malati (e il dovere a rimanere sani)
di Gina Gioia

 

 

  1. Esisteva nell’antica Roma uno strano modo di dire: depontani senes o sexagenarios de ponte.

La depontazione degli anziani potrebbe essere collegata alla cerimonia che si svolgeva alle Idi di maggio durante la quale fantocci di vimini con mani e piedi legati venivano gettati dal ponte Sublicio nelle acque del Tevere alla presenza delle più alte cariche della Respublica: vestali, pontefici, pretore.

Pare che la cerimonia ricordasse degli antichissimi sacrifici umani e qualche studioso ha ipotizzato che i Romani delle primissime origini depontassero i sessagenari al fine di sgravare la società da pesi economici inutili. Usanza che del resto avrebbe riguardato molte popolazioni primitive.

Lo sviluppo della società romana indusse ben presto a interrogarsi sull’origine di questi riti, che venivano chiamati Argei e di cui si erano perse le tracce sulle origini. Sono riportati da Festo e richiamati da molti altri, compreso Cicerone. Nonostante gli sforzi per trovare una spiegazione agli Argei, non si giunse a una conclusione condivisa. Quello che è certo è che già i nostri fondatori del diritto, oltre duemila anni fa, mostrano una vera ripugnanza verso la possibile tradizione dei loro progenitori. La stessa ripugnanza che proviamo ancora noi oggi.

Il detto depontani senes, come mostrano alcuni studi moderni, non aveva niente a che vedere con la cerimonia degli Argei, per fortuna. Perciò, soprattutto grazie agli storici del diritto romano, è stato spiegato come i Romani, nemmeno ai primordi della civiltà, pensarono mai di sbarazzarsi dei loro nonni.

 

  1. Una delle caratteristiche delle società civili come la nostra è quella di garantire il diritto alla salute di tutti, senza alcuna distinzione tra gli individui che ne necessitino. Il diritto alla salute è considerato un bene del singolo e, al contempo, un bene della collettività.

Con il CoronaVirus si è rischiato di privare i singoli delle cure vitali necessarie per eliminare o attenuare gli effetti del virus, ma anche per trattare tutte le altre malattie, anche quelle più banali. Il rischio era che il sistema sanitario non reggesse l’impatto dovuto alla richiesta di assistenza provenienti da decine di migliaia di persone e che nessuno o pochissimi potessero ricevere le cure ospedaliere. Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, avrebbe potuto essere violato, in maniera massiccia e sistematica.

Alcuni politici, per fortuna non italiani, avevano già teorizzato che nel caso le strutture mediche non fossero state sufficientemente capienti, bisognava fare delle scelte e sacrificare i più anziani e i più deboli, cioè coloro che nel breve e medio periodo avessero meno chance di sopravvivenza.

Una scelta di questo genere, prima ancora di violare il diritto alla salute e alle cure mediche, va contro la dignità della persona, perciò, potremmo anche dire, che si rivela inumana, tale da minare persino le basi della nostra Costituzione e forse della civiltà.

  1. In Italia, mi consta, per es., che la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) abbia diramato Raccomandazioni di etica clinica.

Innanzitutto, la SIAARTI fa appello alla responsabilità di politici, amministratori, dirigenti delle strutture ospedaliere, e degli stessi medici ospedalieri “per aumentare la disponibilità di risorse erogabili”.

Il secondo invito responsabile, rivolto più che altro alle strutture ospedaliere e ai medici, è a utilizzare ogni possibilità per curare gli ammalati e a trasferirli eventualmente in centri con maggiori risorse.

I suggerimenti basilari della SIAARTI consistono 1. nella valutazione dei pazienti da sottoporre a trattamenti intensivi sulla base della possibilità di ripresa, 2. nel privilegiare i pazienti con maggiori speranze di vita, 3. nel considerare i limiti di età, favorendo chi ha (o potrebbe avere) più anni di vita salvata.

La fonte di queste norme di comportamento non è una legge, ma una semplice raccomandazione ai propri iscritti della Società degli anestesisti etc. Nonostante i medici non vi siano tenuti, potrebbe comunque verificarsi che qualcuno di loro facente parte della Società un giorno, in un’altra eventuale epidemia – da quello che ci dicono gli scienziati, altamente probabile – applicasse queste regole.

Questo sarebbe il vero punto di rottura del sistema, perché realizzerebbe il fallimento della garanzia costituzionale del diritto alla salute.

 

  1. Per chiarire molto brevemente di cosa si parla, nel nostro ordinamento il diritto alla salute si pone in una posizione privilegiata, perché è riconosciuto come un diritto fondamentale e inviolabile.

Bisogna ricordare che il diritto alla salute è una conquista che ha cominciato a teorizzarsi con la Rivoluzione francese e a realizzarsi nella seconda parte del 1800 e ha riguardato prima di tutto le condizioni igieniche e di salute dei più deboli nei paesi industrializzati. Prima di quel momento un diritto alla salute era sconosciuto. I vari governi locali si occupavano di far fronte alle esigenze dell’igiene pubblica. Se ne trovano varie testimonianze in editti scolpiti nella pietra e fissati sui muri delle nostre città più antiche. Solo nel 1875 si istituì il primo servizio nazionale di sanità pubblica, ancora con funzioni igieniche: il Public Health Act della Gran Bretagna, il cui promotore fu Sir Edwin Chadwick, al quale senz’altro andrebbero dedicate molte statue.

Sul finire del secolo queste istanze vennero coltivate anche in Italia. Nel frattempo, la salute era generalmente vista come diritto. Così venne riconosciuta pienamente dalla nostra Costituzione, entrata in vigore nel 1948, che le dedica l’intero articolo 32. Nella Costituzione tedesca, che è coeva alla nostra, per es., il diritto alla salute non è espressamente menzionato, ma si ricava dall’art. 2 che riguarda il diritto al libero sviluppo della personalità, nonché all’integrità fisica e alla libertà.

L’art. 32 della nostra Costituzione destina il diritto alla salute all’individuo (e non solo al cittadino), senza di distinzioni di sorta, e prevede le cure per gli indigenti. A conferma di questa visione dei Costituenti, la Corte costituzionale, in una delle sentenze che ha contribuito a plasmare il diritto alla salute, riconobbe il diritto alle cure allo straniero sul territorio italiano senza permesso di soggiorno.

Marta Cartabia, la presidente della Corte costituzionale, ha affermato che l’articolo 32 della Costituzione è indiscutibilmente uno dei più complessi da esaminare, interpretare e applicare.

Inizialmente non vi era un concetto di diritto alla salute come lo intendiamo noi oggi, ma lo Stato interveniva solo per tutelare la salute pubblica: sostanzialmente in caso di epidemie. Il diritto alla salute del singolo era un bene auspicabile per ognuno, ma di cui lo Stato non si faceva carico.

Da quando la salute è diventata un diritto costituzionale è successo che ogni individuo gode di una posizione di vantaggio nei confronti dello Stato. Per questo motivo lo Stato ha il dovere di garantire la salute del cittadino, tramite l’emanazione di leggi appropriate, che garantiscano i trattamenti medici del caso. Pensiamo anzitutto alla legge che ha istituito il Servizio sanitario nazionale e il Ministero della salute, con la creazione di un apparato amministrativo che si occupa di tutto ciò che concerne la salute degli individui.

Ma pensiamo anche alle leggi che tutelano la salute dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro, compresi i medici e il personale paramedico all’interno delle strutture ospedaliere. È risultato chiaro in questo periodo che ci si dovesse fare carico di munire il personale sanitario di protezioni adeguate perché non contraessero il virus.

 

  1. Dunque il diritto alla salute garantito dalla Costituzione è un diritto fondamentale dell’individuo, stabilito nell’interesse dell’individuo, ma anche della collettività. In una parola: bicefalo.

L’aggettivo fondamentale fu aggiunto al progetto dall’assemblea costituente, al precipuo scopo di rafforzare la portata del diritto. Perciò va visto rispetto all’art. 2 della Costituzione, che identifica quale dovere della Repubblica quello di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo.

Tutti gli interpreti del diritto – e cioè i giudici e coloro che studiano e ragionano sul diritto, vale a dire la dottrina – concordano sul carattere dell’inviolabilità di questi diritti. Se un diritto è inviolabile, come quello alla salute, significa che non può essere eliminato e che non può essere compresso in maniera sostanziale, nemmeno da una legge.

La Consulta ha affermato più volte che il diritto alla salute è un diritto condizionato per due ordini di ragioni. Innanzi tutto, esso ha bisogno di essere realizzato nel concreto attraverso leggi che predispongano persone e mezzi per offrire le prestazioni sanitarie. In secondo luogo, l’attività del legislatore nel campo della salute deve considerare con attenzione la limitatezza delle risorse finanziarie pubbliche e gli stringenti vincoli di bilancio. Quest’ultimo tipo di condizionamento è comune a tutti i diritti con valenza sociale, vale a dire i diritti che prevedono l’erogazione di servizi pubblici per i consociati.

In tutti questi casi, lo Stato quando eroga il servizio deve tenere presente la funzione pubblica, l’utilità sociale e gli interessi collettivi.

Gli organi di Governo dello Stato decidono su come allocare le risorse e non possono fare diversamente, perché le risorse sono limitate, allo stesso modo che in una famiglia. In una famiglia ci sono delle entrate e con quelle entrate si cerca di far vivere dignitosamente tutti i membri, secondo le esigenze di ognuno. Anche una famiglia può trovarsi nella condizione di fare una scelta tragica, per una disoccupazione, o per una malattia. Il governo deve fare ogni giorno e non solo in tempo di crisi scelte tragiche quando alloca le risorse in uno o in altro settore.

Gli autori del famosissimo saggio Tragig choises, Guido Calabresi e Philip Bobbit, uscito nel 1978, suggeriscono agli amministratori pubblici che nelle scelte devono cercare di limitare le tragedie e di amministrarle tragedie nella maniera meno offensiva.

 

  1. La parte privata del bicefalo diritto alla salute ha acquistato rilievo attraverso la Drittwirkung prodotta dall’art. 32 oltre la Costituzione, in quel processo di reificazione di un principio, di per sé astratto. Il diritto si è animato di vita propria, per cui, oltre a creare nell’individuo un vantaggio nei confronti dello Stato, esige tutela nei confronti di tutti i consociati. Il sig. Rossi è tenuto al rispetto della salute di ogni altro consociato e viceversa.

Mi piace immaginare il diritto alla salute come un organismo che si evolve: un bell’albero con i due grandi rami dell’interesse pubblico e di quello privato. Il tronco è in gran parte costituito dalla dignità. Infatti, non solo non sono ammessi trattamenti sanitari degradanti e indignitosi, ma il paziente può rifiutare l’accanimento terapeutico e può persino rifiutare le cure. In aggiunta, deve essere informato sui trattamenti medici e deve dare il consenso a che questi gli vengano praticati.

La maggior linfa per l’evoluzione del diritto alla salute è fornita dagli accertamenti dei casi concreti fatti nelle aule di tribunale. Sono le sentenze dei giudici che danno significato alla norma costituzionale e rendono la salute lebendiges Recht, che nella nostra metafora vegetale potrebbero essere le vitali fronde dell’albero.

 

  1. Da una parte la sig.ra Gialli ha un diritto di libertà. La Costituzione stabilisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge” e che la legge “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Dall’altra il diritto di libertà deve fare i conti con la parte sociale di esso.

Perciò tutti i consociati, compreso lo Stato, sono tenuti a non ledere il diritto alla salute del singolo e, nel caso dovessero lederlo, sono tenuti al risarcimento del danno. Nel momento in cui il singolo chiede allo Stato un trattamento a tutela della salute ha ancora un diritto pieno, ma la pienezza va valutata in vista sia degli altri consociati che abbisognano del medesimo servizio e sia del servizio stesso come risorsa limitata. Ognuno deve attendere il suo turno, per es., e non si può pretendere un servizio che non sia erogato dal Servizio sanitario nazionale, perché il come e il quando del servizio riguardano l’organizzazione interna dello Stato pubblica amministrazione, verso i quali io non posso esercitare un diritto pieno.

 

  1. Del resto, il contesto sociale della salute è il primo che è venuto in rilievo. Se vogliamo, forma buona parte delle radici dell’albero cui dicevamo prima.

La quarantena è stata pensata a Venezia nel XIV secolo e successivamente ufficialmente istituita dal Senato della città nel 1448. In quel periodo la città era nel pieno della sua espansione e vi arrivavano mercanti da ogni dove, per cui aveva già subito la peste, e che peste!: la peste nera che si diffuse in tutta Europa mietendo 20 milioni di vittime. Ancora sono visitabili i lazzaretti dove venivano segregati i naviganti che arrivavano a Venezia prima di avere accesso alla città. La città ricorda ogni anno con la festa del Redentore il superamento, per mezzo della quarantena, di un’altra epidemia di peste che nell’estate del 1575 uccise un veneziano su tre.

Dopo la Prima Guerra Mondiale l’influenza Spagnola mieté 50 milioni di vittime su 2 miliardi di popolazione mondiale, cinque volte il numero dei morti sul campo nella Grande Guerra. La cosa ancora oggi sorprendente è che uccideva più giovani che anziani e malati.

Perciò, non appena gli Stati hanno potuto parlarsi serenamente, a Seconda Guerra Mondiale terminata, hanno istituito l’ONU (1945) e si sono immediatamente preoccupati del diritto alla salute, tanto da inserirlo espressamente nell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948). In realtà già la precedente Società delle Nazioni aveva tra i suoi compiti quello di proteggere la salute dalle epidemie soprattutto provenienti “da altri continenti”.

Perciò il ramo sociale del diritto alla salute si combina persino con aspetti internazionali.

 

  1. La prospettiva internazionalistica ci dà il senso dell’importanza della preservazione della salute, per il perseguimento della quale il diritto del singolo non può che essere limitato.

Il diritto di non curarsi, per esempio, può scontrarsi con l’obbligo di non contagiare gli altri e di non intasare le strutture ospedaliere. A proposito dei vaccini obbligatori, la Corte costituzionale ha ritenuto che non siano contrari al principio di autodeterminazione dell’individuo, perché sono imposti dalla legge al fine di proteggere la salute collettiva.

A breve probabilmente saremo chiamati a vaccinarci e se il vaccino sarà obbligatorio dovrà stabilirlo una legge. Quello che i cittadini si aspettano è che il vaccino sia efficace e che, nel bilanciamento tra pubblico e privato, non metta a repentaglio la vita dei vaccinati più di quanto non lo sia se non fossero vaccinati. Lo Stato, infatti, è tenuto a informare correttamente i cittadini, anche sui rischi e anche sulle insufficienze scientifiche, per mantenere fede a quella “sacra alleanza” che si fonda sulla fiducia e sul rispetto reciproco.

 

  1. Una volta che il diritto alla salute ha preso la svolta privatistica, uno potrebbe dire: chi mi impone di preoccuparmi degli altri? Nessuno in realtà. Ma se l’uomo è un animale sociale, come più o meno diceva Aristolele, per l’esercizio della sua socialità, e quindi della sua personalità, deve tener conto anche di coloro che formano la sua comunità locale, regionale, statale e internazionale.

C’è un principio nella nostra Costituzione al quale le madri e i padri costituenti pensarono ed è il principio di solidarietà. I Costituenti hanno riconosciuto che il valore della solidarietà non dovesse rimanere solo nella coscienza delle persone, ma dovesse transitare anche in un principio che ispirasse il legislatore e tutti i cittadini. La solidarietà non è un obbligo, ma ognuno di noi può (anzi, direi, dovrebbe) prenderlo come dovere, evocando se necessario la pietas degli antichi.

Vorrei riferirmi a un altro principio, che ogni tanto viene richiamato, ma non sufficientemente spesso: il principio di responsabilità. Cosa intendo per principio di responsabilità? Intendo il fatto che quando agisco dovrei avere una prospettiva, diciamo così, laterale, che mi permetta di guardare a quelli che stanno accanto a me, come impone la solidarietà, ma anche una (naturale) prospettiva in avanti, verso l’orizzonte e oltre l’orizzonte possibilmente, cioè una prospettiva verso coloro che verranno dopo di me.

Hans Jonas, il filosofo tedesco che ha attraversato tutto il secolo scorso, e che ha teorizzato il principio di responsabilità diceva: agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza delle generazioni future.

Quando mi nutro, per es., dovrei aver presente che le risorse sono limitate e, per questo, preziose, per cui non posso mangiare quello che mi pare, anche se il mercato mi offre di tutto e di più. Dovrei responsabilmente pensare che quello di cui mi sto cibando ha un costo, che non è solo il bigliettone che ho pagato, ma ha un costo che non si vede immediatamente e riguarda le persone che hanno lavorato per produrre, magari gli animali sfruttati, il suolo consumato e l’acqua utilizzata. Dovrei cominciare a fare i conti con le mie necessità di nutrirmi e quelle, sempre mie e degli altri, di avere cibo a sufficienza, di vivere dignitosamente e di godere di un ambiente salubre. La rivoluzione della dignità di cui parlava Stefano Rodotà dovrebbe prendere origine, prima che dalle rivendicazioni, dai nostri stessi comportamenti.

La Costituzione nell’ambito del diritto alla salute garantisce anche il diritto all’ambiente salubre, ma noi, nel rispetto del principio di solidarietà e di responsabilità dobbiamo fare la nostra parte.

Ormai gli studi scientifici dimostrano quanto impatto hanno gli allevamenti intensivi sull’ambiente e dimostrano anche che gli animali addomesticati sono il tramite dei virus che provocano le epidemie.

Molti studi scientifici dimostrano che numerose malattie si evitano o guariscono attraverso l’alimentazione, perciò dovremmo anche responsabilmente assumere il dovere di alimentarci in maniera sana, anche chiedendo direttamente e indirettamente ai produttori di cibo di fornircene di buono. Nutrirsi meglio significa meno malattie e meno richiesta di assistenza sanitaria, quindi miglior funzionamento del sistema.

Credo che sia nostro dovere per mantenere lo standard del diritto alla salute per tutti ridurre e migliorare le nostre esigenze alimentari. È questo il modo per fare la nostra parte affinché non si crei quel punto di rottura che nessuno di noi auspica.

Infine, farci carico del dovere di essere sani oggi permetterà, a noi e agli altri, di esercitare il diritto a essere malati domani.

 

Epilogo dell’…inizio

Come è stata spiegata la cerimonia romana degli Argei e la depontazione dei sessagenari?

2 pensieri su “Gina Gioia, “Il diritto alla salute”

  1. E’ un ampio excursus, di rilievo storico, giuridico e antropologico. Se può essere utile il mio sguardo da “sotto il ponte”, dal momento che sono un ultrasessantenne, chiederei questo anzitutto: se la Costituzione è comunque frutto di un accordo sociale, quanto a lungo può reggere un diritto costituzionale in un prolungato stato di emergenza sociale? Tanto più, nella fattispecie, se questo diritto dovrebbe essere garantito da un sistema sanitario nazionale già sistematicamente smantellato negli scorsi decenni.

  2. Grazie per la domanda molto interessante. Richiederebbe una risposta molto articolata.
    In breve posso dire solo qual è il mio punto di vista.
    I Costituenti rappresentavano un po’ tutte le anime dell’Italia di allora. Negli anni la Costituzione è stata “rinvigorita”. Mi riferisco soprattutto all’art. 32. Io non credo che l’emergenza abbia fatto venir meno l’art. 32, né che altre pandemie possano farlo venir meno. Una norma costituzionale può essere violata, con una legge (e in tal caso la Corte costituzionale ne dichiara l’incostituzionalità) o con un comportamento/atto (e in tal caso un giudice sanziona quel comportamento). Anche se una norma costituzionale fosse violata ripetutamente, questo, di per sé, non farebbe venir meno quella norma. Perché una norma costituzionale venga meno c’è bisogno di una legge di modifica della Costituzione che (come abbiamo visto qualche anno fa) non è facile da realizzare, perché presuppone (per fortuna) un accordo tra le parti politiche e sociali.
    In astratto, la norma costituzionale, forse, potrebbe essere svuotata di significato, ma occorrerebbe che anche la Corte costituzionale cambiasse idea su quella norma. Perciò, per adesso, non vedo pericoli.

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